Usnea – Portals into Futility

Magnifico disco degli statunitensi che raggiungono il loro apice creativo: funeral, sludge e death fusi in modo magistrale.

A tre anni da un ottimo lavoro come Random Cosmic Violence la band statunitense di Portland si ripresenta con una magnifica opera, sempre su Relapse Records.

La band raggiunge, forse, il suo apice creativo, mantenendo il proprio trademark improntato su un suono dove si mescolano funeral-doom, death, sludge e aromi black: gli Usnea non sono i primi a cimentarvisi, ma  lo fanno con grande passione e importante conoscenza della materia; il songwriting è di alto livello e la capacità della band di creare suggestive atmosfere e melodie sempre su una base molto heavy, li fanno primeggiare. I cinque brani, tutti di lungo minutaggio, com’è giusto per il genere proposto, non sono particolarmente complessi ma sono ricchi di idee compositive sempre adeguate e la band si permette di suggerire la lettura di alcune opere distopiche e sci-fi, per meglio metabolizzare la struttura dei brani: ad esempio il brano Demon haunted world, disperato, cupo e opprimente è legato strettamente all’ omonimo libro di Carl Sagan del 1996. Altri scrittori noti e importanti come Frank Herbert (Dune) e Philip Dick (Valis) rappresentano suggestioni importanti per addentrarsi in cangianti brani come Pyrrhic Victory e A crown of desolation: nel primo la pesantezza del suono, l’alternarsi di vocals in scream e growl e l’atmosfera disperata si sfalda lentamente, nella parte centrale, in note cosmiche dove oscure dimensioni creano incubi in cui si smarrisce la memoria di sé. Nel brano finale A crown of desolation, mostro di abbondanti sedici minuti, si sublima la profondità emotiva della band, la devastante disperazione prende il sopravvento e un “io” travolto da minacce arcane perde completamente la speranza di ritrovare fragili equilibri; le vocals urlate, sgraziate accompagnate da un oscuro coro delineano scenari in cui la mente si spegne ed esplode come un nero cristallo impazzito.
Veramente un lavoro magnifico da assaporare lentamente, nota per nota, lasciandosi coinvolgere dalla notevole arte degli Usnea.

Tracklist
1. Eidolons and the Increate
2. Lathe of Heaven
3. Demon Haunted World
4. Pyrrhic Victory
5. A Crown of Desolation

Line-up
Joel Williams Bass, Vocals
Zeke Rogers Drums
Johnny Lovingood Guitars
Justin Cory Guitars, Vocals, Piano

USNEA – Facebook

Caronte – Yoni

Yoni è musicalmente molto ricco e avrà una lunga durata nei vostri stereo, perché ha tante stanze e passaggi segreti come il castello di un alchimista, anche perché questa è alchimia in musica, così su disco come nel vostro cervello, e viceversa.

Terzo album per la band parmense dei Caronte, uno dei nomi di punta italiano non solo del panorama sludge stoner: Yoni è il terzo capitolo della trilogia dedicata alla sciamanesimo e a Crowley e la sua legge di Thelema.

I Caronte sono uno dei pochi gruppi realmente interessati e competenti dell’occulto nelle sue accezioni più vere. Il gruppo suona uno sludge stoner in continuo mutamento, compatto e molto influenzato dalla psichedelia pesante degli anni settanta. L’atmosfera creata dalla band è una felice e tenebrosa aura nera che si espande come un funghetto allucinogeno nel nostro cervello, e ci fa rivolgere l’attenzione verso le cose nascoste che stanno fuori e dentro di noi. Rispetto ai dischi precedenti Yoni è musicalmente più psichedelico e stoner, con uno svolgimento strutturato in maniera simile alle altre opere, ma risultando ugualmente un importante capitolo a sé. In netta controtendenza rispetto a ciò che ci offre la nostra società, i Caronte ci offrono gli elementi che riportano la musica alle sue originarie funzioni catartiche e di coadiuvatrice dei misteri. In Yoni c’è un mondo che si trova alla nostra portata, dobbiamo solo cambiare il nostro cervello e la visione davvero ristretta che abbiamo del mondo, ricercando archetipi soffocati per troppo tempo. Per ottenere ciò i Caronte fanno un disco che colpisce al cuore chi ama la musica fatta con totale immedesimazione e competenza: qui ogni canzone è da esplorare con profondità e il gruppo dà alle stampe il proprio album migliore e più accessibile. In realtà tutta la produzione dei Caronte è ottima, e questo è un ulteriore passo in avanti. Si rimane colpiti da queste visioni e dalla profondità della loro musica, che ha molteplici livelli di fruizione e di lettura. Yoni è molto ricco e avrà una lunga durata nei vostri stereo, perché ha tante stanze e passaggi segreti come un castello di un alchimista, anche perché questa è alchimia in musica, così su disco come nel vostro cervello, e viceversa.

Tracklist
01. ABRAXAS
02. Ecstasy Of Hecate
03. Promethean Cult
04. Shamanic Meditation Of The Bright Star
05. TOTEM
06. The Moonchild
07. V.I.T.R.I.O.L

Line-up
Dorian Bones – Voice
Tony Bones – Guitars & Chorus
Henry Bones – Desecrator Bass
Mike De Chirico – Drums

CARONTE – Facebook

Cities Of Mars – Temporal Rifts

Il disco è una summa di come si può fare musica di generi che non brillano per originalità e trovare una propria personalissima via, facendo musica pesante in maniera fantastica.

I Cities Of Mars possiedono un’andatura doom stoner sludge molto superiore rispetto ai gruppi nella media dei generi, e sono venuti dalla Svezia per accompagnarci nel lungo viaggio verso l’inferno.

Il gruppo nasce dall’incontro tra i tre componenti Danne Palm, Christoffer Norén e Johan Küchler, ed insieme arrivano a questo debutto su Argonauta Records. Il disco è una summa di come si può fare musica di generi che non brillano per originalità e trovare una propria personalissima via, facendo musica pesante in maniera fantastica. Come riferimenti possono essere nominati gli Sleep per una certa attitudine sonora, i Mastodon per la voce soprattutto, si sentono ovviamente risuonare i divini Neurosis ma poi tutta la farina è del sacco dei Cities Of Mars. Inoltre questo concept album è un ulteriore capitolo della storia dell’astronauta russa Nadia, partita per una missione segreta su Marte nel 1971, e sparita dopo aver scoperto che Marte è abitato da ere molto antiche, anteriori all’uomo. Nel dipanarsi di questa fiction i Cities Of Mars compongono un’alchimia sonora di grande effetto, sempre con un substrato doom soprattutto nella cadenza, e poi inseriscono mille risvolti diversi, senza molti assoli, orientando la melodia in molte direzioni diverse, riuscendo sempre a non passare per la stessa strada già battuta. L’orecchio esperto nel genere subito non sentirà particolare emozione, ma in poco tempo verrà invece conquistato dal suono di questi svedesi, composto da molte soluzioni diverse, tutte interessanti. Temporal Rifts è un distillato sonoro del meglio della musica pesante fatta con cuore, stomaco e cervello e alza di molto l’asticella per i gruppi e i dischi che seguiranno in questi ultimi mesi del 2017. La formula sonora dei Cities Of Mars è tutta da sentire e garantirà parecchi ascolti, grazie ai mille giri che compie questo distillato musicale negli alambicchi del suono.

Tracklist
1. Doors of Dark Matter Pt 1: Barriers
2. Envoy of Murder
3. Gula, a Bitter Embrace
4. Children Of The Red Sea
5. Caverns Alive!

Line-up
Danne Palm, bass & vox
Christoffer Norén, guitar & vox
Johan Küchler, drums & vox

CITIES OF MARS – Facebook

https://youtu.be/wRIVKceqGPc.

Sator – Ordeal

I Sator fanno musica per terrorizzare chi sta loro davanti, con un cantato gridato su un tappeto sonoro sempre più potente ad ogni giro di chitarra e basso, con una batteria incalzante, dannati come una nave di pirati zombie.

Atteso ritorno di uno dei migliori gruppi italiani di sludge doom, fautori di un gran rumore, i genovesi Sator.

Dopo il debutto omonimo su Taxi Driver Records, i Sator passano su Argonauta Records per il loro secondo disco.
L’esordio era stato ottimo, con uno sludge doom molto potente con un forte substrato hardcore, ma con questa seconda prova il trio compie un’ulteriore evoluzione positiva, andando ad aggiungere maggiore spessore alla sua musica. Le composizioni hanno sempre grande potenza e viene inserita più psichedelia pesante per un effetto ancora più magniloquente. I Sator fanno musica per terrorizzare chi sta loro davanti, con un cantato gridato su un tappeto sonoro sempre più potente ad ogni giro di chitarra e basso, con una batteria incalzante, dannati come una nave di pirati zombie. L’approccio è simile a quello dei primi Electric Wizard, anche se hanno una maggiore varietà di soluzioni, e rimane quell’incalzare l’ascoltatore promettendo e mantenendo grandi cose dal vivo. I Sator sono un vortice dal quale non è possibile non venire attratti, sono affascinanti come sanno esserlo le cose malvagie. Ordeal è un gran salto di qualità per un gruppo che fa della potenza e della pesantezza le proprie armi vincenti, basterebbe ascoltare la canzone che da il titolo all’album dove c’è tutto il loro repertorio: riff potentissimi, basso a mille e batteria tentacolare, con stop and go e tanta distruzione. I Sator sono anche giustamente critici verso questa società che, come ben rappresentato in copertina, porta a divorarci l’un l’altro, senza ritegno né pietà per nessuno. In Ordeal aleggia anche lo spettro degli Eyehategod, un gruppo che dove c’è putridume è sempre presente, anche se qui ci sono molte cose in più. Ordeal è un monolite che sarà amato da chi segue la musica pesante.

Tracklist
1.Heartache
2.Ordeal
3.Soulride
4.Sky Burial
5.Funeral Pyres

Line-up
Drugo-Drum
Mauro-Guitar
Valy-Bass/vox

SATOR – Facebook

Nibiru – Qaal Babalon

Come sempre i Nibiru ci offrono un’esperienza sonora difficilmente descrivibile a parole, ma bisogna dire che in questa occasione sono andati davvero oltre, regalando una prova di valore assoluto e pressoché unica.

La nostra vita può essere definita in molto modi, e può essere vissuta in maniere molto diverse fra loro.

Innanzitutto bisognerebbe capire cosa sia il concetto stesso di vita, che forse viene dato troppo per scontato, perché sicuri ed esigenti sul suo svolgimento tentiamo di negare l’abisso che si crea fra la nostra vita e la nostra anima, ovvero ciò che realmente siamo. Vivendo questa netta frattura i disastri sono dietro l’angolo, e le scelte che ci rimangono non sono molte. Lanciati a folle velocità in una vita che non è ciò che vorremmo, tentiamo nella maggior parte dei casi di rimanere in carreggiata, sacrificando il nostro inconscio e molto altro per avere un rinforzo di fiducia e riconoscimento dagli altri, per provare a far vedere che siamo capaci a fare qualcosa, o che siamo degni della vita, già essa stessa una menzogna. E pensiamo di esserci salvati, ma invece stiamo affondando, sempre più giù, e come in una palude più ci agitiamo più la presa diventa letale. La dannazione è dentro di noi, e questo disco dei Nibiru è un cantico della disperazione, quattro pezzi di tessuto lacerato dalla dannazione, un grido lacerante di un’anima persa, come dicono loro stessi. Il disco rappresenta cambiamenti sostanziali nella poetica dei torinesi, dato che Qaal Babalon è definito dal gruppo il seguito del loro primo disco Caosgon, uscito nel 2013 e recentemente ristampato con bonus da Argonauta Records. Caosgon era una nebbia venefica che si espandeva dalle casse degli stereo di anime incaute e dannate, composto da una psichedelia distorta e rituale, marcia e portatrice di morte. Qaal Babalon è la sublimazione di quel concetto, un avanzamento di qualità sonora e di composizione notevole per un gruppo che ad ogni ascolto e ad ogni concerto assume una forma diversa. Rimasti in tre dopo l’uscita di Steve Siatris dal gruppo, i Nibiru sono dunque concettualmente tornati alle origini, aggiungendo però molto a ciò che era stato Caosgon. Le quattro tracce sono altrettanti rituali, quattro offerte ai veri dei, dilatate e con cicli e ricicli, che attaccano l’ascoltatore alla fonte sonora. Ascoltando Qaal Babalon si può sentire un taglio netto da ciò che era stato Padmalotus, un disco davvero molto diverso da quest’ultimo, che aveva fatto intravedere un cambiamento stilistico poi rigettato con l’uscita di Siatris dal gruppo. Qaal Babalon è molto più di un disco musicale, è un riconoscimento ed un’esplorazione dei nostri abissi, una fuga da falsi valori e false maschere, per ricercare ciò che siamo veramente. L’impianto sonoro è maestoso e magnifico, i suoni sono prodotti molto bene, e la lacerazione dei Nibiru viene declinata, novità assoluta, oltre che in enochiano anche in italiano, e questo è davvero un valore aggiunto, poiché rende moltissimo in Qaal Babalon. I Nibiru hanno sempre avuto un percorso molto particolare e assolutamente di personale e qui raggiungono il loro apice, dando l’impressione sia soltanto l’inizio di qualcosa di terribilmente dannato e affascinante, dato che questo disco è davvero un salto di qualità notevole in una carriera ampiamente al di sopra della media. Come sempre i Nibiru ci offrono un’esperienza sonora difficilmente descrivibile a parole, ma bisogna dire che in questa occasione sono andati davvero oltre, regalando una prova di valore assoluto e pressoché unica.

Tracklist
1. Oroch
2. Faraon
3. Bahal Gah
4. Oxex

Line-up
Ardath – Guitars, Percussions and Vocals
Ri – Bass, Drones and Synthesizers
L.C. Chertan – Drums

NIBIRU – Facebook

Demonic Death Judge – Seaweed

Un album che, nella sua tremenda forza, appaga, smobilita, appassiona, distrugge e crea, modellando montagne come un vento nato dall’impatto di un meteorite sul pianeta, in un delirio di note grasse portate al limite.

Una prova di forza esagerata quella messa in atto dai finlandesi Demonic Death Judge, monicker che potrebbe far pensare ad un gruppo death o black, ma che nasconde invece un combo di picchiatori slugde/stoner che si fermano solo quando sarete al tappeto in un lago di sangue.

Seaweed è il terzo album di questo mastodontico schiaccia sassi nordico, attivo dal 2009 e che aggiunge ai full lenght due split e un paio di ep.
Jaakko Heinonen, singer cattivissimo, guida questa macchina estrema, con la sei corde di Toni Raukola che intona riff pesanti come macigni, poi sgretolati dalla sezione ritmica, un mostro cannibale che fagocita tutto e tutti, pesante e senza pietà avanza incontrollabile, travolgendo e schiacciando sotto il peso di watt forgiati nel buio di una caverna inumidita da uno dei mille laghi della loro terra natia (Eetu Lehtinen al basso e Lauri Pikka alle pelli).
Il metal di questi anni non potrà essere descritto senza parlare di queste sonorità, a loro modo estreme, affascinanti quando racchiudono sfumature mistiche come nello strumentale Cavity o nelle divagazioni progressive della potentissima Saturday, doom metal/stoner/sludge ipnotico, durissimo ma perfettamente in grado di scavare dentro all’ascoltatore, che difficilmente resisterà nel tornare a farsi torturare dal combo finlandese al più presto.
Un album che, nella su tremenda forza, appaga, smobilita, appassiona, distrugge e crea, modellando montagne come un vento nato dall’impatto di un meteorite sul pianeta, in un delirio di note grasse portate al limite.
Per gli amanti del genere un album indispensabile per attraversare questa estate, tra mare e tormentoni radiofonici odiosi come una vipera nel cesto dei funghi.

TRACKLIST
01. Taxbear
02. Heavy Chase
03- Seaweed
04. Cavity
05. Backwoods
06 Pure Cold
07. Saturday
08. Peninkulma

LINE-UP
Jaakko Heinonen – Vocals
Toni Raukola – Guitars
Eetu Lehtinen – Bass
Lauri Pikka – Drums

DEMONIC DEATH JUDGE – Facebook

Jagged Vision – Death Is This World

I watt arrivano al limite in più di un’occasione, violentando l’ispirazione melodica dei Jagged Vision con dosi letali di hardcore e sludge , mentre le urla si intensificano e l’atmosfera si scalda non poco.

Partita sette anni fa come band dal sound ispirato all’hardcore, la band metallica dei Jagged Vision si è trasformata in una potentissima macchina da guerra metal/stoner, dalle dai devastanti rallentamenti sludge ed una forte attitudine death ‘n’ roll.

Un ep, l’esordio sulla lunga distanza targato 2014 ed ora questo devastante lavoro, intitolato Death Is This World, potente e melodico il giusto per non farsi dimenticare troppo in fretta nel panorama del metal dalle reminiscenze stoner, genere che riesce ancora a fare breccia nei cuori dei metal rocker modiali.
L’attitudine hardcore non è stata abbandonata del tutto dal gruppo norvegese, così come non si fanno mancare ottimi inserti melodici di stampo death scandinavo, sempre in un contesto metallico furioso, dove il gruppo spinge a tavoletta e ricorda in più di una occasione gli In Flames non ancora ammaliati dalle soleggiate coste americane (Feeble Souls).
I watt arrivano al limite in più di un’occasione, violentando l’ispirazione melodica dei Jagged Vision con dosi letali di hardcore e sludge , mentre le urla si intensificano e l’atmosfera si scalda non poco (Euthanasia, Forlorn).
Il quintetto spara dieci cannonate metalliche che fanno seri danni, con una Serpents che sbaraglia la concorrenza, un’esplosione metal/stoner/hardcore di notevole pericolosità.
Buon lavoro di genere, cattivo, melodico e devastante quanto basta per piacere non poco agli amanti di queste sonorità.

TRACKLIST
1.Betrayer
2.Euthanasia
3.Death Is This World
4.I Am Death
5.Feeble Souls
6.Emperor Of
7.Seven Seals
8.Serpents
9.Forlorn
10.Palehorse

LINE-UP
Kato Austrått -Bass
Joakim Svela – Drums
Daniel Vier – Guitars
Harald Lid – Guitars
Ole Wik – Vocals

JAGGED VISION – Facebook

Drug Honkey – Cloak Of Skies

Un disco senz’altro interessante ma decisamente ostico, ad opera di musicisti ai quali, fondamentalmente, interessa rappresentare la realtà che si annida al di sotto dei trucchi e dei belletti, riuscendoci piuttosto bene.

Gli statunitensi Drug Honkey sono in circolazione da oltre quindici anni, nel corso dei quali hanno dato alle stampe cinque full length, ultimo dei quali è questo Cloak Of Skies, ma per assurdo sono più noti per aver annoverato tra le loro fila un nome pesante dell’underground americano come quello di Blake Judd.

Questo dimostra quanto spesso ci si fermi alle apparenze o ai semplici nomi senza provare ad andare oltre, un’operazione invece di fondamentale importanza per provare a penetrare nella spessa coltre di fango che i nostri continuano periodicamente a riversare sul’audience.
Cinque anni dopo Ghost in the Fire, la band di Paul Gillis ritorna con un lavoro all’insegna della sperimentazione psichedelica e dissonante, inserita su un’impalcatura death doom che, complice la sempre ottima copertina di Paolo Girardi, risulta un portale spalancato su un mondo parallelo per nulla rassicurante od accogliente.
Cloak Of Skies si può approssimativamente suddividere in due parti, con la prima metà che offre brani assolutamente devastanti ma non del tutto privi di barlumi di accessibilità (soprattutto nei finali delle ottime Pool of Failure ed Outlet of Hatred) e la seconda che vede il suono ripiegarsi del tutto o quasi su sé stesso, per confluire nel delirio di una title track attraversata anche dal sax dell’ospite Bruce Lamont degli Yazuka.
C’è poco da descrivere e molto da ascoltare, a patto di mantenere occhi e soprattutto orecchi ben aperti, anche se probabilmente in molti casi ciò non sarà sufficiente, visto che il tasso di incomunicabilità trasmesso dai Drug Honkey con questo lavoro si spinge ben oltre il livello di guardia, nonostante la decisione di chiudere con il remix dell’opener Pool of Failure affidato a Justin Broadrick, capace di applicare la sua geometricità al fragore della versione originale, vada a costituire un ulteriore elemento in grado di attirare l’attenzione.
Un disco senz’altro interessante ma decisamente ostico, ad opera di musicisti ai quali, fondamentalmente, interessa rappresentare la realtà che si annida al di sotto dei trucchi e dei belletti, riuscendoci piuttosto bene.

Tracklist:
1. Pool of Failure
2. Sickening Wasteoid
3. Outlet of Hatred
4. (It’s Not) The Way
5. The Oblivion of an Opiate Nod
6. Cloak of Skies
7. Pool of Failure (JK Broadrick remix)

Line-up:
Paul Gillis (Honkey Head) – Vocals, synths, samples, fx
Adam Smith (BH Honkey) – Drums
Gabe Grosso (Hobbs) – Guitar
Ian Brown (Brown Honkey) – Bass

DRUG HONKEY – Facebook

Theta – Obernuvshis’

Pur essendo di natura totalmente strumentale, se si fa eccezione per le voci campionate che si susseguono nei diversi brani, l’album non possiede alcuna delle controindicazioni che sovente accompagnano tale scelta: qui la musica si prende la scena con decisione ed il rischio di vederla scivolare via senza lasciare alcuna traccia è scongiurato.

Prima prova su lunga distanza per Theta, progetto solista del musicista lombardo Mattia Pavanello, dopo l’uscita di un ep intitolato LXXV che aveva anticipato le coordinate sonore di una delle realtà più inquietanti in ambito musicale tricolore.

Pavanello è conosciuto per la sua militanza in band come Heavenfall e Furor Gallico, oltre che per una collaborazione illustre con i Folkstone, quindi sorprende in qualche modo ritrovarlo alle prese con un sound decisamente antitetico come il funeral doom dai tratti dronici e sperimentali offerto in Obernuvshis’.
Pur essendo di natura totalmente strumentale, se si fa eccezione per le voci campionate che si susseguono nei diversi brani, l’album non possiede alcuna delle controindicazioni che sovente accompagnano tale scelta: qui la musica si prende la scena con decisione ed il rischio di vederla scivolare via senza lasciare alcuna traccia è scongiurato: Mattia dimostra di conoscere alla perfezione il genere senza però seguirne le coordinate pedissequamente, consentendo alla sua ispirazione di incanalarsi di volta in volta in flussi differenti che vedono la componente funeral preponderante, ma arricchita ed integrata da ambient, drone, sludge e qualche venatura di post metal.
Del resto Theta nasce come progetto in grado di incanalare le diverse pulsioni compositive di Pavanello verso un sound oscuro, privo di lampi di positività ma non per questo scevro di un buon impatto melodico: in poco più di tre quarti d’ora, Obernuvshis’ riesce a scuotere menti intorpidite dall’ascolto di dischi prodotti con il pilota automatico, grazie a soluzioni per nulla scontate.
Come già accennato, però, il punto di forza di un album come questo è il suo essere ascoltabile, pur essendo di fatto costruito su un’impalcatura atta ad evidenziare il lato oscuro dell’esistenza: a tale proposito il nostro evita di rifugiarsi nella cripticità sovente fine a sé stessa del rumorismo, per provare invece a creare un coinvolgimento, anche emotivo, ma è chiaro che la fruibilità di cui si accennava poc’anzi è strettamente connessa al background musicale di chi si accosta all’operato di Theta, rivolto soprattutto ad estimatori del doom dalla comprovata dimestichezza con il genere.
Come avviene spesso in questi casi, la suddivisione in tracce lascia il tempo che trova, sicché l’album va ascoltato e sviscerato nel suo complesso, con picchi qualitativi rinvenibili un po’ in tutti gli episodi fino al bellissimo epilogo di Concrete And Foundation, dove Pavanello dimostra le sue doti di chitarrista anche con un dolente ed ispirato assolo che chiude nel migliore dei modi un’opera di grandissimo pregio.

Tracklist:
1.Travel Far Into The Black Hole Depths
2.Ruins Of Inari
3.Butterfly’s Cycle
4.Harshness Of A
5.Concrete And Foundation

Line-up:
Mattia Pavanello – Guitars, Bass, Drum Programming, Synths and Sampling

THETA – Facebook

La Cuenta – La Confessione di Antonius Block

Un lavoro magnifico, di grande impatto sia dal punto di vita musicale sia da quello prettamente concettuale, e capace di restituire in toto, quasi ne fosse la colonna sonora,  le atmosfere cupe e l’inquietudine magistralmente evocate da Bergman con Il Settimo Sigillo.

Quarto impressionante full length per i fiorentini La Cuenta, autori di uno sludge doom che si muove su binari tutt’altro che scontati, nonostante i concreti rischi che si corrono quando si struttura un lavoro in maniera simile.

Qui, infatti, troviamo un solo brano di circa trentacinque minuti, nel corso del quale la chitarra di Matteo Gigliucci urla e reitera le sue note, ben sostenuta dal violoncello dell’ospite Naresh Ran, creando un tessuto sonoro ossessivo e straniante, ottimamente sorretto dal lavoro percussivo di Nicola Savelli, ma alla resa dei conti, neppure troppo ostico all’ascolto, almeno per orecchie adeguatamente allenate.
Intendiamoci, la musica di immediata fruibilità è tutt’altra cosa, ma in quest’opera on si rinviene un rumorismo dronico fine a sé stesso e neppure una serie di suoni affastellati l’uno sull’altro contro ogni logica, bensì una linea armonica ben distinguibile, specie nella parte iniziale, prima che i campionamenti tratti dal bergmaniano Il Settimo Sigillo (del quale l’Antonius Block del titolo è il protagonista) irrompano, con il personaggio interpretato da Max Von Sydow (qui con la voce del doppiatore Emilio Cigoli) a farsi portavoce di una serie di quesiti destinati a restare irrisolti.
Per almeno una ventina di minuti il flusso sonoro si insinua nell’udito in maniera irresistibile e l’effetto è talmente soffocante che, quando interviene un cambio di registro, il respiro invece di aprirsi si blocca prima di ritrovare qualche particella di ossigeno; poi, quando si ode Block iniziare la sua confessione, a prendere la scena è la spinta sperimentale, anche se la tensione non scema affatto, semplicemente viene alimentata da un impatto più drammatico e solo in apparenza meno nitido, sovrapponendosi a linee guida in precedenza maggiormente identificabili.
Alla fine, del toccante dialogo tra Block con e la Morte, disturbato da un effluvio di effetti e negli ultimi minuti da riff di estrema pesantezza, l’unica frase che risulta perfettamente intelligibile è “non credi che sarebbe meglio morire?”, risultando in qualche modo emblematica della venefica profondità di questo magnifico album, di grande impatto sia dal punto di vita musicale sia da quello prettamente concettuale, e capace di restituire in toto, quasi ne fosse la colonna sonora,  le atmosfere cupe e l’inquietudine magistralmente evocate con il suo film dal regista svedese, tutto questo proprio nell’anno in cui ne ricorre il cinquantennale dell’uscita.

Tracklist:
1. La confessione di Antonius Block

Line-up:
Matteo Gigliucci: chitarra, ampli e pedali.
Nicola Savelli: batteria, macchine e pedali.

Guest:
Narèsh Ran: violoncello

LA CUENTA – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=Q65vxYlOXHI

Raptor King – Dinocalypse

Secondo ep per il trio sludge/thrash transalpino dei Raptor King, per il ritorno del dinosauro più irriverente e destabilizzante del metal.

Un piccolo aereo sorvola un punto imprecisato dell’oceano pacifico, la tempesta che si abbatte fulminea e traditrice sul piccolo velivolo porta i suoi occupanti a lanciarsi nella nebbia prima che l’impatto con l’acqua sia fatale.

Il risveglio per i sopravvissuti è un incubo, mentre animali di un’altra era gironzolano voraci tra i resti di chi non ce l’ha fatta.
Un paradiso perduto, una terra dove comanda il re raptor, un dinosauro carnivoro che regna sulla città, capitale di questo mondo dove gli animali sono padroni incontrastati degli ultimi umani, vestiti come loro e come loro corrotti.
Dinocalypse, secondo mini cd del trio sludge/thrash dei Raptor King, ci porta in questa terra misteriosa dove comanda il lucertolone preistorico a colpi di metallo devastante e destabilizzante, un concentrato di musica estrema pesante come un T.Rex che ci sballonzola sui genitali.
Dinocracy ed ora Dinocalypse, a distanza di due anni torna il dinosauro più irriverente e destabilizzante del metal con cinque brani cattivissimi, ma che portano con loro un approccio leggermente più melodico e rock’n’roll (Fight ‘n’roll) nascosto tra le pieghe di un sound senza compromessi pesante e mastodontico, ignorante ed in your face, ma che funziona e a tratti strappa un sorriso maligno tra le note di Dinocalypse (il brano), The Witch e dello sludge contorto Lonesome Raptor.
E quando dovete prendere un volo, date un’occhiata alle previsioni … non si sa mai.

TRACKLIST
01. Dinocalypse
02. The Witch
03. The Long Way to Rock (Pom Pom Pom Pom Pom)
04. Fight’n’Roll
05. Lonesome Raptor

LINE-UP
Raptor V – Vocals
Nightsmoke – Guitars
Don Coco – Drums

RAPTOR KING – Facebook

Red Beard Wall – Red Beard Wall

Per chi vuole sentire qualcosa di veramente diverso in un panorama a volte un po’ scontato.

I Red Beard Wall sono in due, chitarra e basso, e fanno uno stoner sludge molto potente ed incisivo.

La loro proposta musicale è molto originale non tanto nei mezzi ma nel risultato, poiché riescono a trovare una formula sonora non comune. Nel loro disco d’esordio confluiscono epiche distorsioni di chitarra, batteria che non pesta solo ma disegna melodie, sludge, stoner, un pizzico di southern rock, e anche un po’ di grunge, che chi ha talento e memoria usa sempre. Nati nel 2014 in Texas dalla volontà di Aaron Wall che recluta Robert Truijo dietro le pelli, esordiscono ora per Argonauta Records con un disco decisamente fuori dal comune. L’incedere di questa bestia texana, pur avendo elementi in comune con le band dei generi di cui sopra, ha una musicalità molto diversa. Il disco non dura moltissimo, e questo è un altro pregio, perché le idee vengono sviluppate bene senza tirarla troppo per le lunghe, cosa che in alcuni casi è sinonimo di aridità creativa. I Red Beard Wall producono un buon disco, ma hanno un potenziale ancora maggiore, e sicuramente non finisce qui. Nel panorama attuale della musica pesante si trovano ottime cose, ma poche hanno un tasso di originalità come questo esordio, nel quale anche la produzione accurata ma minimale diventa un punto di forza. Per chi vuole sentire qualcosa di veramente diverso in un panorama a volte un po’ scontato. Le note sono sette, i Red Beard Wall sono in due, e questo è un ottimo disco.

Tracklist
1. Beauty In
2. I Am
3. Switching Circuits
4. Alive
5. Born with a Hammer
6. Top of the Mountain
7. Bottom of a Well
8. March in Time
9. Beauty Out

Line-up
Aaron Wall – Vocals/ Guitar
George Trujillo – Drums

RED BEARD WALL – Facebook