Tornano con tutta la loro devastante aggressione melodic metalcore gli Atropas con questo nuovo ep, sempre licenziato dalla WormHoleDeath.
Tornano con tutta la loro devastante aggressione melodic metalcore gli Atropas con questo nuovo ep, sempre licenziato dalla WormHoleDeath.
La band di Zurigo arriva così al traguardo del terzo lavoro, dopo l’esordio del 2011 (Azrael) e il massacro sonoro dal titolo Episodes Of Solitude, licenziato lo scorso anno e puntualmente recensito sulle pagine virtuali di Iyezine.
Come già accennato parlando del precedente album, il quartetto svizzero accantona la chimera dell’originalità per un approccio violento tra metal estremo moderno, dai rimandi core e death/thrash e valorizzato da un talento per le melodie sopra la media.
Anche questi sei brani infatti, sono sei martellanti pezzi di granito estremo violentissimo, impreziosito dal buon lavoro fatto nell’alternare screams e voci pulite (non così scontato di questi tempi), con il supporto di melodie chitarristiche che si rifanno al melodic death e ad una tempesta di ritmiche thrash.
Meno marziale nelle ritmiche rispetto al precedente lavoro, From Ashes asseconda il lato death/thrash del gruppo elvetico, con una serie di tracce devastanti ma con le melodie sempre in evidenza.
Ancora una volta prodotto in modo egregio, questa raccolta di brani che ha nell’opener Rapture, nella monumentale Orchids e nelle malinconiche melodie della splendida Ashes, tre dei suoi punti di forza, lascia alla conclusiva My Oath il compito di riassumere in otto fantastici minuti di death metal melodico moderno il sound insito nella proposta del gruppo.
Un Ep che vale più di tanti full length che saturano il mercato del metal moderno.
TRACKLIST
1. Rapture
2. Burn it to the Ground
3. Orchids
4. Ashes
5. Redeem the Lost
6. My Oath
LINE-UP
Kevin Steiger – Bass
Sandro Chiaramonte – Drums
Dave Colombo – Guitar
Mahmoud Kattan – Vocals & Guitar
Un album che senza un attimo di tregua ci investe con tutta la sua forza ed una serie di tracce che dalla scuola svedese (Soilwork) prende l’anima death, dall’elettronica l’appeal giusto per non passare inosservato e dal metalcore la potenza e quel quid in più che lo rende attuale e appetibile.
Gli Existence Failed sono un quintetto tedesco, attivo da quasi dieci anni ed arrivato al secondo full length, successore di Doomed to Failure uscito ormai nel 2009.
In anni in cui la musica viene fagocitata alla velocità della luce, sette anni di attesa non sono pochi e il ritorno sul mercato a così tanto tempo di distanza può quasi essere considerato un nuovo inizio per il gruppo.
Devo dire che tanto tempo non è passato invano: Putrefaction of this Modern Time risulta un esplosivo esempio di death metal melodico dai rimandi core, soluzioni moderne ma comunque violento e devastante.
Il quintetto germanico provoca un uragano death metal nel quale le parti core sono limitate all’uso della voce pulita e a qualche stacco marziale, mentre tastiere moderne fanno da tappeto elettronico ed industrial pop a molti dei brani che rimangono furiosi e velocissimi.
Di grande effetto è l’uso delle voci, che si inseguono senza tregua su una tempesta di suoni e ritmiche indiavolate, e molto suggestive appaiono le parti elettroniche, dove i tedeschi sono storicamente maestri, per un risultato a tratti esaltante.
Una bella sorpresa, Putrefaction of this Modern Time, album che senza un attimo di tregua ci investe con tutta la sua forza ed una serie di tracce che dalla scuola svedese (Soilwork) prende l’anima death, dall’elettronica l’appeal giusto per non passare inosservato e dal metalcore la potenza e quel quid in più che lo rende attuale e appetibile.
TRACKLIST
1. l.A.N.D. (Tipp)
2. Come Back Stronger
3. Existence Failed
4. Echoes
5. Schattenlicht
6. Empathy
7. Lass es gehen (Tipp)
8. Asche
9. Break New Ground
10. Exploited By Confidence
11. My Infection
Il metal estremo melodico di questi tempi ha nell’underground archi dai quali scoccare ottime frecce, e Black Water Deep è una di queste.
Un gruppo attivo dal 2004, ma che oltre ad un ep uscito un paio di anni fa (Dead to Dust Descend) non aveva licenziato nulla fino a questo primo album, qualcosa in termini di opportunità ha sicuramente lasciato indietro: un vero peccato, perché il primo lavoro degli svedesi In My Embrace è un ottimo esempio di death/black melodico, con un piglio epico a garantire un buon riscontro tra gli amanti dei Dissection, dei Bathory e di tutta la tradizione scandinava in fatto di metal estremo.
Un album ben eseguito, prodotto e suonato, con una manciata di brani ben strutturati tra cavalcate e mid tempo epico battaglieri e veloci sfuriate black metal, nulla di originale ed assolutamente legato alla tradizione del genere:
il pregio maggiore di Black Water Deep è quello di risultare un disco onesto, senza ruffianerie, andando al cuore del genere e dei suoi fans con la sola arma della semplicità.
Dunque black metal melodico, a tratti trascinante, con almeno un paio di brani (Into Oblivion – Dead To Dust Descend part II e Next Chapter) molto suggestivi ed una vena melodica sopra le righe, nulla di più, nulla di meno.
Il metal estremo melodico di questi tempi, pur trovando il successo solo con la sua anima più moderna e core, ha nell’underground archi dai quali scoccare ottime frecce, e Black Water Deep è una di queste, specialmente se si guarda al lato più classicamente black della scena scandinava.
TRACKLIST
1. The Coming Storm
2. Black Waters Deep
3. Into Oblivion – Dead To Dust Descend part II
4. Of Ache And Sorrow
5. Thy Abhorrence
6. The Road Of Hanging On
7. Next Chapter
8. Voyage Of Thoughts
9. Killing Spree
10. Autumn Storm Despair
LINE-UP
Kenneth Larsson – Lead Vocals
Johan Sjöblom – Guitar and Vocals
Bosse Öhman – Guitar
Jon Brundin – Bass
Tommy Holmer – Drums (session)
I Am The One è consigliato a chi stravede per il melodic death, con Antman che si conferma un ottimo musicista.
Diatonic è il monicker scelto dal polistrumentista svedese Joakim Antman (Overtorture, The Ugly) per la sua creatura solista, un mostro che si nutre di death metal scandinavo, tra tradizione ed elementi moderni, elementi che si evincono in alcune ritmiche sostenute da un buon groove, che rendono il suono avvolgente, mentre il resto del sound viaggia sui binari dello swedish death.
Il secondo lavoro sulla lunga distanza per il musicista svedese, a distanza di un anno dal precedente Hidden Pieces, fornisce il segno di una certa creatività, almeno in questo periodo, per Antman, confermata da un lotto di brani molto ben curato, vari nelle ritmiche e solidi come un incudine.
Derivativo, ma ottimamente prodotto e alquanto agguerrito, I Am The One esce vincitore dall’ascolto per via dei suoi solos alquanto melodici, mentre la tensione rimane alta per tutta la sua durata: trentasette minuti di death metal, a tratti sfiorato da una vena classica che emerge dal lavoro della sei corde, sempre melodica ma tagliente, cangiante nelle sue atmosfere che passano con disinvoltura da repentine accelerazioni ad attimi di atmosferiche ed oscure parti dove un’anima prog prende il sopravvento.
Sono attimi di lucida follia espressiva, poi si riparte in quarta per toccare vette estreme destabilizzanti, con tracce che abbinano ferocia ed intimista oscurità.
Il growl è cattivo e tormentato, i brani che alzano il livello qualitativo sono quelli che più alternano gli elementi di cui si caratterizza la musica di Antman (notevoli a mio parere Hypocrite, la title track e le reminiscenze industrial della conclusiva Deceived) e che fanno di I Am The One un buon lavoro di death metal melodico moderno.
Buona la seconda dunque: il lavoro è consigliato a chi stravede per il melodic death, con Antman che si conferma un ottimo musicista.
TRACKLIST
1.The Eyes
2.Kiss of Death
3.Replace the Numbers
4.Once More
5.Hypocrite
6.Game Piece
7.Fading
8.I Am the One
9.Deceived
The Coven Of Rats si compone di undici brani devoti al death metal melodico, con un uso parsimonioso ma ben congegnato di elementi thrash e death vecchia scuola.
Negli ultimi tempi il death metal melodico dai rimandi alla scena scandinava ha regalato una manciata di opere sopra la media, in barba ai pruriti commerciali di qualche gruppo storico (In Flames?) e giunti da paesi lontani tra loro.
Ai Path Of Sorrow dall’Italia, agli Sky Scrypt dalla Russia si sono aggiunti i The Descent dalla Spagna, tre modi diversi di suonare il genere, ma tutti ben saldi nella tradizione nord europea. The Coven Of Rats è il secondo lavoro della band proveniente dai Paesi Baschi (Bilbao); il primo lavoro, Dimensional Matters, venne licenziato dal combo nel 2012, dopo sei anni dall’inizio delle ostilità ed il suo successore conferma i The Descent come ottimi interpreti di queste sonorità, in un underground che giustamente se ne fotte di trend e mode e tira dritto per la sua strada, dando spazio a quei gruppi che se non brillano per originalità, si destreggiano con la materia alla grande. The Coven Of Rats si compone di undici brani devoti al death metal melodico, con un uso parsimonioso ma ben congegnato di elementi thrash e death vecchia scuola.
Il quintetto punta dritto sull’impatto, aiutato da una discreta tecnica ed un ottimo cantante che ricorda l’Anders Fridèn dei tempi migliori, tra growl e scream era Colony/Clayman ed un sound strutturato per non fare prigionieri.
Qualche spruzzata di synth per rendere ancora più melodico il loro metallo estremo, ed aiutare così le chitarre a travolgerci di assoli che dal metal classico prendono lo spirito e una valanga di ritmiche che dal thrash prendono forza; in mezzo, soluzioni armoniche già sentite (chiariamolo) ma assolutamente perfette, almeno in questo contesto.
Prodotto benissimo e licenziato dalla Suspiria Records, l’album nel suo insieme riesce a donare al fan di queste sonorità una quarantina di minuti abbondanti di tutti gli stilemi del genere e, se mi permettete, è tanta roba.
In Flames, The Haunted, At The Gates, Dimension Zero, qualche accenno ai Dark Tranquillity nelle parti più oscure, sono le influenze e le ispirazioni che impreziosiscono le varie The Warrior Within, la title track, At The Foot Of The Monolith e la splendida Overcome, brano che riassume perfettamente il sound di cui si nutre questo lavoro, mandando i The Descent a giocarsela con le migliori band che ripropongono il genere in questo nuovo millennio; per il fans del death metal melodico un album irrinunciabile.
TRACKLIST
1.Alpha
2.The Warrior Within
3.Falling from Grave
4.New Millennium Spawn
5.The Coven of Rats
6.At the Foot of the Monolith
7.Dead City Gospel
8.Ten Times Stronger
9.Overcome
10.Seeds of Madness
11.Bitter Game
12.Omega
LINE-UP
Charlie – Vocals
Ander – Guitar
Borja “Taj” – Guitar
Iñigo – Bass
Txamo – Drums
Un’opera che va assaporata e fatta propria gustandosi ogni passaggio, sempre in bilico tra le varie atmosfere che compongono il death gotico suonato dal gruppo
Decisamente interessante il debutto dei nostrani Ghost Of Mary, un concept ispirato da un racconto del cantante Daniele Rini incentrato sulla vita e sulla morte e accompagnato da un notevole death sinfonica arricchito da ottime parti classiche e gothic doom.
Un’opera dark, oscura e malinconica che tocca il genere in tutte le sue sfumature, regalando all’ascoltatore un sunto del death metal gotico, partendo addirittura dai primi anni novanta, in particolare dalla scena olandese.
Infatti quest’album torna a far risplendere uno dei movimenti più importanti per lo sviluppo di queste sonorità, affiancando al lento incedere, elegantemente sfiorato dagli strumenti classici, sfuriate estreme di matrice scandinava e dark rock per un risultato che, nella sua altalena di ombrose ed oscure emozioni, si rivela del tuto all’altezza della situazione. Oblivaeon è un disco vario, maturo, perfettamente in grado di mantenere la giusta tensione e non far perdere l’attenzione all’ascoltatore, travolto dalle sorprese che il gruppo riversa in un songwriting ispiratissimo, così da passare agevolmente tra le ispirazioni che hanno portato alla stesura dei brani in modo fluido e senza forzature.
Death metal melodico d’alta classe, quindi, impreziosito da un’ottima parte orchestrale, da un muro ritmico estremo efficace e da un’interpretazione magistrale di Rini, bravo sia con le parti estreme che con le clean vocals.
Un’opera che va assaporata e fatta propria gustandosi ogni passaggio, sempre in bilico tra le varie atmosfere che compongono il death gotico suonato dal gruppo, ma che ovviamente non manca di picchi qualitativi molto alti come la magnifica Shades, insieme a Something To Know e The End is the Beginning, altri due piccoli gioiellini di questo bellissimo lavoro, esempio perfetto di quello che a mio parere è la maggiore caratteristica del sound dei Ghost Of Mary: death gothic olandese e death melodico scandinavo che si scambiano gli onori e gli oneri in perfetta armonia.
Provate ad immaginare i primi The Gathering, Dark Tranquillity ed un accenno ai Lacrimosa più sinfonici ed avrete un’idea attendibile di cosa vi aspetta tra i solchi di Oblivaeon.
TRACKLIST
1.The Moon and the Tree
2.Shades
3.Last Guardian
4.Nothing
5.The Ancient Abyss
6.Oblivaeon
7.Black Star
8.Something to Know
9.The End is the Beginning
10.Nowhere Now Here
11.The Ancient Abyss (piano version)
Composti da una line up di musicisti attivi da più di vent’anni, debuttano il melodic deathsters svedesi Across The Burning Sky con questo buon esempio di come veniva suonato il genere nei suoi primi anni di vita.
Infatti, per il quintetto scandinavo, il tempo sembra essersi fermato agli anni in cui la scena melodic death esplodeva sul mercato con una serie di album diventati storici così come molte delle band protagoniste.
Se questo è un male o un bene decidete voi, il sottoscritto vi può solo garantire che The End Is Near è pura goduria per i deathsters che non hanno ancora digerito la svolta americana di In Flames e Soilwork (tanto per fare dei nomi) e malinconicamente si trastullano ancora con le vecchie opere della band di Anders Friden e Children Of Bodom, ma soprattutto, Unanimated e Night In Gales.
L’impronta black metal è forte nel sound del gruppo, i brani pur concedendo un ottimo lavoro chitarristico, con le melodie a farla da padrone nei solos, risultano veloci e agguerriti.
Lo scream è di quelli tosti, nervosi e senza compromessi, le ritmiche sono sferraglianti e l’approccio è da considerare assolutamente old school.
Per chi conosce in maniera superficiale la scena direi che i Children Of Bodom orfani delle tastiere e con una predisposizione per il black metal si avvicinano a quello che gli Across The Burning Sky, con le loro devastanti Towards The Sky, Call Of The Ancient Gods ed Ashes To Ashes vogliono trasmettere.
Pure fucking melodic death metal, prendere o lasciare … io prendo.
TRACKLIST
1.The Death March
2.Demons Rising
3.Towards The Sky
4.Sacrifice
5.Call of the Ancient Gods
6.The Fourth Deadly Sin
7.Shadows Embrace
8.Ashes to Ashes
9.Bloodlines
10.The End
11.The Final March
I Dark Lunacy sono una delle eccellenze, ma soprattutto una delle certezze, espresse dal movimento musicale italiano, non solo in ambito metal:
Prendendo in considerazione l’intero movimento metal italiano, i Dark Lunacy meriterebbero qualcosa di simile ad un premio alla carriera.
Intendiamoci, non si parla certo dell’omologo riconoscimento che viene conferito ad artisti imbolsiti e anche un po’ rincoglioniti: qui, infatti, si fa riferimento ad una realtà che continua ad essere guida ed esempio per tutte le band nostrane che vogliano aprirsi una strada peculiare per fare breccia nel cuore degli appassionati.
Mike prosegue nel suo percorso iniziato ormai nel lontano 1997, quando un manipolo di ragazzi parmensi si mise in testa l’idea meravigliosa di fondere il death metal con la musica classica: da allora ne sono scaturiti sei full length, dei quali uno seminale (Forget Me Not) ed un capolavoro assoluto (The Diarist), entrambi racchiusi nella fase centrale dello scorso decennio.
L’instabilità della line-up che ha visto nel corso degli anni avvicendarsi fin troppi musicisti alla corte di Mike, non ha certo contribuito a fornire ai Dark Lunacy quella continuità necessaria per continuare a sfornare lavori di quel livello: così, dopo un più opaco Weaver Of Forgotten, The Day Of Victory ha riportato la barra su coordinate vicine a The Diarist, sia riaffrontando tematiche legate alla cultura ed alla storia sovietica, sia ritrovando quella brillantezza che era venuta parzialmente meno nel lavoro precedente.
In The Rain After The Snow, ci si muove invece in scenari stilistici più vicini a Forget Me Not, con la differenza non da poco dell’introduzione di un elemento orchestrale quanto mai “reale” e perfettamente integrato con le pulsioni estreme del sound, grazie anche ad una produzione impeccabile.
Il tutto va ricondotto anche alla continuità compositiva offerta da Jacopo Rossi, musicista genovese attivo in diverse band di nome del capoluogo ligure (Antropofagus, Nerve, Will’O’Wisp), che ormai da qualche anno si sta rivelando l’ideale partner musicale di Mike. The Rain After The Snowaffronta il tema del passaggio tra la stagione invernale e quella primaverile quale metafora dell’esistenza stessa e, come avviene da anni, l’afflato poetico riversato da Mike nelle sue liriche si scontra non poco con il sempre roccioso e caratteristico growl; il fulcro del lavoro si trova nella fase centrale con l’accoppiata Gold, Rubies and Diamonds (non a caso la traccia scelta per essere accompagnata da un ottimo video) e la più struggente Precious Things, ma l’album è nella sua interezza una raccolta di brani preziosi, ricchi di un impatto melodico ed emotivo che rende l’ascolto piuttosto scorrevole, anche se in questo caso non si può certo parlare di un approccio leggero.
I Dark Lunacy sono una delle eccellenze, ma soprattutto una delle certezze, espresse dal movimento musicale italiano, non solo in ambito metal: al di là del merito d’aver aperto una strada che altri hanno parzialmente seguito ottenendo giustamente grandi riscontri (Fleshgod Apocalypse su tutti), non è così banale ritrovare una band capace, dopo vent’anni, di produrre arte di simile spessore, e credo che non servano altre parole per esortare chiunque di musica si nutre affinché venga tributato alla band parmense un supporto del tutto adeguato al suo indiscusso valore.
Tracklist:
1. Ab Umbra Lumen
2. Howl
3. King with No Throne
4. Gold, Rubies and Diamonds
5. Precious Things
6. Tide of My Heart
7. The Rain After the Snow
8. Life Deep in the Lake
9. The Awareness
10. Fragments of a Broken Dream
Line-up:
Mike Lunacy – Vocals, Lyrics
Jacopo Rossi – Bass, Piano
Marco Binda – Drums
Davide Rinaldi – Guitars
Le scariche di adrenalina estrema non mancano in brani dal buon piglio ma, a causa di alcuni difetti dettati dall’inesperienza, i Nordwitch non vanno oltre la sufficienza piena.
Esordio sulla lunga distanza per questa giovane band ucraina, un quintetto che suona del black/death metal melodico dai buoni spunti e personale quel tanto per non passare inosservata, soprattutto per gli amanti del genere.
Con al microfono una gentil donzella dalle corde vocali di un orco arrabbiato, ma dalle trame chitarristiche che fanno della melodia il loro punto di forza, il gruppo proveniente dall’est è protagonista di una discreta prova, incentrata su di un metal estremo che non disdegna devastanti fughe ritmiche al limite del black, mid tempo di stampo death metal di ispirazione scandinava e tanta melodia.
Il growl è brutale e dannato, a tratti fin troppo per il mood generale del disco, un dettaglio che alla lunga pesa sulla resa generale di un album che ha tutte le caratteristiche per piacere agli amanti del death metal melodico.
Le scariche di adrenalina estrema non mancano in brani dal buon piglio come, Lady Evil e The Call to an Ancient Evil, cuore pulsante di un lavoro di genere ben congegnato ma, per i difetti dettati dall’inesperienza, non va oltre la sufficienza piena.
In un mondo come quello del metal estremo, ormai inflazionato dal numero spropositato di album vomitati dal web, un lavoro come Mørk Profeti rischia seriamente di passare inosservato anche ai fans più accaniti del genere, ma gli spunti interessanti non mancano così come una buon lavoro incentrato sulle melodie, il che lo rende comunque meritevole di un ascolto.
TRACKLIST
1.Mørk profeti (Intro)
2.Dominion
3.Walker from the Shade
4.Lady Evil
5.The Call to an Ancient Evil
6.To Nord Gods
7.No Regret
8.Messiah of Death
LINE-UP
Max Senchilo – Bass
Max – Guitars (lead)
Leo – Guitars (rhythm)
Masha – Vocals
Donets Stepan – Drums
L’album è assolutamente consigliato a chi, in barba all’originalità apprezza ancora le sonorità storiche del genere e i primi sussulti qualitativi delle band guida
Che gran bel genere il death metal melodico, specialmente se viene suonato come in Scandinavia negli ormai gloriosi e passati anni novanta.
E’ con sommo piacere che vado a presentarvi un duo russo, proveniente dalla capitale, attivo da solo un anno e con questo ottimo lavoro fresco di stampa per la Fono Ltd.
Trattasi degli Sky Crypt, formati dai soli Alexandr Mikhaylov (voce e chitarra) e Marina Kuznetsova alle tastiere e del loro Incipit Anarchia: The Element of Anger, debutto che avrebbe (con un po’ d’attenzione da parte degli amanti di queste sonorità) la strada spianata per far innamorare i fans del melodic death metal, specialmente chi guarda ai suoni tradizionali del genere e non alle ultime sperimentazioni dai tratti statunitensi e (fino a poco tempo fa) cool.
Con quest’album torniamo indietro di vent’anni, un bel salto temporale, ma assolutamente gradito dal sottoscritto, che non può non farvi partecipe dell’ottimo lavoro svolto dal duo.
Il sound ricamato da suoni tastieristici che ricordano i Children Of Bodom, ma con un tocco di classicismo tutto farina della tradizione russa, è un death metal melodico, che alterna furiose cavalcate death/power in stile primi In Flames, rallentamenti ed atmosfere dark peculiarità degli immensi Dark Tranquillity, in un turbinio di metallo veloce ed aggressivo.
Il growl che ricorda il Mikael Stanne più estremo, brutalizza riff potenti e melodici ed il gran lavoro tastieristico ad opera di Marina, e in generale l’album trova più di un momento di ottimo metal estremo, melodico, arrembante ma raffinato dal classicismo innato dei musicisti provenienti dal profondo est europeo.
Non sono poche le tracce che emanano feeling a profusione, così che l’album è un bel sentire dall’inizio alla fine. con picchi altissimi come nelle ottime Way into Dark, Road To Power e Leaving The Shadows. Incipit Anarchia: The Element of Anger è assolutamente consigliato a chi, in barba all’originalità apprezza ancora le sonorità storiche del genere e i primi sussulti qualitativi delle band guida: gli Sky Crypt sono una band tutta da scoprire, mettetevi alla caccia di questo gioiellino metallico, non ve ne pentirete.
TRACKLIST
1.Within the Anarchy
2.The Prophecy
3.Way into Dark
4.Child of War
5.Road to Power
6.Leaving the Shadows
7.Fire and Wind
8.Element of Anger
9.Cursed by Gods
10.Exile
11.Following the Light
LINE-UP
Alexandr Mikhaylov – Guitars, Vocals
Marina Kuznetsova – Keyboards
Una band che, pur occupando con merito un posto di rilievo nella storia del metal, continua a calcare i palchi con lo spirito di un tempo e con la consapevolezza di chi sa di poter regalare ancora dell’ottima musica ai propri numerosi estimatori.
Circa 2000 anni fa Plutarco scrisse Le Vite Parallele, un opera importante che costituiva un primo esempio di letteratura biografica, utilizzando quale metodo narrativo la comparazione tra personaggi storici dalle analoghe caratteristiche appartenenti alla storia greca e romana.
Se lo scrittore e filosofo ellenico fosse stato un nostro contemporaneo e, magari, si fosse occupato anche di musica, avrebbe potuto sicuramente riservare un capitolo a due band che occupano un posto di rilievo nella storia del metal, In Flames e Dark Tranquillity.
Infatti, la storia di questi due gruppi, nati nella stesa città e pressapoco negli stessi anni, è emblematica di come, nella vita, ciascuno sia destinato prima o poi a prendere direzioni diverse pur percorrendo una strada comune per diverso tempo.
Inventori del Gothenburg Sound, più prosaicamente conosciuto come death melodico, Dark Tranquillity ed In Flames presero le mosse all’inizio degli anni ’90 e, a rimarcare la stretta connessione tra le due band, nei rispettivi full length d’esordio ebbero in comune persino il vocalist, visto che Mikael Stanne, storico singer dei Dark Tranquillity, prestò la sua voce all’esordio degli In Flames, intitolato Lunar Strain, prima di lasciare il posto in via definitiva ad Anders Friden.
Le due band percorsero la stessa strada, costellata di successi ed album di grande spessore, fino agli ultimi anni del secolo, quando i Dark Tranquillity impressero un’improvvisa svolta gothic al proprio sound con lo splendido Projector, mentre gli In Flames, con Colony, preparavano la svolta modernista di Clayman, album che sarebbe risultato lo spartiacque per la band di Friden, nonché l’imprevedibile imbocco di una strada senza ritorno.
Avvenne così che, mentre Stanne e soci, nonostante i buoni riscontri, tornarono sui propri passi rientrando nel loro più rassicurante trademark ma conservando, sia pure in maniera meno accentuata, gli aspetti peculiari immessi in Projector, gli In Flames impressero al loro sound una svolta commerciale che vide svanire progressivamente qualsiasi traccia di death per sostituirlo con una forma di metal moderno, discreto nelle sue prime espressioni ma resosi via via sempre più inoffensivo.
Il resto è storia dei nostri giorni: i Dark Tranquillity continuano a mettere a ferro e fuoco i palchi di tutta Europa, gratificando la numerosa frangia di fedeli seguaci con la riproposizione di un sound che potrà anche aver smarrito la propria carica innovativa, ma che viene proposto sempre con tanta e tale classe e maestria da risultare comunque al passo con i tempi. Ben diversa è la parabola degli storici dirimpettai, che quasi contemporaneamente (ed ecco quello che sarà forse l’ultimo parallelismo) hanno pubblicato Battles, album deludente del quale si può rinvenire, nella recensione scritta da Alberto per MetalEyes, tutta la delusione del fan di vecchia data.
Io ho sempre preferito, invece, tra le due band i Dark Tranquillity, e sono felice di constatare che la loro stella non ha smesso di brillare: lo scettro del death melodico è sempre nelle mani di Stanne e soci e, anche se vengono insidiati ormai da vicino da numerose realtà che, dalla loro, hanno quell’urgenza compositiva che non si può richiedere a chi calca la scena da oltre un quarto di secolo, non è solo il carisma a consentire loro il mantenimento di questo status ma sono i fatti parlare, sotto forma di un ottimo album come Atoma.
Infatti, considerando che i nostri mantengono ormai da un po’ un cadenza regolare di un album ogni tre anni, bisogna risalire a Fiction, datato 2007, per trovare un altra uscita di livello medio alto: nel nuovo lavoro, probabilmente, non sono rinvenibili brani epocali (i miei preferiti sono la title-track, The Pitiless e l’evocativa Merciless Fate) ma si tratta indubbiamente di una raccolta molto compatta e priva di filler.
La dozzina di canzoni vede un Mikael Stanne sempre in grande spolvero, anche nelle parti pulite, supportato da musicisti che riuscirebbero ad interpretare alla perfezione il genere anche con gli occhi bendati e le mani legate: chi li ha visti recentemente dal vivo non può che suffragare questa sensazione di trovarsi al cospetto di una band che, pur occupando con merito un posto di rilievo nella storia del metal, continua a calcare i palchi con lo spirito di un tempo e con la consapevolezza di chi sa di poter regalare ancora dell’ottima musica ai propri numerosi estimatori.
Tracklist:
1. Encircled
2. Atoma
3. Forward Momentum
4. Neutrality
5. Force of Hand
6. Faithless by Default
7. The Pitiless
8. Our Proof of Life
9. Clearing Skies
10. When the World Screams
11. Merciless Fate
12. Caves and Embers
Line-up:
Anders Iwers – Bass
Anders Jivarp – Drums
Niklas Sundin – Guitars
Mikael Stanne – Vocals
Martin Brändström – Electronics
No Shores Of Hope è un album di grande pregio, che in un mondo normale porterebbe alla ribalta della scena i The Burning Dogma … ma del resto sono proprio loro i primi ad affermare, con il loro concept, che di normale, in questo mondo, c’è rimasto ormai ben poco.
Uno pensa: chi te lo fa fare di passare gran parte del tempo libero a tenere in piedi, assieme a qualche altro malato di mente, una webzine dalla quale non ci si guadagna nulla ?
La risposa sta, come il veleno, nella coda: chi l’ha detto che non ci si guadagna? Per esempio, se non fossero stati gli stessi The Burning Dogma ad inviarmi il promo del loro disco ai fini di una recensione, quante probabilità avrei avuto di ascoltarlo? Diciamo ben poche.
Ecco, la vera ricompensa di chi si dedica ad un (non) lavoro come questo è proprio quella di scoprire e godersi realtà ai più sconosciute ma capaci di produrre musica del tutto all’altezza di nomi ben più pubblicizzati. No Shores Of Hope è il primo full length di questa band bolognese che, già da qualche anno, prova ad agitare i sonni dell’apparentemente placida Emilia con un death metal dai tratti progressivi e sinfonici e, probabilmente, l‘essere giunti alla prova della lunga distanza senza aver affrettato i tempi deve aver giovato non poco alla resa finale del lavoro.
Il sound dei The Burning Dogmaè nervoso, oscuro e cangiante, a volte quasi in maniera eccessiva a causa di fulminei cambi di tempo che possono disorientare l’ascoltatore meno scafato o, comunque, meno propenso ad approfondire i contenuti di un album complesso ma dotato di grande fascino.
Un umore disturbante che si addice a No Shores Of Hope, un concept che affronta temi magari non nuovissimi ma sempre attuali, come il degrado dell’umanità e la necessità di lottare affinché tale deriva si arresti, in modo da poter trascorrere al meglio un esistenza destinata prima o poi ad una fine ineluttabile: la rappresentazione di tutto questo avviene tramite un death metal tecnico, che si sviluppa tra pulsioni melodico/sinfoniche e rallentamenti di matrice doom, arricchito da inserti elettronici presenti per lo più nei brevi intermezzi strumentali.
Lo screaming quasi di matrice black esibito da Andrea Montefiori viene talvolta alternato ad un più canonico robusto growl, ed anche questa varietà vocale finisce per costituire un ulteriore elemento di discontinuità in un album che è ricco di sorprese e di spunti eccellenti, oltre che di una serie di brani la cui pesantezza è stemperata sia dalla tecnica, che i musicisti mettono al servizio del songrwriting (e non viceversa), sia dagli spunti melodici che segnano un po’ tutti brani.
Spiccano, in una tracklist priva di punti deboli, la più catchy Skies Of Grey, ammorbidita da una bella voce femminile, la spigolosa Nemesis e No Heroes Dawn, parte centrale della trilogia Dawn Yet To Come, dove viene riproposto un frammento tratto da Inpropagation, traccia d’apertura della pietra miliare Necroticism …, quale doveroso omaggio ad una band come i Carcass alla quale sicuramente i The Burning Down si ispirano, specie nelle piuttosto ricercate evoluzioni chitarristiche. No Shores Of Hope, quindi, si rivela un album di grande pregio, che in un mondo normale porterebbe alla ribalta della scena i The Burning Dogma … ma del resto sono proprio loro i primi ad affermare, con il loro concept, che di normale, in questo mondo, c’è rimasto ormai ben poco.
Tracklist:
01. Waves Of Solitude
02. The Breach
03. Enigma Of The Unknown
04. Skies Of Grey
05. Feast For Crows
06. Burning Times
7. Distant Echoes
08. Hopeless
09. Dying Sun
10. Nemesis
11. Dawn Yet To Come – 1. Drowning
12. Dawn Yet To Come – 2. No Heroes Dawn
13. Dawn Yet To Come – 3. Uscimmo A Riveder Le Stelle
Line-up:
Maurizio Cremonini – Lead Guitar
Diego Luccarini – Rhythm Guitar
Giovanni Esposito – Keys
Antero Villaverde – Drums
Simone Esperti – Bass
Andrea Montefiori – Vocals
Se questo album fosse stato pubblicato da una band svedese un po’ di anni fa, i Path Of Sorrow sarebbero comparsi sulle copertine delle riviste di settore al fianco di At The Gates, In Flames, Dark Tranquillity, ecc. tutto qui … e non è poco.
Sono passate due settimane da quando mi sono seduto alla scrivania per tentare di raccontare i contenuti dell’ultimo album degli In Flames.
La mia recensione la potete trovare qui su MetalEyes e chi l’ha già letta sa che la delusione del sottoscritto per un gruppo storico che, di fatto non esiste più, è stata tanta ed è alta la sensazione che il canto del cigno per un certo tipo di death metal melodico sia alle porte.
Fortunatamente ci pensa la scena underground a tenere alta la bandiera di un genere che, in barba agli imbolsiti protagonisti dell’ultimo decennio del secolo scorso, carica il suo cannone metallico di bombe devastanti (qualitativamente parlando) e mira al cuore degli amanti del metal estremo melodico centrandoli in pieno.
Dai vicoli che scendono a mare, tra gli anfratti e gli angoli dimenticati dal tempo di un centro storico che pompa sangue metallico in una Genova che, per una volta, si veste da Göteborg, arrivano i Path Of Sorrow, al debutto su lunga distanza con questo splendido esempio di death metal melodico come lo hanno voluto e creato i maestri svedesi più di vent’anni fa, irrobustito da letali dosi di thrash metal, ed impreziosito da una vena melodica entusiasmante.
Attiva dal 2012, la band arriva a questo primo episodio dopo tanta gavetta a suon di concerti (con Necrodeath, Electrocution, The Modern Age Slavery, Epitaph, The Vision Bleak) e vari cambi di line up che portano alla formazione attuale, alla firma con Buil2Kill Records e alla porta dei Blackwave Studio di Fabio Palombi (Nerve), che si chiude alle loro spalle per riaprirsi solo quando Fearytalesè pronto per travolgervi con undici spettacolari brani in cui melodic death, thrash, sfumature ed atmosfere dark gothic, vi confonderanno facendovi smarrire tra le anguste vie della Superba che, d’incanto, si trasformano in una foresta magica, oscura e pericolosissima.
Chiariamolo subito, se siete in cerca di chissà quale chimera dell’originalità, tornate sui vostri passi perché rischiereste di inoltrarvi nel sottobosco e non uscirne più: Fearytalesrimane un ‘opera che del death metal melodico made in Svezia si nutre, nel thrash trova la dirompente forza estrema e nelle atmosfere oscure e dark ci sguazza, mentre i nomi storici del genere sono tutti li sulla balconata ad applaudire.
Prodotto alla perfezione e suonato ancora meglio, l’album non concede cedimenti, i brani si susseguono uno più bello dell’altro alternando sfuriate ad atmosfere molto suggestive, ottimi momenti di metallo cadenzato e fughe sui manici delle asce da brividi.
L’ottima prova dei musicisti valorizza un songwriting ispirato e l’impressione di essere al cospetto di un combo sopra la media è altissimo, mentre Under The Mark Of Evil toglie il respiro dandoci il suo benvenuto in Fearytales.
La muscolosa Survive The Dead è solo l’antipasto alla maligna e cattivissima Martyrs Of Hell, mentre il gran lavoro delle sei corde nella melodica Nobody Alive (addio In Flames), ci porta dritti nella boscaglia e a The Crawling Chaos, capolavoro dell’album insieme alla stupenda thrash-folk- epic metal Sea Of Blood: The March For Morrigan, fulgido esempio dell’ispirato songwriting del gruppo ligure. This Is The Entrance mette la parola fine a questo bellissimo lavoro, la luce del sole si fa spazio tra i rami e dopo i primi passi fuori dalla foresta, la voglia di tornare indietro è tanta, così come quella di ripremere il tasto play.
Se questo album fosse stato pubblicato da una band svedese un po’ di anni fa, i Path Of Sorrow sarebbero comparsi sulle copertine delle riviste di settore al fianco di At The Gates, In Flames, Dark Tranquillity, ecc. tutto qui … e non è poco.
TRACKLIST
1. Into The Path
2. Under The Mark Of Evil
3. Survive The Dead
4. Martyrs Of Hell
5. Lords Of Darkned Skies
6. Nobody Alive
7. Umbrages…
8. …Where Nothing Gathers
9. The Crawling Chaos
10. Sea Of Blood : The March For Morrigan
11. This Is The Entrance
LINE-UP
Attila – Drums
Robert Lucifer – Bass
Mat – Vocals
Davi – Electric,Acoustic & Classical Guitars,Mandolin,Piano
Jacopo – Electric Guitars
Un’ora di musica non è poco di questi tempi, ma la qualità è talmente alta che arrivare all’epilogo è un attimo e la voglia di ricominciare il viaggio insieme al protagonista è tanta.
La nostrana Revalve Records mostra i muscoli e ci regala in questo autunno che va a cominciare il secondo lavoro degli spezzini Carved, band di melodic death metal che già aveva ricevuto elogi con il precedente Dies Irae, uscito un paio di anni fa.
Kyrie Eleison segue il concept del primo lavoro, il racconto del viaggio del protagonista alle prese con figure mitologiche incontrate durante il suo peregrinare fino alla conclusiva battaglia finale.
Prodotto da Simone Mularoni ai Domination Studio, l’album conferma l’ottima proposta del gruppo ligure, un melodic death metal che non si ferma agli stilemi scandinavi ma si valorizza di atmosfere e sfumature orchestrali, portando un po’ di fresco vento italiano nel genere.
Infatti, oltre all’immancabile scena scandinava (Dark Tranquillity), sono i Dark Lunacy la band che più ispira il gruppo ligure, capace in questo secondo lavoro di toccare vette emotive veramente alte.
Inutile dire che i miglioramenti rispetto al primo lavoro sono tangibili e Kyrie Eleison risulta non solo un passo avanti deciso per la band, ma un lavoro che si piazza tra i migliori dell’anno nel genere.
Una vena progressiva prende a tratti il comando del songwriting e la musica del gruppo vola (Heart Of Gaia), quindi non solo con semplici melodie orchestrali che impreziosiscono il metal estremo, ma tramite bellissime parti dove, anche grazie alla tecnica dei musicisti, il sound si trasforma in una farfalla progressive, splendida protagonista di passaggi ariosi che, in un attimo si trasformano in perle estreme.
Perfette le due voci, specialmente quella pulita, non così facile da trovare nei gruppi che la usano, mentre nei Carved è emozionale e ben inserita nelle parti; spettacolari i passaggi orchestrali, capaci di offrire una certa enfasi al sound, così da rendere Kyrie Eleison un lavoro completo sotto ogni punto di vista.
Un’ora di musica non è poco di questi tempi, ma la qualità è talmente alta che arrivare all’epilogo è un attimo e la voglia di ricominciare il viaggio insieme al protagonista è tanta.
Oltre alla già citata Heart Of Gaia, l’album è un susseguirsi di brani sopra la media con l’intensa Camlann, la carica Malice Stiker e i continui cambi atmosferici della sontuosa The Hidden Ones ad accompagnare l’album verso vette musicali molto alte.
Un album intenso, prodotto e suonato con tutti i crismi per non essere dimenticato tanto facilmente.
TRACKLIST
1.Viaticum
2.Malice Striker
3.Lilith
4.The Burning Joke
5.Heart of Gaia
6.Swamp
7.The Dividing Line
8.Absence
9.Faith
10.The Hidden Ones
11.Camlann
12.The Bad Touch
LINE-UP
Giulio Assente – Drums
Damiano Terzoni – Guitars
Alex Ross – Guitars
Lorenzo Nicoli – Vocals (backing), Bass
Cristian Guzzon – Vocals
La mancanza di spunti innovativi è ampiamente compensata dalla capacità di comporre brani avvincenti, orecchiabili ma non banali, trasportando con un certo agio l’ascoltatore dall’inizio alla fine senza fargli avvertire alcun sintomo di stanchezza.
Gli svedesi Netherbird sono una band attiva ormai da una dozzina di anni, con una produzione già piuttosto corposa alle spalle senza che, purtroppo, il loro nome sia mai spiccato in maniera particolare nell’affollata scena estrema scandinava.
Potrebbe giungere a cambiare le cose questo loro quarto full length intitolato The Grander Voyage, con il quale vengono riportate in auge sonorità che trovarono un certo spazio all’inizio del millennio.
Per rinvenire dei possibili punti di riferimento per i Netherbird è opportuno spostarsi nella vicina Finlandia dove, nello scorso decennio, band come Catamenia e Norther diedero alle stampe lavori di un certo spessore al’insegna del death black melodico.
Va detto, a onor del vero, che la genesi del gruppo svedese è di poco posteriore rispetto ai nomi citati e, quindi, parlare di influenze vere e proprie non è corretto, mentre appare più lecito segnalarne le affinità al fine di inquadrarne al meglio il sound.
Il sottogenere in questione, per sua natura, deve coinvolgere ed emozionare, avvalendosi di cavalcate in crescendo nelle quali gran parte del lavoro viene affidato dal punto di vista melodico al tremolo delle chitarre, mentre le tastiere svolgono un ruolo importante ma limitato all’accompagnamento, senza debordare come avviene nella variante sinfonica.
Tutto ciò si palesa in maniera perfetta nel lavoro dei Netherbird, i quali sciorinano una quarantina di minuti impeccabili, nei quali la mancanza di spunti innovativi è ampiamente compensata dalla capacità di comporre brani avvincenti, orecchiabili ma non banali, trasportando con un certo agio l’ascoltatore dall’inizio alla fine senza fargli avvertire alcun sintomo di stanchezza.
Detto che, per gusto personale, ho sempre prediletto questo tipo di sonorità rispetto al più canonico death melodico, trovo che The Grander Voyage sia un magnifico album, impreziosito da alcuni gioielli come la cangiante The Silvan Shrine, dalle superbe linee melodiche, e Windwards, che si snoda in maniera splendida tra pulsioni folk e maideniane.
Non so se ciò possa bastare ai Netherbird per migliorare in maniera sensibile il loro attuale status: dal mio punto di vista lo meriterebbero, ma ho il timore che un bellissimo album come The Grander Voyage sia, a modo suo, leggermente fuori tempo massimo, anche la buona musica di norma dovrebbe esulare da queste considerazioni.
Tracklist:
1. Pale Flames on the Horizon
2. Hinterlands
3. Dance of the Eternals
4. Windwards
5. Pillars of the Sky
6. The Silvan Shrine
7. Emerald Crossroads
Un album che non lascia dubbi sul valore del gruppo tedesco, un ascolto piacevole per i fans del death metal più melodico
Con i tedeschi Pentarium ci aggiriamo nei meandri del death metal melodico, dalle buone melodie melanconiche che rendono l’atmosfera del sound gotica e dai rimandi dark.
Il gruppo non manca di irrobustire la propria proposta con sfuriate dal mood black e tanto melodic death metal che richiama la tradizione scandinava.
La band nasce una decina di anni fa, alle spalle ha un ep uscito nel 2009, ed un primo full length (Blood For Blood) targato 2012 ed uscito come autoproduzione.
Quest’anno tocca a Schwarzmaler, licenziato dalla Boersma Records, un album che troverà terreno fertile tra gli amanti del death più melodico ed atmosferico.
Il sound guidato dalle tastiere sempre in evidenza non manca di cavalcate estreme valorizzate da un ottimo lavoro delle sei corde, ma come espresso in precedenza sono i tasti d’avorio che hanno il maggior peso sul songwriting, elargendo orchestrazioni gothic e mantenendo il sound estremamente melodico.
Ottimo lo scream che a tratti si trasforma in un growl profondo, così che Schwarzmalerpuò essere considerato un lavoro riuscito.
Children Of Bodom, nelle veloci parti metalliche tecnicamente ben eseguite, un tocco di Dark Tranquillity ed In Flames e, con l’aggiunta di molta melodia dark/gotica, il gioco è fatto; Vanitas e l’ottima title track che sembra scritta in riva al famigerato lago finlandese, sono le tracce più convincenti di un lavoro discreto, buono in quanto ad appeal melodico, accompagnato da una verve estrema che riconduce senza indugi sui sentieri tracciati dalla band di Alexi Laiho.
Un album che non lascia dubbi sul valore del gruppo tedesco, un ascolto piacevole per i fans del death metal più melodico ed una buona uscita targata Boersma Records: di questi tempi ci si può senz’altro accontentare, consigliato.
TRACKLIST
1. Kronzeuge
2. Vanitas
3. Seelenheil
4. Auf schwarzen Schwingen
5. Nimmermehr
6. Totendämmerung
7. Macht durch Angst
8. Gevatter Tod
9. Am Waldesrand
10. Drachenstein
11. Weltenbrand
12. Schwarzmaler
LINE-UP
Carsten Linhs – Vocals
Hendrik Voss – Guitar
Florian Jahn – Guitar
Fabian Laurentzsch – Bass guitar
Philip Burkhard – Keyboards / Synthesizer
Max Peev – Drums
Demons Of The Earth è un album sufficientemente vario, in grado di accontentare chi del metal si nutre di tutte le sue forme,
Una discreta via di mezzo tra l’heavy metal tradizionale ed il modern metal, potenziato da considerevoli dosi di groove e reso appetibile da solos colmi di melodie old school.
Questo risulta Demons Of The Earth, primo lavoro sulla lunga distanza per i Saddiscore, gruppo proveniente da Colonia con all’attivo un demo e l’ep Roots Of Fear, licenziato un paio di anni fa.
Il quartetto tedesco tramite Boersma Records arriva così al traguardo del full length, meritato per quanto proposto, magari con ancora qualche dettaglio da perfezionare ma di buon ascolto specialmente per chi ama due anime così diverse come i generi descritti.
La band alterna e talvolta amalgama con risultati più che sufficienti due modi di fare metal, le ritmiche si mantengono vicine al lato più moderno della nostra musica preferita, mentre le chitarre ricamano solos pescati dalla tradizione.
Non si può certo considerare un album old school questo Demons Of The Earth, le reminiscenze thrash e i toni estremi nella voce riempiono di mood rabbiosi il sound, ma tra il muro ritmico compaiono buone scale riconducibili alla vergine di ferro, un’atmosfera oscura accompagna le tracce e ci ricorda l’U.S. Metal, mentre l’impatto rimane fortemente ancorato al modern metal dei Machine Head.
A loro modo i Saddiscore hanno creato un ibrido musicale, mantenendo ben visibili le caratteristiche peculiari delle sonorità a cui fanno riferimento ed il risultato a tratti convince, anche per il grande impatto di brani come Too Far Away, FSK e Mental Warfare, esempi perfetti delle atmosfere apocalittiche, oscure e rabbiose che la band riesce a creare.
Riassumendo, Demons Of The Earth è un album sufficientemente in grado di accontentare fans dai gusti diversi, magari non i soliti puristi con i paraocchi ma sicuramente chi del metal si nutre di tutte le sue forme, convogliando nel proprio sound le varie influenze dei Saddiscore.
TRACKLIST
1. A Storm Is Coming
2. Too Far Away
3. Mirror Face
4. Ghost Of Guilt
5. FSK
6. Demons Of The Earth
7. All In Our Hands
8. Mental Warfare
9. To Take The Blame (Bonus)
10. The Reaper (Bonus)
LINE-UP
Chris – Vocals/Guitar
Peter – Drums
Jupp – Bass
Caro – Lead Guitar
Quasi settanta minuti di musica sono tanti per un album che vive di alti e bassi: comprimendo il tutto, la resa sarebbe stata certamente migliore.
Death metal moderno e melodico, a tratti apocalittico, quello suonato dai Martyrion, band tedesca attiva da una decina d’anni e con alle spalle due precedenti full length e due ep.
Successore di Refugium: Exile, uscito anch’esso quest’anno, il nuovo lavoro del gruppo continua a dispensare metal estremo dai connotati moderni, melodico in molte sue parti e frenato da un mood marziale.
La caratteristica peculiare del sound è composta da una sequenza di riff melodici su di una base ritmica dal buon groove, il growl profondo e brutale infonde la giusta tensione, scontrandosi atmosfericamente con i solos ipermelodici delle chitarre.
Nulla di clamoroso ma sicuramente ben fatto, Our Dystopia ha la sua pecca nella prolissità; quasi settanta minuti di musica sono tanti e la band tende a replicare più volte la stessa formula.
Per molti è un male, ma se siete amanti del death metal melodico, la cosa non disturba troppo, anche se l’album vive di alti e bassi e riassumendo il tutto, avrebbe certamente reso di più.
Alcune parti ritmiche che sconfinano nel thrash, danno quella varietà sufficiente per non scadere nella noia, e diverse tracce meritano di essere menzionate (In the End, la thrashy The Calm After the Storm, il picco qualitativo We Are Only Human) mentre nella seconda parte l’attenzione scema leggermente per tornare ancora una volta alle prime note pianistiche dell’ottima No Fear No Obedience, oscura, melodica e dall’anima dark.
Siamo nel mondo del death metal melodico, la band non dimentica la sua provenienza ed aggiunge quel tocco dark/gothic apocalittico di cui i tedeschi sono maestri e l’album strappa un voto buono proprio per l’uso di atmosfere oscure e solos drammaticamente melanconici; se siete amanti del genere Our Dystopia è senz’altro un buon ascolto, i riferimenti sono da annoverare tra le fila del metal estremo nord europeo e dalla ombrosa scena dark/gothic tedesca.
TRACKLIST
1. Our Dystopia
2. In the End
3. Genozenith
4. The Calm After the Storm
5. What We Leave Behind
6. We Are Only Human
7. From Reality into Fear
8. The End of Eternity
9. The Uncertain Future Dies
10. When the World Watches
11. No Fear No Obedience
12. The Storm
13. With My Eyes Unaffected
LINE-UP
Jannik Baur- Drums
Felix Lüpke – Guitars
Hendrik Franke – Bass
See also: Transgression
Marian Freye – Guitars
David Schäfer – Vocals
La grande tecnica fa brillare questa dozzina di brani urlanti, cattivissimi e colmi di melodie chitarristiche taglienti ed incredibilmente cool
Gran bel lavoro per questa melodic death metal band inglese, di stanza a Sheffield ma dai componenti di varia origine internazionale: i Myth Of A Life, infatti, fin dall’inizio dell’attività hanno sempre avuto problemi di formazione, se è vero che la line up all’opera su questo ottimo lavoro è già cambiata di ben tre elementi su quattro.
Un dettaglio visto l’enorme potenziale del gruppo che, dopo l’ep Erinyes uscito un paio di anni fa, licenziano, sotto l’ala della Sleaszy Rider, She Who Invites, debutto sulla lunga distanza.
Dicevamo della line up: oltre al vocalist Phil “Core’’ Dellas (unico membro superstite), sull’album troviamo Takanori Shono alla sei corde, , Charlie Power al basso, ed il nostro Damiano Porcelli, dei deathsters Golem, alla batteria; questi ultimi tre sono stati sostituiti, rispettivamente, da William Price, Liam Banks ed Alexander Bound She Who Invites risulta un gran bel disco, furioso, spettacolare nelle melodie, travolgente nelle ritmiche e perfettamente cantato usando growl e screaming iin un delirio di melodic death metal dai rimandi scandinavi, velocissimo e suonato alla grande.
La grande tecnica fa brillare questa dozzina di brani urlanti, cattivissimi e colmi di melodie chitarristiche taglienti ed incredibilmente cool, un uragano estremo insomma che torna a valorizzare l’ormai bistrattato death metal melodico.
Non un calo di qualità nelle composizioni e tanta voglia di far male, fanno di She Who Invites un ottimo esempio di come il genere, se suonato a questi livelli, riesca a regalare emozioni forti all’ascoltatore, letteralmente travolto dalla furiosa carica che la band sfoga su brani irresistibili come Scourged and Crucified e Lobotomized.
Blast beat, ritmiche al fulmicotone, solos che trasudano melodie e qualche ritmo sincopato, permettono all’album di mettere tutti d’accordo, sia chi ama la tradizione del genere, ma anche chi sta crescendo con le nuove sonorità, più in linea con la scuola americana.
Ancora Taking Back What Is Mine e Pull the Trigger mettono a ferro e fuoco i padiglioni auricolari, la band sembra un leone in gabbia, feroce parte all’assalto, morde con riff taglenti, stacca arti con ritmiche intricate e suonate a velocità impressionanti ma mantenendo un appeal clamoroso in tutti i brani che compongono questo piccolo monumento al death metal melodico.
Le influenze sono le solite di ogni gruppo che guarda al nord dell’Europa, con l’aggiunta assolutamente perfetta di una carica ritmica moderna che ne fa un bellissimo esempio di metal estremo targato 2016.
TRACKLIST
1. Codex Of Betrayal
2. Scourged and Crucified
3. Lobotomized
4. Erinyes
5. Taking Back What Is Mine
6. Pull The Trigger
7. Broken
8. Through The River
9. She Who Invites
10. Waiting To Die
11. Murder
12. Burning Vision
RECORDING LINE-UP
Takanori Shono – guitars
Phil ‘’Core’’ Dellas – vocals
Charlie Power – bass
Damiano Porcelli – drums
CURRENT LINE-UP
Phil ‘’Core’’ Dellas – vocals
Alexander Bond – drums
William Price – guitars
Liam Banks – bass
Debutto per i valdostani Watch Them Burn con cinque brani di metal moderno, tra richiami al death melodico e al metalcore.
Debutto omonimo autoprodotto per i valdostani degli Watch Them Burn, autori di un lavoro composto da cinque brani di metal moderno, tra richiami al death melodico e al metalcore.
Non male questo mini: la band, attiva da quattro anni, sa come muoversi tra i solchi del genere suonato, cercando di variare la propria proposta con ritmiche cangianti, mai troppo core, riuscendo ad amalgamare perfettamente il death melodico scandinavo, con il genere più in voga ultimamente tra quelli estremi.
Ne escono brani potenti e devastanti e dall’ottimo appeal; ottimo il lavoro delle chitarre, a cura di Corruptor e Mithra che, tra l’impatto prodotto dal gruppo, se ne escono con qualche assolo classico di ottima fattura, e sopra le righe la sezione ritmica (Shinigami al basso e Anubi alle pelli) che asseconda la vena cangiante dei brani, tra le ritmiche sostenute delle tracce più death oriented (bellissima l’opener The Day After) ed il groove potente e cadenzato di quelle più core (Dark Side).
Impreziosito dalla prova sontuosa del vocalist Maniac, vario e perfetto nell’adattare il suo scream ad ogni situazione musicale creata (finalmente un gruppo che non usa la voce pulita) mantenendo una tensione che si alza ad ogni brano, Watch Them Burn risulta un’opera prima riuscita ed in più parti avvincente. Soul-R, la modernissima e marziale My Country e la conclusiva Afterlife, dove il gruppo valdostano torna alle sonorità death dell’opener, completano un album che si rivela, così, un buon ascolto sia per il fans del death metal melodico, sia per quelli più orientati a sonorità in linea con i gusti del momento: la band ha diverse strade da far percorrere alla propria musica, vedremo in futuro quale sarà l’indirizzo preso, magari con un lavoro sulla lunga distanza.
Tracklist:
1.The Day After
2.Soul R
3.My Country
4.Dark Side
5.Afterlife