Bravi ed originali, gli Welcome Coffee danno vita ad un sound intrigante ed assolutamente fuori dai soliti cliché: la curiosità per una nuova prova sulla lunga distanza è davvero tanta.
Dietro il monicker Welcome Coffee troviamo cinque musicisti attivi nella scena alternativa di Trieste: la loro storia è fatta di un precedente ep (Box #2) uscito nel 2013, un primo full length (Uneven) licenziato nel 2015, uno scioglimento avvenuto dopo l’uscita dell’album ed un ritorno nel 2016.
The Mirror Showè il nuovo ep di cinque brani inediti con cui la band torna sul mercato cercando di rivedere i propri ed i nostri confini in materia musicale.
Un rock che si nutre di elettronica e rock alternativo, per poi evolversi in qualcosa di più progressivo e scivolare piano verso il rock made in Italy, se poi in tutto questo aggiungete una marea di piccoli ma importantissimi dettagli, allora il sound del gruppo diventa davvero originale, magari ostico se gli ascolti abituali sono appunto confinati ad un solo genere.
Stefano Ferrara al basso, Andrea Parlante alle tastiere, Davide Angiolini batteria, Andrea “Armando” Scarcia al microfono e Bill Lee Curtis alla chitarra, non si lasciano intimidire da barriere e catene: la musica viaggia libera tra funky, metal lampi di musica elettronica dura come l’acciaio forgiato dai Nine Inch Nails, per divertirsi con l’alternative rock dei Primus o dei geniali Faith No More e poi, come d’incanto, prendere una chitarra acustica, l’armonica e lasciare che la bellissima Come Potevo ci ricordi che anche il rock italiano degli anni novanta ha regalato grande musica (Timoria).
Se vi sembra che il sound racchiuso in questo lavoro metta troppa carne al fuoco, niente di più sbagliato, tutto funziona a meraviglia e la band ne esce vincitrice.
Bravi ed originali, gli Welcome Coffee danno vita ad un sound intrigante ed assolutamente fuori dai soliti cliché: la curiosità per una nuova prova sulla lunga distanza è davvero tanta.
Tracklist
Stefano Ferrara – Bass guitar
Andrea Parlante – Keyboards
Davide Angiolini – Drums
Andrea Scarcia – Vocals
Bill Lee Curtis – Guitars
Line-up
1.The Mirror Show
2.Doppelgänger
3.Come Potevo
4.116
5.Notte Araba
I Nightraid non inventano nulla, ma prendono gli strumenti, accendono gli amplificatori e suonano del buonissimo hard rock con attitudine e passione, serve altro?
Sono passati quattro anni da quando vi avevamo parlato, in occasione dell’uscita del primo demo omonimo di quattro brani, dei rockers umbri Nightraid, tornati a risplendere con questo debutto sulla lunga distanza intitolato Indians.
Al timone troviamo sempre Andrea Cocciglio, cantante di razza con un passato death, ma assolutamente a suo agio alle prese con l’hard & heavy del gruppo che attinge a piene mani dalla tradizione nazionale (Pino Scotto, Strana Officina).
Nove brani cantati in italiano, nove adrenaliniche tracce dove l’hard rock trova la sua casa, quaranta minuti di musica dall’attitudine live, perfetta per palchi montati davanti a rockers motorizzati e della vecchia guardia, guerrieri indomiti che seguono la strada tracciata dai Nightraid.
Cocciglio asseconda la sua naturale somiglianza vocale con il grande Pino Scotto senza scimmiottarlo ma, con molti meno anni ed eccessi nell’ugola, affronta con grinta brani dall’ottimo impatto come l’opener Stand By, Bombe A Gaza e la super ballata Indians, dal blues che scorre tra le corde delle chitarre come sangue nella prateria. Nightraid è l’inno del gruppo, mentre quale giusto tributo arriva la cover di uno dei brani più belli di Pino Scotto, la drammatica, intensa e tragica Dio Del Blues, con il rock’n’roll di Misteri e la dirompente Zasko a concludere in modo esplosivo questo ottimo lavoro.
I Nightraid non inventano nulla, ma prendono gli strumenti, accendono gli amplificatori e suonano del buonissimo hard rock con attitudine e passione, serve altro?
Tracklist
01.Stand By
02.Sinergie
03.Bombe a Gaza
04.Indians
05.Nightraid
06.Overcast
07.Dio del Blues (cover)
08.Misteri
09.Zasko
Line-up
Andrea Cocciglio – vocals
Andrea Assogna – guitars
Alessandro Assogna – guitars
Leonardo Paluzzi – bass
Andrea “Uora” Frabotta – drums
Un ep di tre brani incentrato sulla storia del Friuli in epoca romana, raccontata tramite un metal estremo epico e melodico, senza rinunciare a sfumature atmosferiche che vanno dal folk all’acustico per poi travolgerci con furiose impennate death/black.
Epic melodic death metal molto suggestivo quello dei nostrani Gates Of Doom, quintetto ispirato dalla scena svedese, in particolare dagli Amon Amarth, anche se il gruppo friulano scaglia frecce dalle piume di diversi colori, rendendo il sound piacevolmente vario e personale il giusto per distinguersi dagli storici esponenti nord europei.
Nata nel 2012 per volere del chitarrista Manuel Scapinello e del batterista Davide Zago, la band ha subito negli anni molti cambi di line up dando vita al primo ep omonimo nel 2015e tornando, quindi, dopo tre anni con Forvm Ivlii, ep di tre brani incentrato sulla storia della nascita del Friuli in epoca romana, raccontata tramite un metal estremo epico e melodico, senza rinunciare a sfumature atmosferiche che vanno dal folk all’acustico per poi travolgerci con furiose impennate death/black degne di una tempesta di neve sulle Alpi Carniche.
Una ventina di minuti registrati, mixati e prodotti da Davide Zago, un assalto sonoro che ha nelle melodie sempre presenti l’arma in più dei Gates Of Doom, notevoli quando le due chitarre affilano le lame e affondano il colpo con cavalcate epiche che ricordano ovviamente gli Amon Amarth; perfetto l’uso della voce , con il growl e lo scream a penetrare gli scudi nemici e parti recitate ed evocative a rendere l’atmosfera ancora più epica e solenne.
Così si sviluppano i tre brani presenti, tutti molto ben strutturati e di notevole impatto: ora manca solo per la band di tuffarsi nella mischia e per poi alzare sulla cime delle montagne il primo album su lunga distanza, un passaggio naturale per entrare di prepotenza nella scena estrema nostrana per la porta principale.
Tracklist
1. Forvm Ivlii
2. Under the grey Mountains
3. Limes
Il mini album “Visioni” dei Bergamaschi Veratrum, ci dimostra per l’ennesima volta – senza per forza fare del puerile campanilismo – quanto il nostro paese non abbia nulla da invidiare nel campo del black metal, in termini di capacità strumentali e di creatività musicale, a nazioni simbolo quali Norvegia, Svezia e Grecia.
Gli italiani Veratrum (death/blacksters con già all’attivo un demo, due album e due ep, compreso l’oggetto di questa recensione) devono il loro nome ad una particolare pianta (il Veratro, dal latino ‘vere’ – veramente e ‘atrum’ – nero) molto tossica, che annovera, tra le sue principali caratteristiche, quella di possedere il rizoma, una sorta di radice che si sviluppa (in genere orizzontalmente e quindi non in profondità) sotto terra.
Il rizoma permette la nascita di nuove gemme, anche se, in superficie, la pianta al termine del suo flusso vitale, muore.
Jung metaforizzò il rizoma:
“La vita mi ha sempre fatto pensare a una pianta che vive del suo rizoma: la sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. Ciò che appare alla superficie della terra dura solo un’estate e poi appassisce, apparizione effimera.” (Da sogni, ricordi e riflessioni).
Parafrasando, la vera natura dell’esistenza è inaccessibile (nel sottosuolo, eterna ed insondabile), mentre ciò che vediamo e viviamo giornalmente, risulta effimero e forse troppo spesso illusorio.
È questa, a mio modo di vedere, la chiave di lettura, di questo ep autoprodotto (uscito al momento unicamente in formato digitale): ricondurre il tutto ad un semplice album black death risulterebbe ingiustamente riduttivo per il quartetto di Bergamo.
Qui il sapore visionario (Visioni, appunto) ed onirico della vera essenza della vita universale, viene espresso in maniera ermeticamente sublime. Il messaggio che assimiliamo durante l’ascolto (il cantato in lingua madre, ci permette di assaporarne le mille sfumature) è di un qualcosa di non detto, di non visto, di metaforicamente sotterraneo, ma che ogni essere umano sa che esiste, e semplicemente lo disconosce, volutamente, forse per ignoranza, forse per atavico terrore.
“La verità non è sempre ciò che appare”- ci dice Tim Burton; occorre andare oltre, oltre il vero.
E allora ci immergiamo nel magistrale black death sinfonico del brano Oltre il Vero, dove i nostri ci accompagnano attraverso profezie di mondi sconosciuti, insegnandoci a vedere ad occhi chiusi. Musicalmente, un armonico mix di mid tempo death, intervallato da pesantissimi cadenzati tempi thrash, fa da cornice ad un black sinfonico, imponente, maestoso, mentre lo scream e il growl duettano alla perfezione, dettandone i ritmi sino alla fine, quasi facciano parte della base ritmica, e non delle parti vocali. Un bell’assolo, arricchito da un coro strepitoso e da synth tanto imponenti da sembrare suonati a quattro mani, ci conducono alla fine del brano: “Oltre il vero, Oltre il cosmo”. Dopo la breve Per Antares, più che un brano, un vero e proprio rituale cosmico dedicato alla Gigante Rossa della Costellazione dello Scorpione – Antares, ci godiamo L’Alchimista, brano essente di un Universo, al di là degli Universi conosciuti, che irrompe con un blast beat quasi perfetto, veloce, d’effetto, ed un scream malignamente oscuro; qui si va oltre il semplice tremolo, denotando una buona padronanza delle chitarre da parte di Haiwas e Rimmon. Non tarda a subentrare l’influsso death, che rallenta sì il brano, ma che ne orchestra divinamente la struttura. Ed è proprio l’alternanza di black e death, armoniosamente miscelati dai synth e da antiche salmodie, ad arricchire un brano mai monotono, da assaporare, ad occhi chiusi, godendone le visioni, che esso ci provoca. “Vedrò lo Scorpione, il suo occhio rosso…” cantano i nostri, ed il viaggio verso verità inimmaginabili, al di là del mondo conosciuto, è quasi terminato. Visioni ed onirico, riferimenti ad Antichi Dei ancestrali, di un testo che pare scritto da (o in omaggio di) H.P.Lovecraft, rappresentano il corpo del brano La Stella Imperitura, la cui anima musicale, maestosamente sinfonica, si solidifica, diventando un tutt’uno con il corpo. Clean, growl e scream danzano, al ritmo di un meraviglioso black, a tratti terribilmente veloce, ed oramai pregno di basi death metal che rendono il sound dei Veratrum, uno splendido connubio di due stili musicali, simili tra loro, ma che, solo se sapientemente armonizzati, come in Visioni, sanno dispensare linfa vitale e musicale. “Qui siamo pronti per salire…” prima strofa del brano che ci prepara al lungo viaggio, fermi sulla soglia, di Limen Operis, ultima chicca strumentale, leggiadro e soave accompagnamento, verso verità sconosciute.
Resta la speranza di veder uscire Visioni anche su cd, il digitale non mi appaga… scusate se sono un tradizionalista, vecchio o meglio antico, almeno quanto Cthulhu.
Tracklist
1.Oltre il Vero
2.Per Antares
3.L’Alchimista
4.La Stella Imperitura
5.Limen Operis
I Leady Reaper dimostrano la loro sagacia nel costruire un sound personale, lasciando che le proprie influenze ed ispirazioni si facciano largo senza compromettere la totale libertà artistica di cui si possono fregiare.
Che i Lady Reaper fossero una band non comune ed in costante evoluzione si era capito già dal personalissimo sound messo in mostra nel debutto omonimo targato 2015, un esempio convincente di metal classico ispirato ai primi anni ottanta, un mix di primi Iron Maiden e Black Sabbath molto teatrale e dinamico, mai fermo sui soliti cliché.
La splendida, affascinate ed ipnotizzante strega fasciata di lattice rosso, dopo aver tagliato teste in giro per lo stivale, ha posato la falce, si è trasformata in una pericolosissima musa di seta vestita, una sacerdotessa che ci invita allo spettacolo che si trasformerà in un bagno di sangue metallico.
Prima però spazio ad una più elegante forma di rivisitazione della letteratura ottocentesca e di alcuni dei suoi autori, accompagnata da un booklet con varie opere in acquarello disegnate da Umberto Stagni, a valorizzare ancora di più il clima elegante e in qualche modo suadente di questo ottimo lavoro. Mise En Abyme esce per l’etichetta italiana Valery Records, ha al suo interno un sound che continua a specchiarsi nel metal dei primi anni ottanta ma con una più spiccata vena teatrale e settantiana, così che parlare di progressive in certi frangenti non è certo eresia.
I Leady Reaper dimostrano la loro sagacia nel costruire un sound personale, lasciando che le proprie influenze ed ispirazioni si facciano largo senza compromettere la totale libertà artistica di cui si possono fregiare.
Dall’intro recitato To The Abyss in poi l’album è un viaggio nel rock/metal classico che non disdegna atmosfere dark/progressive, addirittura sinfoniche e doom rock di altissimo livello, un tuffo nell’elegante e a tratti decadente atmosfera dell’arte di due secoli fa, dove la nostra splendida musa si muove sinuosa e lasciva, promettendo la gloria artistica ma dando solo la morte, mentre le splendide The Ethernal Carnival, Buried In My Dreams e la più lunga Mr. Nick Diabolical Mets (dodici minuti di heavy metal progressivo a tratti entusiasmante) accentuano e consolidano l’impressione di essere al cospetto di un’opera splendidamente fuori dagli schemi.
Ne sentirete delle belle tra le trame di Mise En Abyme, album che piacerà non poco sia gli amanti dell’heavy metal che i fans del rock progressivo e dark a cavallo dei due decenni storici per il genere: i Lady Reaper hanno centrato il bersaglio grosso, ottimo lavoro.
Tracklist
1.To the Abyss
2.The Eternal Carnival
3.Abracadabra
4.Another Me
5.Fragments
6.Buried in my Dreams
7.Stop the Mops
8.Mr Nick: Diabolical Bets
9.Headless Ride
Tornano gli storici deathsters nostrani Distruzione con Inumana, ep composto da due ottimi brani inediti e tre registrati dal vivo. a confermare lo stato di forma del gruppo e a solleticare gli appetiti dei fans in attesa di un nuovo full length.
Difficile non cadere nel retorico quando si parla di gruppi storici, accompagnati da un’aura leggendaria come i deathsters nostrani Distruzione, dai primi anni novanta band di culto nel panorama estremo tricolore.
L’ottimo album omonimo uscito nel 2015 e la ristampa del classico Endogena un anno dopo hanno confermato lo stato di salute dei Distruzione, i quali tornano sempre tramite la Jolly Roger con Inumana, ep che presenta il nuovo batterista Emanuele Collato (Bulldozer e Death Mechanism) ed il solito sound tellurico che nei due straordinari brani inediti dimostra la forza prorompente del combo parmigiano. Uomini contro Uomini e la sensazionale La Torre Della Muda (brano che racconta del conte Ugolino della Gherardesca, rinchiuso con i suoi figli e nipoti e condannato ad una fine orripilante) sono autentiche bordate estreme, dove i testi mai banali (nella prima traccia sono la figura del soldato e gli ultimi istanti della battaglia ad ispirare la band) sono accompagnati da un sound violento e senza compromessi, perfettamente prodotto così da evidenziare il gran lavoro strumentale dei cinque guerrieri metallici battenti bandiera tricolore.
Partendo dalla prestazione di Devid Roncai al microfono, della devastante sezione ritmica che vede il buon Dimitri Corradini affiancare il nuovo arrivato alle pelli e del massacro perpetuato dalle due chitarre ben salde tra le mani della coppia Massimiliano Falleri e Mike Chiari, non si può che mettersi comodi ed aspettare che la band rilasci il nuovo full length che non potrà che essere un altro monolite death metal, genere che i Distruzione coniugano magistralmente ad un sound dal respiro internazionale ma con il cantato in lingua madre ad aumentarne la peculiarità.
In Inumana trovano spazio anche tre brani dal vivo registrati al festival di MetalItalia del 2016, il primo (Stultifera Navis) tratto dall’omonimo album del 2015 e i restanti due (Ossessioni Funebri e Senza Futuro) dal monumentale Endogena.
I Distruzione sono tornati, confermano di essere uno dei gruppi di maggior spicco nel panorama estremo di stampo death metal classico (non solo nel nostro paese) e ci danno appuntamento al prossimo lavoro su lunga distanza.
Tracklist
1.Uomini Contro Uomini
2.La Torre della Muda
3.Stultifera Navis (live)
4.Ossessioni Funebri (live)
5.Senza Futuro (live)
Esordio discografico dei catanesi Crocodile Gabri, un gruppo che fa musica totale, figlio della florida ed originale scena catanese, dove l’underground è sempre stato per fortuna diverso.
Ci sono spazi preziosissimi di musica liberata, zone temporaneamente liberate dall’obbligo di vendere, di dover costruire suoni per farli sentire negli ipermercati e far comprare i consumatori, o per seguire una moda.
Musica che sgorga direttamente dai flussi di coscienza, neuroni che diventano ritmi e viaggiano liberi senza uno scopo, se non quello di far ragionare e di smuovere le cellule che stanno dentro di noi. Quanto sopra è solo una parte del quadro più ampio che potrete trovare dentro all’esordio discografico dei catanesi Crocodile Gabri, un gruppo che fa musica totale, figlio della florida ed originale scena catanese, dove l’underground è sempre stato per fortuna diverso. In un momento, quella che sembrava una canzone pop diventa noise, l’indie rock muore ucciso dal math e si riparte con una costruzione free jazz: ricchezza musicale e di pensiero, che poi sono le due cose fondamentali per un gruppo che voglia essere tale. Si potrebbero fare tanti accostamenti, tipo i Mr. Bungle o le cose come Shellac o Tortoise, la verità è che molti possono pensare che questo disco sia di difficile ascolto, mentre si deve considerare una liberazione, via gli steccati, via i generi e le pose, lasciando spazio a liberi pensieri e ancora più liberi pensieri musicali. Che tristezza rimanere ancorati alla tradizionale forma canzone, mentre qui si corre nudi sulla spiaggia, con una bella dose di malinconia tutta sicula e tanto umorismo mai fuori posto. Fa anche capolino un pizzico di elettronica, perché tutto viene usato in funzione di ciò che si vuole fare e non il contrario. Per le anime metalliche ci sono alcune sfuriate noise che vi entreranno nel cuore e faranno amare questo disco a chi ha tanti ritmi in testa e non ne vuole lasciare nemmeno uno per strada. E’ bellissimo perdersi in un’intelligente cascata di note, bagnarsi, asciugarsi e poi buttarsi nel fango, qui tutto è finalmente possibile. Inoltre i Crocodile Gabri escono per Seminal Pastures, un’etichetta di Catania che raccoglie una scena meravigliosa e libera.
Tracklist
1.Le Mie Cose
2.Ammiraglio
3.Combo
4.Fast Boy
5.Basta Con Questo Copyright
6.Tabernacol
7.Preoccupandomi Allarmai Madame Cancellier
8.Cambiamo La Società
Notte è un disco totalmente strumentale, e questo impasto sonoro sembra quasi doom fatto con un altro codice, con quella cifra stilistica che parla di malinconia ma anche di adorazione delle poche cose belle che ci circondano.
I La Fantasima sono un trio di Roma che vuole rendere omaggio alle atmosfere e ai colori del nostro paese, cercando una poetica musicale molto differente e totalmente personale.
La loro musica è per nostra fortuna e godimento difficilmente classificabile, dal momento che troviamo diversi stili in essa. La struttura è prevalentemente progressive, nel senso che è musica fatta per andare avanti senza ritornelli od inutili abbellimenti, ma è prodotta per creare uno stato d’animo nell’ascoltatore attraverso dilatazioni sonore che fanno sia meditare sia elevare. Notte è un disco totalmente strumentale, e questo impasto sonoro sembra quasi doom fatto con un altro codice, con quella cifra stilistica che parla di malinconia ma anche di adorazione delle poche cose belle che ci circondano. Qualcuno potrebbe anche sentirci dentro qualcosa di post rock, ma i La Fantasima sono un gruppo devoto alla tradizione, anche se sono molto moderni nel porsi in maniera originale. Lo scopo di Notte è di creare una mitopoiesi di questo paese che si chiama Italia e che forse non è mai stata una nazione, ma che ha dei luoghi unici, dove è meglio andare quando in cielo comanda la luna, perché certe cose con una luce differente si vedono assai meglio. Le atmosfere create dal trio romano, qui al secondo disco, sono molto belle e godibili: si gusta a fondo questo disco inforcando le cuffie e pensando solo a quello che stiamo ascoltando. La nuova fatica dei La Fantasima è preziosa, fa parte di quel poco tempo che strappiamo al panopticon che ci circonda, dove possiamo essere noi stessi e rincorrere ancora le lucertole sui muri, o impressionarci per un albero visto di notte. C’è tanta dolcezza in questo disco, ma anche la consapevolezza che siamo stati recisi dal nostro vero io, che possiamo trovare nelle cose e nei rari momenti in cui tutto si allinea e noi con esso, rare apparizioni di sapienza come questo disco che parla direttamente alla nostra anima, come poche altre cose sanno fare.
Tracklist
1.Notte
2.Placida Musa
3.Dea mia
4.Amante Silente
5.Sino Al Mattino
Questo ep di quattro pezzi ha un suono desert rock stoner assai valido, tra riff che guardano dall’altra parte dell’oceano e momenti maggiormente legati al meglio della nostra scena alternativa.
Nuova prova, anche se risale al 2017, per il gruppo stoner rock Il Vile da Verbania.
Questo ep di quattro pezzi ha un suono desert rock stoner assai valido, tra riff che guardano dall’altra parte dell’oceano e momenti maggiormente legati al meglio della nostra scena alternativa. Le canzoni hanno un buon sviluppo e un leggero sentore di blues, ed il cantato in italiano conferisce loro un’aura di malinconia e disillusione che è davvero affascinante. Addirittura, quando il gruppo va leggermente più lento, come in Tagli, dà il meglio e sembra di sentire qualcosa che da tempo si bramava, un suono distorto ma con elementi tipici dell’underground italico. I nostri sono in giro dal 2006, e si sente, poiché riescono sempre ad offrire quello che si sono proposti di fare. Per loro stessa ammissione, il modello è il desert rock stoner, con la differenza che al posto del panorama desertico c’è quello delle valli ossolane, ma la loro sintesi è originale e permette di avere molti sfoghi. Questo disco è il primo dopo l’assestamento nella formazione a quattro, che effettivamente ha dato un qualcosa in più. Zero è anche la conferma che, quando si hanno ottime idee in ambito musicale, il cantato in italiano non sottrae nulla ma anzi aggiunge qualcosa, e in questo caso Il Vile non potrebbe cantare in un altro idioma, perché l’italiano calza a pennello. Questo lavoro è per chi ama il gusto della sabbia e dell’asfalto e cerca qualcosa di qualità, fatto con passione e mestiere.
Tracklist
1. Schiena di serpe
2. Zero
3. Tagli
4. 4 cilindri per l’Inferno
Line-up
Enrico “MAIO” Maiorca – Voce, Chitarra, Parole
Alessandro “CUIE” Cutrano – Chitarra
Paolo “POL” Castelletta – Basso e Cori
Nathan DM Leoni – Batteria
Summa Crapula è un lavoro che pone i Cernunnos sulla mappa del folk metal e con fare sicuro: dopo un debutto così aspettiamo assisi ad un tavolo di una taberna il seguito.
Ep di debutto per i marchigiani Cernunnos, fautori di un folk rock con intarsi metal molto interessante, che si inserisce nel solco della tradizione italiana del genere, con una composizione che si dipana bene, con gli strumenti tipici che sono usati adeguatamente senza mai sforare o sembrare ridicoli come in altri gruppi.
Vi sono, poi, alcuni elementi come la doppia casa della batteria e alcuni potenti riff di chitarra che conducono direttamente al metal, ma il tutto è ben bilanciato con il rock. Le belle e calde voci di Andrea e Marco portano l’ascoltatore in giro per campi di battaglia e borghi medievali, dove la vita è arrivare alla sera a bere alla taberna. Lo stile può sembrare in apparenza simile ai primi Folkstone, ma rispetto al gruppo bergamasco i Cernunnos hanno un passo maggiormente metal, sia nel suono che nell’incedere. Questi ragazzi (e ragazza, dato che troviamo l’ottima Lucia ai flauti), hanno una sincera passione per tali sonorità e la portano avanti con competenza: questo ep è il punto d’arrivo degli sforzi che hanno compiuto nei loro primi tre anni di vita, ma è al contempo una partenza per una carriera che si preannuncia molto interessante. I quattro pezzi che compongo l’ep non sono pochi, ma è la giusta visione del talento e delle reali capacità del combo marchigiano, che ha molti e ampi margini di miglioramento. Summa Crapula è un lavoro che pone i Cernunnos sulla mappa del folk metal e con fare sicuro: dopo un debutto così aspettiamo assisi ad un tavolo di una taberna il seguito.
Tracklist
1. Vino
2. Nella Taverna
3. Valhalla
4. Dall’Alto Delle Guglie
Nemesi risente talvolta delle difficoltà oggettive nell’assemblare pulsioni e stili differenti dei vari ospiti, per di più da parte di un compositore che si cimenta per la prima volta con sonorità di questo genere, ma una simile operazione alla fine va vista con favore, avvicinandovisi possibilmente con la giusta mentalità.
Se, fino ad oggi, chi ascolta abitualmente metal non ha mai sentito nominare i June 1974 è tutto sommato giustificato, nonostante la marea di lavori pubblicati sotto questo monicker negli ultimi anni.
Il perché è presto spiegato: per la prima volta Federico Romano, il musicista che sta dietro al progetto, ha deciso di approdare in territori a noi più familiari dopo avere esplorato svariate forme musicali; così , con la collaborazione di Tommy Talamanca, che ha registrato il lavoro presso i suoi Nadir Studios, ha chiamato in qualità di ospiti nei diversi brani nomi piuttosto illustri della scena rock e metal, italiana ed internazionale.
Non si può negare, quindi, che alla luce del cast messo assieme da Romano, comprendente, tra gli altri, musicisti come Patrick Mameli , Andy LaRocque, James Murphy, Paul Masdival e lo stesso Talamanca, si finisce per prefigurare un disegno stilistico che alla fine non corrisponde del tutto al vero. Nemesi è, infatti, un lavoro di stampo progressivo, interamente strumentale e virato più sul rock che sul metal, e non è che questo sia di per sé un male, l’importante è appunto non farsi traviare da idee precostituite; è anche vero, d’altro canto, che a livello di consuntivo i brani che più convincono sono quelli che vedono coinvolti ospiti non di estrazione metal, come Sognando Klimt con Gionata Mirai (Il Teatro Degli Orrori) e Home con Francesco Conte (Klimt 1918), oppure specialisti di altri strumenti che non siano la chitarra, come Nothing Man con Jørgen Munkeby (sassofonista degli Shining norvegesi) e Beloved con Francesco Sosto (tastierista dei The Foreshadowing).
Molto bello è anche Narciso, il brano che vede impegnato John Cordoni dei Necromass, con un chitarrismo morbido e melodico, in antitesi con l’appartenenza dell’ospite alla band più estrema tra quelle rappresentate, ma in generale l’album è comunque molto vario e si lascia ascoltare senza che la mancanza di parti vocali presenti più di tanto il conto.
Quello che non convince del tutto, finendo per inficiare parzialmente la resa finale del lavoro, è però l’elemento percussivo che si rivela il più delle volte troppo invadente, se non addirittura fuori luogo, nell’accompagnare uno sviluppo melodico che avrebbe richiesto un approccio più morbido e meno incalzante.
Detto questo, Nemesi, pur non essendo un’opera imprescindibile, contiene diversi motivi di interesse anche se, guardando le forze messe in campo da Federico Romano, potrebbe sembrare a prima vista soprattutto un’occasione perduta; indubbiamente il lavoro risente delle difficoltà oggettive nell’assemblare pulsioni e stili differenti dei vari ospiti, per di più da parte di un compositore che si cimenta per la prima volta con sonorità di questo genere, ma una simile operazione alla fine va vista con favore, avvicinandovisi possibilmente con la giusta mentalità.
Tracklist:
1.”Sognando Klimt” featuring Gionata Mirai (Il Teatro Degli Orrori)
2.”Inoubliable” featuring Tommy Talamanca (Sadist)
3.”Narciso” featuring John Cordoni (Necromass)
4.”Home” featuring Francesco Conte (Klimt 1918)
5.”Panorama” featuring Andy LaRocque (King Diamond)/Tommy Talamanca(Sadist)
6.”Nothing Man” featuring Jørgen Munkeby (Shining/Ihsahn)
7.”Death Note” featuring Patrick Mameli (Pestilence)
8.”Arcadia” featuring Paul Masvidal (Cynic/Death)
9.”Creed” featuring James Murphy (Obituary/Death/Testament/Cancer/Gorguts)
10.”Beloved” featuring Francesco Sosto (The Foreshadowing)
Come abbiamo spesso affermato su queste pagine, il movimento metalcore (o modern metal qual dir si voglia) è molto affollato, ma bisogna dire che ultimamente in Italia ci sono gruppi come i This Isn’t Over che stanno notevolmente alzando l’asticella della qualità.
I This Isn’t Over sono un gruppo italiano di metalcore, molto potenti e dalle idee ben chiare.
Vengono dalle Marche, hanno due voci e questo è il loro primo ep chiamato Ora, fatto di un buonissimo sound dalle forti influenze hardcore e molto melodico, con passaggi più sognanti e momenti più claustrofobici, in stile molto americano. La produzione è assai curata e riesce a mettere in risalto tutte le doti del gruppo, che sono molte, una su tutte la capacità di costruire canzoni ben articolate e con diversi momenti al loro interno, in modo da rendere più vario ed interessante il tutto. Come abbiamo spesso affermato su queste pagine, il movimento metalcore (o modern metal qual dir si voglia) è molto affollato, ma bisogna dire che ultimamente in Italia ci sono gruppi come i This Isn’t Over che stanno notevolmente alzando l’asticella della qualità. Questo ep è la perfetta testimonianza di come si possa essere melodici e potenti, con capacità tecniche al di fuori della media che vanno però al servizio del progetto nella sua totalità. Certamente qui non viene inventato nulla, gli standard del genere non vengono stravolti, ma vengono affrontati nel migliore dei modi, per un prodotto che funziona molto bene davvero.
Tracklist
1. Mr huge cock von dick
2. Deconstruction
3. Misanthrophrenic
4. Sea
5. Never forget
6. Harmonized
I Canaan producono un altro disco bellissimo e terribile, nel quale l’elettronica regna sovrana e dalla freddezza del silicio nasce un calore che avvolge tutto e tutti, e si proiettano verso uno spazio che è differente da quello nel quale viviamo.
I Canaan sono dei moderni sciamani che ci fanno vedere la realtà squarciando il velo che la avvolge e che ce la fa sembrare sostenibile.
La loro ultima opera è incentrata sul rendere in musica le immagini delle nostre anime spezzate dalle vite che facciamo e le lacerazioni che procurano. Ascoltare i Canaan è come fare terapia psicologica iniettandoci il virus che vogliamo sconfiggere, è lottare senza stare comodi, andare avanti senza sapere dove potremmo arrivare, ma continuare. La parabola musicale di questo gruppo è una delle più interessanti e preziose della musica underground italiana, ed è cominciata tanto tempo con il gruppo doom death dei Ras Algethi, per poi continuare nei Canaan con due terzi del gruppo capitanati da Mauro Berchi, una delle figure più importanti che abbiamo nella musica in Italia. I Canaan non suonano un genere musicale ben preciso, essendo uno di quei pochi gruppi che non è circoscrivibile in uno specifico ambito, esibendo uno stile del tutto proprio. Se gli esordi erano molto darkwave e gothic, con gli ultimi dischi il suono si sta rarefacendo, portandolo più in alto, ma il tutto appare ancora più soffocante e claustrofobico. Come detto prima, i Canaan ci fanno vedere con le loro sensazioni in musica che la nostra vita è abbastanza inutile, che il nulla ci avvolge e che i nostri sforzi, oltre che vani, sono controproducenti. Tutto ciò sarebbe spaventoso, anche se nell’arte abbiamo tantissimi esempi, o forse l’arte serve proprio a farci vedere il nulla, ma il gruppo milanese riesce a rendere sublime tutto ciò. Dopo il meraviglioso il Giorno Dei Campanelli del 2016, i Canaan producono un altro disco bellissimo e terribile, nel quale l’elettronica regna sovrana e dalla freddezza del silicio nasce un calore che avvolge tutto e tutti, e si proiettano verso uno spazio che è differente da quello nel quale viviamo: forse è sogno, perché la musica dei milanesi è un qualcosa di meravigliosamente indefinito, un sogno con la febbre, una febbre che ci fa capire, il nulla che parla. Ogni canzone è molto curata, come sempre ogni nota e ogni respiro elettronico ha un senso per un gruppo che va davvero oltre la musica e ti porta in un luogo tutto suo. Per chi li ascolta da anni non è facile descrivere l’esperienza che viene vissuta, perché i Canaan non sono un gruppo che si possa ascoltare con le cuffie mentre si va a lavorare, ma devono essere assimilati come un rito, perché aprono una dimensione nuova nella quale il dolore prende vita e forma, e il nulla si può rivelare liberamente.
Tracklist
1.My Deserted Place
2.The Story Of A Simple Man
3.Words On Glass
4.Hint On The Cruelty Of Time
5.I Stand And Stare
6.Of Sickness And Rejection
7.The Dust Of Time
8.Adversaries
9.That Day
10.A Tired Sentry
11.Worms
12.Through Forging Lines
La poetica dei Reveers colpisce al cuore e parla attraverso immagini che nascono attraverso la musica, dove si sentono note e sequenze dai molti colori
I Reveers sono un gruppo composto da quattro ragazzi della provincia udinese, formatosi jam dopo jam.
Questo debutto è un dolcissimo disco di rock pop, con aperture post rock, di una maturità e di una consapevolezza straordinarie. Prendete Paul Simon a vent’anni, trasportatelo nella nostra epoca buia, fatelo suonare con dei ragazzi che hanno una grande padronanza degli strumenti e potreste avvicinarvi a cosa fanno i Reveers. Qui regna la calma, siamo in una sala parto dove nasce buona musica e ogni elemento è prezioso: si passa dal post rock a momenti molto floydiani, il tutto con personalità e gusto. Ogni canzone del disco è come un movimento che contiene al suo interno diversi elementi e tutti questi trovano armonia se posti assieme. Le tracce sono quasi tutte di lunga durata, e ciò rende possibile sviluppare un disegno sonoro molto interessante ed avanzato. La poetica dei Reveers colpisce al cuore e parla attraverso immagini che nascono attraverso la musica, dove si sentono note e sequenze dai molti colori, in cui tutto muta. Scorrendo le biografie dei componenti del gruppo si nota che sono musicisti con basi solide e si sente, soprattutto nella composizione e nelle strutture dei pezzi, che appaiono di un altro livello rispetto alle cose che si trovano in giro oggi. Si potrebbe quasi definire To Find A Place il disco più slowcore ascoltato da qualche anno a questa parte, ma in realtà c’è molto di più. Inoltre spuntano anche elementi elettronici trattati con grande sapienza e capacità. Questi ragazzi esordiscono con un grande album, ma se volessero hanno la possibilità di spingersi anche ben oltre: con le capacità ed il gusto esibito nulla è loro precluso.
Tracklist
1. Low to the ground
2. Fortune teller
3. Thesis, antithesis and synthesis
4. Music for a silent film
5. Mosaico
6. Spheres
7. Waves from the sky
8. Blind alley
Line-up
Fabio Tomada
Ismaele Marangone
Elia Amedeo Martina
Giulio Ghirardini
I Kormak sono una delle band italiane più interessanti uscite negli ultimi anni: epici, potenti, dolci o devastanti, a seconda della necessità.
Album di debutto per i baresi Kormak, che fanno un ottimo folk death metal, con intarsi gothic e la splendida voce della cantante Zaira De Candia, che è davvero un valore aggiunto.
I Kormak nascono nel 2015 e con calma e tanto lavoro sono arrivati ad un debutto che è un ottimo biglietto da visita Una delle loro caratteristiche più importanti è quella di saper cambiare registro musicale in un tempo brevissimo, passando da un leggiadro suon odi flauto ad un massacro con doppie casse e tanto sangue sparso, il tutto fatto sempre con una forte personalità. Il suono sa mutare, ma soprattutto sa sempre trovare il suo corso naturale dove poi sgorgare in maniera impetuosa e forte. Zaira è una moderna furia che si abbatte sull’ascoltatore, ma tutto il gruppo è molto ben affiatato. La cifra stilistica deve molto all’epicità, infatti il nome viene dalla saga islandese Kormaks risalente al tredicesimo secolo. Folk e viking metal, ma non solo, perché in alcune canzoni si rinviene un passo death notevole e assai incisivo. I Kormak sono un gruppo che ha grandi potenzialità che vengono esibite in questo disco, ma la sensazione è che abbiano ancora molto da mostrare. La produzione è buona e valorizza la potenza di questo gruppo riuscendo a non disperderla. In definitiva, i Kormak sono una delle band italiane più interessanti uscite negli ultimi anni: epici, potenti, dolci o devastanti, a seconda della necessità. Faerenus era il luogo della pazzia, nel quale le paure diventavano materiali e i Kormak solo la guida ideale per condurci in questo mondo sotterraneo.
Tracklist
1 – Amon
2 – March of Demise
3 – Sacra Nox
4 – The Goddess’ Song
5 – The Hermit
6 – Faerenus
7 – Patient N° X
8 – July 5th
9 – Eterea El
Il sound di Destination Anywhere è composto da varie anime che si alternano e rendono l’ascolto vario e a suo modo originale, pur restando nei binari del metal progressivo, con sette brani che formano una lunga jam strumentale nella quale non troverete una nota fuori posto.
I tempi sono cambiati in ambito metal strumentale, e col passare del tempo ci ritroviamo sempre più spesso al cospetto di lavori che, oltre alla mera tecnica, cercano di trasmettere emozioni anche a chi non è per forza di cose un musicista e dal mondo delle sette note cerca emozioni.
Molti sono coloro i quali si cimentano in opere in cui la mancanza di una voce guida lascia libera l’immaginazione dell’ascoltatore, rapito dalle evoluzioni strumentali mai fine a se stesse ma esposte come colonne sonore, racconti in musica di viaggi come questo ottimo debutto intitolato Destination Anywhere, opera strumentale di Ærgonaut, polistrumentista e compositore italiano. Destination Anywhere è proprio quello descritto in precedenza, un viaggio musicale lungo sette brani, dalla decisione di partire, ai timori del protagonista per quello che lo aspetterà lungo il tragitto che lo separa dalla Terra, un traguardo sospirato e raccontato con l’aiuto di un metal progressivo che non disdegna soluzioni moderne, tra elettronica, synth e ritmiche a tratti sincopate, ma subito alleggerite da splendide aperture melodiche.
I solos raccontano le emozioni che scaturiscono dalle varie peripezie che Ærgonaut incontra nel suo vagabondare, lo spazio e il suo infinito, mentre le note alternano momenti di ruvido metall, a progressive digressioni melodiche e atmosferiche parti vicino allo space rock.
Il sound di Destination Anywhere è composto da varie anime che si alternano e rendono l’ascolto vario e a suo modo originale, pur restando nei binari del metal progressivo, con sette brani che formano una lunga jam strumentale nella quale non troverete una nota fuori posto.
Tracklist
1. The Beginning
2. Planet
3. Little Trip
4. Boys On The Road
5. The Storm
6. The Binary Code
7. Arrival
Per circa tre quarti d’ora Empty Chalice offre quella che si dimostra, ancora una volta, un’interpretazione peculiare e sopra la media della materia, riuscendo davvero a far vivere all’ascoltatore la terribile battaglia che si combatte all’interno di un organismo colpito dalla sindrome di Ondine.
Il nuovo lavoro di Antonio Airoldi (Antonine A.), nella sua incarnazione denominata Empty Chalice, è la quarta di una serie di uscite targate Ho.Gravi.Malattie, etichetta dal nome indubbiamente bizzarro ma del tutto attinente al catalogo proposto, visto che ogni disco è dedicato ad una delle molte patologie che affliggono l’umanità.
Con Empty Chalice viene affrontata la Sindrome di Ondine, disturbo assai raro ma fortemente invalidante visto che, di fatto, l’organismo “dimentica” di respirare durante il sonno: tale scelta appare fin da subito azzeccata, visto che il musicista trentino ci ha abituato da tempo all’esibizione di una forma di ambient claustrofobica ma allo stesso tempo sempre inquieta e in divenire.
Se rispetto ai generi, per cosi dire, canonici l’ambient può essere definita a buon titolo una sorta di flusso sonoro, in Ondine’s Curse il suo scorrere appare quanto mai disturbato, quasi ad fotografare la discrasia provocata da un cervello che si rifiuta di fornire i comandi atti a garantire la sua stessa sopravvivenza .
Per circa tre quarti d’ora Airoldi offre quella che si dimostra, ancora una volta, un’interpretazione peculiare e sopra la media della materia, riuscendo davvero a far vivere all’ascoltatore la terribile battaglia che si combatte all’interno di un organismo colpito dalla sindrome, lacerato dalla necessità fisiologica di dormire, da un lato, e dall’impossibilità di cedere al sonno pena la cessazione delle funzioni vitali, dall’altra.
L’ambient targata Empty Chalice di certo non scorre senza lasciare tracce: sul terreno restano tracce di paure ancestrali e conflitti interiori irrisolti, con suoni che se, in The Awake, possiedono una recondita parvenza melodica, in II esibiscono un substrato di canti gregoriani, e da III in poi si tramutano nella trasposizione musicale di una elettroencefalogramma imbizzarrito: tutto ciò senza che nessuna nota o rumore possa apparire superfluo o fuori luogo. Ondine’s Curse conferma una volta di più lo status acquisito da Antonio Airoldi, avviato a diventare (ammesso che già non lo sia) uno dei nomi di punta del nostro avanguardismo musicale.
Tracklist:
1. The Awake
2. II
3. III
4. IV
5. The Sleep
Dreamy Reflections è un viaggio di settanta minuti tra il metal/rock degli ultimi trent’anni, attraversato da un alone di oscuro e drammatico spirito dark e animato da ispirazioni diverse riunite in un sound che, cercando di semplificare, si può certamente descrivere come alternative metal.
Debutta per Logic Il Logic Records e Burning Minds Music Group questo quartetto di rockers nostrani chiamato Orphan Skin Diseases, fondato dal batterista Massimiliano Becagli, con un passato negli storici No Remorse, raggiunto in seguito da Gabriele Di Caro (ex Sabotage, ex Outlaw al microfono), Juri Costantino (ex Creation al Basso) e David Bongianni (ex Virya, Little CB alla chitarra).
Mixato e masterizzato da Oscar Burato agli Atomic Stuff Studio, Dreamy Reflections, anticipato dal video del brano Flyin’ Soul, è un’opera massiccia, un tour de force di settanta minuti tra il metal/rock degli ultimi trent’anni, attraversato da un alone di oscuro e drammatico spirito dark e animato da ispirazioni diverse riunite in un sound che, cercando di semplificare, si può certamente descrivere come alternative metal.
Settanta minuti sono tanti, ma la band cerca di alternare le varie sfumature della propria musica che vanno dal metal moderno, al thrash, dal progressive all’hard rock, mantenendo un’ aura drammatica che si evince dai testi, impegnati a difesa dei più deboli e argomentati da una serie di denunce politiche e sociali.
Parlando di musica l’approccio al mondo del metal/rock alternativo è molto maturo e personale, e l’anima progressiva si fa spazio in quei brani che evidenziano un crescendo emotivo, sorretti da molte ottime idee che valorizzano la struttura di tracce come The Storm, As A Butterfly Crub, il potente macigno sonoro Sorrow & Chain e la conclusiva Just One More Day, brano diviso in tre parti dove intro e outro a titolo She Was fanno da contorno a Fathered, splendido brano che tanto sa di post grunge. Dreamy Reflections unisce in un unico sound generi diversi ed ispirazioni che vanno dai Life Of Agony agli Alice In Chains, dai Tool ai Metallica, aggiungendo un personale tocco progressivo che ne valorizza la struttura dei brani e l’ascolto.
Tracklist
01. Into A Sick Mind
02. Flyin’ Soul
03. The Storm
04. Rapriest (Stolen Innocence)
05. Do You Like This?
06. As A Butterfly Grub
07. Awake
08. Leave A Light On
09. Sorrow & Chain
10. The Wall Of Stone
11. Waves
12. Just One More Day – She Was (Intro)
13. Just One More Day – Fatherend
14. Just One More Day – She Was (Outro)
Line-up
Gabriele Di Caro – Vocals
Dimitri Bongianni – Vocals, Backing Vocals
David Bongianni – Guitars, Backing Vocals
Juri Costantino – Bass, Backing Vocals
Massimiliano Becagli – Drums
L’idea di riprendere in mano il disco solista di Omega X e di rielaborarlo collaborando anche con altri gruppi come Synapsyche, Larva ed Xperiment è stata un’ottima idea che ha portato a fare un disco molto potente, melodico e ben bilanciato.
Tornano i T- Error Machinez, uno dei migliori gruppi italiani di industrial metal ed ebm, con la rielaborazione del disco solista del loro membro Omega X.
La band lo ha ripreso in mano e gli ha dato una nuova veste, collaborando con altri gruppi. Il lavoro è diviso in cinque capitoli che trattano di miti, di demoni e degli archetipi della nostra cultura profonda, per metterci faccia a faccia con quello che siamo veramente. I T- Error Machinez nascono nel 2013 per fare musica oscura e di qualità: il dipanarsi delle loro canzoni denota un’ottima capacità compositiva, e laddove per altri ci sono le nebbie dell’incertezza, il trio ne esce sempre con una melodia chiara e con strumenti pesanti. La loro poetica è quella di esplorare le cose che vediamo e soprattutto quelle che non sono visibili ad occhio nudo, che siano dentro o fuori di noi. La loro musica ha fortissime radici nell’ebm di gruppi come i Suicide Commando, dei quali hanno fatto un bel rifacimento di God Is In The Rain in download libero sul loro bandcamp, hanno elementi di sympho metal e ottime orchestrazioni, per una musica dall’ampio respiro. E’ facile in questo genere cadere in trappole barocche, appesantendo il suono di inutili orpelli, mentre qui tutto è necessario ed adeguato, e sembra di stare per davvero in un passato/futuro mentre è in corso una guerra fra umani. L’idea di riprendere in mano il disco solista di Omega X e di rielaborarlo collaborando anche con altri gruppi come Synapsyche, Larva ed Xperiment è stata un’ottima idea che ha portato a fare un disco molto potente, melodico e ben bilanciato.
Tracklist
1.The Wings Of Icaro
2.The War Of The Valkyries
3.Cultos Asmodeus
4.The Black Sun
5.All Your Nightmares… Are Real!
6.The Tormentum Of The Dark Carnival Creation
7.The End Of Human Time (feat.Synapsyche)
8.Biological Pharmacode
9.Clock Tower
10.Angeles Del Apocalipsis (feat.Larva)
11.The Redemption
12.Infected World
13.Lovers Cursed (feat.Xperimen
I Nofu con i loro magnifici testi e l’hardcore punk vecchia scuola sono una bellezza da sentire e da vivere, perché potrebbero darvi il codice sorgente per hackerare la nostra vita.
I Nofu sono uno uno dei migliori gruppi hardcore punk con tocchi metal italiani di sempre.
Interruzione è il loro disco più recente del 2017, uscito in free download e in forma fisica sempre attraverso il contributo di diverse etichette, con il metodo della cospirazione do it yourself, che è un vaffanculo al capitalismo musicale, essendo una produzione dal basso. I Nofu con i loro magnifici testi e l’hardcore punk vecchia scuola sono una bellezza da sentire e da vivere, perché potrebbero darvi il codice sorgente per hackerare la nostra vita. Il loro suono deve molto ai Negazione, da quel maledetto giorno quando li ascolto o li nomino il pensiero va sempre a Marco Mathieu in coma da mesi, e a quella fantastica scuola italiana, anche se qui c’è un prepotente tocco di hardcore americano. I Nofu riescono a fondere molto bene testi forti e musica veloce, ed è uno dei modi più validi di fare politica, ovvero quella cosa che cambia la vita in meglio, o che dovrebbe farlo. Ascoltando il gruppo romano si entra in un mondo senza filtri e soprattutto liberato dal leviatano capitalista, analizzando le nostre vite e i nostri rapporti con gli altri, non dando risposte ma scatenando dubbi. Un testo come Interruzione Pt. 2, la traccia che chiude il disco, è un qualcosa di pazzesco e di molto indicativo su cosa sia diventata la musica alternativa, perché i Nofu non sono la vetrina, ma il sasso che la spacca. Inoltre i Nofu possiedono una tecnica invidiabile e molto forte, che non va nella direzione dell’onanismo musicale, ma che è sempre al servizio della musica. Un disco forte e che ti entra dentro, come facevano e come faranno sempre i dischi suonati con il cuore e per la tua gente.
Tracklist
1.L’odio e le risa
2.Noi
3.Cenere
4.Disposto soggetto
5.Interruzione
6.Fragile Incompiutezza
7.Instabile (feat Giovanni Confusione/Flic dans la tete)
8.Spettri
9.In proprio
10.Interruzione pt.2