Flotsam and Jetsam – The End of Chaos

Non giudichiamo l’opera dalla cover e lasciamoci attrarre e sedurre da un disco potente,viscerale,splendidamente suonato da musicisti dotati di classe cristallina.Spettacolare ritorno per una band storica ma purtroppo sottovalutata.

La storia è nota! I Flotsam and Jetsam, di Phoenix in Arizona, sono sempre stati sottovalutati e sono rimasti un patrimonio solo per veri intenditori che seguono la vera musica fregandosene delle mode e del riscontro commerciale.

Molti li ricordano per essere stata, agli albori (Doomsday for Deceiver, 1986), la band di Jason Newsted, ex bassista dei Metallica, ma credo che pochi se li ricordino per lo straordinario valore di alcuni loro dischi, il già citato Doomsday, ma anche No Place for Disgrace del 1988. Con una carriera di assoluto valore tra alti e bassi normali nell’arco di una storia più che trentennale, rinvigorita nel 2016 con l’omonimo e ottimo Flotsam and Jetsam, la band da sempre nelle mani del vocalist Erik A.K Knutson, ritorna con un disco di alto livello, fresco, coinvolgente, ottimamente prodotto e suonato; quasi cinquanta minuti con canzoni potenti, viscerali condotte da un grande interplay tra i due chitarristi, lo storico Michael Gilbert e Michael Conley entrato nel 2016. Non ci sono filler, sono dodici brani che hanno una capacità di coinvolgere con linee melodiche mai banali, ma sempre intriganti accompagnate da un preciso lavoro di basso, suonato da Michael Spencer, rientrato nel 2014, che struttura  le tracce in progressioni inarrestabili. Le chitarre sono precise e pulite negli assoli che impreziosiscono i vari brani, che sanciscono l’unione tra trash e metal più classico, ricorrendo anche ad armonizzazioni pregevoli all’interno dei vari episodi. Ulteriore valore aggiunto è la grande capacità espressiva di Eric Knutson, che anche dopo i 50 anni dimostra di avere elasticità ed estensione notevole, variando molto l’interpretazione in ogni frangente. Assalti furiosi e intricati come in Slowly Insane accendono i sensi, ascoltare le chitarre inarrestabili è pura adrenalina, cosi come lasciarsi trasportare da visioni voivodiane nella meravigliosa Architects of Hate, dove il buon Erik si lascia andare a una interpretazione ricca di pathos. Classe cristallina e songwriting che molte band si sognano portano l’eccitazione a livelli molto alti: ogni brano possiede linee melodiche facilmente riconoscibili pur all’interno di strutture per nulla banali o scontate. Demolition Man, di cui esiste anche un video, sorprende cosi come il riff selvaggio di Unwelcome Surprise costruisce un brano teso e tagliente come una lama di rasoio. Non so cosa porterà il 2019 ma l’inizio è decisamente con il botto!

Tracklist
1. Prisoner of Time
2. Control
3. Recover
4. Prepare for Chaos
5. Slowly Insane
6. Architects of Hate
7. Demolition Man
8. Unwelcome Surprise
9. Snake Eye
10. Survive
11. Good or Bad
12. The End

Line-up
Michael Gilbert – Guitars
Eric A.K. – Vocals
Michael Spencer – Bass
Steve Conley – Guitars
Ken Mary – Drums

FLOTSAM AND JETSAM – Facebook

Ghostheart Nebula – Reveries

I Ghostheart Nebula riescono a far proprie le diverse sfumature del genere convogliandole in un sound che mette sempre in primo piano l’impatto emotivo, e questo è esattamente ciò che chiede chi si approccia a queste sonorità.

I Ghostheart Nebula son il più gradito quanto inatteso regalo per gli appassionati del death doom melodico italiano.

Come ho già avuto occasione di affermare più volte, mentre per quanto riguarda il doom nella sua veste più classica nel nostro paese la scena è decisamente fiorente, le band di assoluto livello appartenenti al versante più estremo del genere (funeral o death doom che sia) sono decisamente di meno.
L’ep Reveries ci consegna quindi una nuova entusiasmante realtà nata dall’incontro tra tre musicisti lombardi (Nick Magister, Maurizio Caverzan e Bolthorn) le cui band di provenienza non rimandano in maniera scontata all’ambito doom; forse anche per questo l’approccio al genere del trio è quanto di più fresco ed emozionante ci sia stato dato modo di ascoltare ultimamente.
Pur immettendo nel tutto alcune sfumature riconducibili al post metal, i Ghostheart Nebula non si perdono in divagazioni di sorta ed esibiscono, senza particolari mediazioni, un carico di emotività travolgente dalla prima all’ultima nota del lavoro; eventuali dubbi sull’esito dell’opera vengono fatti svanire dall’opener Dissolved che, dopo una delicata introduzione, esplode letteralmente con tutto il suo fardello di malinconia e disperazione, con un Maurizio Carverzan che non indugia in clean vocals ma esibisce un growl lacerante.
Elegy Of The Fall ha un impatto meno immediato ma è pervasa da un diffuso senso melodico, con reminiscenze dei Valkiria, una delle band che nell’ambito del genere nel nostro paese possono essere definite storiche: qui si possono apprezzare le doti di Nick Magister come chitarrista e quelle di Bolthorn, il cui basso è tutt’altro che un semplice elemento di contorno nell’economia del sound.
A.R.T.E. (Always Remember Those Eyes) è invece, a mio avviso, il picco emozionale del lavoro, con le sue sonorità struggenti che occupano il proscenio in alternanza a rarefatti passaggi pianistici e morbide linee di chitarra, trovando un possibile termine di paragone con i recenti lavori dei Clouds; si parla quindi di assoluta eccellenza in campo melodic death doom, e ogni minimo dubbio viene spazzato via dall’ultima gemma intitolata Denialist, nella quale trova spazio la limpida voce dell’ospite Therese Tofting, la cui apparizione equivale ad un barlume di soffusa speranza incastonato nel drammatico incedere di un’altra canzona stupenda.
I Ghostheart Nebula riescono a far proprie le diverse sfumature del genere convogliandole in un sound che mette sempre in primo piano l’impatto emotivo, e questo è esattamente ciò che chiede chi si approccia a queste sonorità: Reveries è un’opera che al primo colpo si mette in scia delle migliori band del settore e ci si augura, a questo punto, che non resti l’abbagliante manifestazione di un progetto estemporaneo ma che costituisca, semmai, il primo passo di una band di grande spessore in grado anche di portare anche dal vivo la propria splendida musica.

Tracklist:
1. Dissolved
2. Elegy Of The Fall
3. A.R.T.E. (Always Remember Those Eyes)
4. Denialist (feat. Therese Tofting)

Line-up:
Maurizio Caverzan: voce
Nick Magister: chitarra, synths, programmazione
Bolthorn: basso

GHOSTHEART NEBULA – Facebook

Spearhead – Pacifism Is Cowardice

Pacifism Is Cowardice è un’opera estrema di buona qualità ed impatto, pur essendo destinata a rimanere confinata nell’underground metallico a uso e consumo degli amanti del genere.

La guerra diviene fonte inesauribile di ispirazione sia per i testi che per la musica, assolutamente estrema e violentissima, un death metal che alleandosi con il black affronta con crudeltà inaudita la battaglia trasformandola in una carneficina.

Stiamo parlando dei britannici Spearhead, band estrema attiva da più di dieci anni e con tre album all’attivo, prima che Pacifism Is Cowardice torni dopo un lungo silenzio a far parlare del gruppo.
Sono passati sette anni infatti dall’ultimo lavoro (Theomachia) ma la band non ha perso nulla dell’impatto che l’ha sempre contraddistinta, in virtù un sound dalla forza soprannaturale, oscuro e violentissimo, a tratti pregno di una solenne epicità estrema che lo rende un macigno di musica guerresca.
Il death metal del quartetto si ispira alla scuola statunitense, con rallentamenti ed atmosfere tipiche del Bay Area Sound per poi colpire senza pietà con tempeste di black metal che non fanno prigionieri.
La bravura del gruppo sta nel non farsi trascinare troppo dal caos sprigionato dalla battaglia, facendo in modo che le tracce abbiano una loro precisa connotazione e le atmosfere siano ben delineate in un ascolto che si fa feroce ma interessante nel seguire la band nei suoi assalti.
Ottimi i solos che nei momenti di potenza oscura e controllata si rivolgono agli amanti del death floridiano, per poi lasciare spazio ad un massacro di matrice black metal in brani come Of Sun and Steel, Degeneration Genocide e Khan.
Pacifism Is Cowardice risulta quindi un’opera estrema di buona qualità ed impatto, pur essendo destinata a rimanere confinata nell’underground metallico a uso e consumo degli amanti del genere.

Tracklist
1. Duellorum
2. Of Sun and Steel
3. Ajativada
4. Wolves of the Krypteia, We
5. Violence Revolt Ruination
6. Hyperanthropos
7. Degeneration Genocide
8. The Elysian Ideal
9. A Monarch to Rats
10. Khan
11. Aion (Two Keys and a Lion’s Face)
12. Aftermath

Line-up
Barghest – Bass, Vocals
Invictus – Guitars
Typhon – Drums
Praetorian – Lead Guitars

SPEARHEAD – Facebook

Ahnengrab – Schattenseiten

Un’opera che parte dal black metal e arriva in molti posti diversi, una rivelazione per chi non li conoscesse ancora, e una grande riconferma per chi li segue da tempo.

I tedeschi Ahnengrab sono al loro terzo disco, la direzione è quella del pagan black metal, con una forte dose di atmospheric e molta melodia.

La miscela musicale di questa band è molto difficile da trovare declinata in questa maniera. Il loro punto di partenza è un black pagano, ma c’è tantissima melodia e soprattutto uno sviluppo assai inusuale delle canzoni, molto al di sopra della media dei gruppi coinvolti nel genere. La questione centrale non è però tanto la qualità quanto la diversità di questo gruppo. I testi in tedesco rendono ancora più corposa ed originale la loro proposta. Ascoltando il disco si viene guidati dal sentimento e non da creazioni musicali artificiose. Ci sono grandi cavalcate che hanno insito il cuore dell’heavy power, momenti di grandioso headbanging, i classici massacri in crescendo del black metal, le stimmate del pagan e anche dei tocchi di folk. Insomma, ci sono moltissime cose per un lavoro che sa emozionare e lascia l’ascoltatore con la voglia di sentirlo ancora. I gruppi come Ahnengrab sono sempre più rari, poiché fluttuano in diversi mondi musicali e si assumono l’alto rischio di non piacere a chi si limita ad un solo genere, privandosi del piacere che può dare un disco come questo. Tutto qui è metal, si usano vari registri per arrivare a narrare storie in una certa maniera, quel modo assai caro a chi legge una webzine come questa, che potrà trovare in Schattenseiten un’autentica rivelazione. Ogni canzone fa genere e storia a sé, poiché racconta una storia diversa e le storie sono come gli uomini, ognuno è differente, è ciò che è. Un’opera che parte dal black metal e arriva in molti posti diversi, una rivelazione per chi non li conoscesse ancora e una grande riconferma per chi li segue da tempo. Sapienza compositiva superiore, grande resa e un suono fuori dal comune.

Tracklist
01. Aurora
02. Katharsis
03. K-37c
04. Phoenicis
05. Rad der Zeit
06. Herbstbeginn
07. Urknall
08. Des Weltenend’ Melancholie
09. …When Paths Separate
10. Sternenmeer

Line-up
Christoph H. – Guitar
Tom W. – Drums
Tom J. – Bass
Tibor C. – Guitar
Christoph “Fenris” L. – vocals

AHNENGRAB – Facebook

Morte Incandescente – …Somos o Fogo do teu Inferno

…Somos o Fogo do teu Inferno è un altro tassello della lunga storia di una band avulsa da ogni idea di schema commerciale, volta esclusivamente ad offrire il proprio black metal abrasivo e genuino.

I Morte Incandescente sono una delle realtà più longeve della fenomenale scena black metal portoghese.

In questi ultimi anni abbiano parlato di diverse band provenienti dalla terra lusitana, tutte capaci di interpretare il genere con una forza ed una convinzione degna di suoi esordi in terra scandinava.
Il duo della capitale, composto da musicisti attivi in numerose altre band, offre poco più di un quarto d’ora di black primordiale racchiuso nel sempre più diffuso ed apprezzato formato in cassetta a cura della War Arts Productions.
Il suono dei Morte Incandescente è grezzo, diretto, privo sostanzialmente di accenni melodici e di contraffazioni, e l’uso della lingua madre tende ancor più l’idea d’essere al cospetto di una band che trova la sua ragione d’essere nelle radici della sua terra e in quelle del genere.
Ma non è solo furia cieca quella che i nostri riversano sul’ascoltatore, perché nei primi due ottimi brani, Penumbra da Realidade e Abandonado, i ritmi sono parossistici solo a sprazzi e in seguito viene trovato il tempo per un episodio sghembo e grottesco come Poema em Branco e la sfuriata punkeggiante di Canção do Caixão.
…Somos o Fogo do teu Inferno è un altro tassello della lunga storia di una band avulsa da ogni idea di schema commerciale, volta esclusivamente ad offrire il proprio black metal abrasivo e genuino.

01 – Penumbra da Realidade
02 – Abandonado
03 – Poema em Branco
04 – Canção do Caixão

Line-up:
Vulturius – Vocals, Bass, Guitars
Nocturnus Horrendus – Vocals, Guitars, Bass, Drums

MORTE INCANDESCENTE – Facebook

Deathrite – Nightmares Reign

Il sound del quintetto di Dresda è uno scarno e primordiale death metal spogliato da inutili orpelli, prodotto ispirandosi alla vecchia scuola e violentato da iniezioni grind e death n’roll.

I tedeschi Deathrite, nome conosciuto dell’underground estremo centroeuropeo, approdano alla corte della Century Media e licenziano il quarto album in carriera dopo un trio di lavori usciti tra il 2011 ed il 2015, tra i quali Revelation of Chaos è sicuramente il più conosciuto.

Il sound del quintetto di Dresda è uno scarno e primordiale death metal spogliato da inutili orpelli, prodotto ispirandosi alla vecchia scuola e violentato da iniezioni grind e death n’roll.
Ne esce un’opera che non scalfisce la reputazione dei Deathrite, rimanendo legata ad un’attitudine underground per nulla ammorbidita dalla firma con la prestigiosa label.
Nightmares Reign quindi è un lavoro non da tutti, o almeno non per chi si aspetta il classico album estremo, prodotto alla perfezione e valorizzato da una vena melodica, in quanto tra le trame cucite dal gruppo si viene colpiti da tremendi uno due death/thrash old school e mandati al tappeto da rallentamenti potenti e distorti, in un clima death/crust n’ roll senza compromessi.
Sono i Darkthrone la band che più si avvicina al modo di comunicare del gruppo tedesco, padri indiscussi dell’anima più rock del metal estremo e fonte di ispirazione primaria di chi si erge a paladino del genere.
Nightmares Reign è un lavoro che risulta indicato ai soli fans di queste sonorità e a chi predilige l’anima più underground ed old school del metal estremo.

Tracklist
1. When Nightmares Reign
2. Appetite For Murder
3. Invoke Nocturnal Light
4. Demon Soul
5. Devils Poison
6. Bloodlust
7. Obscure Shades
8. Temptation Calls

Line-up
Tony Heinrich – Vocals
Andy Heinrich – Guitar
Tom Michalik – Guitar
Anton Hoyer – Bass
Stefan Heinz – Drums

DEATHRITE – Facebook

6th Counted Murder – Individual

Cinquanta minuti in compagnia dei 6th Counted Murder valgono l’acquisto di questo bellissimo secondo lavoro che, agognato, aspettato e voluto dalla band e dai suoi fans, rappresenta una conferma ed un ulteriore passo avanti.

Era l’autunno del 2013 quando una serie di omicidi seriali portarono il terrore nell’underground metallico milanese, terrorizzato da un assassino che con crudele ferocia uccideva le sue vittime a colpi di thrash/death metal dalle trame heavy e da un approccio melodico stupefacente per un debutto.

Dieci brani, dieci capitoli che mettevano in luce l’ottima preparazione tecnica dei musicisti coinvolti, un songwriting assolutamente maturo ed un impatto che non lasciava dubbi sulla voglia di far male dei 6th Counted Murder.
Dopo diciotto mesi di silenzio, dovuti all’abbandono del cantante, e l’arrivo del bravissimo Simone Dalamar Paga dietro al microfono, la band con i quattro pazzi assassini seriali (Gianluca D’andria alla batteria, Alessandro Ferraris al basso e la coppia di chitarre taglienti come lame nel buio composta da Marzio Corona e Andrea P. Moretti) al proprio posto, ha ricominciato a colpire con quell’arma micidiale che è il loro sound.
Dopo la firma con la piovra Sliptrick Records (label che si sta accaparrando il meglio del metal uscito negli ultimi anni a livello underground nel nostro paese) il gruppo milanese licenzia finalmente il secondo album intitolato Individual.
Registrato negli studi della band e poi affidato alle sapienti mani di Simone Mularoni per mix e mastering, avvenuti ai Domination Studios, Individual non deluderà chi in questi anni ha aspettato con pazienza il ritorno del serial killer, una mente malata, deviata e dedita all’uso di droghe che, in un delirio di onnipotenza, compie i più brutali ed assurdi delitti, fino all’induzione al suicidio di massa aiutato da una sua vittima manipolata (la prescelta).
L’album parte con due brani di una potenza devastante, Individual Born e Syncopate, che richiamano i Testament più estremi: schegge impazzite di death metal su strutture ritmiche di matrice thrash investono l’ascoltatore, ma è con il singolo Scent Of Despair che si torna a quel melodic death metal ricco di sfumature heavy che aveva fatto la fortuna dell’esordio.
Il nuovo cantante si muove su toni estremi variando molto la sua performance, passando dal classico growl allo scream, fino ad evocative e sentite parti in clean, mentre i suoi complici fanno capire d’essere tornati ancora più convincenti ed arrabbiati di prima.
Near Death Experience è un saliscendi su spartiti estremi, con urla terrificanti che ccompagnano un sound dalla violenza progressiva, tra solos che sparano melodie classiche con una facilità disarmante.
Ancora grande metal con She, brano che si potrebbe definire un mid tempo non fosse per le ritmiche intricate, che lasciano spazio ad atmosfere melanconiche a metà brano, mentre con Brutal Engaged Abuse si torna al thrash, prima che il trio composto da Cloud Nine, Apocalypse In Human Features e House Of Lies concluda questo mostruoso lavoro.
Cinquanta minuti in compagnia dei 6th Counted Murder valgono l’acquisto di questo bellissimo secondo lavoro che, agognato, aspettato e voluto dalla band e dai suoi fans, rappresenta una conferma ed un ulteriore passo avanti.

Tracklist
1.Individual Born
2.Syncopate
3.Scent Of Despair
4.Near Death Experience
5.Berserk
6.She
7.Brutal Engaged abuse
8.Cloud Nine
9. Apocalypse in Human Features
10.House Of Lies

Line-up
Andrea P.Moretti – Guitars
Marzio Corona – Guitars
Alessandro Ferraris – Bass
Gianluca D’Andria – Drums
Simone Dalamar Paga – Vocals

6TH COUNTED MURDER – Facebook

Symbolical – Allegory Of Death

Allegory Of Death è un album oscuro, opprimente, a tratti maestoso: parlare di Behemoth più death oriented sarebbe fin troppo facile, consigliarne l’ascolto è invece un dovere.

La Polonia tira le fila dell’invasione di gruppi estremi provenienti dall’est europeo, non solo per essere la terra che ha dato i natali agli ormai famosissimi Behemoth, ma per una vena aurifera che non smette di donarci ottime band death e black metal.

I Symbolical sono sicuramente tra le più valide, attivi dal 2013 e formati da un quartetto di musicisti con esperienze importanti alle spalle come il batterista Daray (Dimmu Borgir, Hunter, ex-Vader), il chitarrista e cantante Cymer (Infernal Death), il chitarrista Słoq (The John Doe’s Burial), ed il bassista Lukas (Slain, Doomsayer).
Mystic death metal lo chiamano loro, fatto sta che prima il debutto Collapse In Agony, licenziato tre anni fa ed ora il nuovo Allegory Of Death risultano un notevole esempio di death metal pregno di atmosfere nere come la pece che spezzano il ritmo infernale imposto dalla band, tra potenti mid tempo, passaggi che sanno tanto di epica oscurità e veloci ripartenze classiche del genere nell’interpretazione nelle lande polacche.
Allegory Of Death è un lavoro che tiene inchiodati alla poltrona, con le cuffie brasate sulle orecchie nel seguire le cangianti sfumature di questa raccolta di brani, tendenti ovviamente al nero, ma che si sviluppano tra molti passaggi, con le chitarre che non disdegnano melodie oscure su tappeti di possente e monolitico metal estremo.
I musicisti, di provata esperienza, ci sanno fare, ma sono le sensazioni emotive a farla da padrone, apocalittiche e abissali, foriere di oscuri presagi di morte nelle notevoli Fallen Renegate, The Day Of Wrath, Prometheus Trial e Pseudo Master.
Allegory Of Death è un album oscuro, opprimente, a tratti maestoso: parlare di Behemoth più death oriented sarebbe fin troppo facile, consigliarne l’ascolto è invece un dovere.

Tracklist
1.Inner Struggle
2.Fallen Renegate
3.Let There Be Dark
4.The Day of Wrath
5.Requiem in Igne
6.Prometheus Trial
7.Not on the Cross
8.Beyond the Dogmas
9.Pseudo Master
10.Gore by Horn
11.Crowded the End

Line-up
Cymer – Guitar, Vocals
Sloq – Guitar, Vocals
Daray – Drums
Lukas – Bass

SYMBOLICAL – Facebook

Blurr Thrower – Les avatars du vide

Come primo passo Les avatars du vide si rivela un qualcosa di solido e convincente per i Blurr Thrower, perché il solo fatto di mantenere alto il livello dell’attenzione dell’ascolatore con una formula non troppo usuale è di per sé un indicatore importante del valore di questo gruppo (o one man band che sia).

I Blurr Thrower sono una misteriosa entità parigina all’esordio con questi ep composto da due lunghissimi brani.
Il contenuto del lavoro si dimostra fin da subito tutt’altro che banale nel suo snodarsi in un black metal atmosferico ma decisamente inquieto e ben poco prevedibile, tra pulsioni post e ambient.

Non stupisce del resto il fatto che la band in questione sia transalpina, considerata la costante obliquità dell’approccio al genere da quelle parti: nel caso in questione, però, talvolta i Blurr Thrower paiono trarre linfa anche dalla scuola nordamericana in quota cascadiana.
Tutto questo rende Par-Delà les Aubes e Silences due episodi che, nonostante la considerevole lunghezza (diciotto minuti di media), scorrono in maniera mirabilmente fluida nonostante nulla venga fatto per rendere il sound più ammiccante.
Les avatars du vide è un’opera che mantiene un fondo malinconico, in quanto non tocca gli apici di disperazione del depressive e nemmeno si concede a melodie di agevole fruizione: chi ha composto questo disco ha saputo dosare molto bene le varie componenti, ora amalgamandole ora alternandole creando soprattutto nei momenti più rarefatti la giusta tensione prima di esplodere in prorompenti cavalcate.
I due brani differiscono di poco ma quanto basta per fornire loro una forma più delineata, con Par-Delà les Aubes più complessa e tormentata e Silences invece strutturata in maniera più nervosa e a suo modo aggressiva al netto dei deu minuti e mezzo d break centrale.
Come primo passo Les avatars du vide si rivela un qualcosa di solido e convincente per i Blurr Thrower, perché il solo fatto di mantenere alto il livello dell’attenzione dell’ascolatore con una formula non troppo usuale è di per sé un indicatore importante del valore di questo gruppo (o one man band che sia), il cui nome è bene che venga tenuto in debita considerazione in prospettiva futura.

Tracklist:
1. Par-Delà les Aubes
2. Silences

Vistery – Death Is Dead

Il gruppo estremo proveniente da Minsk è autore di un death metal old school, con sua maestà il riff sempre in primo piano su brani che non accelerano mai al massimo ma si sviluppano preferibilmente su potentissimi mid tempo.

Partiti come solo project del chitarrista e cantante Alexey Kizillo, i Vistery nell’arco di tre lavori si sono trasformati in una band a tutti gli effetti, ed ora come quintetto arrivano al terzo lavoro sulla lunga distanza intitolato Death Is Dead.

Il gruppo estremo proveniente da Minsk è autore di un death metal old school, con sua maestà il riff sempre in primo piano su brani che non accelerano mai al massimo ma si sviluppano preferibilmente su potentissimi mid tempo.
Un death metal ordinario e senza grossi picchi, ma che si lascia ascoltare grazie ad un buon impatto e a un lavoro chitarristico sufficiente per non deludere gli appassionati della vecchia scuola.
Il difetto che più salta alle orecchie è la mancanza di una scintilla che faccia di queste tracce qualcosa in più del solito aggressivo attacco frontale, massiccio e pesante quanto si vuole ma alla lunga esattamente uguale ad altre centinai di realtà che si muovono nell’underground estremo.
Death Is Dead è quindi un lavoro che non porterà grosse novità in casa Vistery, band che continua comunque a suonare dignitoso death metal old school rivolto ai fans devoti al genere.

Tracklist
1.Winds of Devastation
2.Tormentor
3.Rotting Earth
4.Picnic Party
5.Omniphobic
6.Swamp
7.Die from Within
8.Black Magic
9.Mortal Fear
10.Butchery
11.Death Is Dead

Line-up
Alexander “Soulless” – Bass
Aleksey “Wicked” – Guitars
Ivan “Paranoid” – Vocals
Sergiy “Def” – Drums

VISTERY – Facebook

The Price – A Second Chance To Rise

Il disco contiene ottima musica, il suo ascolto rasserena e carica, c’è maturità, ed una certa consapevolezza che nasce dalla sicurezza nei propri mezzi, e un’immensa passione che sfocia nella voglia di fare qualcosa che alberghi bene nelle nostre orecchie.

Marco Barusso da Calice Ligure, è una personalità musicale dalle molte sfaccettature: produttore, arrangiatore, chitarrista e ingegnere del suono, ha collaborato con nomi quali 883, HIM, Coldplay, Gli Atroci, Heavy Metal Kids e Cayne, solo per fare qualche nome.

The Price è il nome del suo nuovo progetto solista, all’esordio con A Second Chance To Rise. La copertina promette già bene, testimonianza di un contratto con qualcuno che puzza di zolfo e che ha pure lui collaborato con diversi musicisti e gruppi. Uno dei messaggi che vuole trasmettere Barusso è che non bisognerebbe prendere scorciatoie, ma essere sempre fedeli a se stessi, lavorando duro. E il duro lavoro, la grande passione e un talento tecnico fuori dal comune sono alcune fra le doti di Marco Barusso che confeziona un gran bel disco, con tante cose dentro, tanti ospiti di spicco ed un tiro micidiale. Come coordinate musicali si potrebbe dire che siamo dalle parti dell’hard rock proposto con estrema eleganza ma c’è molto di più. Punto di partenza è una produzione davvero puntuale e precisa, poi Barusso ci mette dentro tantissimo del suo: i riff della sua chitarra sono sempre caldi e scorrevoli, non eccede mai in inutili virtuosismi, ma si mette al servizio del contesto musicale. Troviamo anche tanto metal qui dentro, soprattutto nel senso di un epic heavy che si fonde molto bene con l’hard rock suonato in maniera eccellente. Un capitolo a parte lo meritano gli ospiti, la crema della scena rock e non solo italiana degli ultimi trent’anni: qui c’è un Enrico Ruggeri in gran forma che canta in inglese, e poi ci sono anche Luca Solbiati (Zeropositivo), Roberto Tiranti (Labyrinth, Wonderworld), Max Zanotti (Casablanca), Alessandro Ranzani (Movida), Axel Capurro (Anewrage), Alessio Corrado (Jellygoat), Enrico “Erk” Scutti (Figure of Six), Alessandro Del Vecchio (Hardline), Marco Sivo (Instant Karma), Fabio “Phobos Storm” Ficarella (The Strigas) e Tiziano Spigno (Extrema). Ospiti importanti, ma soprattutto musicisti che come Barusso preferiscono l’olio di gomito e la sala prove ai social o alle esternazioni ad minchiam. Il disco contiene ottima musica, il suo ascolto rasserena e carica, c’è maturità ed una certa consapevolezza che nasce dalla sicurezza nei propri mezzi, e da un’immensa passione che sfocia nella voglia di fare qualcosa che alberghi bene nelle nostre orecchie. Tutti dovrebbero avere una seconda possibilità, ma a Barusso ne basterà una sola per conquistarvi.

Tracklist
1 Tears Roll Down (Feat. Luca Solbiati)
2 A mg of Stone (Feat. Alessandro Ranzani)
3 My Escape (Feat. Axel Capurro)
4 Enemy (Feat. Alessio Corrado)
5 Take Back our Life (Feat. Enrico “Erk” Scutti)
6 Free from Yesterday (Feat. Roberto Tiranti)
7 Lilith (Feat. Tiziano Spigno)
8 Stormy Weather (Feat. Max Zanotti)
9 On the Edge of Madness (Feat. Enrico Ruggeri)
10 E.C.P. (Electric Compulsive Possession)
11 Under My Skin (Feat. Alessandro Del Vecchio & Marco Sivo)
12 Strange World (Feat. Fabio “Phobos Storm” Ficarella)

Line-up
Marco Barusso – Lead Guitar and Voice

THE PRICE – Facebook

One Step Beyond – In The Shadow Of The Beast

In the Shadow of the Beast è composto da nove brani uno diverso dall’altro, ma clamorosamente perfetti nel seguire il discorso compositivo dell’opera, con picchi di musica metal sopra le righe, attraversati da un’insana voglia di abbattere barriere e confini con la forza di un songwriting ispirato.

La Wormholedeath licenzia il quarto album di questa incredibile band australiana chiamata One Step Beyond, una camaleontica creatura musicale che sotto la veste di band death metal sperimentale nasconde una predisposizione nel confondere l’ascoltatore, amalgamando in un unico sound una marea di generi presi dall’immenso oceano della scena metal.

Attivo da più di vent’anni il gruppo, oggi composto da “Mad” Matt Spencer (Basso, Voce e programmazioni) e Justin Wood (voce), dà alla luce un pazzesco lavoro in cui death, grind, melodic death metal, doom, power e thrash si mischiano in un orgiastico sound che strappa applausi ad ogni passaggio, tra anime maligne e progressive in una quarantina di minuti nel corso dei quali stupire e non lasciare punti di riferimento è la parola d’ordine.
In the Shadow of the Beast è composto da nove brani uno diverso dall’altro, ma clamorosamente perfetti nel seguire il discorso compositivo dell’opera, con picchi di musica metal sopra le righe, attraversati da un’insana voglia di abbattere barriere e confini con la forza di un songwriting ispirato.
Si passa dunque dal death metal della title track, al brutal/grind della successiva The Streetcleaner, dal mid tempo power della melodica Enlightenment, dal doom evocativo della superba The Sentinel, al death melodico di Atombender.
Pitch Black Within è un brano thrash/black dall’anima progressiva, mentre la conclusiva Isolde torna su sentieri epico/melodici di stampo death.
Ne sentirete delle belle all’ombra di questa bestia, perché è difficile pure trovare delle similitudini con altre realtà visto che il duo si ispira a molte band senza assomigliare in particolare a qualcuna, risultando una bella sorpresa da non perdere se si è amanti del metal estremo a 360°.

Tracklist
1. In The Shadow of the Beast
2. The Streetcleaner
3. Enlightenment
4. Shadow Warriors
5. The Sentinel
6. Atombender
7. Pitch Black Within
8. Another World
9. Isolde

Line-up
“Mad” Matt Spencer – Bass/Vocals and Drum Programming
Justin Wood – Vocals

ONE STEP BEYOND – Facebook

Helevorn – Aamamata

Non era facile riuscire a fare un ulteriore passo avanti rispetto ad un disco già splendido come Compassion Forlorn, ma gli Helevorn si sono letteralmente superati pubblicando un’opera con la quale si dovrà confrontare da oggi in poi chiunque voglia cimentarsi con il gothic doom.

Gli Helevorn appartengono a quella categoria di band che tipicamente, in ambito doom, si prendono tutto il tempo necessario tra un disco e l’altro decidendo di proporre nuovo materiale solo quando hanno realmente qualcosa da dire.

E da dire c’è davvero molto in questi tempi, specialmente per chi non accetta di restare indifferente di fronte alle tragedie umane che la maggior parte di noi preferirebbe nascondere sotto al tappeto, facendo finta di niente per non essere costretto a fare i conti con la propria coscienza.
Gli Helevorn, essendo maiorchini, come tutti gli isolani hanno un rapporto speciale  con quel Mare Nostrum che negli ultimi anni si e trasformato nell’estrema dimora di migliaia di esseri umani, costretti a rischiose e spesso fatali traversate per sfuggire alle guerre o semplicemente alla povertà,  e spinti virtualmente sott’acqua da una politica volta solo ad ottenere facile consenso da parte di popoli colpevoli, a loro volta, di una ributtante ignavia.
L’aver dedicato un intero album al dramma dei migranti, in un momento in cui chi solleva il problema viene visto quasi sospetto, fa onore alla sensibilità di una band che d’altra parte anche in passato non ha mai rinunciato a prendere posizioni ben definite in ambito sociale o politico.
A livello musicale quella degli Helevorn è stata una crescita lenta ma costante e se già Compassion Forlorn aveva sancito l’ingresso del gruppo iberico tra i  nomi di punta della scena gothic death doom europea, Aamamata rafforza questa posizione con il valore aggiunto, come detto, di contenuti lirici importanti.
Per capire appieno la potenziale levatura dell’album basta godersi la visione di un’opera che unisce magistralmente musica, filmati e grafica come è il video di Blackened Waves, brano commovente per intensità e drammatica evocatività: Josep Brunet riesce a lacerare l’anima dell’ascoltatore utilizzando praticamente la sola voce pulita, in virtù di una profondità interpretativa che non lascia dubbi alcuni sulla sincerità del suo sentire, e il growl che affiora solo nell’ultimissima parte del brano è strettamente funzionale a rimarcare con forza il dolore, la rabbia e l’impotenza di chi vuole avere ancora occhi per vedere.
Il valore dell’intero lavoro emerge poi con prepotenza ascolto dopo ascolto, facendo sì che ad ogni passaggio un brano sempre diverso si manifesti di volta in volta in tutto il suo splendore: così, se il singolo appena citato appare difficilmente superabile, successivamente la stessa impressione verrà fornita dalle ritmiche coinvolgenti e dalle aperture melodiche di A Sail to Sanity e Forgotten Fields, dalla paradiselostiana Once upon a War o dalla superba Aurora, il cui incedere nel finale riporta inevitabilmente alla più grande metal band iberica (in questo caso lusitana) di sempre.
E ancora la struggente Goodbye Hope, dall’enorme potenziale evocativo tra passaggi più soffusi e sussulti drammatici, appare quale picco qualitativo insuperabile, ma successivamente lo stesso può valere per la cangiante The Path to Puya, che dal doom più cupo passa senza alcun contraccolpo alla cristallina voce di Heike Langhans (Draconian), per arrivare al dolente e controllato finale dell’album affidato a La Sibil·la, canzone dal testo interamente in catalano.
Una citazione a parte la merita Nostrum Mare, traccia che è di fatto il manifesto lirico dell’album, con la quale gli Helevorn hanno voluto coinvolgere idealmente gran parte delle le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo affidando parti del testo a voci recitanti nelle diverse lingue (è una grande soddisfazione scoprire che per quella italiana sia stato scelto un caro amico come Pablo Ferrarese dei Tenebrae); “Et deixo un pont d’esperança i el far antic del nostre demà perquè servis el nord en el teu navegar / Et deixo l’aigua i la set, el somni encès i el record / Et deixo un pont de mar blava / El blau del nostre silenci d’on sempre neix la cançó”: ecco, chi avesse voglia di tradursi questi versi avrà ben chiaro quale sia lo spessore dell’intero lavoro anche sul piano strettamente poetico.
La produzione affidata ad un fuoriclasse come Jens Bogren rende Aamamata inattaccabile anche dal punto di vista della resa sonora e il resto lo fa la band, capace di tessere melodie assimilabili rapidamente ma destinate a fissarsi per sempre nella memoria, sulle quali poi si staglia la prestazione vocale di un Josep Brunet che, oggi, nella speciale classifica combinata tra clean vocals e growl, si può considerare a buon diritto uno dei migliori cantanti in circolazione.
Non era facile riuscire a fare un ulteriore passo avanti rispetto ad un disco già splendido come Compassion Forlorn, ma gli Helevorn si sono letteralmente superati pubblicando un’opera con la quale si dovrà confrontare da oggi in poi chiunque voglia cimentarsi con il gothic doom.; senza dimenticare, infine, che per le sue caratteristiche Aamamata potrebbe risultare gradito non solo ai doomsters più incalliti aprendo agli Helevorn la possibilità di raggiungere un’audience più vasta, visto che, pur inducendo con costanza alla commozione, il sound non mostra quasi mai le caratteristiche più opprimenti e depressive del genere lasciando spazio solo ad una malinconia che, come un indolente moto ondoso, si infrange sulla nostra anima erodendola poco alla volta.

May the waves remind us of our shame and misery, forever

Tracklist:
1. A Sail to Sanity
2. Goodbye, Hope
3. Blackened Waves
4. Aurora
5. Forgotten Fields
6. Nostrum Mare (Et deixo un pont de mar blava)
7. Once upon a War
8. The Path to Puya
9. La Sibil·la

Line-up:
Josep Brunet – Voices
Samuel Morales – Guitars
Guillem Morey – Bass
Sandro Vizcaino – Guitars
Enrique Sierra – Keys
Xavi Gil – Drums

HELEVORN – Facebook

Burning Witches – Hexenhammer

Hexenhammer risulta così un album perfetto per i fans del genere, una raccolta di brani che poggia su riff, solos taglienti, mid tempo potentissimi ed un tocco magico di thrash teutonico che potenzia ancora di più l’impatto di brani scritti per esaltare i seguaci che, da sotto il palco, assisteranno al rito stregonesco consumato dalle Burning Witches.

La Nuclear Blast non si è fatta sfuggire quella macchina da guerra metallica chiamata Burning Witches e così Hexenhammer, secondo album delle streghe svizzere, esce con in bella mostra il logo della label metal più importante del pianeta, un traguardo preventivato da molti, dopo l’uscita del debutto omonimo dello scorso anno.

Le cinque vestali del metal più classico non tradiscono gli amanti del genere licenziando un lavoro dinamitardo, potente e in grado di far luccicare gli occhi agli adepti del sound ottantiano, ultimamente rinvigorito dal buon lavoro fatto dai Judas Priest.
E proprio dalla band di Rob Halford si parte per parlare di questo concept sul Malleus Maleficarum, testo sulla repressione della stregoneria scritto nel 1487, qui contrastato a colpi di heavy metal classico.
Judas Priest, Accept, Doro, tra lo spartito di questo lavoro troverete di che crogiolarvi con queste band che rappresentano le influenze primarie di queste cinque ragazze.
Hexenhammer risulta così un album perfetto per i fans del genere, una raccolta di brani che poggia su riff, solos taglienti, mid tempo potentissimi ed un tocco magico di thrash teutonico che potenzia ancora di più l’impatto di brani scritti per esaltare i seguaci che, da sotto il palco, assisteranno al rito stregonesco consumato dalle Burning Witches.
L’album parte spedito con Executed e Lords Of War, brani che presentano nel migliore dei modi quello che andrete ad ascoltare: un heavy metal con tutte le caratteristiche ed i cliché del caso, niente che non sia perfettamente incastonato nel genere risultando un gioiellino per chi si nutre di queste sonorità.
Ancora Maiden Of Steel, la title track e Possession ribadiscono l’ottima vena di questo lavoro che lascia alla leggendaria cover di Holy Diver il compito di salutarci, prima che le fiamme avvolgano la catasta di legna su cui brucia, maledicendo gli astanti, l’ennesima vittima dell’ottusa e crudele inquisizione.

Tracklist
1. The Witch Circle
2. Executed
3. Lords Of War
4. Open Your Mind
5. Don’t Cry My Tears
6. Maiden Of Steel
7. Dungeon Of Infamy
8. Dead Ender
9. Hexenhammer
10. Possession
11. Maneater
12. Holy Diver

Line-up
Seraina – Vocals
Romana – Guitar
Sonia – Guitar
Jay – Bass
Lala – Drums

BURNING WITCHES – Facebook

The Order Of Apollyon – Moriah

Se la base di partenza possono essere i Behemoth dello scorso decennio, il tutto viene pervaso da quell’idea obliqua di metal estremo che è caratteristica delle band francesi: quello che ne scaturisce è un album di grande spessore, forse non particolarmente originale, ma trascinante dalla prima all’ultima nota.

Moriah è il terzo full length per i The Order Of Apollyon, band nata alla fine dello scorso decennio con una configurazione transnazionale ma, oggi, al 100% composta da musicisti francesi guidati dal fondatore BST (Sébastien Tuvi), conosciuto per la sua passata militanza negli Aosoth e quella attuale nei notevoli VI.

Assieme a musicisti gravitanti nell’area di band già abbastanza note nella scena estrema transalpina, come Temple Of Baal, Merrimack e Decline Of The I, BST mette in campo un’interpretazione impeccabile del black death, riuscendo a conferire ad Ogni brano una sua fisionomia melodica pure senza far mai scemare la potenza di fuoco del sound.
Se la base di partenza possono essere i Behemoth dello scorso decennio, il tutto viene pervaso da quell’idea obliqua di metal estremo che è caratteristica delle band francesi: quello che ne scaturisce è un album di grande spessore, forse non particolarmente originale, ma trascinante dalla prima all’ultima nota, in virtù di una fruibilità che sembrerebbe a prima vista cozzare con la ferocia esibita e con l’incessante ringhio del leader.
Moriah trova pace solo a tratti, quando qualche attimo di tregua fa capolino nell’incipit di The Lies Of Moriah e Soldat, ma per la sua totalità i The Order Of Apollyon infliggono all’ascoltatore una gragnuola di colpi mortali che sfiorano il death più tetragono in Rites Of The Immolator, per poi aprirsi alla maggiore penetrazione di un brano magnifico come Grey Father, seguito dall’altrettanto efficace The Cradle, melodicamente irresistibile nella sua seconda parte, e da una The Original Cries Of Jerusalem che richiama i Rotting Christ più corrosivi.
Quello che si perde in varietà stilistica viene riacquistato con gli interessi grazie alla veemenza immessa sul piatto da un gruppo capace di manipolare con naturalezza ed efficacia sonorità che, altrimenti, avrebbero rischiato di trasformarsi un invalicabile muro di riff.
Moriah non ci consegna una band capace di riscrivere la storia del genere ma certo è che l’ascolto di album cosi ben costruiti ed eseguiti non deve mai apparire un qualcosa di scontato e, a tutto questo, va aggiunta una buona capacità di sintesi che spinge il quartetto a perseguire uno stile molto più diretto rispetto a quanto fatto dai singoli musicisti all’interno di alcune delle loro altre band.
Una bella sferzata di ragionata violenza che assunta a intervalli regolari non può che migliorare l’umore.

Tracklist:
1. The Lies Of Moriah
2. Rites Of The Immolator
3. Grey Father
4. The Cradle
5. The Original Cries Of Jerusalem
6. Trident Of Flesh
7. Soldat
8. A Monument

Line-up:
B.S.T. – Vocals, Guitars
S.K. – Drums
S.R. – Guitars, Vocals
A.K. – Bass, Vocals

THE ORDER OF APOLLYON – Facebook

Gunfire – Gunfire

Gunfire, per i più giovani e per chi non si imbatté all’epoca nel quartetto marchigiano è una bomba heavy metal, di quelle che non si possono solo archiviare come reperto storico essendo la prova di come, in quegli anni e con tutte le difficoltà del caso, anche nel nostro paese si suonasse metal di prim’ordine.

La Jolly Roger conferma la sua assoluta importanza per i suoni classici battenti bandiera tricolore con l’uscita di questo nuovo formato dello storico ep omonimo dei Gunfire, metal band marchigiana fondata addirittura dal 1981.

L’ep in questione fu rilasciato dal gruppo nel 1984 dopo la pubblicazione di un demo avvenuta nello stesso anno, che la Jolly Roger aggiunge per intero in questa nuova veste con l’aggiunta del brano Fire Cult e la versione live di Thunder Of War.
Gunfire, per i più giovani e per chi non si imbatté all’epoca nel quartetto marchigiano è una bomba heavy metal, di quelle che non si possono solo archiviare come reperto storico essendo la prova di come, in quegli anni e con tutte le difficoltà del caso, anche nel nostro paese si suonasse metal di prim’ordine, ispirato ovviamente dalla New Wave Of British Heavy Metal e dagli inossidabili Judas Priest, ma con una potenza power tutta farina del sacco di un gruppo che dovette poi aspettare vent’anni prima di vedere pubblicato il suo primo full length (Thunder of War 2004).
Hard Steel, Thunder Of War, la title track e la priestiana Wings Of Death, alle quali vengono affiancate le versioni apparse sul primo demo e le altre dinamitarde canzoni, escono in tutta la loro potenza metallica facendo sanguinare altoparlanti e lacrimare occhi in una discesa senza freni fino alle origini dell’heavy metal tricolore.
La band ha pubblicato il bellissimo Age Of Supremacy nel 2014, è poi apparsa dal vivo alla FIM di Genova in forma smagliante con il solo cantante Roberto “Drake” Borrelli della formazione originale, per poi far perdere le proprie tracce fino alla pubblicazione di questa importante ristampa che si spera possa essere foriera di ulteriori novità.

Tracklist
1.Intro
2.Hard Steel (EP Version)
3.Thunder Of War (EP version)
4.Gunfire (EP Version)
5.Wings Of Death (EP Version)
6.Firecult
7.Gunfire (Demo Tape)
8.Thunder Of War (Demo Tape)
9.The Sea Be Your Grave (Demo Tape)
10.Hard Steel (Demo Tape)
11.Bloody Way (Demo Tape)
12.Winged Horses (Demo Tape)
13.Thunder Of War (Live 1984 – Cd Bonus)

Line-up
Lord Black Cat – Guitars
Robert Drake – Vocals
Maury Lyon – Bass
Rob Gothar – Drums

GUNFIRE – Facebook

Anno Mundi – Rock In A Danger Zone

Rock In A Danger Zone è un’opera davvero interessante, consigliata agli amanti dei suoni classici che qui troveranno un tributo ai di generi che hanno fatto la storia dell’hard & heavy, sapientemente lavorati da ottimi artisti delle sette note.

Gli Anno Mundi sono un gruppo di rockers capitolini fondato dal chitarrista Alessio Secondini Morelli, del quale abbiamo parlato non tropo tempo fa in occasione dell’uscita di Hyper-Urania, il suo lavoro solista licenziato nel 2017.

Ad accompagnare il chitarrista troviamo l’altro fondatore del gruppo, il batterista Gianluca Livi, il tastierista Mattia Liberati e il bassista Flavio Gonnellini (anche dei progsters Ingranaggi Della Valle) e il cantante Federico “Freddy Rising” Giuntoli, con un passato nei Martiria.
Rock In A Danger Zone, licenziato solo in vinile, risulta una raccolta di brani dal sound vario, nel corso della quale la band passa dall’hard rock classico a sfumature southern, da ispirazioni progressive al metal di stampo epico in un susseguirsi di sorprese e tributi all’hard & heavy del ventennio settanta/ottanta.
La perizia dei musicisti coinvolti fa sì che Rock In A Danger Zone non abbia una sola nota che non faccia sobbalzare sulla sedia gli amanti del classic rock e del metal, a partire già dalla prima bellissima traccia Blackfoot, tributo alla storica band americana che gli Anno Mundi ricamano di sfumature purpleiane.
Si cambia registro e la cavalcata in epico crescendo di Megas Alexandros farà la gioia di molti, con una prestazione di notevole impatto lirico di Giuntoli e ispirazioni che oscillano tra Rainbow e Manowar, passando per i Virgin Steele.
Chiude il primo lato la possente Searching The Faith, hard doom di notevole impatto, mentre un tributo al racconto lovecraftiano The Music of Erich Zann apre la seconda parte dell’album, che vede a seguire l’hard rock progressivo della magnifica Pending Trial, la cover di Fanfare, brano dei Kiss tratto dal controverso e poco compreso Music From The Elder, ed un medley di brani registrati dal vivo dagli Anno Mundi al RoMetal nel 2014.
Rock In A Danger Zone è un’opera davvero interessante, consigliata agli amanti dei suoni classici che qui troveranno un tributo ai di generi che hanno fatto la storia dell’hard & heavy, sapientemente lavorati da ottimi artisti delle sette note.

Tracklist
Side A
1.In the saloon
2.Blackfoot
3.Megas Alexandros
4.Dark Matter (Nibiru’s Orbit)
5.Searching The Faith

Side B
1.Tribute To Erich Zann
2.Pending Trial
3 – Fanfare
4.Live Medley
a) – Shining Darkness
b) – Dwarf Planet
c) – Timelord
d) – God Of The Sun

Line-up
Federico Giuntoli – vocals
Alessio Secondini Morelli – electric guitars, effects, bk vocals
Flavio Gonnellini – bass
Mattia Liberati – keyboards
Gianluca Livi – drums, percussions

Special guests:
Emiliano Laglia – bass (“Fanfare” and “Live Medley”)
Massimiliano Fabrizi – mandola (“In the Saloon”)

ANNO MUNDI – Facebook

Dewfall – Hermeticus

Hermeticus è un album riuscito ma che, al contempo, è propedeutico ad un ulteriore salto di qualità, specialmente se l’attività della band dovesse svilupparsi con maggiore frequenza e regolarità, considerato che la base di ripartenza è collocata già piuttosto in alto.

Dopo un silenzio piuttosto lungo tornano i baresi Dewfall con il loro black death davvero ricco di spunti di interesse e tutt’altro che appiattito sulle posizioni più confortevoli del genere.

La band pugliese offre un album che ha il grande pregio di non risentire troppo della sua lunghezza, in virtù di un sound cangiante senza scadere nella dispersività; a tale riguardo si rivela giustamente esemplificativo il brano d’apertura The Abomination Throne, nel corso del quale vengono esibite tutte le armi a disposizione, a partire da un approccio tecnico che concede il giusto spazio a passaggi solisti di grande pregio per finire con ampie aperture melodiche, anche con l’utilizzo di ottime clean vocals, passando per qualche dissonanza che riporta all’evoluzione del sound che ha coinvolto protagonisti iniziali della scena black come Ihsahn o gli Enslaved.
Se la successiva canzone Murex Hermetica conferma appieno le doti esibite nella precedente taccia, Monolithic Dome e Apud Portam Ferream sono decisamente validi episodi ma in qualche modo più canonici e meno penetranti, mentre The Eternal Flame of Athanor gode di un magnifico lavoro chitarristico che fa veleggiare il brano verso un coinvolgente finale intriso di robusta epicità.
Moondagger, The Course to Malkuth e Apostasy of Hopes mantengono il lavoro su livelli analoghi, anche grazie agli spunti della chitarra solista che intervengono a spezzare trame che, in questi ultimi brani, perdono un pizzico di incisività e se proprio si vuole fare un appunto ai Dewfall è proprio quello d’aver proposto una scaletta che vede i suoi picchi nella parte iniziale, anche se non si può certo dire che le tracce conclusive non siano l’altezza della situazione.
Del resto mantenere elevata la tensione per oltre cinquanta minuti non è banale, ma la cosa ai Dewfall riesce con buona continuità, anche perché i musicisti coinvolti si rendono protagonisti di una prova notevole, con menzione d’obbligo per il lavoro di Flavio Paterno alla chitarra, capace di ricavare importanti sbocchi melodici ad un sound spesso molto abrasivo con splendide fiammate soliste.
Hermeticus è un album riuscito ma che, al contempo, è propedeutico ad un ulteriore salto di qualità, specialmente se l’attività della band dovesse svilupparsi con maggiore frequenza e regolarità, considerato che la base di ripartenza è collocata già piuttosto in alto.

Tracklist:
1. The Abomination Throne
2. Murex Hermetica
3. Monolithic Dome
4. Apud Portam Ferream
5. The Eternal Flame of Athanor
6. Moondagger
7. The Course to Malkuth
8. Apostasy of Hopes

Line-up:
Flavio Paterno – Guitars (2003-present)
Saverio Fiore – Bass (2011-present)
Vittorio Bilanzuolo – Vocals (2011-present)
Antonio “Eversor” Lacoppola – Drums (2016-present)

DEWFALL – Facebook

Sönambula – Bicéfalo

Bicéfalo è un album che, fin dalla prima nota, si rivela grezzo, asciutto, basato su un riffing sempre incisivo e da un supporto ritmico ben in evidenza: l’andamento mediamente sostenuto viene interrotto da bruschi rallentamenti, così come da ottime sortite metodiche delineate dalla chitarra solista.

Il death doom nella sua forma più asciutta ed essenziale proposto ai giorni nostri è un qualcosa che ha il pregio di lasciarsi ascoltare con piacere ma, al contempo, ha il difetto di risultare ben difficilmente un qualcosa capace di lasciare un segno indelebile.

Tali considerazioni valgono anche per questo secondo full length dei baschi Sönambula, band guidata dall’esperto chitarrista e vocalist Rapha Decline.
Bicéfalo è un album che, fin dalla prima nota, si rivela grezzo, asciutto, basato su un riffing sempre incisivo e da un supporto ritmico ben in evidenza: l’andamento mediamente sostenuto viene interrotto da bruschi rallentamenti, così come da ottime sortite metodiche delineate dalla chitarra solista.
In tali frangenti il musicista di Bilbao dimostra d’essere un buon interprete dello strumento e questo ci fa pensare che, forse, dando un maggiore sfogo a passaggi più ariosi il risultato complessivo avrebbe potuto risentirne positivamente.
I brani sono tutti abrasivi il giusto, il ringhio di Rapha non fa sconti e mentre si ascolta il disco si scapoccia il giusto ma arrivati al termine sorge spontanea una domanda: quante volte lo ascolterò ancora?
L’uniformità stilistica dei Sönambula è un punto di forza, per il suo essere coerente ai dettami del genere, e di debolezza per il fatto che dopo la prima canzone sarà ben chiaro che il canovaccio seguito resterà inevitabilmente quello.
Ciò che ne scaturisce è comunque un lavoro valido e che sicuramente troverà il dovuto apprezzamento da parte di chi predilige questo tipo di sonorità estreme.

Tracklist:
1. Mutación sintética
2. Héroe sangriento
3. Huesos
4. Nostromo
5. Detritus
6. Colección macabra
7. Bicéfalo

Line-up:
Rapha Decline – Guitar/Vocals
Errapel Kepa – Bass
Maider – Drums

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