Nel corso del programma condotto da Mirella su EnergyRadio, avremo uno spazio di qualche minuto nel corso del quale porteremo in evidenza i migliori dischi da noi recensiti nel corso della settimana. Qui è disponibile la versione testuale dell’ultima puntata.
Riproponiamo questa rubrica con la quale noi di Metaleyes porremo alla vostra attenzione alcuni tra i dischi dei quali abbiamo parlato nel corso della settimana.
La settimana scorsa non siamo andati in onda dato che la nostra speaker preferita è stata impegnata nelle vesti di presentatrice del Metal Queen’s Burning Night, quindi sono molti i lavori degni di menzione accumulatisi in questi 15 giorni, per cui li porterò alla vostra attenzione con una rapida carrellata.
Cominciamo con il ritorno di due nomi pesanti provenienti dal nord europa, sto parlando degli At The Gates con To Drink From The Night Itself, e degli Amorphis con Queen Of Time, due opere convincenti per band che non hanno bisogno di presentazioni e che dimostrano come il passare degli anni non ne abbia affievolito l’impatto; c’è senz’altro chi non sarà d’accordo sostenendo che questi dischi non sono all’altezza delle loro opere più datate ma, attenzione, se si guarda sempre indietro non si vede dove si appoggiano i piedi mentre si cammina e in più si rischia un fastidioso torcicollo …
Sempre in ambito melodic death va segnalato l’ottimo The Light That Shines dei francesi Fractal Gates, mentre chi ama il thrash non dovrebbe farsi sfuggire l’ultimo lavoro degli spagnoli Angelus Apatrida, Cabaret De La Guillotine e infine, per chi si ritiene orfano dei migliori Nightwish, è doveroso l’ascolto del full length d’esordio dei bulgari Metalwings, For All Beyond.
Voliamo nella nostra ingovernabile penisola segnalando, in ambito heavy/power metal, i Chronosfear con l’album omonimo e i Nereis con Turning Point; per le sonorità più estreme, black metal nello specifico, emergono i Kyterion con Inferno II e gli storici Abhor con Occulta Religio.
Per quanto riguarda sonorità più moderne e nervose ecco poi il metalcore dei Last Resistance con A World Painted Grey ed il postmetal degli Sterpaglie con Pellicano del Deserto.
L’angolo del doom contiene un’altra band italiana, i siciliani Haunted, autori del magnifico Dayburner, gli inglesi Grave Lines con Fed Into The Nihilist Engine e gli statunitensi Chrch con Light Will Consume Us All, entrambi interpreti del miglior sludge. Chiudo segnalando un album decisamente ostico ma a mio avviso di enorme valore come quello degli inglesi Bodies On Everest , i quali con A National Day Of Mourning offrono un inquietante spaccato della cupa realtà che ci circonda con un terrificante mix di psichedelia ,drone, sludge, ambient ed elettronica.
Burn It Down è il quarto album in studio e la band fa un ulteriore balzo temporale all’indietro, inglobando in un sound che ha sempre poggiato le basi negli anni ottanta impulsi rock blues del decennio precedente, come se John Corabi e compagni avessero lasciato gli Whitesnake dopo il loro approdo a Los Angeles, per recuperare quelli più rudi e selvaggi delle origini.
I The Dead Daisies sono la più grande band che i fans dell’hard rock classico possono ascoltare di questi tempi su disco e vedere in versione live sui palchi di tutto il mondo.
Quello che era partito come un super gruppo dall’incerta durata nel tempo, si è trasformato in una meravigliosa realtà che, a ogni passo, lascia in eredità album di un’altra categoria incentrati sul rock duro e puro. Burn It Downè il quarto album in studio e la band fa un ulteriore balzo temporale all’indietro, inglobando in un sound che ha sempre poggiato le basi negli anni ottanta impulsi rock blues del decennio precedente, come se John Corabi e compagni avessero lasciato gli Whitesnake dopo il loro approdo a Los Angeles, per recuperare quelli più rudi e selvaggi delle origini.
Ovviamente il tutto avviene in un contesto assolutamente potente e moderno e i The Dead Daisies, con il nuovo grande acquisto dietro alle pelli, Deen Castronovo (Bad English, Journey), che va ad affiancarsi e si affianca alle altre leggende presenti nella band, offrono uno spettacolo di hard rock impossessato dal demone del blues: la tracklist offre brani che spezzano schiene sotto i colpi inferti dai riff della coppia Lowy/Aldrich, con le ritmiche che vomitano tonnellate di groove potente e scarno (Castronovo/Mendoza formano una delle coppie ritmiche più potenti della scena), lasciando che Corabi sciorini la prestazione più emozionante, vera e bluesy che il sottoscritto ricordi nella lunga carriera del vocalist americano.
Ora, con queste premesse è ovvio che siamo al cospetto dell’ennesimo capolavoro che non avrà sicuramente il successo dei lavori dei gruppi leggendari dai quali prendono ispirazione e che in altri tempi avrebbe fatto scrivere fiumi di inchiostro e portato la band sulle copertine delle migliori riviste di settore, prima dell’ennesimo tour negli stadi delle grandi città.
Di questi tempi meglio goderseli in qualche teatro o locale più intimo, ma soprattutto far nostro questo bellissimo Burn It Down, che da Resurrected in poi non scende dall’eccellenza, grazie ad una tracklist spettacolare nella quale hard rock, street e blues ancora una volta si alleano per regalare grande musica dura, emozionante, sanguigna, maleducata ed irresistibile.
Neppure quando mid tempo come la title track o stupende ballate blues come Set Me Free smorzano quell’inconfondibile impatto rock’n’roll che è marchio di fabbrica del gruppo, il livello emozionale si abbassa, anzi, è proprio con le calde note di Set Me Free che Corabi sfiora la perfezione nella sua prestazione di cantante a cui la natura ha donato un carisma riconosciuto a pochi prima di lui. Burn It Down è dunque un altro magnifico album di hard rock firmato da questi cinque musicisti uniti sotto il monicker The Dead Daisies, approfittatene!
Tracklist
1. Resurrected
2. Rise Up
3. Burn It Down
4. Judgement Day
5. What Goes Around
6. Bitch
7. Set Me Free
8. Dead And Gone
9. Can’t Take It With You
10. Leave Me Alone
11. Revolution (Bonus Track)
Line-up
Deen Castronovo – Drums
David Lowy – Guitars
John Corabi – Vocals
Doug Aldrich – Guitars
Marco Mendoza – Bass
Questo nuovo album si rivela un altro passaggio evolutivo di un percorso artistico in costante crescendo, sempre contraddistinto da sonorità non del tutto convenzionali e, nel contempo, volte a scuotere quello stato di apatia emotiva nel quale si consuma l’esistenza dell’uomo moderno.
Non posso fare a meno di ammettere d’aver sempre avuto una certa predilezione per i Deadly Carnage, band riminese che, nella sua costante evoluzione nel corso di ogni passo fissato su disco, ha sempre dimostrato d’essere un gradino sopra a gran parte delle proposte appartenenti alla stessa cerchia stilistica.
Se Manthe era stata una splendida prova che aveva portato all’approdo verso un sound più oscuro e spesso collocabile a metà strada tra il black ed il doom nelle loro espressioni più emotive, e l’ep Chasm aveva confermato la propensione verso sonorità più liquide e definibili a maggior ragione “post” (con tutti i significati che si possono attribuire a tale prefisso), Through the Void, Above The Sunssembra ancor meglio focalizzato nell’assemblare le diverse sfumature confluite nel corso del tempo nella proposta del gruppo romagnolo, il quale decide di riversarle per la prima volta all’interno di un affascinante concept dalle tematiche cosmiche.
Prendendo una traccia come Lumis, per esempio, è possibile rendersi conto di come i Deadly Carnage possano permettersi, all’interno di uno stesso brano, di passare con una naturale fluidità da un black drammatico ed atmosferico ad un finale in quota Opeth (quelli più ispirati dei primi dischi, naturalmente), oppure, confrontando il robusto post metal di Matter ed il più sognante e melodico incedere “alcestiano” della meravigliosa Divide, si può notare come queste due maniere di interpretare la materia possano convivere tranquillamente nei tre quarti d’ora di Through the Void, Above The Suns, rappresentando ognuna un tassello fondamentale per la sua comprensione e soprattutto la sua riuscita.
Altri due punti nodali dell’album sono Ifene, dove un’atmosfera carica di tensione sfocia poi in un chorus cantato in italiano difficilmente rimovibile a breve termine, e la conclusiva Entropia, nella quale post metal e black avanguardista si intersecano in maniera esemplare, lasciando in eredità all’ascoltatore la sensazione compiuta d’avere ascoltato una album di rara profondità, sia a livello musicale che concettuale.
I Deadly Carnage non hanno risentito affatto del cambio dietro al microfono, che ora vede il chitarrista tastierista Alexis Ciancio anche alle prese con le parti vocali, e questo nuovo album si rivela un altro passaggio evolutivo di un percorso artistico in costante crescendo, sempre contraddistinto da sonorità non del tutto convenzionali e, nel contempo, volte a scuotere quello stato di apatia emotiva nel quale si consuma l’esistenza dell’uomo moderno.
Un disco così profondo, intenso e nel contempo delicato, poteva scaturire solo dall’incontro tra il triste disincanto del gothic dark di matrice nordica ed il tepore mediterraneo, capace di sciogliere il ghiaccio trasformandolo in lacrime liberatorie.
Quando, nel 2014, uscì un album come Inner Tales, era apparso subito evidente che ci si trovava di fronte all’epifania di un talento unico e cristallino come quello della giovanissima musicista calabrese Federica “Lenore” Catalano.
Restava solo da confermare quanto di buono già mostrato in quel frangente ed è valsa, così, la pena d’avere atteso diverso tempo prima di poter ascoltare il seguito di quel bellissimo disco: All Things Lost on Earth è un’opera che riconcilia con il gothic contraddistinto da voce femminile chiunque avesse in uggia questo tipo di soluzione.
Già, perché qui non c’è nulla di scontato e pianificato a tavolino, solo una decina di canzoni splendide, interpretate da una cantante dalla voce particolare e personale, aiutata da una band perfetta nel proprio ruolo di robusto e, al contempo, atmosferico supporto.
Nel sound dei Lenore S. Fingers confluisce un’inevitabile serie di influssi provenienti da band differenti, ma aventi quale comune denominatore la capacità di produrre musica intrisa di malinconico trasporto (Novembre, Katatonia, The Gathering era Anneke, su tutte), e da ciò ne scaturisce un sound che produce il risultato tutt’altro che scontato di non assomigliare ad un modello specifico. All Things Lost On Earth è un lavoro che possiede la forza di resistere ad una tripletta iniziale di brani talmente belli che renderebbe superfluo il prosieguo di qualsiasi altra tracklist: My Name Is Snow è una sorta di intro, con la voce di Federica che si appoggia sul tappeto strumentale creato dall’ospite Anna Murphy (un’altra splendida interprete che fornisce il suo prezioso contributo all’album solo in forma strumentale, attraverso le tastiere ed uno strumento tradizionale come la ghironda), seguita da Lakeview’s Ghost, dal superlativo chorus e con un’accelerazione finale che conduce a Rebirth, brano di struggente bellezza in ogni suo aspetto.
Così Ever After, con il suo incedere più lieve, funge da ideale cuscinetto tra la prima parte dell’album e quella conclusiva, assieme alla più elaborata Luciferines, unica traccia nella quale appaiono parti cantate in italiano, e la “novembrina ” Epitaph.
L’intensa My Schizophreniac Child recupera l’impatto emotivo impercettibilmente scemato nei brani appena citati, conducendo alla sognante Decadence Of Seasons, canzone nella quale Federica regala brividi a profusione, replicati in buona parte nella più ariosa title track, e affidando la chiusura alla breve e più cupa Ascension, finale degno di un disco di enorme valore.
I Lenore S. Fingers hanno perso buona parte di quelle sfumature doom messe in mostra all’esordio, approdando ad un gothic ricco di quel pathos mancante alla maggior parte degli album ascrivibili allo stesso ambito, spesso perfetti dal punto di vista formale ma scontati nelle soluzioni e incapaci di comunicare empaticamente nei confronti dell’ascoltatore; Federica e i suoi compagni ci aprono, invece, le porte di un microcosmo nel quale regna una malinconia soffusa, lontana sia dalla disperazione delle forme più estreme di doom, sia dall’enfasi dai tratti sinfonici del gothic più commerciale: un disco così profondo, intenso e nel contempo delicato, poteva scaturire solo dall’incontro tra il triste disincanto del gothic dark di matrice nordica ed il tepore mediterraneo, capace di sciogliere il ghiaccio trasformandolo in lacrime liberatorie.
Tracklist:
1. My Name Is Snow
2. Lakeview’s Ghost
3. Rebirth
4. Ever After
5. Luciferines
6. Epitaph
7. My Schizophreniac Child
8. Decadence Of Seasons
9. All Things Lost On Earth
10. Ascension
Chiunque, dovendo scegliere se essere accompagnato nell’Ade a forza di bastonate o tenuto per mano da qualche eterea creatura, opterebbe per quest’ultima eventualità, che è in sostanza proprio quanto decidono di fare i Mournful Congregation, i quali non ci risparmiano certo né dolore né disperazione ma veicolano il tutto in maniera meno aspra rispetto al passato.
Nonostante siano tra coloro che più di altri ci ricordano la caducità dell’esistenza, i musicisti dediti al funeral doom normalmente si prendono tutto il tempo per comporre nuovi dischi, quasi che per loro, al contrario, il tempo a disposizione fosse illimitato.
Da questa che se vogliamo è una bizzarra contraddizione, ne scaturiscono comunque puntualmente dischi capaci di segnare gli appassionati del genere per per molto tempo per cui, per assurdo, basterebbe un solo disco all’anno del livello di questo The Incubus of Karmaper colmare anche la minima sensazione di vuoto.
L’ultimo full length dei Mournful Congregation, band australiana unanimemente riconosciuta nell’elite del genere, risale addirittura al 2011 (si trattava del magnifico The Book Of Kings), mentre per trovare altro materiale inedito della band bisogna comunque tornare al 2014, con l’ep Concrescence Of Sophia.
Se qualche minima recriminazione può derivare quindi dall’avarizia compositiva di Damon Good e compagni, bastano poche note di The Indwelling Ascent per perdonare loro ogni peccato passato, presente e futuro: tre minuti di dolenti melodie chitarristiche ci avvolgono comunicando che qualcosa nel modus operandi dei Mournful Congregationi è sicuramente cambiato.
Se Whispering Spiritscapes si snoda a lungo in linea con la produzione passata della band è solo per trarci parzialmente in inganno, perché nel finale del brano ritorna una vis melodica che si ritroverà anche nella successiva The Rubaiyat, chiarendo doverosamente che tutti i sostantivi e gli aggettivi utilizzati vanno riparametrati tenendo conto che si parla pur sempre di funeral doom.
Del resto, credo che chiunque, dovendo scegliere se essere accompagnato nell’Ade a forza di bastonate o tenuto per mano da qualche eterea creatura, opterebbe per quest’ultima eventualità, che è in sostanza proprio quanto decidono di fare i Mournful Congregation, i quali non ci risparmiano certo né dolore né disperazione ma veicolano il tutto in maniera meno aspra rispetto al passato.
La chitarra solista è lo strumento dominante dell’album, e anche quando non resta costantemente sul proscenio giungono repentine quelle aperture che forniscono i brividi di commozione ricercati da chi considera il genere la forma d’arte suprema.
Sono trascorsi 40 minuti di rara intensità, sufficienti a chiunque per ringraziare la band australiana per quanto offerto con questo suo ritorno e, invece, ci attendono ancora tre brani per altrettanti momenti di funeral doom al massimo livello, con uno schema tutto sommato simile a quanto ascoltato precedentemente
Arriva quindi la title track, ovvero una più breve traccia strumentale che regala un oasi di pace con un chitarrismo morbido nel suo alternarsi tra soluzioni elettriche ed acustiche, prima che si ripiombi nuovamente nell’episodio più cupo dell’album, Scripture of Exaltation & Punishment, dove ritroviamo i Mournful Congregation maggiormente ripiegati nella propria introspettiva idea di dolore; anche qui, però, le linee melodiche sono ben presenti in una sorta di crescendo emotivo che annichilisce nella sua dolente bellezza.
Stupiti dal livello di un album di rara intensità e con gli occhi ancora inumiditi, non tutti potrebbero essere pronti per accogliere gli oltre venti minuti di A Picture of The Devouring Gloom Devouring the Spheres of Being, altro brano stupefacente che va creare un continuum emotivo rispetto al precedente: di fronte ad una simile esibizione di maestria nel maneggiare il genere si esauriscono ben presto gli aggettivi e non resta, così, che lasciar fluire dentro di noi questa musica impareggiabile per le sensazioni che riesce ad evocare.
Quando la maggior parte delle band, dopo oltre due decenni di onorata carriera, e con una status acquisito di maestri assoluti nel proprio campo, si limitano spesso ad inserire il pilota automatico per riproporre album magari validi ma inevitabilmente sbiaditi rispetto a quanto già fatto, i Mournful Congregation pubblicano un capolavoro che resterà ovviamente relegato alla ristretta parrocchia del funeral doom e dei suoi fedeli adepti: Damon Good, Justin Hartwig, Ben Newsome e Tim Call hanno deciso di rendere più esplicito il senso di smarrimento, l’angoscia e la percezione della provvisorietà che è insita in ognuno di noi e che si può esprimere in diverse maniere.
Quella scelta da chi suona doom, come i Mournful Congregation, è una catartica quanto malinconica immedesimazione in un dolore universale che solo pochi, quasi fossero dei medium, sono capaci di fare proprio per poi trasmetterlo in un flusso continuo all’ascoltatore, andando a creare così una sorta di interminabile cerchio empatico.
Tracklist:
1) The Indwelling Ascent
2) Whispering Spiritscapes
3) The Rubaiyat
4) The Incubus of Karma
5) Scripture of Exaltation & Punishment
6) A Picture of The Devouring Gloom Devouring the Spheres of Being
Line-up:
Damon Good : Rhythm & lead guitars, vocals, bass guitars
Justin Hartwig : Lead guitars
Ben Newsome : Bass guitars
Tim Call : Drums, backing vocals
The Age Of Dead Christ è il ritorno di una delle più importanti band metal italiane: il loro thrash black metal continua a mietere vittime e i trentatré anni passati dal primo storico demo non hanno lasciato alcuna cicatrice.
Non è mai facile recensire un album come l’ultimo Necrodeath, si rischia sempre la caduta nella retorica, celebrando una band di valore assoluto ed una manciata di nuovi brani che tornano a far parlare la storia del metal estremo, non solo nazionale.
I Necrodeath sono una delle icone del metal italiano, un gruppo che ha scandito con la sua discografia trent’anni abbondanti di musica metal in Italia, più facile al giorno d’oggi, meno se parliamo degli anni ottanta e novanta.
Peso, Pier, Flegias e G.L sono ancora qui con un album che celebra i trentatré anni dal primo seminale demo The Shining Pentagram, uscito nel 1985, tanti anni quanti quelli del Cristo prima di finire appeso ad una croce sulla collina del Golgotha, come è ben raffigurato nell’artwork che riporta il logo storico del combo genovese.
Ne sono passati di anni e di musica sotto i ponti dell’inferno dove si celebra il metal estremo di matrice thrash/black genere di cui la band è maestra, valorizzato da una tecnica sopraffina e da una furia estrema mai sopita. The Age Of Dead Christ arriva ad un anno dal bellissimo split con la regina nera del metal nazionale Cadaveria, quel Mondoscuro che vedeva interagire le due band in modo totale, al punto da coverizzarsi a vicenda, e quattro dal precedente The 7 Deadly Sins, opera sui sette vizi capitali nella quale i Necrodeath per la prima volta usavano la lingua italiana, alternandola con l’idioma inglese.
Una band che non ha mai avuto timore di sperimentare torna però al più classico death/black, una mazzata estrema violentissima ed oscura che ci sputa in faccia tutta la sofferenza del mondo tramutata in livore e furia, fin dall’opener The Whore Of Salem, una traccia di metal estremo old school, seguita dal devastante thrash/black di The Master Of Mayhem. The Age Of Dead Christ non ha pause, con la band che alterna velocissime ripartenze a mid tempo di schiacciante potenza: Peso dimostra d’essere uno dei batteristi più bravi della scena estrema mondiale con una prestazione che ha nei dettagli e nelle tante finezze ritmiche sparse qua e là il suo maggior pregio, G.L. supporta con una prova gagliarda il collega e la furia tecnicamente ineccepibile di Pier Gonella, con Flegias che sputa veleno, demone inarrestabile dietro al microfono. The Kings Of Rome infuria tempestosa, The Triumph Of Pain rallenta i ritmi ma, in quanto ad atmosfera, è uno dei brani più riusciti dell’ opera; The Return Of The Undead è il tributo al passato e al primo full length Into The Macabre, in quanto nuova versione del classico The Undead con A.C. Wild degli storici Bulldozer come ospite.
L’album si chiude con un trittico di perle estreme come The Crypt Of Nyarlathotep, The Revenge Of The Witches e la title track, che formano un delirio musicale tra atmosfere nere e diaboliche ed il thrash/black metal nella sua forma più convincente, chiudendo come meglio non si poteva questo bellissimo nuovo capitolo della trentennale e leggendaria storia dei Necrodeath.
Tracklist
1. The Whore Of Salem
2. The Master Of Mayhem
3. The Order Of Baphomet
4. The Kings Of Rome
5. The Triumph Of Pain
6. The Return Of The Undead
7. The Crypt Of Nyarlathotep
8. The Revenge Of The Witches
9. The Age Of Dead Christ
Gli Aeonian Sorrow si rivelano il veicolo ideale per portare definitivamente alla luce il dirompente potenziale di un’artista a 360 gradi come Gogo Melone.
Uno dei rischi che si corrono nell’approcciarsi superficialmente ad un’opera di questo tipo è quello di derubricarla ad un normale album di gothic death doom con voce femminile, sulla falsariga di Draconian e band similari.
Commettere un errore del genere significherebbe non solo non rendere giustizia ad un disco meraviglioso come Into The Eternity A Moment We Are ma anche privarsi, per pigrizia o ignavia, di uno dei rari esempi di arte musicale in grado di toccare le giuste corde emozionali lungo l’intero scorrere dei brani.
Gli Aeonian Sorrow sono la creatura musicale di Gogo Melone, musicista greca che gli ascoltatori più addentro al genere avranno già avuto modo di conoscere in virtù della sua partecipazione a Destin, l’ultimo ep dei Clouds di Daniel Neagoe, offrendo nello specifico il suo magnifico contributo vocale nel brano In This Empty Room.
Gogo si è occupata in prima persona sia dell’aspetto compositivo, sia di quello lirico ed infine anche dell’aspetto grafico, essendo anche in quest’ultimo campo una delle più rinomate esponenti in circolazione: insomma, qui parliamo di un’artista a 360 gradi il cui talento viene finalmente svelato in tutto il suo dirompente potenziale grazie a Into The Eternity A Moment We Are.
Contribuiscono in maniera fondamentale alla riuscita del lavoro, accompagnando la musicista ellenica e collaborando fattivamente anche nell’arrangiamento dei brani, alcuni esponenti di comprovata esperienza della scena, partendo dal vocalist colombiano Alejandro Lotero (negli Exgenesis di Jari Lindholm) per arrivare al trio finnico composto da Saku Moilanen (batteria, Red Moon Architect), Taneli Jämsä (chitarre, Ghost Voyage) e Pyry Hanski (basso, ex Before The Dawn e live con Red Moon Architect): in particolare Lotero, con il suo profondo growl è l’ideale contraltare delle evoluzioni della cantante che, attenzione, non è la classica sirena dalla bella voce che parte con una tonalità e con quella finisce; Gogo Melone è “semplicemente” una vocalist formidabile, in grado di passare da timbriche cristalline e suadenti a lampi che riportano inevitabilmente a due giganti legati alla sua stessa terra come Diamanda Galas, naturale riferimento in quanto voce femminile, ed il mai abbastanza rimpianto Demetrio Stratos, che ben conosciamo per aver sviluppato la propria carriera in Italia, prima con i seminali Area e poi come vero e proprio sperimentatore e studioso dell’uso della voce umana.
Chi pensa che certi paragoni possano essere eccessivi deve solo ascoltare l’opener Forever Misery, finora l’unico brano reperibile in rete, che già di per sé sarebbe una canzone stupenda ma che, nella sua seconda metà, viene letteralmente segnata dai vocalizzi di Gogo poggiati su un tappeto sonoro drammatico; come prova del nove poi, chi verrà in possesso dell’intero album (che uscirà ad aprile), potrà pure passare alla conclusiva Ave End, uno dei pezzi più belli che abbia mai avuto la fortuna di ascoltare, con Alejandro a dominare la prima parte prima di lasciare spazio al canto drammatico e trasfigurato della vocalist, destinato infine a ricongiungersi al growl per un risultato d’assieme che conduce inevitabilmente alle lacrime.
Tutto ciò a livello esemplificativo, perché ovviamente resta tutto da godersi un corpo centrale dell’album che non è affatto da meno, oscillando da atmosfere più aspre (Thanatos Kyrie) ad altre più intimiste (Memory Of Love) per finire con tracce strutturate in maniera più canonica (Shadows Mourn, Under The Light, Insendia) ma dotate sempre di un’intensità superiore alla media grazie ad una scrittura di rara sensibilità.
E’ un delicato interludio pianistico (The Wind Of Silence) a condurre al capolavoro assoluto Ave End, che chiude l’album portando il coinvolgimento emotivo ad un livello tale da lasciare un tangibile senso di vuoto quando la musica cessa, invero in maniera quasi repentina: si tratta di pochi secondi, sufficienti però a realizzare che sì, la vita è un attimo rispetto all’eternità, come suggerisce il titolo del disco, ma spetta a noi darle un senso sviluppando al massimo un potenziale empatico che ci consenta di immedesimarci nella gioia e nel dolore altrui, marcando in maniera netta ed inequivocabile la differenza tra una minoranza fatta di persone senzienti e tutte le altre.
Dovendo per forza di cose fornire un riferimento musicale a chi legge, appare evidente, come già detto in fase introduttiva, che i Draconian dei primi album costituiscono un termine di paragone piuttosto attendibile, anche se gli Aoenian Sorrow possiedono un approccio più funereo, atmosferico e con una minore predominanza della chitarra, specialmente in veste solista, ma a fare la differenza con gran parte delle uscite del genere negli ultimi anni è una capacità innata di raggiungere il climax dei brani partendo sovente da passaggi più pacati ed intimisti.
Con un’opera di tale spessore gli Aoenian Sorrow vanno a collocarsi sullo stesso piano delle band citate nel corso dell’articolo, il che significa il raggiungimento dell’eccellenza assoluta, ottenuta anche e soprattutto tramite l’epifania di un talento artistico prezioso come quello di Gogo Melone.
Tracklist:
1.Forever Misery
2.Shadows Mourn
3.Under The Light
4.Memory Of Love
5.Thanatos Kyrie
6.Insendia
7.The Wind Of Silence
8.Ave End
Troll è un debutto di assoluta bellezza, che unisce il miglior prog degli anni settanta con la magia del rock e con un pizzico di metal, vivendo di soluzioni sonore molto belle e durature, le cui trame si espandono nelle nostre menti.
Incredibile debutto per questo gruppo di Portland, Oregon, capace di coniugare in maniera meravigliosa il prog con un rock metal molto anni settanta, riuscendo a riportare l’ascoltatore ai fasti del genere.
Tutto questo disco è magia, dalla prima all’ultima nota, sembra un viaggio in compagnia di Gandalf, senza le asprezze che dovettero subire i suoi amici, ma solo la dolcezza di vedere altri mondi. Il giovane gruppo americano ha pubblicato un demo nel 2015, per poi pubblicare poco dopo questo album omonimo, e le vendite andarono molto bene tanto da catturare l’attenzione della Shadow Kingdom Records che ha redatto questa ristampa in cassetta e cd e che, poi, pubblicherà il loro disco nuovo nel corso del 2018. Troll è un debutto di assoluta bellezza, che unisce il miglior prog degli anni settanta con la magia del rock e con un pizzico di metal, vivendo di soluzioni sonore molto belle e durature, le cui trame si espandono nelle nostre menti. Questo disco è uno di quei poco frequenti episodi che fanno ancora credere alla magia assoluta della musica, alla sua capacità catartica e taumaturgica. Ci si immerge in un suono caldo ed analogico che avvolge e fa stare bene, portando in luoghi lontani, in mondi che non possiamo vedere, vinti dal nostro materialismo sia spirituale che musicale. Da tempo non capitava di sentire un disco che colpisse così in profondità e con precisione sia cuore che cervello, trascinando tutto su un altro piano. Come esordio è incredibile e fa anche venire l’acquolina in bocca per il prossimo disco. Troll è un disco fantastico, un’epifania che arriva quando meno te l’aspetti, che fa star bene e che conduce in luoghi remoti dove tutto è possibile.
Ogni minuto di questo disco è stato composto, lavorato e pensato per cancellare la forza della matrice che governa le nostre vite
Arriva un nuovo capitolo della vitale lotta del rumore nelle nostre vite, tornano gli Infection Code.
Il gruppo piemontese sforna il nuovo disco di una lunga carriera, ed è il suo episodio migliore, una gemma oscura che sanguina e mette molto in chiaro la nostra situazione, per chi non la volesse ancora vedere per quella che è. Portando avanti la politica, perché la loro musica è un atto politico cominciato con il precedente La Dittatura del Rumore, gli Infection Code con Dissenso tentano di rompere la sacca di liquido amniotico ed amnesiaco che circonda le nostre vite. I testi del cantante Gabriele Oltracqua sono incisivi, scritti con il rasoio di Occam e rendono benissimo il riverbero fastidioso della distopia nella quale viviamo. La musica raggiunge il punto più alto della loro carriera, andando a toccare molti aspetti che nell’altro disco erano in nuce e che qui si esplicano completamente. Non ci sono generi ma una complessa commistione di elementi che combaciano perfettamente, tra metal, elettronica, un industrial di lotta e tanto altro. Il riferimento forse più vicino potrebbero essere i Killing Joke, anche per quanto riguarda la parte concettuale, ma invece è tutto Infection Code. Forte rimane la radice hardcore punk del loro suono, poiché questa è un’evoluzione della lotta, e soprattutto nei testi troviamo un iperrealismo molto accentuato, tra citazioni di Aldo Moro e molto altro. Dissenso è un disco che parla di tante cose, ma fondamentalmente è una richiesta di aprire gli occhi, di buttarsi nel rumore per potersi pulire dalla merda che abbiamo attorno e dentro di noi. Ogni minuto di questo disco è stato composto, lavorato e pensato per cancellare la forza della matrice che governa le nostre vite. I musicisti che compongo gli Infection Code possiedono una grande tecnica, ma soprattutto funzionano molto bene quando sono assieme, come se fossero quattro inneschi per l’incendio perfetto, quello che non si può spegnere. Come non si può silenziare il rumore, solo noi possiamo non volerlo sentire. Splendida, come al solito, e molto calzante la copertina ed il retro copertina ad opera di Marco Castagnetto.
Tracklist
01. Santa Mattanza
02.Costretti a Sanguinare
03. Macerie
04. Dssn
05. In Assoluto Silenzio
06. Ad Nauseam
07. Strategie
08. Sentenza
A Step Beyond Divinity è un’opera dal taglio internazionale che incolla l’ascoltatore alle cuffie, un dirompente fiume metallico che straripa tra debordanti e possenti passaggi estremi, orchestrazioni epiche ed apocalittiche e chitarre che sanguinano melodie.
Il nuovo lavoro dei deathsters nostrani Embryo è il classico album con il quale supportare la scena metal tricolore (non solo quella estrema, ovviamente) diventa non solo un dovere ma un grande piacere.
Al quarto album la band di Cremona estrae dal cilindro l’opera perfetta, quella che prendendo il meglio dal precedente omonimo lavoro, lo porta ad un livello ancora più alto regalando cinquanta minuti di death metal moderno, in un susseguirsi di emozionanti saliscendi tra tradizione melodica e moderno death metal dal piglio apocalittico.
Le orchestrazioni questa volta raggiungono vette altissime, la parte americana del sound del gruppo è ancora più potente, un macigno estremo che dai Fear Factory prende l’atmosfera epica da fine del mondo, mentre la cascata di solos guardano sempre verso nord e al melodic death metal.
Il concept si ispira alla figura di un genio come Leonardo Da Vinci, quindi anche in questo caso la band cerca una via intellettuale ai testi per valorizzare un songwriting sopra le righe.
Il bellissimo artwork è stato lasciato nelle mani dell’artista e musicista Spiros Antoniou alias Seth Siro Anton (Septic Flesh) mentre masterizzazione, registrazione e mix sono stati eseguiti da Simone Mularoni ai Domination Studio, con la band ad affiancarsi al noto produttore e musicista italiano (DGM) in fase di produzione.
Tutto questo rende A Step Beyond Divinity un’opera dal taglio internazionale che incolla l’ascoltatore alle cuffie, un dirompente fiume metallico che straripa tra debordanti e possenti passaggi estremi, orchestrazioni epiche ed apocalittiche e chitarre che sanguinano melodie. Vanguard For The Blind, The Greatest Plan e la devastante Leonardo spiccano sulle altre tracce, ma vi consiglio di fermarvi per un’oretta scarsa e lasciare che gli Embryo vi raccontino del Da Vinci a modo loro.
Tracklist
1. The Same Difference
2. Overwhelming your Disgust
3. Vanguard for the Blind
4. Painting Death
5. Looking for the Divine
6. Solitaria 1519
7. Leonardo
8. The Greatest Plan
9. Bastard of the Brood
10. Mouth of Shame
11. Witness of your Life
12. The Horror Carved
Una produzione da top band, una cantante che incanta ed ammalia e cinque musicisti che formano una squadra compatta ed assolutamente vincente, sono le prime avvisaglie di un’opera ottima in ogni dettaglio, creata per far innamorare gli (ancora tanti) estimatori del power metal sinfonico.
Questa volta a regalarci cinquanta minuti di metal sinfonico, tra power e gothic in un deliro orchestrale e maestoso, sono i savonesi Kantica, band ligure al debutto su Revalve con Reborn In Aeshtetics.
Mettetevi il cuore in pace cari cacciatori dell’arca dell’originalità, perché qui si cavalca il genere giocando con tutti i suoi cliché, ma il bello è che i Kantica il gioco lo conducono con maestria lasciando l’impressione di essere al cospetto di un gruppo con molta più esperienza di quella che suggerisce l’anagrafe.
Sonorità piene e cinematografiche si specchiano sul golfo ligure prima che lo scirocco si alzi e la mareggiata porti con sé cavalcate power metal dalle ritmiche potentissime, alternandosi con pacate atmosfere gothic ed impreziosite da orchestrazioni dal piglio moderno, come negli ultimi lavori di quella che il sottoscritto considera la band regina del genere, gli Epica.
Una produzione da top band, una cantante che incanta ed ammalia e cinque musicisti che formano una squadra compatta ed assolutamente vincente, sono le prime avvisaglie di un’opera ottima in ogni dettaglio, creata per far innamorare gli (ancora tanti) estimatori del power metal sinfonico.
Dopo l’intro i primi botti portano il titolo di Fascination Of The Elements, un brano in crescendo che prepara l’ascoltatore alla maestosa atmosfera che regna nel resto dell’album con brani carichi di nobile e sinfonico metallo come And There Then Was Pain, che tanto sa di primi Temperance.
Tutto gira a meraviglia in Reborn In Aeshtetics, decine di cambi di tempo spezzano il respiro, come affrontare un mare in tempesta sulla prua di un vascello, mentre Hellborn Lust, Lovecide e Psychological Vampire confermano il mood epico sinfonico dell’album.
Un debutto per certi versi sorprendente, che conferma la sempre crescente qualità della scena tricolore in un genere dove si è ormai detto tutto e nel quale la differenza la si può fare solo in termini di songwriting e di un talento che iKantica hanno da vendere.
Tracklist
01.(Re)Born Unto Aestheticism
02.Fascination of the Elements
03.And Then There Was Pain
04.Hellborn Lust
05.Albatross
06.R.E.M. State
07.From Decay to Ascension
08.Illegitimate Son
09.Psychological Vampire
The Awakening stupisce ed esalta, dalla produzione al songwriting, dalla tecnica con cui è suonato fino all’atmosfera che rimane di tensione estrema dalla prima all’ultima nota.
I Wrath Sins sono una band portoghese attiva dall’inizio del decennio e messasi già in luce con il full length d’esordio Contempt over the Stormfall del 2015.
Il quartetto lusitano torna a deliziare gli ascoltatori con The Awakening, un album di nobile heavy metal che non rinuncia a mitragliate devastanti di thrash classico e di chiara ispirazione statunitense, valorizzato da aperture progressive ed atmosfere drammatiche in una tempesta di metallo incandescente.
Siamo nel mondo dei mostri sacri del genere, Testament, Exodus e primi Metallica, lasciati a familiarizzare con i Dream Theater quel tanto che basta per dar vita ad una sequela di brani di una potenza imbarazzante.
Se volete potete chiamarlo prog metal, ma di quello cattivissimo e ruvido come la schiena di un caimano affamato tanto da divorare tutto quello che incontra, lasciando pochi brandelli di carne ed ossa. The Awakening stupisce ed esalta, dalla produzione al songwriting, dalla tecnica con cui è suonato fino all’atmosfera che rimane di tensione estrema dalla prima all’ultima nota e che fa di brani come Collision, Shadows Kingdom e la title track delle autentiche bombe sonore dall’impatto di un’atomica.
Il quartetto si avvale di una padronanza strumentale di altissimo livello, ma che non va ad intaccare una forma canzone che, nella sua estrema natura, ha quasi del miracoloso; un album di una bellezza ed una forza che impressionano e quindi da custodire gelosamente tra i gioielli metallici di questi ultimi tempi.
Tracklist
1.Beneath Black Clouds
2.Unquiet Heart
3.Shadow’s Kingdom
4.Collision
5.The Sun Wields Mercy
6.Fear of the Unseen
7.Strepidant Mist
8.Between Deaths Line
9.The Awakening
10.Silence from Above
Line-up
Mike Silva – Vocals & Guitars
Rui Coutinho – Guitars
Ricardo Nora – Bass & Back Vocals
Diego Mascarenhas – Drums
Sono passati dieci anni ma Nortt sembra ancora più convinto nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione.
Perfetta sound track per un viaggio nell’inquietudine e nella disperazione.
Dopo dieci anni di silenzio discografico, Nortt ritorna a raggelarci con la sua arte ricolma di note funeral, black e doom perfettamente miscelate a creare una dark ambient disturbante e lugubre.
Il musicista danese, dopo “Galgenfrist” del 2007, scarnifica ulteriormente il suo suono e con poche note e suoni minimalisti offre nove composizioni lente, profonde, strazianti, da sentire nel profondo del nostro io; è musica che ci porta a un confronto continuo con noi stessi, con le nostre paure, con le nostre vite senza punti di riferimento, con un vuoto interiore difficile se non impossibile da colmare.
Il senso di morte, di abbandono, di tragicità che permeano ogni nota vanno al di là di ogni descrizione su carta, ognuno ha dentro di sé la propria interpretazione di questo mondo, che nelle note di Nortt appare maledetto e in disfacimento morale e materiale.
Pochi suoni all’interno dei brani delineano scenari di sconfinata e lugubre tragicità che raggiungono vette emozionali laceranti: in Afdo un tocco epico aggiunge splendore e magnificenza.
Le atmosfere, già terrifiche fin dall’inizio, raggiungono picchi di gelo e desolazione con il passare dei minuti e gli ultimi tre brani rilasciano segnali di morte non comuni, inerpicandosi su suoni dark ambient che non hanno nulla di umano. Nortt afferma che negli ultimi dieci anni non ha registrato alcunché in quanto ha vissuto in un mondo dove non aveva necessità di farlo; sono passati dieci anni ma la sua arte sembra ancora più convinta nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione. Un grande ritorno!
Tracklist
1. Andægtigt dødsfald
2. Lovsang til mørket
3. Kisteglad
4. Fra hæld til intet
5. Eftermæle
6. Afdø
7. Gravrøst
8. Støv for vinden
9. Endeligt
I Corrosion Of Conformity sanno suonare rock pesante e licenziano un altro best seller che si aggiunge alla loro discografia, alzando l’asticella quanto basta per risultare inarrivabili per almeno il 90% dei gruppi odierni.
Pepper Keenan è tornato nel gruppo e i Corrosion Of Conformity tornano a fare hard southern rock stonerizzato come ai tempi di Deliverance e Wiseblood.
Questo, in breve, è quello che troverete sul nuovo lavoro firmato dalla leggendaria band del North Carolina, per molti di nuovo in corsa per il trono del genere, per il sottoscritto mai scesi dallo stesso neppure dopo il precedente lavoro, IX, registrato con la formazione a tre ormai quattro anni fa.
Dunque, dopo una decade al servizio dei Down, il chitarrista e cantante torna a riunire la banda che ha fatto scintille da Deliverance (uscito nel 1994) fino a In The Arms Of God (2005), anche se il capolavoro Blind rimane uno dei più riusciti esempi di alternative metal degli anni novanta, mentre l’ultimo lavoro era un calcio nel deretano hardcore di dimensioni bibliche.
I Corrosion Of Conformity sanno suonare rock pesante e licenziano un altro best seller che si aggiunge alla loro discografia, alzando l’asticella quanto basta per risultare inarrivabili per almeno il 90% dei gruppi odierni, aiutati da uno stato di grazia compositivo e da una voglia ancora intatta di suonare metal come lo si fa negli stati del sud, soffocati dal caldo, morsi da coccodrilli e serpenti e soggiogati da rituali voodoo.
Woody Weatherman, Mike Dean e Reed Mullin, dopo l’ottimo lavoro precedente che ispirava vecchie reminiscenze hardcore, con il nuovo supporto di Keenan, stordito dalla potenza sludge dei Down, tornano a fare quello per cui sono diventati la più grande band statunitense degli ultimi trent’anni tra quelle che non siano uscite dalle strade di Seattle: il loro è un hard rock massiccio, marcio e stonato, animato da una vena southern di livello superiore e No Cross No Crown, grazie ad un lotto di brani che sono la bibbia del southern/stoner metal, è la prova tangibile del fatto con i Corrosion Of Conformity si dovranno fare i conti ancora a lungo, piaccia o meno.
Registrato in North Carolina con il produttore John Custer, l’album è un concentrato di rock pesantissimo alla maniera della band, un via vai di mid tempo mastodontici che mescolano al loro interno almeno trent’anni di rock ‘n ‘roll, per vomitarlo poi in una lava incandescente che esce dalla bocca di un vulcano, pregno di groove come nell’uno due mortale The Luddite /Cast In The First Stone, folgorante inizio di questo lavoro.
La band ci invita a sabba psichedelici ed introspettivi come nella title track, mentre le casse tremano, le cuffie si sciolgono e gli stereo continuano a far girare i cd ma della plastica rimane solo un ammasso di vischiosa ed informe materia. Wolf Named Crow, Nothing Left To Say, Old Disaster, ma potrei nominarvele tutte come nessuna, sono alcune delle tracce (ben quindici) che compongono questo ennesimo monumento musicale targato Corrosion Of Conformity, fatelo vostro e segnatelo come migliore album del genere di questo nuovo anno, anche se siamo solo a gennaio …
Tracklist
01. Novus Deus
02. The Luddite
03. Cast The First Stone
04. No Cross
05. Wolf Named Crow
06. Little Man
07. Matre’s Diem
08. Forgive Me
09. Nothing Left To Say
10. Sacred Isolation
11. Old Disaster
12. E.L.M.
13. No Cross No Crown
14. A Quest To Believe (A Call To The Void)
15. Son And Daughter
Line-up
Pepper Keenan – Vocals, Guitars
Woodroe Weatherman – Guitars
Mike Dean – Bass, Vocals
Reed Mullin – Drums, Vocals
Dall’Aurora alle Tenebre, dal Diluvio al Nulla, per chiudere ineluttabilmente con la Morte: giocando con i titoli dei brani è questo il percorso cosparso di lacrime lungo il quale ci conduce ancora una volta il talento di Déhà.
In occasione della riedizione in vinile e cd da parte della code666 di questo splendido album, riproponiamo la recensione pubblicata nella scorsa estate con la speranza di catturare l’attenzione di qualche nuovo estimatore della musica targata Slow.
Quinto atto per uno dei mille progetti del multiforme Déhà, un artista che non teme rivali stante l’elevatissimo rapporto tra la debordante quantità della musica proposta e la sua sempre stupefacente qualità. Oceans non viene meno alle aspettative, stavolta, però, facendo esattamente quanto un estimatore del musicista belga si sarebbe aspettato, ovvero dare alle stampe con il monicker Slow qualcosa di molto vicino al disco funeral doom atmosferico definitivo, tramite il quale obbligare ciascuno ad esibire senza alcuna maschera il proprio turbamento ed il dolore sordo e latente che accompagna anche l’esistenza più spensierata.
Senza farsi aiutare in questa occasione dal suo grande amico Daniel Neagoe (ma i due hanno in serbo perle irrinunciabili delle quali parleremo prossimamente), Déhà mette in scena quasi un’ora di note in cui il genere viene sviscerato nella sua veste più toccante, con la lenta e costante reiterazione delle linee melodiche che vanno man mano a modificarsi in maniera impercettibile, per poi arricchirsi di nuovi apporti, strumentali e vocali, prima di esplodere in autentiche tempeste emozionali.
Se in Mythologiae il sound, a tratti, risultava più etereo e, di conseguenza, meno intenso, Oceans ritorna alle sonorità più drammatiche e, se vogliamo, più dirette di Gaia, toccando le vette melodiche alle quali Déhà ci ha abituato nel corso di questi anni.
Il concept verte sull’elemento acquatico per il quale, altra novità in tal senso, Déhà ha delegato la composizione delle liriche alla giovane connazionale Lore Boeykens; l’album scorre appunto fluido come un liquido e privo di interruzioni tra i cinque lunghi brani, portandosi appresso dalla prima all’ultima nota quel marchio musicale che accomuna, al di là delle differenze di genere, progetti come Imber Luminis, Yhdarl, We All Die (Laughing), Deos, Vaer e Maladie, solo per citare quelli dal maggiore potenziale evocativo.
Appare così inutile parlare dei singoli brani, anche se non si può ugualmente fare a meno di notare come nei tredici minuti intitolati Déluge si raggiungano vertici di lirismo inimmaginabili per potenza e drammaticità, amplificati da un growl che non viene mai abbandonato nel corso del lavoro, conducendo l’ascoltatore tra lo stupore provocato da atmosfere basate su tastiere e chitarra e e percosse da una base ritmica tutt’altro che appiattita solo su ritmi bradicardici.
Dall’Aurora alle Tenebre, dal Diluvio al Nulla, per chiudere ineluttabilmente con la Morte: giocando con i titoli dei brani è questo il percorso cosparso di lacrime lungo il quale ci conduce ancora una volta il talento di Déhà, unico nel suo saper trasformare il dolore e lo sgomento in una forma superiore di arte musicale.
E’ realmente necessario che ogni ascoltatore “open minded” trovi un po’ di tempo da dedicare ad un’opera così affascinante di dark/folk intriso di black metal.
Dopo uno iato temporale di dieci anni, dopo una meraviglia come Mieli Maassa, uscito nel 2007, riemerge Häive, la creatura con cui esplora il suo mondo musicale il musicista finnico Janne ‘Varjosielu’ Väätäinen, che suona ogni strumento ed è accompagnato in alcune session vocali da Noitavasara.
Fin dalla cover, veramente splendida e particolare, siamo introdotti in un mondo magico di suoni e oscurità, dove l’artista esplora temi come la natura, la disperazione e l’oblio attraverso un intenso suono folk immerso in note black metal evocative e ricche di atmosfera. Otto brani, quaranta minuti di musica fuori dal tempo che non ha bisogno di furia e di tempi veloci per sviluppare il viaggio dell’artista; qui ci sono cristalline melodie folk, che si appoggiano su mid tempo intensi, fluidi e carichi di energia. Chi ha conosciuto e apprezzato la precedente release rimarrà, ancora una volta, estasiato, come il sottoscritto, di fronte alla grande capacità compositiva dell’artista, capace di variare le atmosfere all’interno dei brani, come nel terzo brano Lapin Kula, dove uno scream deciso accompagna una tersa melodia pregna di oscurità per poi, dopo un solo con aromi heavy metal, sfrangiarsi in note dark folk e aprirsi in note di chitarra molto evocative e desolate.
Le vocals sono in finnico e aggiungono un fascino peculiare ed arcano all’intero lavoro, donando quell’unicità, quella sensazione di un lavoro fuori dal tempo; qui non ci sono segnali di suoni classicamente atmosferici o parti post black, ma solo il viaggio di un musicista unico, dotato di classe cristallina, alla ricerca di una personale via per esprimere la sua visione della natura: la copertina interna del cd è esplicativa, con il musicista che ammira l’invernale natura incontaminata della sua terra. E’ realmente necessario che ogni ascoltatore “open minded” trovi un po’ di tempo da dedicare ad un’opera così affascinante, perché non resterà assolutamente deluso e attenderà pazientemente altri dieci anni per riassaporare queste emozioni uniche.
Tracklist
1. Iätön (Ageless)
2. Turma (Ruin)
3. Lapin Kouta (Kouta from Lapland)
4. Kuku, kultainen käkeni (Sing My Golden Bird)
5. Tuulen sanat (The Spell of Wind)
6. Salojen saari (Esoteric Isle)
7. Tuonen lehto, öinen lehto (Grove of Tuoni, Grove of Evening)
8. Virsi tammikuinen (Song of January)
Il quarto full length dei Blaze Of Perdition è un qualcosa che va oltre il concetto puramente estetico di black metal: qui si percepisce in maniera quasi tattile il turbinio di sensazioni che stanno alla base di un lavoro compositivo e lirico stupefacente, per qualità e profondità.
La storia dei Blaze Of Perdition è stata indubbiamente segnata dal tragico incidente stradale che vide coinvolta la band sulle strade austriache nel 2013, causando la morte del bassista Ikaroz e gravi conseguenze al vocalist Sonneillon ed al batterista Vizun.
Dopo simili eventi la vita non può essere più la stessa, nel bene e nel male: diciamo che, musicalmente parlando, il gruppo polacco pare aver acquisito una maggiore consapevolezza e, se questo era già stato palesato nel precedente album, ancor più tale aspetto emerge in questo contesto.
La scelta stessa di proporre un album strutturato su quattro lunghi brani la dice lunga: i Blaze Of Perdition hanno sentito evidentemente la necessità di prendersi maggiore tempo e spazio per sviluppare la propria idea di black metal; questo consente ad un brano magistrale come Ashes Remain di oscillare senza rischi tra le sfuriate in blast beat e passaggi più rarefatti ed oscuri che ricordano, in alcuni momenti, addirittura i Fields of the Nephilim, grazie anche alla profonda timbrica recitativa di Sonneillon.
Se questo episodio è a suo modo emblematico dello spessore odierno della band di Lublino, tutto il resto del lavoro si mantiene su livelli eccelsi per merito di una approccio che è senz’altro conforme ai dettami di base della consolidata scena estrema polacca e che, quale valore aggiunto, vede una naturale propensione melodica pur se racchiusa all’interno di un’atmosfera per lo più plumbea.
L’opener A Glimpse of God apre come meglio non potrebbe le ostilità, facendo intuire fin dalla prima nota di quale spessore sia il livello artistico di questa band, che non spreca un solo secondo in passaggi interlocutori o in altri artifici riempitivi: diciamo solo che Weight of the Shadow è forse il brano che presenta la maggiori dissonanze, le quali restano del tutto funzionali al mantenimento della tensione al suo massimo livello, cosa che viene puntualmente confermata dalla magnifica e conclusiva Detachment Brings Serenity, il cui finale sigla un approccio musicale privo di vincoli ma, nel contempo, anche di divagazioni fine a a sé stesse
Il quarto full length dei Blaze Of Perdition è un qualcosa che va oltre il concetto puramente estetico di black metal: qui si percepisce in maniera quasi tattile il turbinio di sensazioni che stanno alla base di un lavoro compositivo e lirico stupefacente, per qualità e profondità.
Volendolo incasellare comunque alla voce black metal, Conscious Darkness è con ogni probabilità uno dei candidati al titolo di album dell’anno in questo settore, anche se le trame oscure ed incalzanti che ne pervadono i brani sono del tutto indicate per l’ascolto anche da parte degli appassionati di doom o dark metal.
Tracklist:
1. A Glimpse of God
2. Ashes Remain
3. Weight of the Shadow
4. Detachment Brings Serenity
Opera magnifica intrisa di dolore, disperazione e desolazione.
La prova del terzo disco è sempre un esame difficile per molte band e gli statunitensi di Seattle, Bell Witch, vi giungono con l’animo colmo di disperazione e dolore dopo la dipartita del drummer e vocalist Adrian Guerra, avvenuta nel 2016.
La band, da sempre un duo, è attiva dal 2011 con l’omonimo demo e ha sempre proposto un personale e peculiare funeral doom molto intenso incentrato sul suono del basso suonato da Dylan Desmond, ora accompagnato da Jesse Shreibman alla batteria; chi ha seguito la loro carriera musicale avrà apprezzato le grandi capacità compositive e la grande inventiva riversata nei precedenti due dischi (Longing del 2012 e Four Phantoms del 2015), dove il suono del basso magistralmente suonato riempie totalmente gli spazi e crea lunghi brani molto affascinanti. Ora questo monumentale Mirror Reaper sposta il loro concetto di suono sondando ulteriori orizzonti; due brani, As Above e So Below per un totale di circa 84 minuti di musica, dall’alto contenuto emotivo, dove i temi trattati riguardano la vita e la morte, la desolazione e la disperazione. I paesaggi creati dai due musicisti rappresentano il dolore opprimente che pervade la loro anima lacerata dalla perdita del collega e amico. Non è un disco difficile, non ha nulla di sperimentale o avanguardistico, ma ha bisogno di tempo per entrare sottopelle, per invadere l’animo con la sua essenza spirituale. Il suono si dipana lento, introspettivo, meditativo con il basso che disegna poche note angosciose e opprimenti, con un’alternanza di pieni e vuoti sapientemente condotta. La prima parte dell’opera As Above si sviluppa come un ricordo di note che si alternano e si spengono una dietro l’altra in mezzo a una nebbia plumbea, dove non esiste una meta certa perché’ tutto si è interrotto in mezzo a dolenti lamenti; la tristezza è tangibile, si aprono varchi in altre dimensioni spirituali come specchi riflettenti un io diverso. Suoni di organo in sottofondo (novità per la band) diffondono strati di sofferenza e vuoto incolmabile caricando il viaggio di tensione e passione. Qui si evidenzia l’essenza del puro suono doom dove tutto si muove ma nel contempo appare immoto, dove tutto procede lentamente ma rimane carico di tensione; l’alternanza di growl e clean vocals, molto presenti nella seconda parte So Below, la presenza di alcuni chorus mantengono alta la tensione rendendo tutto oltremodo interessante, gli arabeschi del basso che germoglia poche lunghe note suonate col cuore, sviluppano una esperienza unica nel funeral doom. Il duo può ricordare a tratti gli Skeptcism o gli Shape of Despair per la capacità di aprire nella mente scenari e paesaggi di enorme desolazione ma la capacità di riuscire a farlo con una cosi parca strumentazione è unica. In definitiva un’ opera magnifica impreziosita da una mirabile e suggestiva cover dell’artista polacco Mariusz Lewandowski.
E’ giunta l’ora in cui la seconda apocalisse targata Worstenemy si abbatta su di voi senza lasciarvi scampo.
E’ giunta l’ora in cui la seconda apocalisse targata Worstenemy si abbatta su di voi senza lasciarvi scampo.
Il gruppo sardo torna con un nuovo lavoro, il devastante parto estremo intitolato Deception, a quattro anni di distanza dal notevole Revelation, album che lo aveva fatto conoscere ad una più ampia fetta di amanti del death metal tramite la Wormholedeath.
I nuovi Worstenemy sono formati dall’ormai storico chitarrista e cantante Mario Pulisci, accompagnato questa volta dall’ex Hour Of Penance Simone “Arconda” Piras alla batteria e Luigi Cara (Deathcrush / Malignant Defecation) alle prese con basso e voce.
Di death metal si tratta, chiamatelo old school o come volete, rimane il fatto che Deception è un martello pneumatico che penetra inesorabile sulla vostra testa, seminando materia cerebrale nella stanza dove senza cautela alcuna avrete schiacciato il tasto play.
Una sezione ritmica devastante, un sound pieno, mastodontico e pesantissimo, una prova notevole a livello tecnico al servizio di un lotto di brani debordanti, fanno di Deception uno degli album più riusciti degli ultimi tempi, ovviamente parlando di death metal.
La title track è un inizio fulminante e i brani da macello metallico alternano a tratti rallentamenti doom/death da copione per poi ripartire più minacciosi e cattivi di prima; le band storiche del panorama estremo statunitense sono ancora ben presenti nel sound degli Worstenemy i quali, dalla loro, possono vantare un songwriting ispirato e tanta personalità. Conquer The Illusion, Blood And Dust, Seasons Of War, in odore di Bolt Thrower ed unica concessione “europea” al sound di Deception, e la magnifica cover di Grind (brano degli Alice In Chains dall’omonimo terzo lavoro), prendono per mano l’intera tracklist formando un muro sonoro invalicabile; mastodontico e penetrante, l’album non concede tregua, e le macerie su cui passeggiano i tre musicisti nostrani dopo il micidiale passaggio di questi inesorabili undici schiacciasassi estremi confermano il tiro di un’altra categoria del combo sardo.
Tracklist
1.Deception
2.Solis
3.Conquer the Illusions
4.Fog or Shine
5.Blood and Dust
6.A Mortal God
7.5th Level of Suffering
8.Seasons of War
9.New Era of Terror
10.Grind (Alice in Chains cover)
11.I
Line-up
Mario Pulisci – Vocals, Guitars
Luigi Cara – Bass, Vocals
Simone “Arconda” Piras – Drums
L’album va approcciato ben sapendo che avrà l’impatto emotivo di una carezza e non di uno scossone: stabilito questo, non vi saranno più ostacoli di sorta ad impedire che il flusso sonoro di Return attraversi gli animi più sensibili.
Una delle accuse più frequenti che vengono rivolte alle band dedite al funeral o al death doom (da quelli a cui il genere non piace, ovviamente) è quello di muoversi sempre all’interno di confini ristretti senza aprirsi a variazioni sul tema.
Il fatto che ciò avvenga o meno non determina affatto la bontà di un lavoro, ad ogni buon conto Return, terzo album degli Ixion, dimostra ampiamente che i musicisti appartenenti a questo filone musicale sanno perfettamente cosa sia una progressione stilistica.
Il duo francese, messosi in evidenza con due ottimi lavori come To The Void e Enfant de la Nuit, continua con Return a sviluppare il proprio immaginario fantascientifico/spaziale ammantandolo però stavolta di sonorità più ariose, che in diversi frangenti si aprono al post metal così come a certo progressive; il tutto però avviene senza che si abbia neppure per un attimo la sensazione che il background doom degli Ixion venga snaturato, visto che a livello di impatto emotivo e melodico l’album costituisce un ulteriore passo avanti anche in senso qualitativo.
Se i ritmi restano sempre molto controllati, prendono maggiormente corpo elementi atmosferici che mantengono saldo il legame con il doom grazie alla malinconia, sempre elemento portante di uno sviluppo melodico che appartiene di diritto ad un progressive velatamente oscuro ma anche dai tratti sognanti; succede così che Julien Prat e Yannick Dilly finiscano per regalare momenti di una bellezza cristallina, all’interno di uno sviluppo compositivo che assume aspetti davvero peculiari, pur rinvenendo a tratti riferimenti inevitabili all’afflato cosmico dei Pink Floyd e, restando sul territorio francese, a quello degli ultimi Monolithe ma con una maggiore tendenza alla creazione di una forma canzone, o addirittura degli Alcest, per la naturale levità di certi passaggi.
Appare esemplare, per cogliere appieno l’essenza dell’album, una traccia splendida come Hanging in the Sky, molto vicina alla meraviglia provocata dall’ultimo album dei Throes Of Dawn, nella quale la ricerca melodica tocca vette altissime, con un assolo di chitarra posto nel finale difficilmente rimovibile dalla memoria; va detto, effettivamente, che il lavoro strumentale di Julien Prat stupisce per equilibrio ed esecuzione in più di un frangente, così come sono appropriati i suoi interventi in growl a supportare le fluide clean vocals di Yannick Dilly.
Considerando che anche nel doom, come in tutti gli altri generi, purtroppo, esistono frange di tradizionalisti che storcono il naso di fronte agli scostamenti stilistici delle band, temo che questo lavoro degli Ixion corra il rischio di non essere compreso da molti: io stesso, del resto, ritengo che, quando un gruppo ha fatto le cose nel migliore dei modi in passato restando in un alveo compositivo ben definito, non ci sia motivo per cambiare strada, ma Return va ben oltre queste spicciole considerazioni, rivelandosi a mio avviso uno dei lavori più emozionanti dell’anno.
L’unico consiglio che mi sento di fornire a chi desidera farlo proprio è quello di approcciarlo ben sapendo che l’album avrà l’impatto emotivo di una carezza e non di uno scossone: stabilito questo, non vi saranno più ostacoli di sorta ad impedire che il flusso sonoro di Return attraversi gli animi sensibili, pronte ad accogliere la limpida bellezza delle note che si dipanano da Out Of The Dark fino alla conclusiva meraviglia atmosferica rappresentata da The Dive (Fade to Blue Part 2).
Tracklist:
1. Out of the Dark
2. Into Her Light
3. Hanging in the Sky
4. Back Home
5. The Ocean
6. Contact
7. World of Silence
8. Stranger
9. The Dive (Fade to Blue Part 2)