One Tail, One Head – Worlds Open, Worlds Collide

Ferocia black, attitudine rivolta verso gli antichi suoni della fredda Norvegia: un altro bel disco dalla scena di Trondheim.

Attesa durata circa 10 anni, ma ora finalmente è arrivato il primo full length di One Tail, One Head per l’etichetta Terratur Possession, da sempre attenta alle sonorità norvegesi black underground.

Anno importante il 2018 per il Nidrosian Black Metal, che ha visto lo stupefacente esordio dei Mare, per me tra i dischi dell’anno, e che ora ci propone un’altra opera proveniente da Trondheim, dove lo spirito del puro black regna sovrano intrecciato ad atmosfere ancestrali e dal forte aroma ritualistico. Nella formazione della band che purtroppo ha annunciato lo scioglimento, si intrecciano musicisti che hanno una storia importante all’interno della scena underground scandinava. Ritroviamo Sundli, drummer sia degli attuali Mare che, in passato, di Aptorian Demon (qualcuno ricorderà Libertus splendida e furente opera del 2012), Luctus, qui vocalist, ma chitarrista nei leggendari Behexen e bassista sempre nei Mare, Dark Sonority e Celestial Bloodshed e infine Asli, chitarra nei grandiosi Vemod. Tutti artisti che vivono il black e conoscono un’ispirazione sincera per questa arte pura e multiforme. Epitaffio adeguato è Worlds Open, Worlds Collide dove rifulge un feroce black che nasconde al proprio interno una certa attitudine punk e la capacità di intrecciare atmosfere disperate e antiche nella propria trama sonora, dieci brani viscerali che non colpiscono immediatamente ma mostrano lentamente la propria anima irrequieta (la title track) e la propria disperazione (Stellar Storms), affondando i denti nella scuola norvegese ma capaci di dosare i momenti frenetici condotti dai riff delle chitarre con momenti più introspettivi dal taglio psichedelico offerti dal synth. Sonic landscapes con afflato cosmico, in An Utter Lack of Meaning, Hitherto Unbeknownst, Suddenly Revealed, ci danno tregua prima degli attacchi sferzanti e incompromissori di Firebirds e Rise in Red, in cui la furia è incontrollabile e lo scream disarticolato rappresenta un valore aggiunto. I dieci minuti finali di Summon Surreal Surrender suggellano l’opera con un intreccio strumentale sempre feroce ma capace di finezze (un grande basso) che li porta su lidi dal taglio maggiormente progressivo e foriero di sviluppi in una futura rinascita della band. Ottima opera degna di attenzione in questo fecondo 2018.

Tracklist
1. Certainly Not
2. Arrival, Yet Again
3. Worlds Open, Worlds Collide
4. Stellar Storms
5. An Utter Lack of Meaning, Hitherto Unbeknownst, Suddenly Revealed
6. Firebirds
7. Sordid Sanctitude
8. Rise in Red
9. Passage
10. Summon Surreal Surrender

Line-up
ⷚ – Drums
Åsli – Guitars
Luctus – Vocals
Andras Marquis T. – Bass

ONE TAIL, ONE HEAD – Facebook

DEGREDO – A NOITE DOS TEMPOS

Ancestrali arcaici infernali suoni e rumori, per un esordio che, se musicalmente poco Black Metal, rimane comunque profondamente nero nell’anima, nel corpo e nell’infernale alone Dark Ambient che circonderà qualsiasi ascoltatore che ne tenterà il coraggioso approccio.

Sono sempre stato affascinato dall’alone di mistero di cui certe band (soprattutto Black) amano circondarsi.

I Degredo, nello specifico, appaiono e scompaiono come un poltergeist, come una qualche entità (maligna) che pare appena uscita da Paranormal Activity.
Appena abbozzi una ricerca sul Web, e pensi di esser riuscito a carpire qualche informazione, ti rendi quasi immediatamente conto, che stai guardando una qualsiasi pagina su internet che nulla ha a che fare con la band in questione.
D’altronde Velha e Lagrisome (i monickers del duo portoghese di non si sa quale dimenticata città lusitana…) non ci informano nemmeno sul loro ruolo nella band, su quale strumento suonano, su chi sia il songwriter, e non lasciano alcuna traccia delle loro liriche.
Appare pertanto difficoltoso (sebbene affascinante) recensire un album (il loro debutto) e citare qualche informazione di una band di cui conosciamo poco, anzi pochissimo, se non solo che appartengono all’Inner Circle Portoghese (il cosiddetto “Aldebaran Circle” che conta tra gli adepti anche Voemmr, Ordem Satanica, Trono Alem Morte e Occelenbriig).
Sicuramente l’appartenenza ad un Circle, oltre a rendere ancor più misteriosa l’origine di una band, (pensiamo agli adepti delle Legions Noires francesi, o dell’Austrian Black Metal Syndicate, e ancora del Temple of Fullmoon polacco, per non dimenticare il primo – ed originale – Norvegian Black Inner Circle) ci pone di fronte ad orde di misantropi, misogini e misandrici esseri (forse) viventi, il cui Verbo racchiude il più impenetrabile, imperscrutabile ed ermetico atteggiamento anti-umanità che la storia possa ricordare.
A fronte di queste considerazioni, pare ovvio che meno informazioni personali vengono divulgate sulla rete, meno notizie su se stessi vengono rese accessibili, al resto dell’umanità, meglio è. Chiaro che spesso, questo poco intelligibile atteggiamento, racchiude una sottile e velata attenzione ad azioni di vero marketing; il mistero affascina tutti, della serie: “meno faccio sapere di me stesso, più la gente vuole sapere…”.
Musicalmente i Degredo appaiono fin da principio in linea con quanto appena detto.
Un album della durata di circa un’ora e un quarto, suddivisa in quattro parti (letteralmente, non esistono veri e proprio titoli di canzoni), di un Dark Ambient Noise Black impregnato fortemente di infernali rumorismi dark, grigio industrial, ma soprattutto tanta Drone Music.
Un album assolutamente minimalista, nero come un’eterna notte antartica; un’iperbole di cupo odio, che sprigiona malignità da ogni sua pseudo-nota musicale. Un terrificante affronto alla vita, a tutto ciò che possa oggi rappresentare calore e luce. Chi si appropinqua a questo album, percorrerà un viaggio a ritroso nel tempo, proiettato in un antichissimo mondo dimenticato, ove luce e chiarore non faranno mai capolino, immersi in eterne tenebre, accompagnati da quattro “momenti musicali” che paiono far parte dell’uno (in realtà è un’unica canzone suddivisa in quattro parti); un viaggio Dantesco, verso i più oscuri antri infernali. Un album che è un archetipo della malvagità più arcana ed ancestrale, non adatto a persone impressionabili, consigliatissimo per scatenati fan di Abruptum e Mortiis.
Dopo quattro demo (il primo datato 2012, quindi una band decisamente giovane) ecco pertanto lo stravagante esordio su Harvest Of Death, label accostabile sicuramente al Circle portoghese, in quanto autrice di quasi tutte le produzioni delle band sopra citate.
Un ultima nota: se si ha un poco di tempo, può essere divertente dare un’occhiata alle informazioni sulle band dell’etichetta in questione… col risultato di trovare poco o niente. Mistero su mistero, in pieno stile Inner Circle!

Tracklist
1. Parte Um
2.Parte Dois
3.Parte Três
4.Parte Quatro

Line-up
Velha
Lagrisome

Eye of Nix – Black Somnia

Black Somnia è un album che mette in luce una band dall’enorme spessore qualitativo, con tanto di bollino apposto dalla Prophecy Productions.

Secondo album per gli statunitensi Eye Of Nix, band che mette sul piatto, senza porsi troppi problemi, pulsioni provenienti da svariati generi accomunate però da una stessa profondità e segnate da un’impronta oscura.

Se Wound and Scar è una traccia straziante che porta sui territori del più aspro posthardcore, grazie ad un’interpretazione vocale parossistica della bravissima Joy von Spain, Fear’s Ascent esordisce con note che paiono provenire da un disco dei Jpy Division per poi venire trasfigurate da variazioni ritmiche e dall’approdo della vocalist a toni che riportano alla meno patinata Bkork dell’epoca Sugarcubes.
Questi due indizi costituiscono abbondantemente già una prova, visto che Black Somnia porta a spasso l’ascoltatore prendendolo per mano e poi abbandonarlo per diversi minuti in antri ora spaventevoli, ora falsamente rassicuranti, quasi a voler riprodurre l’ambientazione di qualche horror psicologico.
I vocalizzi ancor più inquietanti caratterizzano A Curse, litania in quota “galasiana” che lascia ben pochi sbocchi melodici, mentre l’icipit acustico di Lull segna il primo momento di vera quiete riscontrabile all’interno del lavoro che, in questa fase, vede un rarefazione dei suoni, proseguita anche in Toll On, che non fa comunque scendere la tensione fino al finale con A Hideous Visage, in cui il post metal sludge riprende la scena per non mollarla più, tra dissonanze, rallentamenti asfissianti e la voce di Joy che continua a lacerare l’anima dell’ascoltaore fino al suo annientamento.
Black Somnia è un album che mette in luce una band dall’enorme spessore qualitativo, con tanto di bollino apposto dalla Prophecy Productions.

Tracklist:

1. Wound and Scar
2. Fear’s Ascent
3. A Curse
4. Lull
5. Toll On
6. A Hideous Visage

Line Up
Joy von Spain – Vocals
Nicholas Martinez – Guitars
Masaaki Masao – Samples, Guitars
Gerald Hansen – Bass
Justin Straw – Drums

EYE OF NIX – Facebook

Imber Luminis & Eyelessight – As The Sun In Your Eyes

As The Sun In Your Eyes è una mirabile sintesi tra quanto ha saputo fare Déhà con il suo progetto più vicino al depressive, Imber Luminis, e il più diretto e straziante approccio alla materia di Kjiel, accompagnata anche dal sempre presente HK alla batteria e, per l’occasione, anche alla voce.

L’incontro di anime sensibili e tormentate non può che produrre musica che rispecchia in toto queste caratteristiche.

La collaborazione di Kjiel, colei che non esito a definire l’artista di punta del movimento DSBM italiano, con il genio multiforme di Déhà ha preso forma in occasione dell’album degli Angor Animi, progetto della musicista abruzzese sbocciato lo scorso anno con lo splendido Cyclothymia, e si è rafforzata oggi con questo lungo brano di venticinque minuti, scaturito da un’improvvisazione nata agli Opus Studio di Bruxelles nel corso delle sessioni di registrazione di Athazagorafobia, il nuovo album degli Eyelessight.
As The Sun In Your Eyes, per quanto possa avere, in base a quanto detto, caratteristiche estemporanee, è in realtà una mirabile sintesi tra quanto ha saputo fare Déhà con il suo progetto più vicino al depressive, Imber Luminis, e il più diretto e straziante approccio alla materia di Kjiel, accompagnata anche dal sempre presente HK alla batteria e, per l’occasione, anche alla voce.
Gli ascoltatori più attenti potranno così cogliere con un certo agio le due anime fondersi in un sound unico, capace di conservare gli elementi peculiari di ciascuna di esse senza che l’una vada e prevaricare l’altra; sarebbe stato un vero peccato che quanto scaturito da questo incontro fosse rimasto inascoltato perché As The Sun In Your Eyes è una dimostrazione dell’enorme potenziale a disposizione dei musicisti coinvolti, senza dimenticare che tutto questo rappresenta anche, in fin dei conti, un’ideale viatico all’ascolto del nuovo album degli Eyelessight, appena uscito per Talheim Records.
Non mancano quindi i buoni motivi per ascoltare a far proprio questo doloroso e malinconico frammento musicale visitando il bandcamp degli Imber Luminis (https://imberluminis.bandcamp.com/album/as-the-sun-in-your-eyes).

Tracklist:
1. As The Sun In Your Eyes

Line-up:
Kjiel : Vocals, guitars
HK : Vocals, drums
Déhà : Vocals, guitar, bass, producing

IMBER LUMINIS – Facebook

EYELESSIGHT – Facebook

SJUKDOM – Stridshymner Og Dodssalmer

Decisamente senza infamia e con qualche lode, Stridshymner Og Dodssalmer è destinato suo malgrado ad un tiepido apprezzamento destinato, poi, a trasformarsi un inevitabile oblio: un peccato, perché i Sjukdom parrebbero avere nelle corde qualcosa di più ficcante e personale anche se è molto probabile che, alla fin fine, la cosa non interessi loro neppure troppo.

I Sjukdom sono una band norvegese che suona un black metal devoto alla vecchia scuola nata nella loro nazione circa trent’anni fa.

Messa già così resterebbe ben poco da dire ed in effetti, nel bene e nel male, cosa si può raccontare di un album decisamente gradevole, ben suonato e ben prodotto, tagliente ed abrasivo come da copione ma irrimediabilmente privo di elementi che possano renderlo un ascolto imprescindibile?
Ciò che resta, e non è poco, è sicuramente l’impegno profuso da musicisti competenti nell’offrire un genere che è saldamente intrecciato nel loro dna; pensando poi che Stridshymner Og Dodssalmer si apre con un bellissimo brano come Dødssalmer viene da pensare che in fondo l’essere perfettamente aderenti a certi schemi compositivi non sia certo un male per i Sjukdolm, e lo stesso si può dire riguardo anche alla più furiosa traccia conclusiva Skudd for skudd; tutto quanto sta in mezzo lo si ascolta con piacere, ma il rischio concreto è che, riposto nel suo virtuale spazio sullo scaffale, difficilmente un lavoro di questo tipo verrà ripescato per essere oggetto di nuovi ascolti.
Decisamente senza infamia e con qualche lode, Stridshymner Og Dodssalmer è destinato suo malgrado ad un tiepido apprezzamento destinato, poi, a trasformarsi un inevitabile oblio: un peccato, perché i Sjukdom parrebbero avere nelle corde qualcosa di più ficcante e personale anche se è molto probabile che, alla fin fine, la cosa non interessi loro neppure troppo.

Tracklist:
1. Dødssalmer
2. Nærvær
3. Lykantropi
4. Med en fot i graven
5. Terra Nihil
6. I en storm av stål
7. Skudd for skudd

Line-up:
Hul – guitars
Avsky – vocals
Natt – drums
Nekrosis – bass

Tragacanth – The Journey Of A Man

Death metal feroce e tecnico, a tratti assolutamente progressivo ed attraversato da mood atmosferici, mentre un’anima black è foriera di cavalcate sferzate da gelidi venti nordici.

I Paesi Bassi sono per tradizione una delle terre più importanti per lo sviluppo delle sonorità estreme, specialmente per quanto riguarda il caro e vecchio death metal, fin dai primi anni novanta.

I Tragacanth fanno parte di quelle nuove leve che provano, anche se con approccio diverso, a tenere alta la bandiera del metal estremo nel paese dei tulipani, riuscendoci con un sound interessante e questo nuovo lavoro intitolato The Journey Of A Man, il secondo dopo Anthology Of The East licenziato tre anni fa.
Death metal feroce e tecnico, a tratti assolutamente progressivo ed attraversato da mood atmosferici, mentre un’anima black è foriera di cavalcate sferzate da gelidi venti nordici: questo è il sound proposto dal gruppo proveniente da Utrecht, imprigionato in nove composizioni per cinquanta minuti di intricate parti tecnico progressive e devastanti ripartenze death/black metal che non lasciano scampo.
La bravura tecnica dei nostri non inficia la scorrevolezza di composizioni dalla durata importante, cangianti nelle atmosfere di cui si compongono e perfette nel presentare al meglio i loro creatori.
Denial: They Are Mistaken, Depression: Waning Light e Acceptance: My Destiny Awaits, basterebbero per fare una carneficina, scorticando e torturando i padiglioni auricolari dei fans per via di un songwriting che alterna death metal, progressive, brutal e black metal in un continuo saliscendi estremo di ottimo valore.
Nella musica dei Tragacanth troverete sicuramente note che vi porteranno al confronto con altre e più famose realtà, ma il tutto rimanendo comunque saldamente all’interno in una proposta a suo modo personale.

Tracklist
1.Survival: Stagnate Reality
2.Denial: They Are Mistaken
3.Anger: Kitrine Chole
4.Depression: Waning Light
5.Bargaining: Will You Answer Me?
6.Nightmare: The Vision
7.Acceptance: My Destiny Awaits
8.Suffering: The Essence Implodes
9.Death: Journey’s End

Line-up
Jasper – Drums
Adrian – Guitars
Erik – Guitars
Terry – Vocals
Mark – Bass

TRAGACANTH – Facebook

Damnatus – Un Niente

Quello di Damnatus è un depressive black cadenzato e melodico, basato soprattutto su un lavoro chitarristico lineare ma efficace nel generare melodie dolenti sulle quali, poi, si poggia lo screaming disperato che declama testi in italiano molto diretti ma non banali.

Un Niente è il primo full length per il progetto solista Damnatus, il cui artefice è il giovane Oikos, musicista dotato di una grande sensibilità che trova sfogo in un depressive black molto esplicito a livello lirico.

L’ep Io odio la vita era già stato piuttosto indicativo del modus operandi di Oikos, il quale opta a livello stilistico per un depressive black cadenzato e melodico, basato soprattutto su un lavoro chitarristico lineare ma efficace nel generare melodie dolenti sulle quali, poi, si poggia lo screaming disperato che declama testi in italiano molto diretti ma non banali.
Il male di vivere nell’ottica Damnatus non ha filtri né edulcorazioni di sorta e l’obiettivo di restituire senza mediazioni il carico di disagio, la frustrazione ed il senso di resa di fronte al peso dell’esistenza riesce piuttosto bene, anche se il tutto potrebbe non soddisfare chi ricerca strutture leggermente più elaborate ed al contempo atmosferiche rinvenibili in altre forme di depressive.
Quella proposta da Oikos è musica sincera, che va apprezzata per quel che è senza stare troppo a vivisezionarne l’operato dal punto di vista sonoro piuttosto che lirico: quello che conta, qui, è il messaggio, che arriva forte, chiaro e brutalmente diretto, offrendo i suoi momenti migliori allorché la forma musicale si avvicina a quella utilizzata dai Katatonia ai tempi dell’accoppiata Discouraged Ones/Tonight’s Decision (Lacrima è il brano in cui ciò avviene in maniera più evidente, risultando senza dubbio il momento migliore dell’album) dove però il tutto veniva levigato, oltre che dalla classe superiore della band svedese, anche da un approccio dai forti richiami alla darkwave, al contrario di quanto avviene in Un Niente in cui viene maggiormente esasperata, anche vocalmente, l’asprezza della componente black.
Oikos trascrive e mette in musica quelle sensazioni sgradevoli che almeno una volta nella vita balenano nella mente di ogni essere senziente: si tratta poi di scegliere se esplicitare tutto questo cercando di trovare una qualsiasi via di uscita, anche estrema, oppure, citando il grande Gaber, “far finta di essere sani”, anche se alla fine ciò che resterà sarà solo e sempre la sofferenza, che la si voglia celare o meno alla vista degli altri.

Tracklist:
1. Alba di un nuovo dolore
2. Un altro giorno
3. Letargia
4. Lo specchio del vuoto
5. Lacrima
6. Tempi Andati
7. Un niente

Line-up:
Oikos – All instruments, Vocals

Selvans – Faunalia

Tutte le canzoni sono magnifici affreschi tutti diversi fra loro, attraverso i quali si viene trasportati in una dimensione dove le nostre tradizioni sono ancora vive, anche quelle più crudeli e demoniache, perché noi siamo degli animali.

La natura, soprattutto quella animale, è la nostra vera casa, ed il cristianesimo ha rotto questo stretto legame, che si è totalmente dissolto con la nostra epoca giustamente chiamata antropocene.

Il nuovo lavoro degli italiani Selvans, chiamato Faunalia, è qui per ricordarci tutto ciò e riportarci sulla retta via: trattasi di un’ulteriore evoluzione del loro avanguardistico black metal, che con questo disco travalica i confini del genere. Infatti l’azzeccato sottotitolo è A Dark Italian Opus, ed infatti è un nero viaggio nel nostro immaginario, nei nostri boschi, nelle nostre tradizioni popolari, con i nostri animali che ci ricordano chi siamo in realtà, ed è qualcosa di ben diverso da questo sentimento moderno che imperversa ovunque. Il duo usa il black metal come codice di partenza per andare a creare un suono che sfocia, in alcuni momenti, nel neo folk e nella musica tenebrosa. Il suono dei Selvans è sempre cangiante ed interessante, vi troviamo il black metal italiano della nuova specie, momenti più classici sottolineati da un organo importante e sempre puntuale, e poi ci sono forti inserti di neo folk con l’introduzione di strumenti tipici. Non c’è posto per la confusione in questo progetto, la direzione è sempre in avanti, il disco è di alto livello e rientra pienamente nella nuova stirpe del black italiano, dove Donwfall Of Nur, Progenie Terrestre Pura, Earth And Pillars ed altri stanno facendo qualcosa di davvero importante, trasmutando il black metal in qualcos’altro, in pieno spirito alchemico. Ascoltando Faunalia si può addirittura parlare di progressive, perché le canzoni sono concepite in maniera non circolare, ma è un continuo avanzare verso nuovi territori. Tutte le canzoni sono magnifici affreschi tutti diversi fra loro, attraverso i quali si viene trasportati in una dimensione dove le nostre tradizioni sono ancora vive, anche quelle più crudeli e demoniache, perché noi siamo degli animali.

Tracklist
1. Ad Malum Finem
2.Notturno Peregrinar
3.Anna Perenna
4.Magna Mater Maior Mons
5.Phersu
6.Requiem Aprutii

Line-up
Haruspex – vocals, keyboards, traditional instruments
Fulguriator – guitars, bass

SELVANS – Facebook

Pa Vesh En – Church of Bones

Il black metal in origine era incontaminato, incompromissorio, ancestrale e primitivo: Pa Vesh En ci riporta a quell’ epoca sommergendoci con suoni fuori dal tempo.

Le note introduttive diramate da Iron Bonehead, la casa discografica tedesca che ha stampato l’opera, ci invitano a entrare nella chiesa e a suonare nel coro di Pa Vesh En, misteriosa entità bielorussa che ci attira in modo seduttivo nel suo profondo abisso di perdizione, ammaliandoci con il suo suono black ultra raw e sinistramente malevolo, miscelandolo con ambient perversamente melodica.

Annata molto prolifica per questo musicista che ha dato alle stampe un demo, un EP e uno split con gli scozzesi Temple Moon e ora ci propone un’ottima opera da suonare “loud” per poter apprezzare la imponente oscurità sprigionata dalla nera fiamma. Non inventa niente di nuovo il musicista bielorusso, ma riporta l’attenzione su quel tipo di black primitivo, ancestrale che ormai si riscontra solo nell’underground più profondo; non ci sono suoni moderni, produzioni ridonanti, esiste solo la capacità di creare atmosfere oscure, taglienti come nella splendida La Valse Macabra da far suonare in un loop continuo per godere all’infinito dell’arte espressa. Tutto è avvolto da un nebbia soffocante, l’artista sa come colpire i nostri sensi senza bisogno di esprimere cieca violenza, ma tutto è più subdolo, più strisciante, come se un nero e profondo abisso lentamente risalisse e ci inghiottisse. Lo scream soffocato è sommerso dall’incedere strumentale totalmente immerso in ammorbanti atmosfere che sono il punto forte dell’opera; il suono si può accostare a quanto espresso finora dal portoghese Black Cilice per la capacità di farci tornare indietro nel tempo a quando il black metal era una creatura malevola, incontaminata e senza compromessi. Nei sette brani si è completamente immersi in stranianti momenti fuori dal tempo, persi nel ricordo delle origini di questo suono maledetto.

Tracklist
1. The Wilderness of Cursed Souls
2. A Funeral Procession
3. La Valse Macabra
4. Pale Body Desecration
5. The Venom Seed
6. My Obscure Obsession
7. With Pain He Waits in Vain

Line-up
Pa Vesh En

Neos Gheron – Potius Nihil, Potius Deseltus

Le parti strumentali vanno anche oltre il dungeon synth per rientrare a tutti gli effetti nel metal sinfonico, mentre quando si fondono voce e organo si raggiunge la vera nera maledizione. Un ottimo recupero per un disco davvero estremo ed underground.

Disco anomalo ed estremamente interessante, che sarebbe andato perduto se non fosse stato per questa ristampa della Masked Dead Records.

Il progetto Neos Gheron fu fondato da Roberto Pecorari, che ha suonato tutti i synth, e da Luca Amato aka Lupe, ex cantante della black metal band Entirety.
Tutto ciò fu inciso nel 2006 e poi non è mai uscito, rimanendo in un cassetto fino al 2018. In pratica il disco è totalmente dungeon synth per quanto riguarda la parte musicale e con una voce black spesso in growl. Potius Nihil, Potius Deseltus è l’accurata descrizione di un percorso pieno di follia, un peregrinare lungo i mondi demoniaci popolati da ombre che infliggono dolore e spaventosi tormenti. La cosa più rimarchevole è che questi suoni, davvero inusuali se associati assieme, sono convincenti e non si riesce a distogliere l’ascolto da un qualcosa che a volte è persino contundente e quasi dissonante. I Neos Gheron confezionano un disco figlio del male e totalmente votato all’estremismo musicale. Ascoltare parti di piano o di organo associate a qualche grimorio in latino, od un maledetto cantato in italiano è un qualcosa di molto bello ed appagante, come guardare un mondo che cambia vinto dalla magia nera sotto i nostri occhi. Più che un suono qui si vuole creare un’atmosfera, un andare oltre la nostra dimensione per cercare sentieri della mano sinistra poco battuti ed assai più spaventosi benché più vicini alla natura umana. Le parti strumentali vanno anche oltre il dungeon synth per rientrare a tutti gli effetti nel metal sinfonico, mentre quando si fondono voce e organo si raggiunge la vera nera maledizione. Un ottimo recupero per un disco davvero estremo ed underground.

Tracklist
1. Mors Lupe
2. Potius Nihil… Potius Deseltus (Act. I) Ars Falsarum Imaginium Extintarum (Act. II)
3. Est Locus Unicuique Suus
4. Longa Vita Néos Gheron!
5. Subdecti Nostras Memorias Nequitunt Laedere Inferiores
6. Stulti! (Silence track)
7. La Morte Di Lupe (Bonus track)

Line-up
Luca Amato (Lupe) – all lyrics and vocals
Roberto Pecorari – all synths

MASKED DEAD RECORD – Facebook

Sarinvomit – Malignant Thermonuclear Supremacy

Chi ama il metal più genuino e diretto non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di farsi maltrattare da questi tre quarti d’ora di black thrash impetuoso, suonato bene, prodotto discretamente e dotato di quella percentuale di freschezza in più che spesso hanno in dotazione le band che provengono da scene, per così dire, non convenzionali.

I turchi Sarinvomit con questo lo primo full length non si perdono certo in preamboli, partendo subito sparati con il proprio nucleare black metal ed arrestando la corsa solo al termine dell’ultima nota di Malignant Thermonuclear Supremacy.

Se tutto questo può far pensare ad un’interpretazione minimale e semplicistica del genere c’è, però, il rischio di cadere in errore: in realtà questo quartetto di Istanbul tratta la materia con notevole competenza e pur senza svincolarsi dagli stilemi di base o mostrare tratti particolarmente personali, offre tre quarti d’ora di black la cui corposa componente thrash si rivela determinante per amplificarne l’impatto.
Il sound dei Sarinvomit è piacevolmente antico per approccio, nel senso che ogni idea di sperimentazione viene totalmente bandita a favore di un incedere diretto, incalzante e che non lascia spazio ad indugi o passaggi più riflessivi.
Preso atto di tutto questo, chi ama il metal più genuino e diretto non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di farsi maltrattare da questi tre quarti d’ora di black thrash impetuoso (con menzione di merito per il brano auotointitolato, ma il tiro delle altre tracce non è affatto da meno) , suonato bene, prodotto discretamente e dotato di quella percentuale di freschezza in più che spesso hanno in dotazione le band che provengono da scene, per così dire, non convenzionali.

Tracklist:
1 – Perishing In Eternal Void
2 – One Trillion Megaton
3 – Mass Grave Planet
4 – Evaporation In Mushroom Cloud
5 – Splendid Radioactive Particles
6 – Sarinvomit
7 – Destructive Solar Flare

Line-up:
Godslayer – Guitarsg
Tyrannic Profanatör – Vocals
Fiend – Bass, Vocals (backing)
K.C. – Drums

Sargeist – Unbound

Oltre agli stilemi del black qui ci sono persone che vogliono fare musica e non solo scioccare l’ascoltatore o rinchiuderlo nelle prigioni della bassa fedeltà. Ci sono molte cose da scoprire in questo disco, e Unbound garantisce molti ascolti, tutti piacevoli.

Dopo vari cambi di formazione e qualche pausa creativa tornano i finnici Sargeist uno dei gruppi più influenti della scena black metal mondiale ed europea, guidati come sempre dal chitarrista cantante e compositore Shatraug, membro dei mitici Horna, un altro grande gruppo black finlandese.

La terra finnica è sempre stata fertile madre per ottimi gruppi di black metal, e i Sargeist sono fra questi. Il loro black è classico e melodico al contempo, potente e molto ben composto, non è pura furia ma è un dipanarsi di tenebrosi sentimenti che vivono in noi, e che forse sono la parte più vera di noi. I Sargeist sono uno dei gruppi maggiormente prolifici per quanto riguarda le uscite discografiche, sono stati protagonisti di molti split e altrettante collaborazioni, nel vero spirito del black metal. Nonostante la loro prolificità, era dal 2014 che non si sentiva nulla di nuovo dai Sargeist, a causa soprattutto dei cambi di formazione, ma con questo disco tornano prepotentemente alla ribalta, e lo fanno nel migliore dei modi possibili. Il disco è molto ben bilanciato, a livello di qualità e di impatto è davvero dura fare meglio di loro. L’impianto sonoro è principalmente classico e non si discosta molto dai dischi precedenti, con quell’impronta che hanno solo i grandi gruppi black finlandesi, i quali si differenziano dai loro vicini norvegesi per la capacità di attenersi molto bene ai dettami del genere, forse meglio dei capostipiti. Per chi ama i suoni oscuri, distorti e tumultuosi, qui c’è pane per i suoi denti, e i Sargeist offrono come al solito più di quanto sopra ai loro ascoltatori. La cosa più importante qui presente è l’attitudine, e più per esteso lo spirito che permea questo lavoro, e la visione musicale dei Sargeist. Oltre agli stilemi del black qui ci sono persone che vogliono fare musica e non solo scioccare l’ascoltatore o rinchiuderlo nelle prigioni della bassa fedeltà. Ci sono molte cose da scoprire in questo disco, e Unbound garantisce molti ascolti, tutti piacevoli.

Tracklist
1. Psychosis Incarnate
2. To Wander the Night’s Eternal Path
3. The Bosom of Wisdom and Madness
4. Death’s Empath
5. Hunting Eyes
6. Her Mouth is an Open Grave
7. Unbound
8. Blessing of the Fire-Bearer
9. Wake of the Compassionate
10. Grail of the Pilgrim

Line-up
Profundus – vocals
Shatraug – guitars
VJS – guitars
Abysmal – bass
Gruft – drums

SARGEIST – Facebook

LIFELOST – Dialogues From Beyond

Phlegeton dimostra d’essere un ottimo musicista e Dialogues From Beyond rappresenta il miglior esordio possibile per il suo nuovo progetto, non a caso finito nelle grinfie di una delle etichette mondiali più attente all’underground estremo come l’indiana Transcending Obscurity.

Dialogues From Beyond è il primo album con il marchio Lifelost per il musicista basco Phlegeton, attivo nella scena iberica già da diverso tempo con molti altri progetti.

Questo, che è l’ultimo attivato in ordine di tempo, si rivela un’interpretazione di spessore della materia estrema, grazie ad un black death cupo e incalzante, ben eseguito e dall’assimilazione facilitata da una registrazione in linea con le aspettative.
I dialoghi con l’aldilà avvengono così in maniera aspra, esplorando i meandri più oscuri del genere per aprirsi leggermente solo con le due magnifiche Metanoia e Incorporeal Gate, non meno urticanti rispetto alle pur buone Malign Emanatio, Sepulchral Vault e Released from Life ma segnate da una parvenza melodica che consente al sound targato Lifelost di imprimersi con maggior successo.
Molte sono le band di un certo nome citate tra i possibili riferimenti stilistici, ma tutto sommato nell’album si rinviene una buona dose di personalità che lo sottrae al rischio di finire archiviato nel cospicuo novero delle copie sbiadite del già sentito.
Phlegeton dimostra d’essere un ottimo musicista e Dialogues From Beyond rappresenta il miglior esordio possibile per il suo nuovo progetto, non a caso finito nelle grinfie di una delle etichette mondiali più attente all’underground estremo come l’indiana Transcending Obscurity.

Tracklist:
1. Malign Emanatio
2. Sepulchral Vault
3. Released from Life
4. Metanoia
5. Incorporeal Gate

Line-up:
Phlegeton – Everything

LIFELOST – Facebook

Tezcatlipoca – Tlayohualtlapelani

Se prendiamo Tlayohualtlapelani per quello che è, all’interno di un genere come il black metal, non è che resti molto per produzione ed esecuzione; se, invece, mettiamo sul piatto l’utilizzo di strumenti tradizionali in uso in epoca preispanica il tutto assume un altro aspetto, acquisendo un suo fascino ancestrale.

Il secondo full length dei messicani Tezcatlipoca è uno di quei classici lavori che vanno osservati da due punti di vista diversi sperando che prima o poi ci sia una convergenza. .

Se prendiamo Tlayohualtlapelani per quello che è, all’interno di un genere come il black metal, non è che resti molto per produzione ed esecuzione; se, invece, mettiamo sul piatto l’utilizzo di strumenti tradizionali in uso in epoca preispanica il tutto assume un altro aspetto, acquisendo quel fascino ancestrale capace di attenuare le carenze di cui sopra.
Attenuare, mettendole in secondo piano senza cancellarle del tutto, comunque, perché spogliato dei suoni elementi etnici e concettuali, del black metal dei Tezcatlipoca ne resterebbe davvero il solo scheletro, accettabile nella sua essenziale indole primitiva e poco più.
Con l’utilizzo di questi strumenti tradizionali, invece, le cose cambiano e non poco, immergendoci mani e piedi in un’atmosfera rituale che fa passare in secondo piano ogni considerazione tecnica e stilistica, e questa è in fondo la forza del black metal, genere capace di trasformarsi ogni volta nel mezzo artistico ideale per veicolare emozioni, storie e filosofie spesso contrastanti, talvolta anche discutibili, ma sempre degne di interesse nel loro sviluppo.
Tlayohualtlapelani si rivela un’opera da ascoltare in quest’ottica di arricchimento storico e culturale, volto a ricordarci quanto sia ipocritamente ridicolo l’occidente nel suo chiudersi a riccio erigendo muri (non solo in senso metaforico), quando la storia della colonizzazione del continente americana è stampata su libri dalle pagine macchiate del sangue versato nell’opera di sterminio ed annientamento di civiltà autoctone e delle sue tradizioni millenarie da parte degli europei.
Ben vengano, quindi i Tezcatlipoca nel riesumare tutto questo e pazienza se ciò avviene in una forma rivedibile, perché mai come in questo caso sono i contenuti a fare la differenza, con le dissonanze create da antichi strumenti a fiato che rendono stranianti e profondi brani altrimenti sghembi come In Tlilihtec Tzompantli o In Tzinacan Itlayohualpatlaniliz, tanto per citare i due più interessanti all’interno di un lavoro che possiede diversi aspetti interessanti.

Tracklist:
1. Notlacahcahualiz Ica Yetztli, Cipactli
2. Huey Tlatoani
3. In Tlilihtec Tzompantli
4. Macuil Xochitl Icic
5. Chichimeca, Yaotecatl Ayamictlan
6. In Tzinacan Itlayohualpatlaniliz
7. Tlacatl Tlein In Mimiqueh Icah Tlahtoa
8. Mictlan Itemouh

Line-up:
Acolmiztli – Drums
Ehecatl – Guitars
L’yaotl – Vocals, Bass
Cuauhtli – Prehispanic instruments, Vocals (additional)

TEZCATLIPOCA – Facebook

Bâ’a / Verfallen / Hyrgal – Bâ’a / Verfallen / Hyrgal

Un altro spilt album riuscito e ricco di numerosi spunti di interesse e non si può fare a meno di notare che la cosa sta diventando una piacevole abitudine, segno che le label coinvolte non si limitano solo ad assemblare in qualche modo band diverse puntando, invece, all’offerta di un prodotto che mantenga una propria impronta stilistica pur nella peculiarità delle singole realtà proposte.

L’etichetta Les Acteurs de l’Ombre Productions offre un ricco split album che ci presenta tre realtà francesi dedite al black metal, con due brani a testa per circa cinquanta minuti di ottima musica estrema.

Dei tre gruppi l’unico conosciuto fino ad oggi sono gli Hyrgal, dei quali abbiamo già parlato circa un anno fa in occasione del loro valido esordio su lunga distanza intitolato Serpentine, mentre sia i Bâ’a che i Verfallen sono, per quanto ci risulta, al primo passo discografico.
Veniamo quindi a Les terres de la terreur e La grande désillusion, le due tracce con le quali i Bâ’a (dei quali nulla è dato sapere) dimostrano di aver assimilato gli insegnamenti dei migliori interpreti del black metal più atmosferico e melodico, non esibendo in maniera marcata, va detto, quel marchio tipicamente transalpino che spesso rende il genere proveniente da quelle lande molto più ricercato e contorto: i Bâ’a viaggiano spediti con il loro stile ritmato ma al contempo arioso ed evocativo, rappresentando una piacevole sorpresa e ponendo basi davvero solide per il futuro.
Dei Verfallen si sa invece che si tratta del progetto solista del batterista degli Hyrgal Emanuel Zuccaro, il quale opportunamente si discosta dal sound della band di origine optando per uno stile ben più impetuoso e dalle sfumature epiche, piuttosto diretto e sicuramente efficace (molto bella soprattutto La valeur des ténèbres), anche se forse l’offerta di brani lunghi dieci minuti non sempre può rivelarsi una scelta ottimale visto il genere trattato.
Gli Hyrgal, infine, confermano con le due tracce a propria disposizione le buone impressioni destate nel recente passato, con il loro black più ricercato e cadenzato: in Césure l’oscuro sentire della band si sviluppa con tempi ragionati ed un flusso crescente e costante, ma è in Sicaire che il trio aquitano imprime con forza il marchio di un sound già importante, con una prima metà drammaticamente furiosa e di rara solidità che si stempera in un bel finale ambient dai rimandi a quell’ambientazione alpina che i nostri hanno già evocato efficacemente in Serpentine.
Ecco quindi un altro spilt album riuscito e ricco di numerosi spunti di interesse e non si può fare a meno di notare che la cosa sta diventando una piacevole abitudine, segno che le label coinvolte non si limitano solo ad assemblare in qualche modo band diverse puntando, invece, all’offerta di un prodotto che mantenga una propria impronta stilistica pur nella peculiarità delle singole realtà proposte.

Tracklist:
1. Bâ’a – Les terres de la terreur
2. Bâ’a – La grande désillusion
3. Verfallen – Derelictus
4. Verfallen – La valeur des ténèbres
5. Hyrgal – Césure
6. Hyrgal – Sicaire

Line-up:
Hyrgal
A.Q. Bass
F. C. Vocals, Guitars
Z.E. Drums, Vocals (backing)
Verfallen
Emmanuel Zuccaro All instruments

Haiduk – Exomancer

Haiduk offre un lavoro decisamente interessante e che non è rivolto esclusivamente a chi apprezza i virtuosi delle sei corde: qui alla base c’è una solida matrice estrema che conferisce al tutto un peso specifico in grado di trasportare Exomancer al di là di una semplice esibizione di tecnica strumentale.

Il progetto solista Haiduk, nonostante il monicker rimandi alla storia bellica della Serbia, fa capo al musicista canadese Luka Milojica, il cui cognome fa trasparire comunque origini slave.

Gli “haiduk” erano guerriglieri balcanici che lottarono contro la dominazione ottomana tra il XV ed il XIX secolo e, tutto sommato, anche la musica contenuta in Exomancer dimostra tratti decisamente bellicosi essendo improntata su un death black tecnico e melodico, nel quale la chitarra tesse in maniera pressoché incessante trame sonore intricate e talvolta dissonanti ma dallo scorrimento piuttosto fluido.
La proposta targata Haiduk non è comunque di facile assimilazione per la sua natura prevalentemente strumentale e anche per una certa reiterazione degli schemi che, però, non inficia in maniera determinante la bontà dell’operato del musicista di Calgary.
Le progressioni chitarristiche si susseguono incalzanti senza soluzione di continuità e ciò costituisce lo spartiacque che definisce il gradimento o meno del lavoro da parte dell’ascoltatore: Luka è indubbiamente uno strumentista di alto livello e già abbastanza rodato (questo è il terzo full length a nome Haiduk) e ciò gli consente di perseguire il proprio obiettivo con la necessaria disinvoltura unita ad un’apprezzabile sintesi.
La durata di Exomancer, infatti, è opportunamente contenuta in circa mezz’ora, il tempo giusto per apprezzare il susseguirsi vorticoso del lavoro strumentale di Milojica concentrato in dieci brani intensi e concisi; nonostante sia strutturato in maniera a suo modo rischiosa, Exomancer è un lavoro che riesce a non risultare mai tedioso e tale risultato sicuramente contribuisce il fatto che l’autore non si specchia nella propria bravura optando per un approccio molto diretto e saturando gli spazi con un incedere martellante che non lascia spazio a passaggi interlocutori.
Il nostro “haiduk” offre così un lavoro decisamente interessante e che non è rivolto esclusivamente a chi apprezza i virtuosi delle sei corde: qui alla base c’è una solida matrice estrema che conferisce al tutto un peso specifico in grado di trasportare Exomancer al di là di una semplice esibizione di tecnica strumentale.

Tracklist:
1. Death Portent
2. Unsummon
3. Evil Art
4. Subverse
5. Icevoid Nemesis
6. Doom Seer
7. Pulsar
8. Blood Ripple
9. Once Flesh
10. Crypternity

Line-up:
Luka Milojica – all instruments (guitars, vocals, drum programming)

HAIDUK – Facebook

VV.AA. – A TRIBUTE TO BURZUM

La Compilation di cover della band di Vikernes – in uscita il 21 Novembre per il noto Antichrist Magazine – contiene ben 17 band provenienti da tutto il mondo (compresa una special guest d’eccezione: la bellissima e misteriosamente gotica pianista e compositrice berlinese, Katarina Gubanova). Ce n’è per tutti i gusti. Dai Burzum elementali e primevi dell’Omonimo e di Aske, passando poi per tutte le fasi di ispirazione Ambient, sino ad arrivare al periodo Folk/Viking dei giorni nostri.

Ad essere sincero, ho sempre pensato che il Tributo alla band icona di turno, dovesse per forza essere un omaggio a chi oggi non esiste più.

Un ossequioso dono sacrificale ad un’entità musicale del passato e che oggi esiste solo nei ricordi e nelle memorie dei fan. In realtà, continuo ad essere contraddetto e smentito, dalla valanga di album-tributo che escono ogni giorno, dedicati a compositori, strumentisti e band ancora molto attive, ai giorni nostri. Il Tributo spesso viene definito come l’atto che viene compiuto per adempiere ad un obbligo (in genere di carattere morale) verso qualcuno, a riconoscenza dei suoi meriti; forse sarebbe più azzeccato omaggiare il ricordo, di chi oggi non c’è più, o almeno non risulta essere più in attività…Vero è che la parola Tributo (dal latino “tributus”, derivazione di “tribus” – Tribù), spesso identifica anche l’appartenenza alla tribù. Oggi come tutti sappiamo, i Burzum non sono più in attività (l’ultima produzione risale al 2015, con il singolo Thulean Mysteries, dopodiché più nulla sino alla dichiarazione ufficiale di giugno di quest’anno di Mr. Varg Vikernes, nella quale ci informava che il progetto fosse giunto al termine, dopo ben 27 anni). In questo contesto, collocherei l’album, oggetto della recensione, ergendolo a simbolo di un’esigenza popolare, sicuramente maturata negli anni, di poter esprimere, sia tutta la devozione della tribù del Black Metal verso il loro idolo indiscusso, sia una sorta di necessità atta a sottolineare la “proprietà” (in senso ovviamente lato) dell’immensa opera che ci ha lasciato. Come a dire :”devoti alla nostra divinità e proprietari/custodi di ciò che ci ha lasciato in eredità”.
La Compilation di cover della band di Vikernes – in uscita il 21 Novembre per il noto Antichrist Magazine – contiene ben 17 band provenienti da tutto il mondo (compresa una special guest d’eccezione: la bellissima e misteriosamente gotica pianista e compositrice berlinese, Katarina Gubanova). Ce n’è per tutti i gusti. Dai Burzum elementali e primevi dell’Omonimo e di Aske, passando poi per tutte le fasi di ispirazione Ambient, sino ad arrivare al periodo Folk/Viking dei giorni nostri. Dall’Olanda gli ottimi blacksters Yaotzin, ci propongono Hvis lyset tar oss, in una versione fedelissima della title-track del capolavoro datato 1994. I truci tedeschi Khald, band della nera regione di Baden-Württemberg, rileggono Jesus’ Tod (in lingua madre Jesu død) dall’album Filosofem (1996), uno dei più grandi lavori dell’artista norvegese in ambito Black e Dark Ambient, in maniera leggermente più sinfonica (l’iniziale tremolo di Vikernes viene qui principalmente sostituito dai synth), perdendo un po’ il Raw, ma ottenendo comunque un pezzo di uguale impatto. Balzo in avanti negli anni (siamo nel 2010) con gli ucraini Atra Mors e con Belus’ død, tratta ovviamente da Belus (2010), primo album pubblicato dopo la scarcerazione di Varg, e originariamente uscito con il titolo Den Hvite Guden (“Il Dio Bianco”, in lingua norvegese), e quindi ennesima revisione del riff già presente su Dauði Baldrs (per scelta, Vikernes decise qui di ripetere paro paro il riff della canzone del 1997). Molto Black classico e poco Burzum di quegli anni, ad onor del vero. Malinconia e ricordi nella cover degli americani Aetranok che dei 10 minuti ed oltre di A Lost Forgotten Sad Spirit (dall’ep Aske del 1993) fanno copia ed incolla (da notare la voce del singer Meretrix, davvero simile a Burzum) e meritano l’acquisto del loro nuovo album “Kingdoms of the Black Sepulcher” uscito per la Symbol of Domination. Prima song tratta dall’album eponimo del 1992 (Feeble Screams from Forests Unknown) per gli olandesi Myrkur Skógur, riletta in chiave più moderna; la cover risulta piacevole, ma il suono più pulito ne impoverisce un po’ la cupa atmosfera degli esordi del signore di Bergen. I terribili “chiodati” vichinghi Wan dalla vicina Svezia, giocano facile e rivivono Stemmen fra tårnet (Aske) “alla scandinava”; il risultato è un pezzo che pare fuoriuscito direttamente dal 1993. I sinfonici germano/norvegesi Dynasty of Darkness scelgono Dunkelheit (titolo originale “Burzum”, da Filosofem), ovviamente il brano più Ambient dell’album, senza però perdersi in troppo arzigogolate ruffiane armonie, mantenendo la terrificante desolazione, che il brano originale esprime in ogni sua singola nota. Chi ama il tremolo ama My Journey To The Stars (Burzum). Qui i bravissimi germanici Mournful Winter sciorinano una tecnica sopraffina, senza però far perdere alla song il pathos originale. Con curiosità e attenzione critica mi appropinquo all’ascolto della cover di Han Som Reiste (da Det som engang var – 1993) il capolavoro strumentale dell’artista con l”A” maiuscola. I Colotyphus (Ucraina) purtroppo ne rovinano l’arcano fascino medioevale, riducendo il pezzo ad un classico (e scontato) brano di Dark Ambient sinfonico. Il sapiente utilizzo del basso non come semplice base ritmica, ma come strumento portante di tutto l’eterno corpo della canzone (più di 11 minuti) e gloriosa anima di dimenticate epopee guerresche, fece la fortuna di Glemselens Elv (Belus) ergendola ad uno dei più fulgidi esempi di Viking Metal (molto Bathoriano ad onor del vero). Purtroppo il seppur bravissimo duo dell’Arizona (Unholy Baptism) cede alla tentazione, e dà risalto alle sole chitarre per riproporre il meravigliosamente ossessivo giro di basso, così in evidenza nel brano originale. Un peccato perché, davvero, gli autori di …On the Precipice of the Ancient Abyss, sono un ottimo gruppo da tenere d’occhio. I terrificanti Bestia si cimentano nel tentativo di ripetere il successo primevo di Beholding The Daughters Of The Firmament (Filosofem); il brano, sicuramente uno dei più funerei e doom di tutto l’album, appariva già da principio inadatto al quartetto estone, fautore di un Black Metal con influenze Brutal Death; il pezzo viene rivisitato, ritmato ed infarcito di synth, facendone un buon pezzo Black, ma che nulla c’entra con l’originale. Anche il cantato schizoide di Vikernes, viene qui sostituito da uno dei più classici scream. Peccato. La brevissima War (da Burzum), vero pezzo Bathoriano appartenente alla First Wave of Black Metal, è stato scelto dai bravissimi Chaoscraft. Qui i greci dimostrano di sapere il fatto loro e di conoscere molto bene le loro origini e le loro fonti ispiratrici. Resta un mistero conoscere il motivo per il quale, per il pezzo Vanvidd (Fallen – 2011), sia stata chiamata una band di Melodic Death, invece che scegliere una tra le miriadi di band Black provenienti dalla Colombia. Qui i Thy Unmasked di Bogotà, ce la mettono tutta, ed il risultato ovviamente non poteva che essere un mix di Black e Death; bello si, ma lontano dalle idee di Varg. Quando ho letto Uruk-Hai ho pensato (con piacere) immediatamente ai bravissimi corpsepaint blacksters spagnoli; in realtà di tratta di un’altra band, ossia i Medieval Dark Ambient austriaci. Scelta comunque azzeccata per il brano Hermoðr á Helferð (Dauði Baldrs – 1997), che si collocherebbe alla perfezione tra le fila delle produzioni della one-man band di Linz. Un lungo salto nel 2012, per ascoltare la cover di Valgaldr, da Umskiptar, uno degli album più folk viking metal del Nostro. Scelta azzeccata con gli ungheresi Eclipse of The Sun, band che propone un sound molto ricco e variegato, tra il Folk, il Gothic e il Doom. Eccellente. Il Bielorusso Darkus (alias Stanislaŭ Semeniaha), unico membro dei blackster Imšar, si cimenta con un brano tratto da Det som engang var, ossia En Ring Til Å Herske. Il brano si sa, è nero e funereo come la morte stessa, drammaticamente lento e angosciosamente ripetitivo, e fortunatamente Mr. Darkus non ne storpia troppo la lugubre natura mortuaria; forse un po’ meno andante e un po’ più adagio, e sarebbe stato perfetto. Special guest a chiusura della compilation, la pianista berlinese Katarina Gubanova che, grazie al magico utilizzo dei suoi polpastrelli, rilegge Ea, Lord of the Depths (da Burzum) in chiave sinfonica per pianoforte: brano curioso e ammaliante, chiude un devoto tributo al Re del Male, spesso non proprio centrato, ma nel complesso un buon prodotto per i fan dei Burzum e per chi vuole scoprire nuove realtà Black, sino ad oggi ancora poco conosciute.

Tracklist
1. Yaotzin (Netherlands) Hvis lyset tar oss
2. Kâhld (Germany) Jesus’ Tod
3. Atra Mors (Ukraine) Belus’ Dod
4. Aetranok (USA) A Lost Forgotten Sad Spirit
5. Myrkur Skógur (Netherlands) Feeble Screams from Forests Unknown
6. Wan (Sweden) Stemmen Fra Taarnet
7. Dynasty of Darkness (Germany / Norway) Dunkelheit
8. Mournful Winter (Germany) My Journey To The Stars
9. Colotyphus (Ukraine) Han Som Reiste
10. Unholy Baptism (USA) Glemselens Elv
11. Bestia (Estonia) Beholding The Daughters Of The Firmament
12. Chaoscraft (Greece) War
13. Thy Unmasked (Colombia) Vanvidd
14. Uruk-Hai (Austria) Hermodr A Helferd
15. Eclipse of The Sun (Hungary) Valgaldr (Song of the Fallen)
16. Imšar (Belarus) En Ring Til Å Herske
17. + special guest:
Katarina Gubanova (Germany) Ea, Lord of the Depths

ANTICHRIST MAGAZINE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=cHNZE0s4w_8

Slaegt – The Wheel

Un disco ispirato e oscuro ma oltremodo pervaso da melodie classiche, con un gran lavoro chitarristico (l’anima heavy) e ritmico (quella black), The Wheel è sicuramente influenzato dalla scena ottantiana ma risulta abbastanza personale per non sprofondare nelle sabbie mobili del già sentito.

Gli Slaegt propongono un buon ibrido composto da sonorità heavy ed impatto black metal, creando un sound in cui le due anime si scontrano per la supremazia di una sull’altra senza che però ci sia realmente un vincitore.

L’idea è buona, ovviamente il sound appartiene a quel filone old school che si rifà al metal anni ottanta, anche se la band danese lascia ad altri il thrash alla Slayer di tanti colleghi e ci investe con il suo black metal valorizzato da chitarre heavy classiche.
Gli Slaegt sono attivi dal 2011 e questo The Wheel è il terzo lavoro sulla lunga distanza, successore di Domus Mysterium, licenziato lo scorso anno, quindi la band è in una buona fase creativa confermata da questi sette lunghi brani.
Ritmiche black, scream cattivo e chitarre disegnano solos metallici di buona fattura, tracce medio lunghe si rivelano cavalcate epiche come da tradizione hard & heavy, ispirate alla new wave of british heavy metal, mentre il demone black si impossessa dell’anima travagliata del sound di brani come Masician, Citrina e la conclusiva title track.
Un disco ispirato e oscuro ma oltremodo pervaso da melodie classiche, con un gran lavoro chitarristico (l’anima heavy) e ritmico (quella black), The Wheel è sicuramente influenzato dalla scena ottantiana ma risulta abbastanza personale per non sprofondare nelle sabbie mobili del già sentito.

Tracklist
1. Being Born (Is Going Blind)
2. Masician
3. Perfume and Steel
4. Citrinitas
5. V.W.A.
6. Gauntlet of Lovers
7. The Wheel

Line-up
Oskar J. Frederiksen: Lead vocals and rhythm guitar
Anders M. Jørgensen: Lead guitar
Olle Bergholz: Bass guitar and backing vocals
Adam ‘CC’ Nielsen: Drums

SLAEGT – Facebook

Malepeste/Dysylumn – Ce qui fut, ce qui est, ce qui sera

Ce qui fut, ce qui est, ce qui sera non solo mette in mostra due ottime band ma regala cinquanta minuti di materia estrema interpretata in maniera intensa e creativa, due attributi che rendono il lavoro degno della massima attenzione.

Nonostante gran parte della scena musicale metal attinga a piene mani dalla mitologia greca e romana, a mia memoria le tre Parche vennero tirate in ballo solo nella suite The Three Fates, facente parte dell’album d’esordio degli ELP.

Probabilmente nell’arco di quasi mezzo secolo qualcun altro molto meno noto dello storico trio, emblema del virtuosismo strumentale in ambito prog, avrà menzionato nei propri lavori queste inquietanti figure intente a gestire il filo dell’esistenza umana; di sicuro lo fanno, e molto bene, i Malepeste e i Dysylumn, due band francesi che uniscono le proprie forze in questo split album intitolato Ce qui fut, ce qui est, ce qui sera, sotto l’egida della Goathorned Productions.
Entrambe le band, provenienti da Lione, esibiscono un black metal inquieto ed obliquo, come da tradizione transalpina, ma molto meno sperimentale e dissonante rispetto a molti propri colleghi e connazionali.
I Malepeste conferiscono al loro sound un’aura piuttosto progressiva, tanto che l’elemento black appare molto meno accentuato a favore di un approccio atmosferico, pur se ammantato di una spessa coltre di oscurità; alla band, che si rifà sentire dopo un ottimo full length come Deliquescent Exaltation risalente al 2015, tocca il compito di descrivere Clotho, Lachesis ed Atropos, ovvero quelle che nella mitologia greca venivano definite le Moire, e in poco meno di venti minuti viene offerta un’interpretazione convincente, profonda e ricca di variazioni e sfumature, dal taglio molto evocativo (specialmente in Atropos) e pregevole anche da punto di vista tecnico, a conferma delle qualità esibite nel recente passato.
I Dysylumn sono invece freschi reduci di un full length come Occultation, molto ben accolto dalla critica, ed il perché lo si capisce dopo pochi secondi del loro primo brano Nona (che assieme a Decima e Morta erano invece le tre Parche secondo la tradizione dell’antica Roma), una dimostrazione di forza magnifica in virtù di un sound trascinante, più riconducibile al black metal rispetto ai Malepeste a livello di ritmiche ma non meno ricco di spunti memorabili; le altre due tracce dedicate alle temibili figure femminili mantengono comunque un’impronta incalzante sulla quale incombono il growl ed il notevole lavoro chitarristico di Sébastien Besson.
L’inquietante Epilogue, con il suo testo recitato al contrario, rappresenta idealmente il riavvolgimento del filo dell’esistenza, chiudendo uno split album che smentisce una volta di più chiunque ritenga che tali operazioni siano trascurabili o ancor peggio superflue.
Ce qui fut, ce qui est, ce qui sera non solo mette in mostra due ottime band ma regala cinquanta minuti di materia estrema interpretata in maniera intensa e creativa, due attributi che rendono il lavoro degno della massima attenzione.

Tracklist:
1. Malepeste – I – Prologue
2. Malepeste – II – Clotho
3. Malepeste – III – Lachésis
4. Malepeste – IV – Atropos
5. Dysylumn – V – Nona
6. Dysylumn – VI – Decima
7. Dysylumn – VII – Morta
8. Dysylumn – VIII – Épilogue

Line-up:
Malepeste
Nostradamus – Bass
Flexor – Drums
Xahaal – Guitars
Larsen – Vocals

Dysylumn
Camille Olivier Faure-Brac – Drums
Sébastien Besson – Guitars, Vocals

MALEPESTE – Facebook

DYSYLUMN – Facebook