Venti minuti di musica sono pochi per decretare la nascita di una stella, ma si rivelano sufficienti per prevedere, con ragionevole certezza, che ciò potrà accadere in un futuro molto prossimo.
Grazie all’ottimo lavoro di promozione dell’attivo Jon Asher, ci viene offerta ultimamente la possibilità di ascoltare molta buona musica proveniente dal Canada, nazione che, sovente, viene oscurata da quanto prodotto più a sud negli Stases, ma che è terra natia di diverse band che hanno fatto a loro modo la storia (Rush, Annihilator, Voivod, ma ho citato le prime tre che mi sono venute in mente, dimenticandone sicuramente altre).
I Red Cain devono ancora mangiarne di polvere prima di arrivare a quei livelli, ma il loro ep omonimo è il viatico migliore per iniziare questo impervio percorso: i cinque ragazzi provenienti dall’olimpica Calgary si sono cimentati in un’operazione non priva di rischi ma perfettamente riuscita , con il loro tentativo di fondere il power/prog metal con sonorità dark.
Era da tempo, infatti, che non mi capitava di ascoltare qualcosa di così fresco e dirompente in campo heavy metal: i Red Cain sono delle vere e proprie spugne che, dopo aver assorbito tutto quanto di buono è stato prodotto negli ultimi vent’anni, ne hanno filtrato il meglio salvandone sfumature che, se maneggiate con poca cura, avrebbero rischiato di rivelarsi antitetiche.
La voce dell’eccellente Evgeniy Zayarny è il valore aggiunto decisivo, grazie ad una timbrica profonda ma dalla notevole estensione, capace di rendere al meglio i passaggi più oscuri così come quelli più ariosi, ma non è affatto trascurabile il lavoro d’insieme di una band giovane e dall’enorme talento, che non perde mai la bussola di fronte ai frequenti cambi di scenario e, conseguentemente, di umore e di ritmica.
Il sound dei Red Cain guarda indubbiamente verso est, a quell’Europa che alle stesse latitudini è stata culla del power metal più melodico e del gothic più romantico, ma la forte radice americana non viene meno, specie nei momenti maggiormente robusti in cui si stagliano sullo sfondo i migliori Iced Earth e Nevermore. Guillotine è un autentico gioello, disturbato ad arte da screziature elettroniche, un brano trascinante come non se ne sentivano da tempo nel genere, ma non è che le altre canzoni siano da meno, facendo eccezione, paradossalmente, per il singolo prescelto Hiraeth, forse perché viene privilegiata la melodia a discapito dell’impatto drammatico che accomuna il resto della tracklist.
Venti minuti di musica sono pochi per decretare la nascita di una stella, ma si rivelano sufficienti per prevedere, con ragionevole certezza, che ciò potrà accadere in un futuro molto prossimo: sarà il primo full length in uscita nel 2017 a dirimere gli eventuali dubbi residui sul valore effettivo di questi promettentissimi Red Cain.
Tracklist:
1.Guillotine (feat. Wolf of Transylvania)
2.Dead Aeon Requiem
3.Hiraeth
4.Unborn
Un’opera che va assaporata e fatta propria gustandosi ogni passaggio, sempre in bilico tra le varie atmosfere che compongono il death gotico suonato dal gruppo
Decisamente interessante il debutto dei nostrani Ghost Of Mary, un concept ispirato da un racconto del cantante Daniele Rini incentrato sulla vita e sulla morte e accompagnato da un notevole death sinfonica arricchito da ottime parti classiche e gothic doom.
Un’opera dark, oscura e malinconica che tocca il genere in tutte le sue sfumature, regalando all’ascoltatore un sunto del death metal gotico, partendo addirittura dai primi anni novanta, in particolare dalla scena olandese.
Infatti quest’album torna a far risplendere uno dei movimenti più importanti per lo sviluppo di queste sonorità, affiancando al lento incedere, elegantemente sfiorato dagli strumenti classici, sfuriate estreme di matrice scandinava e dark rock per un risultato che, nella sua altalena di ombrose ed oscure emozioni, si rivela del tuto all’altezza della situazione. Oblivaeon è un disco vario, maturo, perfettamente in grado di mantenere la giusta tensione e non far perdere l’attenzione all’ascoltatore, travolto dalle sorprese che il gruppo riversa in un songwriting ispiratissimo, così da passare agevolmente tra le ispirazioni che hanno portato alla stesura dei brani in modo fluido e senza forzature.
Death metal melodico d’alta classe, quindi, impreziosito da un’ottima parte orchestrale, da un muro ritmico estremo efficace e da un’interpretazione magistrale di Rini, bravo sia con le parti estreme che con le clean vocals.
Un’opera che va assaporata e fatta propria gustandosi ogni passaggio, sempre in bilico tra le varie atmosfere che compongono il death gotico suonato dal gruppo, ma che ovviamente non manca di picchi qualitativi molto alti come la magnifica Shades, insieme a Something To Know e The End is the Beginning, altri due piccoli gioiellini di questo bellissimo lavoro, esempio perfetto di quello che a mio parere è la maggiore caratteristica del sound dei Ghost Of Mary: death gothic olandese e death melodico scandinavo che si scambiano gli onori e gli oneri in perfetta armonia.
Provate ad immaginare i primi The Gathering, Dark Tranquillity ed un accenno ai Lacrimosa più sinfonici ed avrete un’idea attendibile di cosa vi aspetta tra i solchi di Oblivaeon.
TRACKLIST
1.The Moon and the Tree
2.Shades
3.Last Guardian
4.Nothing
5.The Ancient Abyss
6.Oblivaeon
7.Black Star
8.Something to Know
9.The End is the Beginning
10.Nowhere Now Here
11.The Ancient Abyss (piano version)
Al primo lavoro gli Aenigma confermano di essere una band dal buon potenziale, del resto le caratteristiche principali per piacere ai fans del genere ci sono tutte.
Un altro gruppo si affaccia sulla scena symphonic gothic metal tricolore, si tratta dei toscani Aenigma.
La band licenzia il suo primo lavoro, questo ep dal titolo The Awakening, sette brani compresi di intro e cover (Song Of Durin della cantante Eurielle) per un mezz’oretta di symphonic gothic metal ben strutturato, dal piglio cinematografico, che alterna potenza power, atmosfere epic/folk ed una buona ma mai invadente parte orchestrale.
Nata tre anni fa ed arrivata al debutto dopo qualche assestamento nella line up, la band lascia sicuramente un’ottima impressione sull’ascoltatore, le sue carte sono tutte al posto giusto e The Awakening si presenta come un album professionale sotto tutti gli aspetti.
Chiaro che il genere, ormai, non lascia particolare spazio all’originalità, e le influenze dichiarate dal gruppo sono più o meno quelle che si riscontrano all’ascolto dei brani ma, complici la buona prova della singer (Caterina Bianchi) ed un impatto heavy sostenuto dal tappeto orchestrale prodotto dalle tastiere, The Awakeningfunziona e risulta sicuramente un’ottima partenza per gli Aenigma.
Subito dopo l’intro la band si gioca il jolly con il suo brano migliore, Your Ghost: un symphonic power metal dai tratti gothic, pregno di melodia, potente nelle ritmiche e dall’ottimo appeal. Silence lascia ai tasti d’avorio il compito di aprire le danze, il chorus è ancora una volta azzeccato, mentre il brano in generale segue le coordinate del suo predecessore. Unleash The Storm lascia spazio alla bellissima e già citata Song Of Durin, canzone dalle atmosfere epic/folk interpretata con delicata maestria dalla Bianchi, qui in versione elfica, mentre il power metal di Weakness e le ottime orchestrazioni della conclusiva The Darkest Side ci accompagnano al finale di questo buon lavoro.
Al primo lavoro gli Aenigma confermano di essere una band dal buon potenziale, del resto le caratteristiche principali per piacere ai fans del genere ci sono tutte.
TRACKLIST
1. Intro
2. Your ghost
3. Silence
4. Unleash the storm
5. Song of Durin(Eurielle Cover)
6. Weakness
7. The darkest side
Bravi e a loro modo originali, gli Windshades risultano una bella sorpresa ed un nome su cui i fans del genere possono tranquillamente puntare, aspettando il probabile arrivo del primo full length.
Accompagnato da una splendida copertina che ha ricordato al sottoscritto le atmosfere del romanzo I Pilastri Della Terra di Ken Follett, arriva sul mercato Crucified Dreams, ep di tre brani con cui gli Windshades debuttano per la nostrana Atomic Stuff che ha messo a disposizione della band i suoi studi di registrazione ed il talento di Oscar Burato, che si è occupato di registrazione, mixaggio e masterizzazione.
Il gruppo proveniente dalla provincia di Mantova e fondato lo scorso anno dalla cantate Chiara Manzoli e dal batterista Carlo Bergamaschi, ci propone un buon metal dalle trame gotiche, dove le ritmiche serrate fanno da contrasto alla voce dai rimandi classici ed operistici della singer, mantenendo in primo piano un ottimo impatto heavy.
Si potrebbe parlare di un mix ben assortito di heavy metal (nel buon lavoro delle due chitarre si riscontrano rimandi agli Iron Maiden) e sonorità dark/gothic, con la parte sinfonica inesistente se non per l’uso della voce operistica.
Non male, Crucified Dreamssi ritaglia un suo spazio nel genere, l’impatto terremotante della sezione ritmica, i solos taglienti ed un ottimo impatto si placano solo nella parte iniziale di Resurrection, mentre in generale il gruppo imprime la giusta dose di potenza al proprio sound, non facendo mancare una buona dose di velocità, sempre in contrasto con la sublime voce della cantante. Metafora è attraversata da sali e scendi maideniani, Resurrection parte delicata e prepara l’ascoltatore alla danza metallica, con la cantate che ispirata, fa volare la sua voce sulle scariche elettriche ed oscure degli strumenti, mentre la conclusiva title track risulta il brano più estremo del gruppo, su cui il gruppo alterna potenti mid tempo a veloci fughe al confine tra heavy e thrash.
Bravi e a loro modo originali, gli Windshades risultano una bella sorpresa ed un nome su cui i fans del genere possono tranquillamente puntare, aspettando il probabile arrivo del primo full length.
Un cantico oscuro, un’ora di musica estrema e dalle evocative atmosfere sinfoniche
Un cantico oscuro, un’ora di musica estrema e dalle evocative atmosfere sinfoniche, in cui la parte gotica viene violentata da un bombardamento metallico, per un’opera che va molto vicino ai suoni di in un girone infernale messo a soqquadro dall’arma più letale in mano alle forze oscure, la musica.
Se è vero che l’arte delle sette note, o almeno una sua gran parte, è quanto di più vicino alle forze demoniache ci sia in questo mondo, se l’uomo si allontana da dio ipnotizzato dalle melodie lascive che amoreggiano con la brutalità dell’estremo, se l’umano lato oscuro è continuamente messo alla prova e ammaliato dal mistero e dalla perversione, con Aum Corrupted, nuovo album del gruppo moldavo Esperoza, siamo vicini alla perfezione.
Il trio di Chisinau è l’ennesima scoperta della WormHoleDeath, un altro gruppo assolutamente fuori dai soliti canoni, una creatura che fa dell’arte oscura una meravigliosa e destabilizzante musica estrema, classica nell’approccio, varia nel saper muoversi con sagacia in molti dei generi estremi, originale nell’amalgamare orchestrazioni con un metal brutale, devastante, intenso e a suo modo progressivo.
La musica degli Esperoza è teatrale nella sua più pura concezione, iniziando dall’uso della voce operistica, ma lontana anni luce dalle female fronted band odierne, interpretativa, evocativa, come uno spirito che porta la morte o la possessione, terribilmente affascinate ma pericolosissima, mentre il male, diretto, violento e terribile arriva ad imprigionare l’anima con growl e scream direttamente dal più buio pozzo di anime nere: quella la voce, che fino ad un momento prima, ipnotizzava e ci trascinava inconsapevoli verso la perdizione, si trasforma in un demoniaco ed ultimo cantico prima del buio infinito ed il silenzio perenne.
Zoya Belous , Dmitrii Prihodko e Vadim Cartovenko hanno creato un’opera entusiasmante, difficile da catalogare con la classica etichetta da scrivere in calce alla recensione: Aum Corrupted è un contenitore di musica che ha nell’estremo il suo credo, ma che si riempie di sfumature ed atmosfere, talmente varie da perdere ogni certezza man mano che ci avviciniamo alla conclusione.
Black metal, death, doom, dark prog, gothic, symphonic, ognuno troverà il suo appiglio per non perdersi irrimediabilmente tra i meandri di un sound che lascia indizi come le briciole di Pollicino, ma che se verranno seguite porteranno là, da dove non si torna più ed è facile che accada ascoltando gemme oscure come Egohypnotized, Tomb Of Deeds, Periods Of 8, ma è tutto il lavoro che lascia senza fiato.
Come detto è molto difficile fare paragoni, il sottoscritto ha trovato in molte atmosfere il maligno ed orrorifico talento dei Devil Doll, chiaramente in versione più estrema e sinfonica, ma le note che escono dal tocco dei tasti d’avorio mi conducono verso il mondo di Mr.Doctor, poi la furia estrema tocca devastanti vertici black, death e doom, che mantengono sempre alta la tensione in questa colonna sonora pregna di magnifica, teatrale e diabolica oscurità.
TRACKLIST
01. A Broken Passage (Intro)
02. Egohypnotized
03. Unknown Summons
04. Tomb of Deeds
05. Nocturne Opus 93
06. Blame it on Me
07. Periods of 8
Desolate Grief (Interlude)
09. I Rot
10. ..and here comes the immaculacy / Aum Mantra (you will be punished for your prayers)
Hour Of The Nightingale è un disco perfetto che, purtroppo, non potrà mai avere un seguito, e questo è un altro buon motivo per riservargli un posto privilegiato tra i nostri ascolti, oggi e negli anni a venire.
Occuparsi di un disco come questo, ben sapendo tutto ciò che accaduto prima della sua uscita, rende dannatamente difficile mantenere il giusto distacco, fondamentale per evitare che il coinvolgimento emotivo finisca per deformare sensazioni ed impressioni.
Quindi proverò a parlare, almeno a livello descrittivo, di Hour Of The Nightingale come se fosse il “normale” disco d’esordio di una “normale” band.
I Trees Of Eternity nascono come progetto parallelo di Juha Raivio, chitarrista e compositore principale degli immensi Swallow The Sun, che ha chiamato a sé, oltre al suo vecchio compagno di band Kai Hahto alla batteria, la splendida vocalist sudafricana Aleah Stanbridge ed i fratelli Fredrik e Mattias Norrman, noti soprattutto per esser stati a lungo due travi portanti dei Katatonia.
Da una simile configurazione non poteva che venirne fuori una band dedita ad un sound oscuro ma, ovviamente, rispetto al robusto death doom melodico dei Swallow The Sun, viene esplorato il lato più intimista e soffuso, favorito dal timbro vocale di Aleah, delicato, a tratti quasi un sussurro lontano anni luce da gorgheggi o tentazioni operistiche e, forse anche per questo, del tutto adeguato alle intenzioni di Raivio. Hour Of The Nightingalesi rivela, fondamentalmente, uno scrigno di emozioni dal primo all’ultimo minuto, e non potevano esserci dubbi al riguardo, perché il musicista finnico ha dimostrato in tutti questi anni d’essere un compositore dotato di una sensibilità fuori dal comune, capace con il suo inconfondibile tocco chitarristico di indurre alla commozione gli innumerevoli fan della sua band principale.
Nei Trees Of Eternity, ovviamente, le coordinate sono ben diverse: la chitarra tesse sempre melodie struggenti, ma il tutto viene asservito alla voce carezzevole della Stanbridge piuttosto che a quella ben più ruvida di Kotamaki, e l’andamento dell’album procede di conseguenza, per oltre un’ora di poesia e bellezza che si fanno talvolta tangibili, quasi fisiche.
Dieci gemme musicali si susseguono senza che una pesante cappa di malinconia cessi di aleggiare sulle note prodotte da un gruppo in grado di offrire, a chi adora queste sonorità, un’esperienza unica per coinvolgimento emotivo …
Oh, al diavolo! Come si fa a continuare a parlare di questo disco senza tenere conto che Aleah non è più tra noi da quasi sei mesi? Come si può evitare d’esser trascinati in un gorgo di tristezza e disperazione nell’ascoltare le struggenti trame musicali e le laceranti e profetiche liriche che lei stessa ha scritto?
A partire da My Requiem, brano che apre l’album, dove Aleah canta “Too late you’re calling out my name / To raise me up out of my grave / Alive in memory I’ll stay” fino ad arrivare alla strofa conclusiva di Gallows Bird (“As the last ray of hope is lost / fight and resistance / Nothing remains to hold / me to this existence”), non viene mai meno un costante groppo alla gola, che costringe ad un impari battaglia con la propria sensibilità per provare a ricacciare indietro le lacrime.
Quest’ultima, lunghissima traccia, che arriva dopo lo splendore acustico di Sinking Ships, ha davvero il sapore del commiato, con le sue atmosfere drammatiche nella fase iniziale, che riportano il sound al doom più dolente: la chitarra tesse melodie di incommensurabile bellezza mentre Aleah ci dona il privilegio di ascoltarla per l’ultima volta regalandoci, dopo l’intervento di un Nick Holmes mai così cupo, un’ultima parte in cui prevale, invece, un rabbrividente senso di pace e di consapevolezza. Hour Of The Nightingale sarebbe stato lo stesso un disco stupendo, ma non si può negare che gli eventi nefasti precedenti l’uscita abbiano moltiplicato all’ennesima potenza un impatto emotivo già di suo oltre la norma.
Però, ripensandoci, l’idea di parlare di Aleah al presente non è stata affatto sbagliata: voglio credere che il suo spirito sia sempre accanto al suo compagno di vita Juha, aiutandolo a superare la sua perdita fornendogli l’ispirazione per elargirci altre impagabili emozioni.
E, in fondo, è proprio grazie all’immortalità conferita dall’arte che Aleah Stanbridge occuperà per sempre un posto di rilievo anche nel nostro cuore di semplici appassionati ed umili cronisti di tanta bellezza: Hour Of The Nightingale è un disco perfetto che, purtroppo, non potrà mai avere un seguito, e questo è un altro buon motivo per riservargli un posto privilegiato tra i nostri ascolti, oggi e negli anni a venire.
Tracklist:
1.My Requiem
2.Eye Of Night
3.Condemned To Silence (feat. Mick Moss)
4.A Million Tears
5.Hour Of The Nightingale
6.The Passage
7.Broken Mirror
8.Black Ocean
9.Sinking Ships
10.Gallows Bird (feat. Nick Holmes)
Line-up:
Aleah Stanbridge – Vocals, Lyrics, Songwriting
Juha Raivio – Guitars, Songwriting
Kai Hahto – Drums
Fredrik Norrman – Guitars
Mattias Norrman – Bass
Un oscuro scrigno musicale che, alla sua apertura, esplode in un caleidoscopio di note industrial gothic death metal.
La tanto bistrattata rete nel corso degli ultimi decenni ha dato la possibilità a molte realtà di farsi conoscere, specialmente quelle nate in paesi ai confini del mondo musicale e, in questo caso, metallico.
I paesi dell’Europa dell’est per esempio, solo pochi anni fa praticamente sconosciuti a livello musicale, hanno trovato nel web la possibilità di far conoscere le loro scene, qualitativamente notevoli come in Russia, dove la musica è storicamente una parte importante della crescita culturale e non un fastidioso ripiego come per esempio nel nostro paese.
Noi fin dai tempi di Iyezine, abbiamo sempre dato il giusto spazio alle varie scene mondiali, missione che portiamo avanti con entusiasmo anche sulla nuova testata metallica a nome MetalEyes e le soprese non mancano di certo, cominciando dagli Atonismen e dal loro bellissimo primo album, Wise Wise Man.
Il trio di San Pietroburgo è un gruppo nuovo di zecca formato dal polistrumentista e cantante Alexander Orso e dai due chitrarristi Alexander Senyushin e Child Catherine.
Il loro nuovo lavoro è quanto mai riuscito, visto che nel proprio sound ingloba vari suoni ed influenze, per un mix letale ed estremo di gothic, dark, elettronica e death metal molto affascinate.
Atmosfere horror, sadiche parti elettroniche, una voce personalissima e teatrale, ritmi marziali, orchestrazioni sinfoniche, ed accelerazioni estreme, fanno parte di questo oscuro scrigno musicale che alla sua apertura esplode in un caleidoscopio di note industrial gothic death metal.
Pensate ad una jam tra i primi Crematory, i Rammstein, e le sinfonie dark di una tra le miriadi di gothic metal band sparse per il globo, ed avrete un’idea del sound malato, destabilizzante e molto estremo del gruppo russo, che dà il meglio di sé quando l’elettronica diventa padrona del sound, con parti industrial dark malatissime e destabilizzanti.
Si passa così da brani potentissimi di oscuro ed orchestrale gothic metal (la title track e la stupenda Sorry), devastanti esempi di musica estrema moderna, maligna e terrorizzante come i due remix e la splendida Almagest.
Album affascinate, molto curato e maligno il giusto per farvi attraversare da voglie strane di bondage, frustini e torture assortite.
TRACKLIST
1.Almagest
2.Sorry
3.My Tale
4.Wise Wise Man
5.Wiegenlied
6.In Timeless Clamor
7.Wise Wise Man (dark-mix)
8.Wise Wise Man (industrial-mix)
LINE-UP
Alexander Orso – All instruments, Vocals
Alexander Senyushin – Guitars
Child Catherine – Guitars
Livores racchiude venticinque minuti di musica di enorme spessore qualitativo e, soprattutto, molto personale, segno che un approccio artistico meno convenzionale spesso può portare frutti prelibati
Il progetto musicale ideato da Hertz Kankarok si rivela anomalo fin da un monicker che, a primo acchito, lascia sensazioni strane, fino a giungere al modus operandi, che vede il nostro comporre brani senza essere di fatto un musicista nel senso vero del termine e, infatti, a parte la voce, tutto il lavoro strumentale è affidato a Dario Laletta.
Ma, come tutto ciò che ultimamente arriva dalla Sicilia in campo rock e metal, c’è da aspettarsi qualcosa di particolare ed anticonvenzionale: Hertz Kankarok con questi tre brani lo conferma, offrendo un compendio di musica a tratti entusiasmante e andando ad esplorare i diversi spettri sonori del metal e non solo.
Se Our Will Injection sembra un ideale incrocio i tra i King Crimson ed il djent (sotto genere del quale non è difficile reperire una ipotetica genesi ascoltando i tre dei dischi frippiani degli anni ottanta) ma con l’enorme pregio di mantenere sempre in primo piano l’aspetto melodico, tenendosi alla larga dallo sterile tecnicismo, We Are the Ghosts sposta la barra su sonorità più cupe ed evocative, esprimendo un robusto prog metal dalla ampie sfumature gothic. Fin qui nulla da eccepire sui due brani, impreziositi dall’indubbio talento esecutivo di Laletta, ben assecondato da un interpretazione vocale molti varia e personale da parte di Kankarok.
A mio avviso, però, il vero fulcro del lavoro è la conclusiva Occvlta Plaga Inferorvm, canzone che racchiude efficacemente non solo il pensiero dell’autore sui temi religiosi, veicolato in lingua italiana tramite un testo magnifico, ma riesce a sintetizzare mirabilmente diversi aspetti del sound, che si fa via via più oscuro e riflessivo, racchiudendo in un colpo solo il gothic doom di tipica scuola italiana (con bagliori degli indimenticabili Cultus Sanguine) e pulsioni cantautorali che non possono non rimandare all’illustre corregionale Franco Battiato (difficile non fare questo accostamento quando Kankarok intona “… in quest’epoca infame e d’acquiescenza …“).
In buona sostanza, Livoresracchiude venticinque minuti di musica di enorme spessore qualitativo e, soprattutto, molto personale, segno che un approccio artistico meno convenzionale spesso può portare frutti prelibati, proprio per una minore propensione ad abusare di schemi consolidati.
L’ep è stato diffuso ormai un anno fa e, benché sia stato accolto in genere con un certo favore, ho la sensazione che non sempre gli sia stato dato quel risalto ancora maggiore che avrebbe meritato. Resta solo da godersi questo ottimo esempio di creatività musicale, in attesa che il misterioso Hertz Kankarok si rifaccia vivo, magari con un lavoro su lunga distanza.
Tracklist:
1. Our Will Injection
2. We Are the Ghosts
3. Occvlta Plaga Inferorvm
Line Up:
Dario Laletta – All instruments
Hertz Kankarok – Vocals, Lyrics
Un concentrato di sinfonie orchestrali e riff prettamente metal che, fondendosi tra di loro, creano atmosfere e nuovi mondi in cui immergersi.
Gli Oniricide sono una band metal nata e cresciuta a Torino da qualche anno: il loro nuovo album Revenge Of Souls è un concentrato di sinfonie orchestrali e riff prettamente metal che, fondendosi tra di loro, creano atmosfere e nuovi mondi in cui immergersi e restare così sospesi a mezz’aria già dal primo ascolto.
All’interno dei dieci brani è possibile ascoltare, infatti, prog e power metal, il tutto contornato da orchestrazioni sinfoniche, ispirate a musiche dei film e videogiochi, senza dimenticare la notevole influenza della musica classica. Si possono trovare, inoltre, influenze più marginali come il folk di Becoming A Different Man, il pop-rock della ballad The Illusion of The Abyss, per finire nel rock-blues in alcuni assoli di chitarra. Revenge Of Souls, uscito a febbraio 2016, si presenta come una buona opera che indica ben delineate traiettorie di crescita e che, senza ombra di dubbio, sarà un ottimo antipasto per tutto ciò che verrà dopo.
TRACKLIST
1. Oneiros
2. Revenge of Souls
3. Noxy
4. Vision from the Mirror
5. Gipsy and the Cards
6. A Good Place to Die
7. The Illusion of the Abyss
8. The Beast
9. Mother of Pain
10. Becoming a Different Man
LINE-UP
Luca Liuk Abate – Bass
Daniele Pelliccioni – Drums, Keyboards
Andrea Pelliccioni – Guitars
Mara Cek Cecconato – Vocals
Memory lascia ottime sensazioni per il futuro, aspettiamo fiduciosi
Torna la dark gothic band ferrarese Levania con questo nuovo singolo, tratto dall’album dei Deplacement Carousel, progetto dark elettronico del cantante e tastierista Still e del bassista Fade, uscito per Epictronic, costola della più nota label nostrana WormHoleDeath lo scorso anno.
La band capitanata dalla dolce voce della singer Ligeia e dal tastierista Still, della quale vi avevamo parlato sulle pagine di Iyezine in occasione dell’uscita di Renascentis, ultimo lavoro uscito un paio di anni fa, rielabora in versione gothic il dark pop elettronico e molto ottantiano del brano originale, dal titolo Memory.
Un passo indietro è doveroso per presentarvi questa ottima realtà tutta italiana, nata ormai da quasi dieci anni e che, dopo l’uscita di tre demo ha licenziato oltre al precedente full length, il primo lavoro nel 2012, Parasynthesis.
In vero Renascentis non mi aveva entusiasmato all’epoca e l’approccio al brano è stato molto morbido da parte del sottoscritto, invece, sono molto felice di ritrovarmi al cospetto di un ottima traccia ed un gruppo che, al netto dei mille e più paragoni con le tantissime realtà di un genere per certi versi inflazionato, regala pochi minuti di eleganti melodie gothic/dark, con la voce della singer che continua la sua innata predisposizione all’eleganza, ed un sound che rimane ben saldo tra il confine che separa il gothic moderno al dark di estrazione ottantiana.
Non so quanto il nuovo progetto di Still e Fade potrà influire sulla strada che verrà intrapresa prossimo lavoro dei Levania, ma è indubbio che Memorylascia ottime sensazioni per il futuro, aspettiamo fiduciosi, avanti così.
LINE-UP
Ligeia – Lead vocals
Still – Keyboards & Vocals
Richie – Guitars
Fade – Bass
Moon – Drums
Riedizione quanto mai opportuna per l’album più “commerciale” mai pubblicato dai Rotting Christ.
Non sono poche le band di nome che, ad un certo punto della loro carriera, hanno inciso un disco che in qualche modo andava a rompere in maniera netta il loro stile stile consolidato.
Quasi sempre, al momento dell’uscita, le manifestazioni di dissenso superavano gli elogi, non tanto per il valore intrinseco dei lavori quanto per l’incapacità momentanea dei fan più accaniti (e anche di buona parte della critica) di accettare il fatto che per qualsiasi artista dovrebbe essere un fatto normale, ogni tanto, provare a sperimentare qualcosa di diverso.
Questo capitò in particolare a quattro nomi storici del metal, per tutti negli ultimi due anni dello scorso millennio, quasi che in quegli anni l’aria fosse permeata da un’urgenza creativa che spingeva i musicisti ad osare di più: i Moonspell (con Sin/Pecado), i My Dying Bride (con 34.788%… Complete), i Kreator (con Endorama) ed i Rotting Christ (con Sleep Of The Angels).
Ed è proprio di quest’ultimo album che ci viene data l’occasione di riparlare, grazie alla riedizione curata dall’etichetta ellenica Sleaszy Rider: diciamo subito che, rispetto agli esempi citati, Sleep Of The Angels appariva molto meno un azzardo, mostrando semmai una maggiore apertura verso un sound gothic che andava ad ammorbidire non poco le pulsioni black della band di Sakis, un processo che comunque aveva già mostrato dei segnali nel precedente A Dead Poem. Indubbiamente, rispetto alla svolta elettronica intrapresa sia dai Moonspell che dai My Dying Bride ed al brusco passaggio dal tetragono thrash di scuola teutonica ad un elegante sound gotico da parte dei Kreator, quello dei Rotting Christ appariva soprattutto l’approdo ad una maggiore orecchiabilità legata ad un ricorso maggiore a quelle progressioni melodiche di stampo chitarristico che sono sempre state, comunque, marchio di fabbrica della band greca.
Non a caso, mentre tutte gli altri gruppi citati, a partire dai dischi successivi invertirono la rotta per riapprodare a sonorità più in linea con la loro storia, i Rotting Christ, pur tornando ad inasprire il suono, con Khronos e Genesis non andarono del tutto ad abiurare quanto fatto con Sleep Of the Angels.
Non a caso tutti questi dischi, per così dire controversi, dopo quasi vent’anni sono stati unanimemente rivalutati e considerati dai fan come ottimi lavori, pur nella loro discontinuità stilistica: per i Rotting Christ il discorso è diverso, visto che il black dei nostri è sempre stato sui generis proprio perché molto personale e, quindi, l’apertura a sonorità più catchy corrispondente alla pubblicazione di Sleep Of The Angels non venne vissuta come un tradimento, bensì come una naturale progressione stilistica; non a caso, una traccia come After Dark I Feel è annoverata ancora oggi tra i cavali di battaglia di Sakis e soci. Sleep Of The Angels è un album che andrebbe fatto ascoltare a chi non conosce i Rotting Christ, vuoi per la poca attitudine a sonorità estreme, vuoi per l’impatto innegabilmente esercitato da un monicker ”pesante”: in questo caso potrebbe rivelarsi l’ideale grimaldello per accedere alla discografia di uno dei migliori gruppi che abbiano veleggiato lungo gli ultimi tre decenni metallici.
Tracklist:
1.Cold Colours
2.After Dark I Feel
3.Victoriatus
4.Der Perfekte Traum
5.You My Flesh
6.The World Made End
7.Sleep the Sleep of Angels
8.Delusions
9.Imaginary Zone
10.Thine Is the Kingdom
Line-up:
Sakis Tolis – guitars and vocals
Andreas – bass
Kostas – guitars
George – keyboards
Themis Tolis – drums
Spiacenti, ma il gothic/dark, anche se moderno e alternativo, è davvero un’altra cosa.
Le lacrime di Dracula sono copiose, hanno perso completamente quel romanticismo decadente che le rendeva affascinanti e nel nuovo millennio sono pregne di disperazione alternativa.
Per le giovanissime anime della notte, tornano i Vlad In Tears, band della scena gothic berlinese al quinto lavoro in poco meno di dieci anni.
Il gruppo, con il nuovo album, imprime con forza il sound alternativo nella sua proposta musicale, un moderno dark/gothic con la presunzione di scalare le classifiche, ma scarsamente emozionale, derivativo e soprattutto poco curato sia come produzione che a livello vocale.
Ne esce un piagnisteo lungo quasi un’ora, dove l’elettronica, il rock alternativo e uno spruzzata di nu metal soffocano inesorabilmente l’elemento dark/gothic, perdendo la sua partita con le emozioni, oscure e romantiche, importantissime in un album del genere.
Non mancheranno di trovare estimatori e consolidare lo zoccolo duro dei propri fans tra i quindicenni brufolosi alle prime esperienze con le insidie della notte, ma l’alba è alle porte ed il ritorno a casa coinciderà con un padre furioso in attesa sulla soglia di casa.
Marilyn Manson, e via, una dopo l’altra, tutte le band che hanno sfilato in questi anni sui canali satellitari, sfoggiando pantaloni in pelle e magliette nere, una punta di mascara sugli occhi e faccine da angelo nero in preda a disperazione adolescenziale: niente più di questo si intravede tra i solchi di Unbroken, poco per meritare una sufficienza che sarebbe arrivata perlomeno con una voce più profonda e meno monocorde.
Spiacenti, ma il gothic/dark, anche se moderno e alternativo è davvero un’altra cosa.
TRACKLIST
01.Blame Yourself
02.Massive Slayer
03.Burn Inside
04.Lies
05.Don´t Let Us Fall
06.Okay
07.Far Away
08.Over Again
09.Still Here
10.My Shade
11.Dew
12.Slave
13.Brocken Bones
14.We´re Done
15.Still Here (Piano-Version)
Il risultato è notevole, è un gran bel disco gothic, che si staglia molto al di sopra della media delle altre produzioni del genere.
Avventura solista per Laakso dei Kuolemanlaakso, band tra le migliori in Finlandia.
Stretto tra i tanti impegni musicali dei Swallow The Sun e dei Chaosweaver,band delle quali fanno parte diversi membri dei Kuolemanlaakso, il musicista finnicoha trovato il tempo e il modo di andare in Germania per incidere questo bel disco. Come si legge nel titolo la materia qui trattata è il gothic, nelle sue diverse accezioni, dal metal al rock, sempre con un sentire decadente e lascivo . La classe e la bravura compositiva di questi musicisti esce prepotentemente, e si sente che oltre al grande amore per la musica li lega anche una solida amicizia, che li porta a produrre ottimi lavori. I testi sono in inglese, perché il finlandese, scelta consueta per il gruppo nella sua veste doom death, non sarebbe stato adeguato per queste canzoni. La voce di Laakso è profonda e potente, guidandoci nei meandri di queste costruzioni baroccheggianti e desiderose di farsi amare, perché in fondo il gothic è una richiesta d’ amore e di lasciarsi abbandonare. E ascoltando questo disco ci si abbandona molto volentieri a questo gioioso senso di sconfitta cantato da una persona che di pathos ne sa molto. Nella parte musicale Laakso è stato aiutato da V. Santura, che ha registrato, mixato e masterizzato il disco, e che collabora con il finlandese dai primi tempi della sua carriera.
Il risultato è notevole, è un gran bel disco gothic, che si staglia molto al di sopra della media delle altre produzioni del genere.
Concretezza ed eleganza, per un’altra ottima uscita targata Svart.
TRACKLIST
01.Children of the Night
02.Roll the Dice with the Devil
03.Where the River Runs Red
04.The World’s Intolerable Pain
05.She Guides Me in My Dreams
06.No Absolution
07.Deeper into the Unknown
08.My Last Words
I Tenebrae possiedono una dote essenziale, al di là di qualsiasi altra considerazione: sanno trasmettere emozioni uniche a chi è in grado di attivare i propri sensi per poterle riceverle.
Per chi aveva apprezzato un lavoro magnifico come Il Fuoco Segreto, la voglia di ascoltare un nuovo disco dei Tenebrae era mista ad un certo timore, alla luce della preannunciata sterzata a livello stilistico unita all’ennesimo rimpasto di una line-up che sembrava aver raggiunto una sua stabilità; inoltre, la necessità, da parte della band genovese, di ricercare una nuova etichetta in grado di supportarne adeguatamente gli sforzi creativi, finiva per disegnare un quadro ricco di criticità che avrebbero potuto mettere in crisi qualsiasi persona sprovvista della passione e della convinzione dei propri mezzi in possesso di Marco “May Arizzi”.
Intanto, il chitarrista e compositore principale dei Tenebrae, assieme all’unico superstite della formazione originale, il bassista Fabrizio Garofalo, ed al vocalist già presente su Il Fuoco Segreto, Paolo Ferrarese, hanno trovato due nuovi compagni d’avventura nel tastierista Fulvio Parisi e nel batterista Massimiliano Zerega. Rinsaldata così una line-up che si era sfaldata proprio durante la fase di stesura dei brani che sarebbero confluiti in My Next Dawn, il processo compositivo ha ripreso slancio ed ulteriore vigore e, mai come in questo caso, si può sostenere a buona ragione che le difficoltà alla lunga abbiano avuto un effetto fortificante, di fronte all’evidenza dei risultati ottenuti.
Già, perché My Next Dawn si pone come il punto più alto raggiunto dal gruppo ligure, cosa neppure troppo scontata se si pensa al valore assoluto che contraddistingueva la produzione precedente ed al parziale abbandono di uno stile peculiare che la marchiava in maniera indelebile.
Il passaggio dall’italiano all’inglese, in sede di stesura dei testi, è stato, in primis, un passo necessario per rendere più appetibile il disco anche al di fuori dei nostri confini, ma non è certo l’unico motivo: infatti, la metrica anglofona meglio si sposa con un sound che punta maggiormente verso l’oscurità del gothic doom e, qui, non si può non fare un plauso alla bravura di Antonella Bruzzone, capace di passare con disinvoltura dalle storie tragiche ed intrise di romanticismo descritte nella nostra lingua in Memorie Nascoste e Il Fuco Segreto, ad un racconto di matrice apocalittica in lingua straniera, ispirato al film The Road, ed affidato alla magnifica interpretazione di Paolo Ferrarese. My Next Dawn, però, nonostante tali premesse, non recide del tutto il cordone ombelicale con la produzione passata: la peculiare impronta progressive resta ben definita anche se non più in primo piano, assieme ad un afflato melodico che aleggia in ogni brano, persino nei passaggi apparentemente più aspri, andando a comporre un quadro complessivo cupo, malinconico e tutt’altro che semplice da etichettare (atmospheric doom, gothic, dark, sono questi i tag puramente indicativi che accompagneranno probabilmente le diverse recensioni del lavoro)
Dopo l’intro Dreamt Apocalypse, è Black Drape il reale biglietto da visita dei nuovi Tenebrae, con accelerazioni ai confini del black alternate a momenti evocativi guidati dalle tastiere di Parisi ed esaltati dalla versatilità di Ferrarese, capace come non mai di esprimersi in diversi registri vocali che, per la maggior parte dei cantanti, risulterebbero incompatibili: una teatrale voce stentorea si alterna ad un growl profondo e convincente e, soprattutto, a vocalizzi di stampo operistico che hanno il compito di enfatizzare il pathos che pervade lo scorrere delle note.
La bellezza di questo brano spazza via ogni dubbio e da qui in poi l’ascolto diviene null’altro che la scoperta di una serie di gemme disseminate all’interno del lavoro, a partire da Careless, assieme alla title track una delle tracce che i nostri avevano già presentato nelle loro ultime apparizioni dal vivo quale assaggio di ciò che sarebbe stato My Next Dawn: qui è uno struggente assolo di Marco Arizzi a porre il suggello ad un’altra canzone magnifica.
La chitarra acustica suonata dall’ospite Laura Marsano (protagonista qualche anno fa su Le Porte Del Domani, quello che probabilmente è stato l’atto finale della carriera de La Maschera di Cera) è un valore che si aggiunge lungo il corso dell’album e fa bella mostra di sé nell’intro di Grey, traccia che si dipana in un finale di toccante e drammatica bellezza, precedendo quello che si rivelerà uno dei picchi dell’album, la magnifica The Fallen Ones, nella quale viene esaltato il connubio tra le liriche e la musica, con Ferrarese a denunciare un abbrutimento della razza umana che non è più soltanto la precognizione di un futuro post-apocalittico.
Arrivati a metà del guado, non resta che verificare la capacità dei Tenebrae di mantenere anche nella parte discendente dell’album la stessa profondità di un sound che brilla di un’intensità quasi sorprendente. The Greatest Failure è la risposta, trattandosi dell’ennesima canzone che si imprime nella memoria, apparendo destinata ad albergarvi a lungo così come la successive Behind (che, dopo un inizio rarefatto, esplode letteralmente nella sua seconda parte) e Lilian (contraddistinta da un elegante lavoro tastieristico).
Se, più di una volta, le band che sparano le migliori cartucce in avvio dei loro album finiscono poi per scontare una certa impasse dovuta all’inserimento di riempitivi, i Tenebrae riservano il meglio proprio nel finale, con l’accoppiata composta dalla title track e da As The Waves, due brani di struggente bellezza che dimostrano ampiamente la dimensione artistica raggiunta dal quintetto genovese, capace come pochi altri di chiudere un lavoro in costante crescendo e lasciando in dote all’ascoltatore esclusivamente quelle emozioni trasmesse con stupefacente continuità per una cinquantina di minuti.
Se vogliamo, i Tenebrae sono approdati oggi su un terreno attiguo a quello battuto dagli Ecnephias, benché i sentieri percorsi siano stati decisamente differenti, esprimendo con My Next Dawn un lavoro all’altezza del masterpiece pubblicato lo scorso anno dalla band lucana.
Non credete, allora, che sia arrivato il momento di dare maggior credito a chi compone e suona musica per passione, dando sfogo ad un fuoco che difficilmente cesserà di ardere, piuttosto che supportare passivamente chi contrabbanda per arte il semplice tentativo di sbarcare il lunario?
Se siete ancora convinti che oggi non ci sia più nessuno in grado di regalare opere degne di occupare un posto di rilievo nelle vostre collezioni discografiche, provate prima ad ascoltare My Next Dawn; fatevi questo regalo, date un calcio definitivo alle preclusioni ed ai giudizi precostituiti: i Tenebrae non diventeranno mai, purtroppo, uno di quei nomi “cool” dei quali farsi vanto d’essere fan o sostenitori, ma ascoltare e vivere la vera musica è un processo interiore, lontano anni luce da un effimero post da condividere sui social, questo non va dimenticato mai …
Tracklist:
1. Dreamt Apocalypse
2. Black Drape
3. Careless
4. Grey
5. The Fallen Ones
6. The Greatest Failure
7. Behind
8. Lilian (changing shades)
9. My Next Dawn
10. As The Waves (always recede)
Line-up:
Marco Arizzi – Chitarre
Fabrizio Garofalo – Basso
Paolo Ferrarese – Voci
Fulvio Parisi -Tastiere
Massimiliano Zerega- Batteria
Laura Marsano – Chitarra acustica
Antonella Bruzzone – Testi
Sara Aneto – Grafica
Derivativi ma talentuosi, i The Eyes Of Desolation convincono e sorprendono per la qualità esibita in questo ep.
Se, all’ascolto delle prime note di Awake in Dead, viene da pensare istintivamente all’operato di una band nordeuropea, alle prese con un gothic rock/metal d’autore, è notevole la sorpresa nel constatare che gli autori del lavoro, i The Eyes Of Desolation, provengono dalle ben più assolate lande costaricensi.
Di certo gli influssi centroamericani non fanno mai capolino in questo breve lavoro, che segue l’esordio sulla lunga distanza del 2013, Songs for Desolated Hearts: i quattro brani proposti, infatti, si muovono nel solco della tradizione europea del genere, tra rimandi a Sentenced e NFD, oltre ad attingere agli imprescindibili Type O Negative.
Se il sound sviluppato dai The Eyes Of Desolation non apporta certo chissà quali novità ad un genere che, in fondo, neppure ne ha bisogno, potendo vivere tranquillamente di schemi ben definiti e sempre graditi agli appassionati, convince e sorprende non poco, invece, la qualità esibita in questi venticinque minuti scarsi offerti dall’ep.
Le quattro tracce sono tutte ugualmente godibili (con preferenza personale per la conclusiva Fighting for Your Cause), sufficientemente diversificate tra loro, e si fissano nella mente con un certo agio, riportandoci alla mente i ben tempi andati, quando alcune delle band citate erano ancora attive e capaci di dare alla luce grandi album. Il vocalist Carlomagno Varela prende le mosse da una timbrica alla McCoy/White, arricchendola con un utilizzo vario e sapiente delle sue sfumature più estreme, ben assecondato da una band preparata e conscia del proprio notevole potenziale.
Derivativi ma talentuosi, i costaricensi meritano il massimo supporto da parte di chi ama questo genere, attendendoli alla prova di un nuovo full length che, dopo aver posto queste solide basi, potrebbe espandere la loro fama al di là dell’Atlantico.
Tracklist:
1. Waking Death
2. Crimson Sky
3. I Found My Place
4. Fighting for Your Cause
Line-up:
Javier Murillo – Bass
Chus Mora – Guitars
Carlomagno Varela – Vocals
Mario Vega – Drums
Carlos Carazo – Keyboards
Si sogna con la musica dei Lanthanein, e mai come di questi tempi ne sentiamo il bisogno.
Se si segue con attenzione la scena underground mondiale ci si accorge che mai come in questi anni la musica rock/metal abbia definitivamente cancellato dalla sua mappa stucchevoli e quanto mai inutili confini, muovendosi controcorrente alla società odierna sempre più costruita su muri razziali e religiosi.
Paesi asiatici, Australia, Sudafrica sono entrati prepotentemente sul mercato, regalando realtà assolutamente valide in ogni genere di cui si compone il mondo metallico.
In Sudamerica, per esempio, la tradizione metallica, specialmente in Brasile, è consolidata da decenni, con il metal classico e quello estremo a fare da traino a tutto il movimento.
I Lanthanein provengono invece dall’Argentina e ve ne avevamo parlato in occasione del primo ep Nocturnálgica, un ottimo esempio di symphonic gothic metal che però, voltava le spalle ai suoni bombastici cari alle band odierne per solcare lidi gothic/doom, eterei, melanconici ed atmosfericamente eleganti. Làgrimasè il debutto sulla lunga distanza che racchiude tutte i brani apparsi sull’ep e, nella sua interezza, conferma la bontà della proposta del duo argentino.
Marilí Portorrico, bravissima soprano e raffinata interprete delle bellissime impressioni gotiche che compongono il sound del gruppo, e A.N.XIIIU.X musicista e parte metallica della musica di Lágrimas, aiutati da una manciata di vocalist classici, interpretano quest’opera gotica, pregna di umori malinconici, ancora una volta cantata usando il più internazionale inglese e la lingua madre, attraversata da orchestrazioni raffinate e metallicamente vicino alle sonorità gotiche delle fine dello scorso millennio.
Il genere non si discosta infatti dal gothic/doom dei primi anni novanta, la scena olandese è madrina del sound di Lágrimas, ma dalla loro i Lanthanein hanno quel tocco passionale innato per chi proviene dalle terre sudamericane che riscaldano di emozionalità i vari brani.
Violini, piano, orchestrazioni a tratti strutturate su ritmiche black, accompagnano Marilí Portorrico in questo passeggiare nel crepuscolo, uno spazio temporale dove il tempo immobile, regala suadenti atmosfere di drammatiche sfumature dark, operistiche ma non invadenti, sfumate su paesaggi dai colori tenui, impresse su tele antiche ed in bianco e nero.
I brani tratti dal primo ep confermano tutta la loro bellezza, ma Lux Pepetua, la stupenda delicatezza di Auraluna e Ceremoniadel Alma Dormida non sono da meno, andando a completare un opera dark/gotica affascinante.
Non perdetevi questo album, specialmente se siete amanti di tali sonorità, si sogna con la musica dei Lanthanein e mai come di questi tempi ne sentiamo il bisogno.
TRACKLIST
1. Lacrimosa et Gementem
2. Vestigios (Vestiges)
3. Lanthanein
4. Lágrimas de luna (Moontears)
5. Epifanía (Epiphany)
6. A orillas del silencio (At the Shores of Silence)
7. Auraluna
8. Nocturnálgica (Nocturnalgic)
9. Lux Perpetua
10. Ceremonia del alma dormida (Ceremony of the Soul Asleep)
11. A orillas del silencio (At the Shores of Silence) [acoustic version]
I DVD celebrativi sarebbe bene lasciarli fare a chi ha alle spalle una carriera un po’ più lunga e con all’attivo come minimo 4-5 album di buona qualità.
I Miss My Death è l’ennesima band ucraina dedita al gothic doom con tanto di voce femminile: niente che così descritto possa far strabuzzare gli occhi per la sorpresa, senonché il gruppo di Kiev ha pensato di pubblicare in formato dvd il concerto tenuto nella capitale nel 2013, in occasione della presentazione dell’album In Memories, che sarebbe stato pubblicato l’anno successivo.
La curiosità non è solo cronologica, in quanto fa pensare sicuramente il fatto che una band pensi di filmare un concerto prima di dare alle stampe l’album d’esordio: grande fiducia nei propri mezzi, budget ricco grazie a qualche munifico benefattore o buoni agganci nell’ambiente ?
Ai posteri l’ardua sentenza, di sicuro i dati che saltano all’occhio sono sostanzialmente due:
1) gli I Miss My Death sono una band dal buon potenziale ma, per ora, nulla di più 2) registrare un concerto utilizzando le solite due o tre inquadrature, tra l’altro riprendendo una band statica sul palco come poche, è una scelta che francamente lascia più di una perplessità.
Fare il passo più lungo della gamba è un’operazione che, se da una parte denota quell’ambizione che è ingrediente irrinunciabile per chi vuole provare a sfondare, dall’altra rischia di bruciare irrimediabilmente una band agli occhi degli appassionati.
Ora, può darsi che In Memories abbia riscosso un buon successo commerciale per cui, sfruttandone la scia, i nostri siano stati spinti a ripescare le immagini di un concerto che, magari, faceva parte di un progetto a più lunga scadenza, fatto sta che continuo a restare pervicacemente sulle mie posizioni, ovvero: gli I Miss My Death dovrebbero pensare prima di tutto a rendere più peculiare un sound che è gradevole quanto derivativo, quindi a limitare quelle sbavature che, oltretutto, proprio dal vivo emergono maggiormente.
Perché, oggi come oggi, questi volenterosi ragazzi ucraini rappresentano solo una delle innumerevoli band che propongono sonorità decadenti seguendo lo schema compositivo (inclusa l’alternanza growl maschile/voce lirica femminile) di Draconian e seguaci, senza però riuscire ad avvicinare per intensità certi livelli.
Ergo, i dvd celebrativi sarebbe bene lasciarli fare a chi ha alle spalle una carriera un po’ più lunga e con all’attivo come minimo 4-5 album di buona qualità.
P.S: il voto è riferito al contenuto musicale che di per sé non è poi così deprecabile, mentre sulla ridondanza del dvd mi sono già abbondantemente espresso …
Tracklist:
1. At the Dark Garden of the Vampire
2. Thirteen Autumns of My Solitude
3. The One (feat. Tatiana)
4. Silence Cries
5. Earl Pale
6. Silent Existence
7. In Memories
8. Lacrimosa (W. A. Mozart)
9. While You Remember Me
Debutto clamoroso per la symphonic metal band russa Sanctorium.
Una premessa: Iyezine non ha la presunzione di giudicare e tranciare la musica delle band, ma cerca con i pochi mezzi a disposizione e tanta passione di dare supporto a qualsiasi realtà meriti l’attenzione nostra e di chi ha voglia di cliccare su di un nostro articolo, che sia metal, rock o elettronica poco importa, viene dato spazio a tutti, dall’autoproduzione, all’album promosso da qualsiasi etichetta ci chieda una mano per far conoscere le proprie proposte.
E’ cosi che, virtualmente, si viaggia per il mondo, partendo dall’Italia e soffermandosi su qualsiasi realtà meriti, a nostro modesto parere, un minimo d’attenzione, che sia in India piuttosto che in Australia, negli Stati Uniti, nei paesi scandinavi o, come in questo caso, in Russia.
Infatti è dall’estremo est europeo che provengono i bravissimi Sanctorium, autori di un debutto sulla lunga distanza davvero riuscito.
La band nasce addirittura dieci anni fa, nel 2006 esordisce con un demo e, prima di arrivare ai nostri giorni e all’uscita di The Depths Inside, rilascia un ep e due singoli.
Il nuovo album è un bellissimo esempio di symphonic gothic metal, maturo e debordante nella sua anima più metallica, l’altra faccia della stessa medaglia dove, dall’altra parte, la componente sinfonica è veramente sopra le righe, aiutata da una bravura strumentale stupefacente.
La parte del leone la fanno i due vocalist, Dariya “Eirene” Zhukova, soprano dalla voce magnifica e Sergey Muravyov, ottimo con il suo growl possente che ricorda non poco il Nick Holmes dei primi album dei Paradise Lost, accompagnati da musicisti spettacolari e da un songwriting che, anche se non brilla per originalità, regala una manciata di perle che stupiscono per il piglio e l’assoluta qualità.
E’ così che dopo la classica intro atmosferica, la voce della Zhukova irrompe sulle note della devastante 1000 Years, la parte metallica (aggressiva e dura come l’acciaio) si amalgama alla perfezione con quella sinfonica, le due voci così distanti tra loro iniziano la loro personale battaglia, una estremamente aspra, l’altra celestiale: bianco e nero, bene e male si scambiano il palcoscenico o all’unisono riempiono il suono di atmosfere ora tragiche e drammatiche, ora sognanti, per un risultato di enorme emozionalità.
La band fa il resto, gli elementi sinfonici addomesticano la furia metallica del combo in emozionanti parti, dove le cavalcate power/death degli strumenti elettrici vengono imprigionati in ammalianti passaggi orchestrali.
La devastante Alive, seguita dalla più ariosa Spirit, la sognante Maid Of Lake (con l’ospite Anastasia Simanskaya alla voce), la symphonic death Cancer Of Earth, la più gothic del lotto Rub Al’Khali, sono i brani più riusciti di un album bellissimo, suonato, cantato e prodotto in modo superbo: lascio a chi vorrà dargli un ascolto il compito di cercare similitudini ed influenze con band più famose, perché quest’opera merita la propria individualità.
Tracklist:
1. Intro
2. 1000 Years
3. Dragonqueen
4. Alive
5. Spirit
6. Maild of Lake
7. Cancer of Earth
8. Initiation of Al’Hazred
9. Silent Cry (Ballade)
10. Rub Al’Khali
11. Prayer
Qualunque sia lo stile predominante di un loro disco o di un singolo brano, gli Ecnephias sono riconoscibili fin dalla prima nota, non la sola ma sicuramente una delle principali tra le caratteristiche che rendono una band di livello superiore alla media
Parlare del nuovo album di una band che si conosce molto bene e nei confronti della quale si nutrono inevitabilmente aspettative elevate non è mai facile.
Non fa eccezione sicuramente questo disco auto-intitolato degli Ecnephias, provenienti da due grandi prove quali “Inferno” e “Necrogod”; anche in questo caso, come accaduto in occasione del precedente lavoro, l’impatto non è stato dei più semplici, vista un’iniziale difficoltà ad entrare in sintonia con la nuova creazione della band lucana.
Infatti, così come “Necrogod” differiva sensibilmente da “Inferno”, lo stesso si può dire di Ecnephiasrispetto al suo predecessore: in entrambi i casi gli album hanno svelato il loro valore in maniera graduale, dopo diversi ascolti, una caratteristica che di norma è sinonimo di una certa profondità delle composizioni.
Mi sono chiesto come mai ciò non mi fosse capitato a suo tempo anche con “Inferno” che, al contrario, mi aveva folgorato fin dai primi ascolti, ma credo che la risposta risieda soprattutto nella collocazione dei brani in scaletta: infatti, se un anthem come “A Satana” spalancava subito all’ascoltatore le porte dell’album, “Necrogod” riservava i suoi momenti migliori nella propria parte discendente con le magnifiche “Kali Ma” e “Voodoo”.
La stessa cosa, tutto sommato, avviene qui, con i due brani più immediati e trascinanti, Nyctophilia e Vipra Negra, che arrivano dopo oltre tre quarti d’ora di musica che necessita d’essere lavorata con una certa pazienza. Tutto questo è paradossale, in fondo, se pensiamo che lo stesso Mancan ha dichiarato che questo lavoro sarebbe stato molto più melodico rispetto ai precedenti, a dimostrazione del fatto che ammorbidire il sound non significa automaticamente rendere la musica più immediata e meno profonda.
È innegabile che le sfuriate di “Necrogod” oggi vengano stemperate in una veste più vicina al gothic dark che al metal, andando a rivangare, di volta in volta, le forme più suadenti di band come Moonspell o Type 0 Negative, fermo restando il tratto originale che il gruppo potentino ha sempre esibito, sia pure mostrando le sue diverse anime.
Infatti, qualunque sia lo stile predominante di un loro disco o di un singolo brano, gli Ecnephias sono riconoscibili fin dalla prima nota, non la sola ma sicuramente una delle principali tra le caratteristiche che rendono una band di livello superiore alla media; il loro quinto album (il quarto a partire dal 2010) può e deve essere quello della definitiva consacrazione, in grado di rompere le catene che imprigionano nel nostro paese, tranne rarissime eccezioni, chiunque provi a proporre musica dalle radici ben piantate nel metal.
A un disco come questo, infatti, non manca davvero nulla, in quanto possiede sia la giusta dose di orecchiabilità capace di far breccia anche in chi è meno avvezzo a sonorità più robuste, sia un compatto scheletro metallico in grado di far oscillare spesso il capoccione durante l’ascolto, sia infine quel peculiare gusto melodico mediterraneo che oggi propende più verso i Moospell che non ai Rotting Christ, le due band che costituiscono le estremità del territorio in cui gli Ecnephias si sono mossi in tutti questi anni. La scelta stessa di non intitolare il lavoro è il segno di quanto questo sia considerato dai suoi autori la summa di una già brillante carriera; un punto d’arrivo, per un verso, e nel contempo una base dalla quale muoversi per cercare di ampliare ulteriormente la propria notorietà fuori e dentro i confini nazionali.
Si è detto di una seconda metà dell’album probabilmente superiore a quella iniziale, ma sottovalutare l’intensità di brani quali The Firewalker, A Field of Flowers e Chimera sarebbe delittuoso; certo è che, a partire dalla a tratti pacata Tonight, con il suo splendido lavoro chitarristico, il disco subisce un’ulteriore impennata, prima con Lord Of The Stars, dove riappaiono parzialmente le evocative liriche in italiano, assenti in “Necrogod”, che ben si sposano con le melodie che vengono tessute dalla chitarra di Nikko e dalle tastiere di Sicarius, poi con la vera canzone killer del lavoro, Nyctophilia, il classico capolavoro che da solo varrebbe un intero disco, grazie al suo refrain indimenticabile, ma che in questo caso è fortunatamente accompagnata da una serie di tracce degne del suo valore.
Detto di Vipra Negra, altro episodio simbolo che, volendo esemplificare al massimo, si può definire, almeno a livello di struttura musicale, la “A Satana” di Ecnephias, ho voluto lasciare per ultimo il brano che spicca sugli altri per la sua diversità, Nia Nia Nia, esperimento assolutamente riuscito nel suo intento di conferire al sound oscuro della band quegli elementi folk esaltati dall’utilizzo del dialetto lucano.
Ho già citato il pregevole lavoro di Nikko alla chitarra e di Sicarius alle tastiere, ma non va dimenticato il sobrio e preciso operato della coppia ritmica Miguel Josè Mastrizzi (basso) e Demil (Batteria), anche se, come è ovvio, i fari sono puntati su quello che degli Encephias è il leader storico, Mancan: il musicista potentino è indubbiamente uno dei vocalist più caratteristici dell’intero panorama metal, non solo tricolore, e continua a progredire in tal senso ad ogni album; le sue clean vocals sono ormai ben più che all’altezza di quelli che per timbrica e genere sono i suoi modelli di riferimento, e parlo di Fernando Ribeiro e del (mai abbastanza) compianto Peter Steele, mentre il suo growl è sempre corrosivo e di rara efficacia anche se, alla luce del mood meno estremo del disco, in alcuni passaggi il ricorso a questo stile vocale non appare più così necessario.
Gli Ecnephias del 2015 sono senza alcuna ombra di dubbio una di quelle band che all’estero ci invidiano e che da noi non trovano invece lo spazio che meriterebbero, un po’ per la difficoltà di chi si muove in questi ambiti nel divulgare la propria arte ad una cerchia più ampia di persone, ma soprattutto a causa del provincialismo che attanaglia l’intero movimento.
Sta agli appassionati (quelli veri) andare oltre questi limiti atavici per apprezzare, prima, e diffondere, poi, un altro grandissimo disco concepito e partorito all’interno della nostra feconda quanto contraddittoria penisola.
Tracklist:
1. Here Begins the Chaos
2. The Firewalker
3. A Field of Flowers
4. Born to Kill and Suffer
5. Chimera
6. The Criminal
7. Tonight
8. Lord of the Stars
9. Wind of Doom
10. Nyctophilia
11. Nia Nia Nia
12. Vipra Negra
13. Satiriasi
Line-up:
Mancan – Vocals, Guitars, Programming
Sicarius – Keyboards, Piano
Demil – Drums
Nikko – Guitars
Miguel José Mastrizzi – Bass
Impressions letteralmente incanta, trattandosi di una vera e propria opera rock/metal, nella quale l’elemento elettrico supporta il suono classico in un un vortice di stili e generi, mantenendo sempre in buona evidenza una componente oscura che trascina l’ascoltatore nel mezzo di un duello all’ultimo sangue tra i vari strumenti e tra le diverse voci.
Un’opera quanto mai ambiziosa, questo viaggio musicale degli Aevum, un affascinante tuffo in atmosfere da “fantasma del palcoscenico”, misteriose come quelle di un vecchio teatro abbandonato, nel quale gli unici abitanti sono gli spettri di un mondo ormai lontano e dimenticato.
Il gruppo nasce in quel di Torino da un’idea della cantante Evelyn Moon e del pianista Richard ai quali, dopo vari avvicendamenti di line-up, si uniscono altri musicisti per formare l’assetto definitivo che consta di ben sette elementi.
Prima di questo album d’esordio, la band ha realizzato due Ep autoprodotti, “Celestial Angels” e “Nova Vita”, rispettivamente nel 2008 e 2012. Impressions letteralmente incanta, trattandosi di una vera e propria opera rock/metal, nella quale l’elemento elettrico supporta il suono classico in un un vortice di stili e generi, mantenendo sempre in buona evidenza una componente oscura che trascina l’ascoltatore nel mezzo di un duello all’ultimo sangue tra i vari strumenti e tra le diverse voci (liriche, teatrali e scream e growl), come se i vari abitanti spettrali si dessero il cambio su un palcoscenico in disuso, per vivere ancora una volta la gloria artistica di un tempo che fu.
L’etichetta gothic sta un po’ stretta a quest’album, perché a mio parere siamo davanti ad un rock sinfonico dalle forti connotazioni dark, ma pur sempre con una precisa impronta operistica, con i brani che si susseguono senza interruzioni, inframmezzati da camei strumentali che chiudono e riaprono lo scontro titanico tra i vari protagonisti del lavoro, che siano essi strumenti o voci poco importa, mantenendo l’attenzione dell’ascoltatore altissima e costringendolo a restare in balia della musica del gruppo per tutta la durata dell’album.
Sono grandiose le parti più metalliche, autentiche cavalcate nelle quali classico e moderno si fondono per regalare attimi di musica esaltante (Lost Soul), se vogliano un po’ sulla scia dei Therion ma, laddove la band svedese, specialmente nei primi album, affiancava il classico al death metal, gli Aevum sono più vicini al symphonic black, sia nelle ritmiche sia nell’uso della voce in scream.
I nove minuti di To Be Or … To Be sono da standing ovation e mi fermo qui, perché questo lavoro è composto da undici movimenti che devono essere solo ascoltati e che, tutti insieme, danno vita ad un capolavoro dal titolo Impressions, album che vola sul podio dei migliori di quest’anno che va a concludersi.
Tracklist:
1. Il palcoscenico della mente
2. Blade’s Kiss
3. Intermezzo
4. The Battle
5. Il lamento della ninfa
6. Impressioni
7. Lost Soul
8. To Be or…to Be
9. Aevum
10. Monsters
11. Adieu à la scène
Line-up:
Matt – Drums
Violet – Bass
Lord of Destruction – Guitars (lead)
Richard – Piano, Vocals (backing), Growls
Evelyn Moon – Vocals (female opera clean )
Ian – Synth and Keyboards
Hydra – Vocals (opera clean and scream)