Die Grubenmähre è un’opera che vale la pena ascoltare, risultando tutt’altro che uno spreco di tempo per per gli estimatori del black metal di matrice germanica.
Die Grubenmähre è il secondo full length dei tedeschi Dauþuz, dopo l’esordio del 2016 con In Finstrer Teufe.
Su lavori di questo tipo e provenienza si rischia essere ripetitivi, anche se ciò avviene comunque con connotazioni positive: l’album è l’ennesimo esempio di black metal tedesco con tutti i tasselli al proprio posto, derivanti dalla conoscenza del genere e da una buona capacità di scrittura culminante in una traccia magnifica come Kerker der Ewigkeit.
Ma è comunque tutto il disco che mantiene un livello medio oltremodo soddisfacente, tra cavalcate dai ritmi mai troppo spediti e dal sentore epico e solenne, e break acustici utili a conferire un pizzico di varietà; resta solo da rimarcare che dalle stesse lande provengono così tanti lavori di spessore uguale o superiore che rischiano di rendere inosservato un buon album come questo: colpa appunto di una concorrenza qualificata, sia in ambito tedesco sia nel resto del del pianeta, piuttosto che per demeriti dei bravi Aragonyth e Syderyth. Die Grubenmähreè comunque un’opera che vale la pena ascoltare, risultando tutt’altro che uno spreco di tempo per per gli estimatori del black metal di matrice germanica.
Tracklist:
1. Reminicere
2. Extero Metallum
3. Drachensee
4. Trinitatis
5. Kerker der Ewigkeit
6. Dem Berg entrissen
7. Crucis
8. Die Grubenmähre I: In die Schwärze
9. Die Grubenmähre II: Hoffnungstod
10. Luciae
Line-up:
Aragonyth S. – All instruments
Syderyth G. – Vocals, Lyrics, Guitars (acoustic)
La Godz Ov War licenzia questo split che vede impegnati due gruppi polacchi, Warfist ed Excidium, dediti ad un thrash metal old school pregno di attitudine black come da tradizione nelle terre dell’est europeo.
La Godz Ov War licenzia questo split che vede impegnati due gruppi polacchi, Warfist ed Excidium, dediti ad un thrash metal old school pregno di attitudine black come da tradizione nelle terre dell’est europeo.
I primi a presentarsi con il loro battagliero thrash metal vecchia scuola dal,l’anima blasfema sono gli Warfist, band proveniente da Zielona Gòra attiva dal 2004, con una serie interminabile di split all’attivo e due full length, The Devil Lives in Grünberg del 2014, e Metal To The Bone, uscito un paio di anni dopo.
Qui il genere viene restituito senza compromessi, rozzo ed ignorante, potenziato da una dedizione per l’estremo che porta il gruppo ad essere considerato una blackened metal band, anche se il sound di brani come The Tomb Of Desire o Sadistick Whorefuck si beano di tanto thrash metal old school di scuola tedesca.
Identico discorso per la seconda band in programma: gli Excidium da Rzeszów, quartetto di thrashers con il black metal nel motore: dal 2006 a devastare padiglioni auricolari con ep e split, la band non ha ancora licenziato un solo full length, e il loro approccio al metal estremo risulta più classico dei colleghi, con sfuriate thrash che si valorizzano tramite solos di stampo classico in un contesto che rimane corrosivo in tutto il suo svolgimento.
L’approccio tradizionalmente metal e melodico fa risultare gli Excidium più accattivanti degli Warfist, anche se la partita virtuale tra il due gruppi finisce a reti inviolate.
L’ottima heavy metal song Veil Of Stagnation e la cover degli storici Impaled Nazarene, Karmageddon Warriors, alzano di molto il giudizio di uno split comunque interessante al fine di conoscere due realtà thrash black della scena polacca, nido di velenosissime vipere al servizio del maligno.
Tracklist
1.Warfist – The Tomb of Desire
2.Warfist – Debauchery (Dirty Little Bitch)
3.Warfist – Sadistic Whorefuck
4.Warfist – Angel Death (Dodheimsgard cover)
5.Excidium – Suicidal Perspectives
6.Excidium – Denial
7.Excidium – Veil of Stagnation
8.Excidium – Karmageddon Warriors (Impaled Nazarene cover)
Vargkult rafforza lo status raggiunto dagli Ulvegr con il precedente album, offrendo mezz’ora scarsa di rara efficacia per sintesi e maturità.
Gli Ulvegr sono un duo nato alla fine dello scorso decennio e giunto con Vargkult al quinto full length.
Era lecito, quindi, attendersi un prodotto di una certa qualità alla luce anche dell’esperienza maturata da Helg e Odalv, esponenti di primo piano della scena black metal ucraina, grazie al loro coinvolgimento con band come Elderblood, Kzohh, Khors, Grey Ablaze e anche Nokturnal Mortum: Vargkult non delude le attese offrendo mezz’ora scarsa di rara efficacia per sintesi e maturità, confermando quanto di buono offerto circa nove mesi fa con Titahion: Kaos Manifest.
Helg si occupa di tutti gli aspetti dell’album ad esclusione della batteria, lasciata al tentacolare Odalv: la coppia gode di un invidiabile affiatamento ed offre nel migliore dei modi un’interpretazione del genere lineare ma di grande intensità, nella quale le sfumature pagan si sentono ma restano in secondo piano, sopraffatte da un impatto brutale e a tratti ossessivo.
In effetti, gli Ulvegr in più di un passaggio sembrano offrire un black’n’roll incattivito all’ennesima potenza, con ritmiche forsennate che non lasciano spazio a pentimenti o fraintendimenti: questo è un black metal dal dna più scandinavo di quello che spesso proviene da quelle stesse lande.
I due srotolano la loro nera arte mettendosi pancia a terra senza più sollevare il piede dall’acceleratore, se non nei brevi spazi tra un brano e l’altro, con Death is Our Law che può essere considerato l’episodio emblematico dell’album, potendone apprezzare i furenti intarsi strumentali che, grazie ad una produzione ideale, non vengono fagocitati dal rombo di sottofondo della strumentazione che si muove all’unisono.
La chitarra, infatti, si coglie quando cerca di tessere linee portanti che non si possono certo definire melodiche, mentre lo screaming viene restituito in maniera equilibrata appoggiandosi ad un tappeto ritmico incessante nel suo minaccioso incedere.
La bravura degli Ulvegr risiede nella loro capacità di mostrare il black nella sua essenza più pura ed incontaminata, senza abbandonarsi a quelle scelte di produzione lo-fi che troppo spesso finiscono per avvilire album dal grande potenziale, cosa che per fortuna non avviene con questo notevole Vargkult.
Tracklist:
1. Rune Ice Frozen Hatred
2. The End is Near
3. Cold Graves Breathing Beast
4. Death is Our Law
5. Cutting off Your Throat
6. All the Sheep to the Slaughter
7. We Remember the Blood
Quest’album dei Grafjamemer ha tutto per mettere d’accordo ascoltatori dai gusti più disparati, perché di certo qui non ci si annoia, essendo costretti a fare headbanging dal primo all’ultimo minuto, senza pause di sorta.
Il bello del black metal è che, in fondo, dietro all’etichetta affibbiata a ogni band che vi si avvicini, coesistono mondi e modi diversi, se non diametralmente opposti, di intendere ed interpretare la materia.
Così si possono apprezzare ugualmente, sotto una stessa egida, le audaci sperimentazioni della scena francese, il malinconico e solenne incedere delle band tedesche, le sfumature cascadiane provenienti dal Nordamerica e la fedeltà ai dettami originari di gran parte dei gruppi scandinavi.
In mezzo a tutte queste variabili troviamo anche il cosiddetto black’n’roll, quello che viaggia con più immediatezza andando a colpire l’obiettivo senza troppi preamboli, innestando nella matrice del genere una buona dose di irriverente e strafottente crust punk.
Proprio da questa sponda stilistica arrivano gli olandesi Grafjammer, i quali, con questo loro secondo full length spostano ulteriormente la barra verso un qualcosa che sembra innegabilmente più fruibile ed innocuo ma che, in realtà, è il peggiore dei veleni visto che il suo effetto devastante si manifesta solo molto tempo dopo averne ingerito inconsapevolmente grandi quantità. Het rottende schompes è la traccia posta in apertura che fotografa al meglio le foschi intenzioni di questi cinque figuri che compongono una band nella quale. misteriosamente, ogni componente deve possedere un nickname che inizia per J, e già solo per questo non è difficile intuire (capire è un’altra cosa visto che i testi sono il lingua madre) che questi esperti musicisti di Utrecht rimaneggiano la materia in maniera dissacrante astenendosi da derive filosofiche od esistenziali, badando solo a scuotere con veemenza le coscienze più assopite.
Quel che ne esce è un album come Schalm & Schabauw, una qualcosa che fa veleggiare la fantasia spingendo a pensare a quello che avrebbero fatto i Motorherad se avessero deciso di suonare un giorno black metal: diretto, pesante, scatenato, ma tutto sommato con sonorità sempre sotto controllo ed aiutate da una produzione ideale per il tipo di offerta, quest’album dei Grafjamemer ha tutto per mettere d’accordo ascoltatori dai gusti più disparati, perché di certo qui non ci si annoia, essendo costretti a fare headbanging (o battere furiosamente il piede se si è più cagionevoli cervicalmente) dal primo all’ultimo minuto, senza pause di sorta.
It’s only … black’n’ roll, si potrebbe dire parafrasando qualcuno, ma a noi piace non poco.
Tracklist:
1. Het rottende schompes
2. Drijvende doodskist
3. De dode molen van buiten Catharijne
4. Duistering
5. Gallemiezen
6. Haatgemaal
7. Hijs het lijk
8. Nagels over het krijtbord van de ziel
9. Nedernekro
10. Uitgedraaide poten van vertrouwen
11. Moord & doodslag & jenever
Privo di punti deboli evidenti, Netherstorm dimostra quanto ci sia ancora da dire in ambito symphonic black metal senza per forza scadere in soluzioni plastificate o eccessivamente ammiccanti.
Arriva dalla Finlandia questo nuovo progetto solista incentrato sul symphonic black metal.
Tutto sommato la combinazione non è così consueta, visto che di norma tale opzione stilistica è tipica della vicina Scandinavia, se non delle lande nordamericane; in effetti il sound dei Vargrav prende in eguale misura questi spunti per rielaborarli in una forma convincente per esecuzione, suoni e scrittura.
Guardando alle sponde del Mare del Nord sarebbe fuorviante pensare ai Dimmu Borgir, meglio allora fare riferimento ad una band dai suoni meno ridondanti come lo furono i Limbonic Art, il tutto però ammantato da un’atmosfera che se non si può definire a titolo assoluto cascadiana ci va spesso molto vicino.
V-KhaoZ punta molto più sulla creazione di scenari solenni sui quali piazzare un buon screming e una ritmica martellante a fornire l’opportuno supporto: l’esempio meglio riuscito di quanto descritto è la bellissima Ethereal Visions of a Monumental Cataclysm, ossessiva e avvolgente quanto basta per far capre che Nethermost è un album che chi ha amato tutto il black metal disceso da In the Nightside Eclipse in poi non può ignorare (a proposito, nella versione in vinile troviamo come bonus track Ancient Queen, uno dei primi brani incisio dagli Emperor).
Privo di punti deboli evidenti, quest’album dimostra quanto ci sia ancora da dire in questo segmento del genere senza per forza scadere in soluzioni plastificate o eccessivamente ammiccanti.
Tracklist:
1. Netherstorm
2. Shadowed Secrets Unmasked
3. Limbo of Abysmal Void
4. Ethereal Visions of a Monumental Cataclysm
5. Obidient Intolerant Ensnared
6. In Divine Embrace of the Dying Light
Il black offerto in quest’occasione è di chiara impronta nordica, atmosferico, gelido e solenne come si faceva molto bene nel secolo scorso senza stravolgere i dettami di base del genere.
Ancora dalla fertile terra ucraina giunge a noi l’ennesima one man band consacrata al black metal, denominata Bergrizen.
Il titolare di questo progetto è Myrd’raal Bergrizen, il quale ha già pubblicato con questo monicker diversi lavori tra i quali Der Unsterbliche Geist è il quinto full length .
Il black offerto in quest’occasione è di chiara impronta nordica, atmosferico, gelido e solenne come si faceva molto bene nel secolo scorso senza stravolgere i dettami di base del genere, anche se a livello di discontinuità non si può fare a meno di notare la stranezza di una proposta lirica in lingua madre a fronte di un’imtera titolazione in tedesco.
Uno screaming stridulo in stile dsbm non penalizza un lavoro vario e concreto, dai ritmi mai eccessivamente incalzanti e con un’apprezzabile propensione melodica, per quanto misurata: alla fine Der Unsterbliche Geist si rivela un lavoro senz’altro interessante, ricco di dissonanze che si alternano a passaggi più riflessivi e ad altri dalla buona intensità emotiva, come efficacemente esemplificato dalla bella title track.
Peraltro Myrd’raal si fa apprezzare anche per il tentativo di sfuggire alla ripetitività (che non sempre è un male, peraltro) dimostrando bune competenze anche in campo ambient, apprezzabili nella conclusiva Tel’aran’rhiod.
Appartenente all’affollato novero delle opere di buona fattura che continuano con puntualità ad essere offerte in ambito black metal, questa quinta fatica dei Bergrizen manca forse solo di quella scintilla capace di catturare in maniera definitiva l’attenzione dell’ascoltatore, rimanendo appannaggio dei fruitori abituali del genere i quali, peraltro, non credo possano avere da obiettare sulla bontà dell’opera.
Tracklist:
1. Das alte Herzeleid (Prolog)
2. Der unsterbliche Geist
3. Lied der Rache
4. Ankunft der Winterdämmerung II
5. Entsagen
6. Tel’aran’rhiod
Line-up:
Myrd’raal Bergrizen – Vocals & Poetry, Keyboards on Tel’aran’rhiod
Torna l’assai controverso Satanic Warmaster con una compilation che raggruppa la maggior parte delle sue tracce finite nei moltissimi split e collaborazioni in giro per il mondo a cui il finlandese ha contribuito.
Torna l’assai controverso Werwolf con una compilation che raggruppa la maggior parte delle tracce finite a nome Satanic Warmaster nei moltissimi split e collaborazioni in giro per il mondo a cui il finlandese ha contribuito.
Certamente il nostro politicamente è meglio lasciarlo perdere, come tanti nella scena black metal, ma è innegabile la sua importanza per il black metal underground, anche grazie alla sua indubbia bravura. Inoltre Satanic Warmaster è un pietra miliare nell’estremismo musicale, e ascoltarlo è sempre una nera gioia per chi ama il black metal meno compromesso. Ascoltando questa raccolta si possono cogliere benissimo le grandi diversità che contraddistinguono questo progetto musicale. Satanic Warmaster fa un black metal che non si pone paletti o preconcetti, la sua peculiarità è rimanere marcio e cattivo, veloce ed incisivo, sia per sconvolgere l’ascoltatore, sia per portare chi ama queste sonorità dentro ad un vortice sempre più nero. Questa compilation si rivolge soprattutto a chi segue da anni la parabola musicale della one man band finlandese, poiché qui ci sono vere e proprie chicche. Forse chi non lo conosce ancora dovrebbe prima rivolgersi ai dischi canonici, perché sono maggiormente omogenei, se si può parlare di omogeneità in questo caso. Il disco è composto da tanti neri gradini sporchi e scivolosi che discendono verso un qualcosa di terribile che sta sia sotto che dentro di noi, e che questa musica sviscera in maniera sincera e senza paratie, perché l’uomo è una bestia e Satanic Warmaster lo sa molto bene. Un tesoro nascosto del black metal underground disponibile per chi, giustamente, fa fatica a seguire le molteplici uscite di questo signore.
Tracklist
1.Satan’s Race
2.Hold on to Your Dreams
3.March of the Legion Werwolf
4.Six Million Tears
5.Taistelukenttien Kärsimykset
6.A Hymn for the Black Empire
7.The Chant of the Barbarian Wolves
8.Intro
9.Nameless Sacrifice
10.Dead Light of a Lost Star
11.Massacre
12.Where Eternity Awaits
13.The Burning Eyes of the Werewolf
14.The Majesty of Wampyric Blood
15.Lords and Tyrants
16.Black Metal Death
Line-up
Werwolf – All instruments, Vocals (1998-present)
Band norvegese notevolissima con forte personalità: doom, noise e black miscelati ad arte per un risultato originale e per nulla scontato.
Giusto ricordare, prima di essere inondati dalle nuove uscite del 2018, il disco d’esordio dei Gribberiket, strana creatura norvegese che nel 2013 aveva fatto uscire il demo in cassetta Knefall, ristampato poi su cd dalla Dead Seed che ora si occupa di commercializzare Sluket, il loro vero esordio, uscito sul finire del 2017.
Si tratta di un quartetto norvegese dotato di forte personalità, che li ha portati a elaborare un suono assolutamente fuori di testa, dove sono miscelati in modo urticante e malsano doom sghembo e noise, il tutto cosparso di inquietante black con rumori ed effetti a rendere il suono sinistro e intossicante; tre lunghi brani, con il corollario di due corti intermezzi, incendieranno il vostro cervello con un suono lento, distorto, fangoso, senza creare muri di suono ma lacerando lentamente i vostri sensi atterriti di fronte a tanta insanità. Le chitarre non hanno fretta, inanellano lenti riff inabissandosi in abissi di rumori e intanto il brano cresce in modo inquietante e la voce (?) strazia, squarcia, urla in norvegese terrificando l’atmosfera; la ritmica segue strade impervie creando rituali dove la tensione mozza il fiato. I sedici minuti abbondanti della final track, sublimano al meglio quanto detto, il brano è un vero e proprio “piece de resistence”, avanza inesorabile e interminabile, si alimenta delle urla che descrivono traiettorie desolanti e respingenti mentre le chitarre si inseguono e si intrecciano lente ed esasperate. Difficile descrivere a parole l’arte molto personale esibita dalla band, ma il tutto funziona bene; già il demo aveva fatto intravedere che il loro suono era originale e non aveva classici punti di riferimento. Come sempre l’underground cela band assolutamente uniche, che coltivano la loro visione incuranti del mondo che scorre attorno a loro.
Tracklist
1. Sluket
2. Gjestebud
3. See, der blev en død udbaaren
4. Med sine lidelser
5. Nytelsen og oppløsningen
L’annichilimento sonoro chiamato V: The Inside Scriptures dura poco più di tre quarti d’ora di musica che non dà respiro, rovesciandoci addosso tutto il male dell’universo convenuto in cunicolo spazio-temporale che conduce alla Terra.
Ritrovo gli Aosoth dopo quattro anni abbondanti e devo ammettere che non mi sarei atteso l’ulteriore inasprimento di un sound che, già all’epoca, prevedeva ben poche concessioni melodico-atmosferiche.
Di solito il passare del tempo tende ad ammorbidire il sound di chiunque, senza che chi lo faccia possa essere stacciato di commercialità, termine che associato al metal estremo può strappare solo un amaro sorriso: si tratta di scelte che possono essere condivisibili o meno, e lo stesso vale se, in spregio ad ogni logica, ci si richiude dentro la propria torre d’avorio facendo dell’incomunicabilità il solo marchio.
A questo punto l’ascoltatore (che non si può definire certo medio, perché già l’avvicinarsi ad un lavoro degli Aosoth, cosi come di gran parte della scena black metal francese, presuppone una conoscenza della materia certo non superficiale) si trova di fronte ad un bivio con una strada che risulta già sbarrata dal rifiuto netto di queste sonorità e l’altra che, dopo pochi passi, si apre in un baratro la cui conseguente caduta preclude ogni possibilità di risalita.
Per chi decide di correre il rischio, l’ascolto di V: The Inside Scriptures può trasformarsi in’un esperienza che difficilmente non lascerà tracce: il riffing dissonante satura un sound sul quale cerca di stagliarsi lo screaming di MkM, non sempre facilmente percepibile dall’interno della bufera musicale creata dagli Aosoth.
Eppure, nonostante tutti gli indizi possano condurre ad un rigetto di questo lavoro, V: The Inside Scriptures ha l’effetto di un veleno paralizzante, peraltro di quelli della peggior specie perché, invece di darti sollievo con una fine relativamente rapida, ti costringe inerme a vedere ed ascoltare tutto ciò che accade senza poter reagire, per di più con la consapevolezza che non ci sarà un domani.
Ecco perché si riesce ad arrivare alla fine di questo album, rendendosi conto di essere stati a tratti inconsapevoli testimoni di un’esibizione di atrocità destinata ad andare in replica ancora per molto tempo, contro ogni previsione.
L’annichilimento sonoro chiamato V: The Inside Scriptures dura poco più di tre quarti d’ora di musica che non dà respiro, rovesciandoci addosso tutto il male dell’universo convenuto in cunicolo spazio-temporale che conduce alla Terra.
Questo è (anche) il black metal, nel caso qualcuno continui a pensare che si tratti di un genere divenuto inoffensivo: peccato solo per chi non capirà quest’album, ma non lo biasimo, perché ogni volta che l’ascolto anche la mia fede vacilla pericolosamente …
Tracklist:
1. A Heart To Judge
2. Her Feet Upon The Earth, Blooming The Fruits Of Blood
3. The Inside Scriptures
4. Premises Of A Miracle
5. Contaminating All Tongues
6. Silver Dagger And The Breathless Smile
Line-up:
MkM – vocals
Bst – guitars
INRVI – bass
Saroth – second guitar
T. – session drums
I Forgotten Woods, nonostante la lenta e numericamente esigua produzione nel corso della loro carriera, non hanno fatto mancare la loro vicinanza a tutti gli amanti del black e del depressive che si rispettino, questa volta con la ristampa del capolavoro The Curse of Mankind.
C’è sempre un sano e più che giustificato timore reverenziale quando si parla dei Forgotten Woods, leggende nel vasto e difficile campo del depressive black metal ma che hanno sempre avuto un’attitudine verso il black vero e proprio, finendo a congiungere magistralmente i due generi, che pure sono già l’uno parte dell’altro.
Cogliamo l’occasione del remaster del secondo dei loro tre album, lo storico The Curse of Mankind, datato 1996, per tornare a parlare della band norvegese, una delle poche ancora rimaste legate alla propria essenza originaria, e che non sente il bisogno di produrre una quantità smisurata di album per soddisfare la sete dei fan, che pure c’è ed è ovviamente legittima. D’altronde, i Forgotten Woods hanno battuto l’ultimo vero e proprio colpo con Race of Cain, nel 2007. Il tempo passa in fretta, si sa, ma non per The Curse of Mankind, che dopo quasi ventidue anni ha ancora una fortissima presa emotiva sui “seguaci” della band.
Proprio per questo, in questa ristampa ogni tratto distintivo a livello musicale è stato lasciato intatto, e gli accorgimenti approntati da Rune Vedda sono pochissimi. Ciò che contava era mandare un messaggio a chi avesse nostalgia dei tempi andati, anche se tutto sono fuorché tali, apparendoci quanto mai attuali.
Tracklist
1. Overmotets Pris
2. My Scars Hold Your Dreams
3. The Starlit Waters I, The Mountain
4. With Swans I’ll Share My Thirst
5. Den Ansiktslose
6. The Velvet Room
In Athanati, i Lloth antepongono a tutto un’emotività che si percepisce ad ogni nota, nonostante il dolore venga esplicitato tramite un sound robusto e spesso rabbioso, per quanto ammantato senza soluzione di continuità da un afflato melodico in grado di fare la differenza.
La storia dei Lloth è legata a stretto filo con quella delle Astarte, la band con la quale brillò fulgida la stella di Maria Tristessa Kolokouri prima che gli dei dell’Olimpo decidessero di richiamarla al loro cospetto.
Questo è infatti l’iniziale monicker che una delle prime band estreme interamente al femminile utilizzò prima di quello che la fece poi conoscere agli appassionati più attenti: non a caso i Lloth sarebbero dovuti rinascere parallelamente alle Astarte, se non fosse arrivata la malattia a interrompere bruscamente un progetto volto a sviluppare ulteriormente il black death melodico di tipica matrice mediterranea.
In ossequio alla memoria di Maria i riformati Lloth hanno pubblicato lo scorso anno questo Athanati (immortale, in greco) e, guidati dal marito della musicista Nicolas Sic Maiis, sono riusciti a dar vita a cinquanta minuti di musica magnifica, intensa ed emozionante, come spesso accade quando la vis compositiva si nutre delle avversità e del tentativo di elaborare i lutti per trasformare il dolore in una forma artistica dall’impatto dirompente.
Nel fare ammenda per l’aver ascoltato Athanati solo oggi, a sei mesi dalla sua uscita, non posso fare a meno di dire che un lavoro di tale spessore non ha avuto il risalto che avrebbe meritato; davvero strano, visto che il black death melodico costruito dai Lloth è quanto di più trascinante e coinvolgente sia stato dato ascoltare negli ultimi anni, grazie ad una formula che, partendo dalle basi poste da band come Moonspell e, ovviamente, Rotting Christ e Nightfall, ne incrementa la componente epica del sound innestandovi quel senso melodico che è marchio di fabbrica delle band dell’Europa meridionale.
Ma, come sempre, le parole rischiano essere riduttive per un lavoro che non molla mai la presa, baciato com’è da un songwriting eccellente e da un’esecuzione strumentale lineare quanto impeccabile, con il growl profondo di Nicolas Sic Maiis a condurre le danze, aiutato in alcune tracce da numi tutelari della scena metal ellenica come Efthimis Karadimas, in In the Name of Love (Sacrifice), e Sakis Tolis, in Hell (Is a Place on Earth), senza dimenticare i vocalizzi offerti in Tristessa da Androniki Skoula, cantante dei Chaostar di Christos Antoniou. Athanati offre una serie di brani splendidi, tra i quali si farebbe fatica ad estrarre dal mazzo un potenziale singolo solo per l’imbarazzo della scelta tra la title track (che trae linfa da Alma Mater dei Moonspell), Born Of Sin (per quel che vale la mia preferita) con una melodia chitarristica pressoché indimenticabile, In the Name of Love (Sacrifice), ultima traccia composta da Maria e che nell’interpretazione congiunta di Nicolas ed Efthimis finisce per renderne ancora tangibile la presenza tra di noi, Empitness (e non poteva essere diversamente con il già citato contributo di Sakis) e il conclusivo epico inno intitolato I (Dead Inside).
E se Pan, Alles in Black e Hell (Is a Place on Earth) sono comunque bellissimi pezzi, che magari restano solo un pizzico meno agganciati alla memoria rispetto a quelli citati, vanno segnalati ancora due episodi importanti nell’economia dell’album per il loro significato intrinseco, come Archos, dedicata al figlio della coppia, dai ritmi più rallentati ed avvolgenti, ed il poetico intermezzo acustico di Tristessa. Athanati potrà anche difettare in originalità, perché l’influenza di Rotting Christ e Nightfall è percepibile, non solo per l’imprimatur fornito all’album dai rispettivi leader, però la grandezza dei Lloth sta proprio nel far passare questo aspetto in secondo piano, anteponendo a tutto un’emotività che si percepisce ad ogni nota, nonostante il dolore venga esplicitato tramite un sound robusto e spesso rabbioso, per quanto ammantato senza soluzione di continuità da un afflato melodico in grado di fare la differenza.
Questo è un album stupendo, che lascia quale unico interrogativo quello sulla capacità dei Lloth di esprimersi nuovamente in futuro su questi livelli, quando potrebbero essere chiamati a dover comporre un’opera il cui significato non vada, come in questo caso, oltre quello prettamente musicale, anche se mi sento di scommettere sul fatto che Maria continuerà a lungo e con gli stessi esiti a fungere da Musa ispiratrice della band.
Tracklist:
1. Athanati
2. Archos
3. Pan
4. Born in Sin
5. In the Name of Love (Sacrifice)
6. Alles in Black
7. Hell (Is a Place on Earth)
8. Emptiness
9. Tristessa
10. I (Dead Inside)
Line-up:
Panthimis – Bass
Setesh – Guitars
Vaelor – Guitars
Nicolas Sic Maiis – Vocals
Uno split album complessivamente valido anche se, presumibilmente, destinato a restare confinato al territorio polacco.
Black Oath Ritesè un corposo split album che riunisce ben tre band appartenenti alla scena black metal polacca, Waroath,Czarna Trumna e Cthulhu Rites.
Questa formula sta prendendo sempre più piede rivelandosi, soprattutto per realtà meno note al pubblico, uno strumento di grande utilità per fare conoscere la propria musica offrendo nel contempo all’ascoltatore un prodotto vario e dal minutaggio consistente.
Altra peculiarità dell’uscita e quella di riunire altrettanti demo pubblicati in tempi più o meno recenti dalle tre band, con l’aggiunta di qualche bonus track: il tutto si rivela senz’altro più utile per Waroath (con Merciless Night Evil del 2015) e Czarna Trumna (con Haunted Crypt’s Miasma, dello stesso anno), in quanto entrambe non hanno all’attivo un full length come invece avviene ai Cthulhu Rites, dei quali viene invece riesumato Ku chwale mrocznych eonów, primo passo discografico risalente al 2012.
Anche l’approccio al genere è diverso, con i Waroath allineati su un più fruibile e efficace black dalle contaminazioni speed, i Czarna Trumna con un’interpretazione più vicina si canoni nordici grazie a passaggi avvicinabili al pagan, e i Cthulhu Rites che, in ossequio alla ragione sociale, propongono un sound molto più orrorifico cercando di catturare e restituire il terrore delle letteratura lovecraftiana.
Il livello dello split album, considerando le tre band coinvolte nel loro assieme, non è memorabile anche perché, alla fine, in quest’ora e passa di musica siamo pur sempre di fronte a dei demo, con quel che ne consegue soprattutto a livello di resa sonora.
Per quanto riguarda un’ideale classifica di gradimento, direi che questa corrisponde all’ordine della discesa in campo delle band, dicendo anche che alla luce di una maggiore e più qualificata produzione alle spalle mi sarei atteso di più dai Cthulhu Rites, i quali appaiono i più originali del lotto senza però che ne scaturisca un risultato allo stesso modo apprezzabile, forse anche perché non rispecchia del tutto quella che dovrebbe essere stata la crescita della band con il trascorrere del tempo.
L’iniziativa rimane, come detto, più che valida anche se presumibilmente dovrebbe essere destinata a restare confinata al territorio polacco.
Tracklist:
1. Waroath – Cios Barbarzyńskiego Ostrza (Old Metal Omen)
2. Waroath – Whine of Abandoned Graveyard (Deathstrike from Hell)
3. Waroath – On the Lunar Throne of Damnation
4. Czarna Trumna – W czeluści lochów opętania
5. Czarna Trumna – Obscure Mares of Doom
6. Czarna Trumna – Saatana pisar
7. Cthulhu Rites – Azathoth
8. Cthulhu Rites – Katharsis II
9. Cthulhu Rites – Czarna koza z lasu z tysiącem młodych
10. Cthulhu Rites – Dagon
11. Cthulhu Rites – Katharsis I
12. Cthulhu Rites – Panteon ponurych trzęsawisk
13. Cthulhu Rites – Fearsome Melancholy
14. Cthulhu Rites – Hypnos / Outro
Line-up: Cthulhu Rites
Maciej “Azazoth” Szewczyk – Guitars
R.F. Ghatanoth – Vocals, Drums
A.D. Nyarlath – Bass
Czarna Trumna
The Dead Grave Ghost – Guitars, Bass
The Old Coffin Spirit – Vocals, Drums
Waroath
Wened – Drums, Vocals
Adrian – Vocals
M. Necromancer – Guitars, Bass
Gli olandesi Bunkur e gli svizzeri Mordor, prendono due brani a loro modo storici e li stravolgono piegandoli alla loro deviata idea di metal estremo.
Affermare a proposto di questo split album che non si tratta di musica alla portata di tutti è quantomeno un eufemismo: le due band coinvolte, gli olandesi Bunkur e gli svizzeri Mordor, prendono due brani a loro modo storici e li stravolgono piegandoli alla loro deviata idea di metal estremo.
I Bunkur vedono la loro genesi nei primi anni del secolo, ma a parte un certo attivismo tra il 2002 ed il 2004, le loro ultime tracce risalgono al full length Nullify, del 2009.
Dopo tutto questo tempo il quartetto di Tilburg torna a resettare certezze ed alimentare inquietudini, ripescando The
Subhuman, terza traccia del demo d’esordio dei Carnivore del mai abbastanza compianto Peter Steele; se l’originale sbatteva in faccia all’ascoltatore un sentire misantropico e politicamente scorretto, che per l’epoca (si era nel 1984) era senza’altro una rarità, i Bunkur ne esaltano e dilatano la negatività deformandolo, destrutturandolo e restituendone l’impatto sotto forma di un doom dronico e penoso nel suo trascinarsi, tra una voce che vomita disperazione e un percussivismo malato che punteggia il rumoristico rombo creato dagli altri strumenti.
In sintesi, oltre venti minuti pressoché inascoltabili con più di un buon motivo per la maggior parte delle persone e, quindi, assolutamente e genialmente unici per una probabilmente risibile minoranza (della quale faccio parte).
Dopo essere usciti da quest’esperienza il passaggio al mondo dei Mordor diviene paradossalmente più semplice, anche se pure qui l’idea condivisa di musica viene accartocciata e cestinata quasi subito: questa band di Losanna ritorna addirittura sulle scene dopo oltre vent’anni, avendo alle spalle una manciata di split e demo usciti tra il 1991 ed 1994.
Gli elvetici prendono In League with Satan dei Venom, ne cambiano il titolo consacrandola a Wotan e la trasfigurano rendendola un grottesco coacervo di black, doom e industrial a suo modo affascinante, ma che ha il solo difetto d’arrivare dopo la prova di forza impartita dai Bunkur, per cui il tutto finisce per impressionare inevitabilmente molto meno. A loro va dato il merito, così come per i compagni di split, di avere stravolto e deformato un brano, portando avanti un’idea di cover che ha, comunque, molto più senso di chi si limita a prendere il pezzo originale cambiandone più o meno solo l’arrangiamento ma mantenendone intatta la struttura musicale.
Qui sta alla fine il motivo per cui questo split album acquisisce un valore notevole, a maggior ragione tenendo conto del fatto che l’imprevedibilità e la sporadicità delle apparizioni di queste due band non forniscono alcuna garanzia sul fatto che le si possano nuovamente incontrare in tempi ragionevolmente brevi.
Tracklist:
1. Bunkur – The Subhuman (Carnivore cover)
2. Mordor – In League with Wotan (Venom cover)
Line-up: Bunkur
S. van Bussel – Bass
T13 – Drums, Vocals
G.J. – Broers Keyboards
M07 – Vocals, Bass
I canadesi Paroxsihzem tornano dall’inferno grazie alla Krucyator Productions che ristampa in formato musicassette il loro unico lavoro sulla lunga distanza in dieci anni di attività, uscito originariamente autoprodotto nel 2010, poi ristampato due anni dopo dalla Dark Descent Records e nel 2013 licenziato in vinile dalla Hellthrashers Productions.
La loro discografia viene completata da una manciata di lavori minori tra cui l’ultimo diabolico parto uscito lo scorso anno in formato ep, dal titolo Abyss Of Coiling Atrocities.
I Paroxsihzem sprigionano caos in musica, e il loro metal estremo, misantropico e marcio fino al midollo risulta davvero insostenibile se non si è avvezzi ai generi di cui sopra estremizzati da piaghe di disagio notevoli.
Questo album omonimo rispecchia la totale mancanza di speranza e luce, con la band avvolta nell’oscurità ed ispirata da filosofie diaboliche in un contesto di musica primordiale, pesantissima e senza compromessi: un macabro esempio di metal estremo senza soluzione di continuità, brutale ed oscuro che ne esce come una lunga litania estrema divisa in sette terribili e maligni capitoli.
Gli estimatori della band canadese, in attesa del prossimo capitolo dopo l’ep dello scorso anno, nel frattempo si possono gustare questa sofferenza in musica targata Krucyator Productions.
Ispirato nei testi dall’immaginario lovecraftiano, From Forgotten Worlds è un furioso assalto senza soluzione di continuità, oscuro e mefistofelico, estremo e profondo, tanto da lasciare un’impressione notevole nell’ascoltatore specialmente per l’impatto devastante del sound.
Uscito originariamente nel 2012, From Forgotten Worlds è il primo full length dei canadesi Auroch, ristampato dalla Krucyator Productions in versione musicassetta.
La band, attiva dal 2008, dopo altri due lavori sulla lunga distanza (Taman Shud del 2014 e Mute Books, uscito lo scorso anno) ed una manciata di lavori minori, ha avuto nel frattempo qualche cambio in line up, ora composta da Sebastian Montesi (chitarra e voce), Shawn Hache (basso e voce) e Zack Chandler (batteria). From Forgotten Worlds ai tempi dell’uscita confermava le ottime impressioni suscitate dai due precedenti demo, con il loro metal estremo che prendeva forza tanto dal death metal quanto dal black, sconfinando addirittura nel grind.
Ispirato nei testi dall’immaginario lovecraftiano, From Forgotten Worlds è un furioso assalto senza soluzione di continuità, oscuro e mefistofelico, estremo e profondo, tanto da lasciare un’impressione notevole nell’ascoltatore specialmente per l’impatto devastante del sound.
Licenziato dalla Hellthrashers Productions in cd, l’album fu ristampato in vinile lo scorso anno via 20Buckspin e ora in musicassetta, a ribadire l’assoluta attitudine underground del progetto.
Siamo al cospetto di un sound senza compromessi, marcio ed estremo, occulto e misantropico, un muro sonoro attraverso il quale la luce non passa ed il buio regna sul mondo governato dagli Auroch.
Morbid Angel e Deicide, rafforzati da tempeste di thrash e black metal, sono gli ispiratori di brani davvero mostruosi come Fleshless Ascension (Paths Of Dawn) e Terra Akeldama, i migliori di un lavoro sicuramente da non perdere per gli amanti del metal estremo più oscuro e maligno.
Tracklist
1. From Forgotten Worlds
2. Fleshless Ascension (Paths of Dawn)
3. Slaves to a Flame Undying
4. Dregs of Sanity
5. Pathogenic Talisman (For Total Temporal Collapse)
6. Terra Akeldama
7. Bloodborne Conspiracy
8. Tundra Moon
Line-up
ALBUM LINEUP:
Sebastian Montesi — Guitars, Vocals, Bass, Lyrics
Paul Ouzounov— Guitars, Vocals
Zack Chandler— Drums
Current Line Up :
Sebastian Montesi — Guitars, Vocals
Shawn Hache— Bass, Vocals
Zack Chandler— Drums
Monumental Microcosm è un lavoro breve ma in grado di cogliere nel segno, creando una certa aspettativa per quelle che saranno le prossime mosse della band australiana.
Dalla sempre ricca e cosmopolita faretra della Transcending Obscurity ecco sbucare anche gli australiani Greytomb, autori di questo ep che va a suggellare quanto di buono già mostrato con il full length d’esordio del 2016, A Perpetual Descent.
Il trio di Melbourne offre una prova convincente che va ad abbracciare con duttilità e consapevolezza le diverse sfumature del metal estremo, partendo da una base black ma con un’indole introspettiva che oscilla tra il doom e il postmetal e qualche dissonanza riconducibile al death progressivo.
Quel che ne esce sono tre brani che si sviluppano per circa venticinque minuti corrosivi, intensi e sfaccettati, con un episodio dal crescendo emotivo non comune come Antimeta che si spinge con il suo finale disperato fino al DSBM; il brano è racchiuso tra la lunga e più inquieta Null ed una Force Majeure che dimostra come i Greytomb abbiano grande dimestichezza con la materia anche quando scendono sul terreno del post black più oscuro ed ottundente. Monumental Microcosm è un lavoro breve ma in grado di cogliere nel segno, creando una certa aspettativa per quelle che saranno le prossime mosse della band australiana.
Tracklist:
1.Null
2.Antimeta
3.Force Majeure
Line-up:
J. Angus – guitar
N. Magur – vocals
D. Coffey – bass
Dawn of a Crimson Empire è un ottimo ascolto per chi vuol farsi un pieno di rabbia iconoclasta veicolata da una forma di black metal offerta in maniera impeccabile.
Arriva dalla Germania questo nuovo gruppo dedito albBlack metal, formato da musicisti già attivi con diverse band della rinomata scena tedesca.
Gli Halphas interpretano il genere seguendo maggiormente le linee guida scandinave, inserendovi una efficace componente epico melodica ma conservando, come da trademark nazionale, l’aura solenne delle composizioni.
Il risultato è prevedibilmente positivo, visto che difficilmente ciò che proviene da quelle austere lande delude quando la materia trattata è il black metal.
Una serie di mid tempo avvolgenti, atmosferici e denotati da un’intensità magari non spasmodica ma costante introducono nel migliore dei modi nell’oscuro mondo degli Halphas, i quali anche liricamente non si discostano dalle tematiche standard del genere, anche se lo fanno mantenendosi su un piano più introspettivo e tenendosi alla larga da facili blasfemie assortite.
Pregio e, forse per alcuni, difetto maggiore dell’album è una sua certa uniformità, che per fortuna include l’aspetto qualitativo, per cui tra le sette tracce che seguono l’intro di matrice ambient riesce difficile estrarre un brano guida così come uno più debole, anche se Through the Forest appare tra tutti quello in possesso delle linee melodiche più accattivanti. Dawn of a Crimson Empire è un ottimo ascolto per chi vuol farsi un pieno di rabbia iconoclasta veicolata da una forma di black metal offerta in maniera impeccabile.
Tracklist:
1. Summoning
2. Call From the Depths
3. Through the Forest
4. Sword of the Necromancer
5. FMD
6. Malice
7. Damnation of the Weak
8. Empire
Habits possiede tutti i crismi per cercare di farsi largo nel mare magnum delle uscite di qualità in campo estremo, grazie anche ad un concept lirico tutt’altro che banale.
Habits è il secondo full length per la one man band tedesca Infernotion.
Il musicista che sta dietro al progetto è uno di quelli che si diverte a cambiare nome a seconda dell’ambito nel quale suona, per cui qui lo conosciamo come Peisestratos: ma al di là del dato anagrafico, di questo album intitolato va segnalata un’adesione più marcata ai modelli scandinavi rispetto a quanto normalmente avvenga in terra germanica.
Ciò non è un male, perché se viene meno un po’ di originalità come contraltare troviamo un’interpretazione all’altezza della situazione, con il berlinese che decide di andare a combattere sul terreno dei Satyricon e relativa genia senza sfigurare affatto.
Il black targato Infernotion si avvale di momenti di ampio respiro che trovano la loro sublimazione in una traccia davvero notevole come Viscious Wishes, ideale cartina di tornasole del buon talento compositivo del nostro, il quale regala un album convincente al 100% e che non fa gridare al miracolo solo perché l’adesione ai propri modelli è in effetti piuttosto fedele, ed è questo l’unico punto sul quale il musicista tedesco è chiamato a lavorare per progredire ulteriormente.
Già così, comunque, Habits possiede tutti i crismi per cercare di farsi largo nel mare magnum delle uscite di qualità in campo estremo, grazie anche ad un concept lirico tutt’altro che banale ed incentrato sull’amara constatazione che il male è annidato dentro ciascuno di noi, con la rovina dell’umanità quale ineluttabile conseguenza. Triste ma vero …
Tracklist:
1. Revelation
2. Center of the World
3. Waiting for Nemesis
4. Viscious Wishes
5. Master of Hypocrites
6. Uniform Will
7. Defective Instinct
8. Profit for the Prophet
9. Evil Incarnate
Line-up:
Peisestratos – Guitars/Vocals
Sven – Session Bassist
Di Metempsychose colpisce la potenza che viene sprigionata da ogni singola nota , con i rari rallentamenti vicini al doom che hanno la funzione di una breve sosta, utile per riprendere il fiato prima che che la macchina si rimetta in moto con tutto il suo carico di malevola oppressione.
Terzo full length per i francesi Azziard, band alle prese da una quindicina d’anni con un’interessante interpretazione della materia black/death.
Metempsychose è cantato interamente in lingua madre ed è incentrato a livello di tematiche sull’opera del noto psicologo svizzero Carl Jung; vista la materia trattata la musica procede di conseguenza, con l’esibizione di sonorità opprimenti, claustrofobiche ma anche denotate da una produzione efficace, capace di restituire al meglio tale turbinio di sensazioni senza farlo apparire un coacervo di rumori ovattati.
Questo, a mio avviso, aumenta non poco il valore di un album la cui componente death fa approdare a più di un passaggio contraddistinto da riff piuttosto geometrici, ai quali fanno da contraltare ritmiche tipicamente black con il drumming di Anderswo decisamente in evidenza.
Musicalmente gli Azziard non sono sperimentali come gran parte delle band provenienti dalla Francia, ma non per questo il loro black metal si può considerare di semplice assimilazione: le dissonanze non mancano e comunque non viene mai meno in ciascun brano un’aura inquieta e drammatica; anche l’interpretazione vocale del fondatore della band A.S.A. è davvero molto efficace, trovando un’espressiva via di mezzo tra growl e screaming, senza dimenticare in tal senso anche l’apporto degli ospiti Julien Truchan (Benighted) e Psycho (Antilife).
Il quadro complessivo delinea senza ombra di dubbio un album dal notevole impatto e che, sicuramente, è in grado di spingersi fino alle orecchie di chi apprezza il metal estremo, pesante e pensante, al di là delle barriere di genere: Metempsychose è alla fine una gragnuola di colpi che si abbatte sull’ascoltatore senza particolare misericordia, disturbando il giusto il suo già inquieto sonno.
Così, se L’Enfer sembra da subito uno dei brani più impattanti ascoltati quest’anno, Ascension e Unus Mundus ne raggiungono puntualmente la forza dirompente e allo stesso tempo evocativa, rappresentando i picchi di un lavoro di qualità spaventosa, come lo sono la convinzione e la competenza con le quali viene gestito l’approccio al genere.
Se gli Azziard non possono essere considerati degli innovatori, nessuno può togliere loro la patente di interpreti di livello assoluto di un black/death che non ha proprio nulla da invidiare a nomi più celebrati come lo possono essere i per esempio i Behemoth: di Metempsychose colpisce la potenza che viene sprigionata da ogni singola nota , con i rari rallentamenti vicini al doom che hanno la funzione di una breve sosta, utile per riprendere il fiato prima che che la macchina si rimetta in moto con tutto il suo carico di malevola oppressione.
Un gran bel disco, per una band che pare aver trovato la sua definitiva e matura forma espressiva.
Tracklist:
1. Premier Jour
2. L’Enfer
3. L’Anachorète, Dies
4. Ascension
5. Le Meurtre du Héros
6. Second Jour
7. Archétype
8. Unus Mundus
9. Psyché
10. Le Sacrifice
Per le sue caratteristiche è comprensibile che l’album proceda un po’ a strappi, ma nel complesso questo approccio non dispiace affatto per coraggio e creatività.
Il primo full length degli Hoofmark è di fatto la riedizione a cura della Ultraje, etichetta fondata dall’omonima rivista portoghese, del demo uscito nel 2016.
Se ci si chiede se tale operazione, invero molto frequente, abbia una sua valenza la risposta è affermativa, perché l’interpretazione del black metal offerta dal musicista lusitano Nuno Ramos, detentore delle chiavi del progetto, è quanto mai ricca di spunti interessanti.
Di sicuro Stoic Winds non è un album monotematico: infatti possiamo rinvenire il genere rivisto nelle sue diverse forme, tutte in maniera piuttosto convincente sia quando i ritmi si fanno più incalzanti finendo su territori crust punk hardcore, sia quando i rallentamenti spostano la barra verso il doom.
Il colpo di scena arriva però con Dust Trails, quando Nuno assume improvvisamente le sembianze di un Johnny Cash sui generis, piazzando un brano country che magari potrà apparire fuori contesto ma possiede un suo malsano fascino.
In effetti il nostro mostra un’irrequietezza compositiva della quale gli va dato atto e, se il tutto rende il lavoro chiaramente disomogeneo, ha sicuramente il grande pregio di una certa imprevedibilità.
Del resto subito dopo arriva la versione denominata Dust Trails Blazing, che riconduce il tutto su un mid tempo classico mantenendo però un’interpretazione vocale sempre piuttosto anomala per il black metal.
Con tali caratteristiche è comprensibile che l’album proceda un po’ a strappi, ma nel complesso questo approccio non dispiace affatto per coraggio e creatività, anche se l’inedito connubio tra metal estremo e country lascerà perplesso più d’uno.
Così, dopo il black’n’roll notevole di Horror Maximus, Nuno chiude le ostilità con Hoofmarks, una sorta di di manifesto del suo procedere con passo sghembo lungo un sentiero tortuoso ma foriero di scenari cangianti; senza voler spingermi a trovare significati che magari non corrispondono al vero, questo lavoro targato Hoofmark è quanto mai strano, lo-fi per indole ancor più che per resa sonora, e nonostante questo (o forse proprio per questo …) mi sono sorpreso ad apprezzarlo non poco.
Tracklist:
1. Yours Should be a Heavy Casket
2. Amongst a Sea of Darkness
3. Stoic Winds
4. Dust Trails
5. Dust Trails Blazing
6. An Arrow Long Due
7. From the Foot of God’s Throne
8. Horror Maximus
9. Hoofmarks