Black Oath – Ov Qliphoth And Darkness

“Ov Qliphoth And Darkness” è l’ennesimo grande disco doom metal pubblicato da una band italiana.

Dire che l’Italia in questo momento è una delle avanguardie della scena doom mondiale potrebbe apparire un eccesso di ottimismo o, nel peggiore dei casi, un incontrollabile attacco di sciovinismo: forse non sarà così dal punto di vista quantitativo, ma sotto l’aspetto qualitativo le nostre band non temono davvero confronti.

Per evitare di scontentare o dimenticare qualcuno non sciorinerò l’elenco piuttosto lungo dei nomi che, in questi ultimi anni, hanno dato alle stampe lavori di elevato spessore e che, non a caso, hanno ricevuto maggiore attenzione e risonanza all’estero che non in casa nostra, ma per i veri appassionati sarebbe tutto sommato un’operazione inutile.
In questo novero entrano di diritto i Black Oath, realtà dalla storia ancora relativamente breve ma già ricca di uscite in vari formati: questo Ov Qliphoth And Darkness è di fatto solo il loro secondo full-legth e non fa che rafforzare le positive impressioni destate con l’esordio “The Third Aeon” risalente a due anni fa.
Il doom della banda milanese afferisce al ramo più classico del genere, quello, per intenderci, che fa propria la lezione di Candlemass, Pentagram, Saint Vitus e compagnia, il tutto insaporito però da quel’oscuro fascino esoterico che dalle nostre parti è una regola e non un’eccezione.
In fondo la ricetta dei Black Oath non è affatto sconvolgente: brani lenti ma non dai tratti pachidermici, che seguono una linea melodica ben precisa, assecondata da un cantato sobrio, lineare, ma assolutamente efficace, a cura dell’ottimo A.Th.
Dopo la consueta intro, For His Coming apre le danze con un brano evocativo quanto in linea con la tradizione, e lo stesso si può dire anche per le altrettanto convincenti Sinful Waters e Scent Of A Burning Witch.
Witch Night Curse viene introdotta da una cupa tastiera (che ricorda i mai abbastanza rimpianti Cultus Sanguine) per poi dipanarsi in una lenta marcia verso l’abisso, mentre A.Th. continua ad evocare con maestria riti terrificanti ed oscuri.
Drakon, Its Shadow Upon Us fa il paio con il brano precedente per la sua carica evocativa e sembra lecito affermare che questo quarto d’ora complessivo di musica rappresenti al meglio le capacità indiscutibili del trio.
La title–track e la conclusiva (in tutti i sensi…) … My Death sono le tappe finali dell’ennesimo, affascinate viaggio musicale senza ritorno verso l’ignoto.
Nonostante il meritato elogio alla scena doom nostrana con il quale ho iniziato la recensione, nel cercare però qualche affinità con altri dischi usciti recentemente, collocherei Ov Qliphoth And Darkness nello stesso segmento stilistico dell’altrettanto valido “Doominicanes” dei polacchi Evangelist.
Ma, in casi come questi, i termini paragone sono utili solo per fornire un’idea approssimativa a chi non avesse ancora avuto la ventura di ascoltare qualche frammento di questo pregevole lavoro che, per quanto inevitabilmente devoto a chi in passato ha già percorso questo cammino misterioso e costellato di dolore, ha ben impresso il marchio di fabbrica della band che lo ha composto e inciso.

Tracklist :
1 – Esbat: Lamiae Sinagoge Pt 2
2 – For His Coming
3 – Sinful Waters
4 – Scent Of A Burning Witch
5 – Witch Night Curse
6 – Drakon, Its Shadow Upon Us
7 – Ov Qliphoth And Daekness
8 – …My Death

Line-up :
A.Th – Vocals, Guitars
Paul V – Bass
Chris Z – Drums, Clean Guitars, Synth
pagina face book

BLACK OATH – Facebook

Doomraiser / Caronte – Split

Uno split che si rivela un’autentica chicca per gli appassionati, oltre che un prezioso e gradito antipasto in grado di lenire l’attesa per le prossime prove su lunga distanza di due band dallo status ormai consolidato.

Piatto decisamente succulento, questo split album che vede alle prese due delle punte di diamante della scena doom tricolore, i romani Doomraiser ed i parmensi Caronte.

Dopo tre lavori che l’hanno imposta all’attenzione non solo in ambito nazionale, la band della capitale propone un lungo brano che tutto sommato riassume quella che è stata la sua progressione stilistica in questi anni: elementi di doom primordiale vanno ad amalgamarsi con quelle pulsioni psichedeliche che hanno caratterizzato in particolare l’ultimo “Mountain Of Madness”: in Dream Killers viene evidenziato un ottimo equilibrio tra le varie componenti del sound che appare, soprattutto nella parte iniziale, più diretto del solito; come sempre da rimarcare la prestazione di Nicola “Cynar” Rossi, capace di offrire senza sbavature diversi range vocali. La proposta dei Caronte su articola invece su due brani che, pur mantenendo ben saldo il trademark della band, esplorano in maniera differente la materia stoner psichedelica che i nostri sanno maneggiare sempre con maestria: più lineare e fruibile al primo impatto Tales From The Graves, traccia oscura e avvolgente, resa ancor più affascinante dal sapiente uso dell’hammond, mentre maggiormente disturbata da pesanti influssi dark-esoterici appare Journey Into The Moonlight, brano cangiante nel quale, quando il sound si distende nei suoi passaggj più evocativi, l’interpretazione vocale di Dorian Bones ricorda da vicino per intensità quella del miglior Danzig. Uno split che si rivela, quindi, un’autentica chicca per gli appassionati, oltre che un prezioso e gradito antipasto in grado di lenire l’attesa per le prossime prove su lunga distanza di due band dallo status ormai consolidato.

Tracklist :
1. Doomraiser – Dream Killers
2. Caronte – Back from the Grave
3. Caronte – Journey into the Moonlight

Line-up :
Doomraiser
Cynar – Vocals
Drugo – Guitar
Willer – Guitar
BJ – Bass
Pinna – Drums

Caronte
Tony Bones – Guitars
Mike De Chirico – Drums
Henry Bones – Bass Dorian
Bones – Vocals

DOOMRAISER – Facebook

CARONTE – Facebook

Infinita Symphonia – Infinita Symphonia

Gli Infinita Symphonia vanno ad aggiungersi al cospicuo numero di band tricolori dedite ad un heavy metal dai tratti sinfonici e lo fanno senza sfigurare al cospetto dei nomi più celebrati della scena.

Gli Infinita Symphonia vanno ad aggiungersi al cospicuo numero di band tricolori dedite ad un heavy metal dai tratti sinfonici e lo fanno senza sfigurare al cospetto dei nomi più celebrati della scena.

Il sound della band nettunese unisce in maniera efficace power e prog, mantenendo comunque sempre connotati alquanto melodici senza per questo risultare necessariamente stucchevoli. L’opener If I Could Go Back è un perfetto esempio di ciò che riserverà il resto dell’album, trattandosi di un brano immediatamente memorizzabile e lo stesso dicasi per la successiva (e ancor più efficace) The Last Breath; il quartetto laziale pare trovarsi perfettamente a proprio agio con brani di questo tipo, e lo stesso accade con una ballad come l’emozionante In Your Eyes (a noi una canzone con questo titolo deve piacere per forza …) dal vago sentore Shadow Gallery, nella quale Luca Micioni, coadiuvato da una voce femminile, sfodera una prestazione di assoluto rilievo. Pregevoli anche Fly, non solo per il contributo vocale del “mostro sacro” Michael Kiske, e la coinvolgente Waiting For A Day. La chiusura di quest’album autointitolato è affidata a Limbo, degno epilogo per un lavoro che, pur essendo forse un po’ “leggerino” per chi è abituato a sonorità più robuste, mostra una sorprendente crescita dopo ogni ascolto, denotando una tenuta sulla lunga distanza non sempre rinvenibile in uscite di questo genere. Se cercate novità epocali passate pure oltre, altrimenti, se vi “accontentate” di ascoltare del buon metal melodico, suonato con gusto e padronanza della materia, gli Infinita Symphonia fanno sicuramente al caso vostro.

Tracklist :
1. If I Could Go Back
2. The Last Breath (Slideshow)
3. Welcome to My World
4. Drowsiness
5. In Your Eyes
6. Fly
7. Interlude
8. Waiting for a Day of Hapiness
9. X IV
10. Limbo

Line-up :
Luca Micioni – Vocals
Gianmarco Ricasoli – Lead Guitar & Backing Vocals
Alberto De Felice – Bass & Backing Vocals
Ivan Daniele – Drums

The Great Saunites – The Ivy

The Ivy merita di entrare a far parte della discografia degli ascoltatori dalle vedute più aperte.

Quando ogni tanto, nello smazzare il materiale che ci arriva, mi imbatto in un disco che esula dai generi che meglio conosco, il problema maggiore è quello di aver poco da raccontare e soprattutto d’essere sprovvisto di adeguati termini di paragone.

Per fortuna questo lavoro dei The Great Saunites non mi ha lasciato affatto spiazzato benché sia apparentemente lontano dalle forme di doom che costituiscono il mio habitat naturale: The Ivy mostra infatti, tra le proprie caratteristiche, un volto psichedelico che omaggia in maniera competente il sound pinkfloydiano dei primi anni ’70, senza però tralasciare diverse pulsioni derivanti dallo stoner più opprimente, oltre a una sviluppata componente noise.
La breve opener Cassandra è un’assaggio del delirio sonoro costituito dalla successiva Medjugorje, otto minuti in grado di stordire ed affascinare allo stesso tempo, grazie ai suoi ritmi ossessivi e lisergici; Bottles & Ornaments appare invece come una sorta di citazione del trittico “Alan’s Psychedelic Breakfast” che chiudeva il geniale (quanto ingiustamente sottostimato rispetto ad altri album più celebrati) “Atom Heart Mother”.
Ocean Raves regala qualche minuto di pace acustica prima che la scena venga occupata dalla lunghissima title –track, nella quale i The Great Saunites danno libero sfogo alla propria creatività amalgamando gli umori psichedelici con un sapiente utilizzo dell’elettronica; questi venti minuti sono emblematici dell’attitudine sperimentale e priva di alcuna linea di demarcazione dei due musicisti lombardi e, nonostante una durata indubbiamente impegnativa, la traccia scorre senza lasciare alcun sentore di noia.
Da segnalare, infine, che questo ep esce sotto l’egida di un pool di etichette (Bloody Sound Fucktory, Hypershape, HysM?, Il Verso del Cinghiale, Lemming, Neon Paralleli, Terracava, Villa Inferno) che si sono mosse per consentire a The Ivy di entrare meritoriamente a far parte della discografia degli ascoltatori dalle vedute più aperte.

Tracklist :
1.Cassandra
2.Medjugorje
3.Bottles & Ornaments
4.Ocean Raves
5.The Ivy

Line-up :
Leonard Kandur Layola (drums,effects,guitar,keyboards)
Atros (bass,keyboards,guitar,vocals)

THE GREAT SAUNITES – pagina Facebook

Tethra – Drown Into The Sea Of Life

Un lavoro consigliato vivamente a chi apprezza il doom nella sua forma più genuina e spontanea.

Dopo un Ep ed un intensa attività dal vivo nel corso di questi ultimi anni, i Tethra approdano al full- length d’esordio che costituisce, contemporaneamente, anche la prima uscita per la nuova label milanese House of Ashes Prod.

Nata dall’incontro tra il chitarrista Belfagor (Horrid) e il cantante Clode (ex-Coram Lethe), la band, completata da Miky (Vexed) alla batteria e dall’ultimo entrato, Giuseppe al basso , pur essendo relativamente di recente formazione è in realtà composta, come si può intuire, da musicisti esperti e Drown Into The Sea Of Life ne è la logica conseguenza. La musica dei Tethra prende le mosse dai Candlemass più evocativi ammantandosi sovente di ombrose atmosfere death-doom, senza concedere ammiccamenti a facili melodie ma mostrando in prevalenza un volto plumbeo pur se non propriamente funereo; i brani, infatti, pur essendo ovviamente caratterizzati da ritmi lenti, non debordano mai in un’opprimente pesantezza.
Dopo la canonica intro strumentale, Sense Of The Night inaugura l’album presentando Clode alle prese con profonde tonalità in stile Ribeiro, caratteristica che nel corso del lavoro riproporrà con buoni risultati, in costante alternanza a vocals più stentoree ed al growl .
Questo brano, così come il successivo Drifting Islands, brilla per la sua forza evocativa e si rivela l’indicatore attendibile di un songrwriting in grado di coinvolgere adeguatamente l’ascoltatore.
Più ritmata è, invece, Vortex Of Void, anche se è evidente che il concetto di velocità in un disco di questo tipo è del tutto relativo, mentre la title-track si mostra come la traccia più elaborata, con diversi cambi di tempo, la consueta varietà vocale e ottime linee chitarristiche
Se Ocean Of Dark Creations è caratterizzata da un bel contributo del basso, strumento che viene messo in bella evidenza dalla produzione a cura dello stesso Clode e di Mat Stancioiu, la successiva Ode To A Hanged Man si fa ricordare per un incipit dal sapore epico, anche se si rivela leggermente inferiore a livello di coinvolgimento emotivo rispetto al contesto.
Questo tribolato viaggio in acque perigliose (i testi dell’intero album hanno come tema portante il mare e l’oceano) si conclude con End Of The River, degno finale di un lavoro convincente anche se di non semplicissima assimilazione.
Cio che piace dei Tethra è proprio questa loro scelta di mantenersi in linea con l’ortodossia del genere, aspetto che può penalizzare la fruizione del disco durante i primi ascolti ma che finisce per svelare la sua oceanica profondità nelle successive occasioni.
Un lavoro consigliato vivamente a chi apprezza il doom nella sua forma più genuina e spontanea.

Tracklist :
01 Intro
02 Sense Of The Night
03 Drifting Islands
04 Vortex Of Void
05 Drown Into The Sea Of Life
06 The Underworld
07 Ocean Of Dark Creations
08 Ode To A Hanged Man
09 End Of The River

Line-up :
Miky – Drums
Belfagor – Guitars
Clode – Vocals
Giuseppe – Bass

TETHRA – pagina Facebook

Aborym – Dirty

Gli Aborym confermano con questo loro sesto disco il raggiungimento di uno status di tutto rispetto conquistato grazie a dischi talvolta accolti in maniera controversa, tutti accomunati però da una mai sopita voglia di sperimentare soluzioni non convenzionali.

Gli Aborym sono da oltre un decennio una realtà consolidata nel versante più sperimentale del metal. Fabban ha sviluppato un percorso musicale del tutto personale arrivando a una forma di black avanguardistico con il quale ha mostrato in ogni sua uscita un volto diverso rispetto al precedente lavoro.

Parlando di Dirty, si nota subito che possiede sembianze meno claustrofobiche rispetto a “Psychogrotesque” (2010), essendo stata abbandonata la componente ambient a favore del versante elettronico del sound. Il risultato è una creatura multiforme, in grado di passare in pochi secondi da sfuriate di black old style a passaggi dove ritmiche di matrice EBM si impadroniscono della scena, quasi mai però in maniera definitiva: quest’alternanza costante delle atmosfere è un autentico marchio di fabbrica della band italiana.
Dirty martella implacabilmente per tutti i suoi cinquanta minuti di durata, rivelandosi un’esperienza imperdibile per gli ascoltatori dalla mentalità più aperta: infatti, chi ha la fortuna di avere nelle proprie corde generi come il black, l’industrial e l’elettronica avrà di che divertirsi.
Peraltro, nonostante un impatto tutt’altro che rassicurante, non è azzardato affermare che questo lavoro forse è anche quello (relativamente) più immediato che gli Aborym abbiano mai composto, considerando che ogni traccia possiede passaggi che riescono a fare centro anche dopo pochi ascolti.
Il brano che meglio può sintetizzare il contenuto di Dirty è, probabilmente I Don’t Know, che in meno di cinque minuti mostra la versatilità di Fabban e soci: un avvio all’insegna di un blast-beat furioso sovrastato da una base elettro-black da paura, un breve rallentamento con clean vocals, ripartenza e chiusura affidata ad un evocativo assolo di chitarra.
Il valore aggiunto del lavoro è, pero, quello di possedere una sua unicità, oltre ad una qualità che chi si è cimentato in questa forma musicale raramente ha raggiunto, o perché indulgendo troppo sul versante elettronico e sperimentale oppure esibendo una vocazione caciarona e smaccatamente alla ricerca di soluzioni ad effetto. Ciò che traspare da quest’album è la rappresentazione di un malessere globale, che non risparmia alcun appartenente al genere umano, il cui destino sembra segnato in maniera ineluttabile; ma gli Aborym scelgono di non piangersi addosso bensì di reagire esibendo un feroce quanto amaro disincanto.
Dalla Irreversible Crisis (economica ma ancor più di valori) che attanaglia “questo mondo che ci vuole fottere” come ripete ossessivamente Fabban nel brano d’apertura, il percorso attraverso le macerie di un’umanità allo sbando non può che concludersi con l’estinzione della stessa e la fine del pianeta che l’ha ospitata, quasi una liberazione sancita da The Day The Sun Stop Shining .
Gli Aborym confermano con questo loro sesto disco il raggiungimento di uno status di tutto rispetto conquistato grazie a dischi talvolta accolti in maniera controversa, tutti accomunati però da una mai sopita voglia di sperimentare soluzioni non convenzionali.
Da segnalare anche la presenza di un secondo cd contente due tra i brani più noti dei nostri in versione riarrangiata, oltre ad alcune cover tra le quali citerei “Hurt” , brano dei Nine Inch Nails noto anche per la sua struggente interpretazione fornita da Johnny Cash.

Tracklist :
Disc 1
1. Irreversible Crisis
2. Across the Universe
3. Dirty
4. Bleedthrough
5. Raped by Daddy
6. I Don’t Know
7. The Factory of Death
8. Helter Skelter Youth
9. Face the Reptile
10. The Day the Sun Stop Shining

Disc 2
1. Fire Walk with Us (new version)
2. Roma Divina Urbs (new version)
3. Hallowed Be Thy Name (Iron Maiden cover)
4. Comfortably Numb (Pink Floyd cover)
5. Hurt (Nine Inch Nails cover)
6. Need for Limited Loss (new track)

Line-up :
Fabban – Bass, Keyboards, Vocals
Faust – Drums
Paolo Pieri – Guitars, Keyboards, Programming

ABORYM – pagina Facebook

Ecnephias – Necrogod

La caratteristica di schiudersi lentamente e di concedersi all’ascoltatore solo dopo diversi passaggi nel lettore è una peculiarità dei grandi dischi.

A circa un anno e mezzo dalla pubblicazione di un lavoro magnifico come “Inferno”, gli Ecnephias si ripresentano con un nuovo disco per il quale le aspettative erano piuttosto elevate: lo stesso Mancan, nel presentare il nuovo lavoro, come è suo costume non si è certo nascosto dietro dichiarazioni di facciata, proclamando con convinzione che Necrogod sarebbe stato il miglior album mai inciso dalla sua band.

Se è vero che affermazioni di questo tenore sono all’ordine del giorno in occasione di nuove uscite in campo discografico, va detto subito che quanto affermato dal musicista lucano corrisponde in tutto e per tutto alla realtà.
Per gli Ecnephias, sulla spinta degli ottimi riscontri ricevuti nel recente passato, sarebbe stato facile riproporre una sorta di “Inferno 2” ma è sufficiente conoscere la loro storia per escludere subito questa possibilità: qui si parla di una band che, partita dal black dai tratti comunque evocativi degli esordi, si è evoluta nel corso degli anni verso una forma di heavy metal oscuro e malinconico, dalle ampie sfumature dark, in maniera analoga a quanto fatto, sia pure in un arco temporale più ampio, dai Moonspell (che, assieme a Rotting Christ e Septic Flesh, sono sempre stati per Mancan degli espliciti punti di riferimento).
Sarebbe un grave errore, però, attendersi una versione fedele ma sbiadita della band portoghese: gli Ecnephias rielaborano le svariate influenze musicali (dichiarate e non) assimilate nel corso degli anni dal proprio leader (nonché dal suo storico sodale Sicarius) dando vita a un prodotto che possiede, in tutto e per tutto, un marchio di fabbrica inconfutabilmente e immediatamente riconoscibile.
Se, in Inferno, il retaggio estremo faceva ancora capolino a tratti all’interno dei singoli brani, in Necrogod tutto ciò lascia posto a una forma di heavy metal dalle tinte fosche per atmosfere e attitudine, mentre ogni residua pulsione riconducibile al black sembra essere stata interamente convogliata da Mancan nel suo rinato progetto Abbas Taeter.
Dopo premesse di questo genere, sarebbe lecito attendersi un lavoro orecchiabile o di facile presa e, invece, dopo i primi ascolti accade esattamente l’opposto : Necrogod gode infatti di una profondità inattesa e, per questo motivo, potrebbe risultare ingannevole per chi inconsciamente vi si avvicinasse attendendosi episodi più immediati, sulla falsariga di “A Satana” o “Chiesa Nera”.
E’ possibile che la rinuncia totale all’uso dell’italiano abbia avuto un suo peso nel rendere maggiormente complessa l’assimilazione dei brani, ma non c’è dubbio che la caratteristica di schiudersi lentamente, di concedersi all’ascoltatore solo dopo diversi passaggi nel lettore, sia una peculiarità dei grandi dischi.
Chi riuscirà a non affrontare Necrogod in maniera superficiale, otterrà in cambio la possibilità di godersi un affascinante viaggio musicale incentrato, a livello lirico, sulle divinità conosciute ed adorate in epoca pre- cristiana: così, nei quasi cinquanta minuti di durata del disco, Mancan ci guida in un percorso storico-religioso che include le antiche divinità mediorientali (Baal, Ishtar, Inanna), il serpente piumato dei Maya (Kukulkan), la mitologia greco-egizia (Ade, Osiride, Anubi, Horus), la terribile dea indiana Kali, il mostruoso Leviatano di biblica memoria e la magica ritualità del Voodoo.
Ma passiamo ad eseminare in maniera più approfondita l’aspetto che più ci preme, ovvero la musica: il disco è inaugurato da una breve traccia strumentale che fa già presagire il nuovo corso degli Ecnephias: atmosfere sempre più evocative arricchite da elementi etnici e tribali, in ossequio alle tematiche trattate,
In occasione del primo impatto con Necrogod i due brani che sicuramente colpiscono di più sono The Temple of Baal-Seth, in possesso di un ritmo trascinante ed un chorus in portoghese condotto da Mancan in maniera esemplare, e Voodoo, dove l’evidente citazione dei Rotting Christ è in realtà volta ad omaggiare l’ospite Sakis, che presta la sua voce inconfondibile a una traccia entusiasmante, all’interno della quale la chitarra assume in certi frangenti accenti maideniani.
La title-track e Leviathan mostrano il volto più violento degli Ecnephias, anche se la componente melodica non viene certo messa in secondo piano, ma è evidente che il proprio meglio la band potentina lo offre negli episodi maggiormente coinvolgenti sul piano emotivo, quando la ritualità delle invocazioni alle divinità si amalgama naturalmente a fughe chitarristiche di grande intensità ad opera di Nikko, il tutto punteggiato dall’elegante lavoro alle tastiere di Sicarius e dalla possente e precisa base ritmica a cura di Miguel José Mastrizzi e Demil. Così, se Ishtar assume diverse sembianze musicali nel corso del suo dipanarsi, in ossequio alla mutevolezza di colei che per i sumero-babilonesi era allo stesso tempo dea del cielo, della terra e degli inferi, Kukulkan e Anubis si svelano progressivamente mostrando tutta la capacità di Mancan e soci nell’ideare canzoni dove il growl e i riff di matrice estrema si sposano naturalmente con clean vocals profonde e poggiate su melodie apparentemente suadenti, ma costantemente avvolte da un velo di oscurità.
L’esempio migliore di quanto appena affermato è Kali Ma, un brano che esplode in tutta la sua sfolgorante bellezza solo dopo diversi ascolti, quasi che la temibile divinità in esso rappresentata avesse voluto celare il più a lungo possibile il proprio conturbante fascino.
Winds Of Horus è un’altra traccia strumentale, posta in chiusura, sulla quale scorrono idealmente i titoli di coda di un lavoro che merita di essere riascoltato più volte per assaporarne appieno le fragranze più nascoste.
Necrogod non solo raggiunge ma supera il livello già altissimo raggiunto dagli Ecnephias con “Inferno”; sicuramente per la band lucana questo si può considerare il lavoro della definitiva maturità e rappresenta il raggiungimento di uno status che non va considerato, però, un punto d’arrivo, bensì una base consolidata dalla quale proseguire la costante progressione stilistica e compositiva.
Non è blasfemo affermare che, per il valore dei suoi ultimi due lavori, il combo lucano può collocarsi attualmente all’altezza della più volte citata triade ellenico-lusitana; la vera sfida ora, per Mancan, sarà piuttosto quella di eguagliarne o, quantomeno, avvicinarne la longevità artistica.

Tracklist :
1. Syrian Desert
2. The Temple of Baal-Seth
3. Kukulkan
4. Necrogod
5. Ishtar – Al-‘Uzza
6. Anubis – The Incense of Twilight
7. Kali Ma – The Mother of the Black Face
8. Leviathan – Seas of Fate
9. Voodoo – Daughter of Idols
10. Winds of Horus

Line-up :
Mancan – Guitars, Vocals, Programming
Sicarius – Keys and Piano
Demil – Drums
Nikko – Guitars
Miguel José Mastrizzi – Bass

ECNEPHIAS – Facebook

PTSD – A Sense Of Decay

I PTSD con A Sense Of Decay forniscono una prova decisamente buona, anche se ho la sensazione che la loro proposta possa attecchire più oltreoceano che non all’interno dei nostri confini

I PTSD (acronimo di lingua inglese che sta per Post Traumatic Stress Disorder) sono una band marchigiana attiva dal 2005 e A Sense Of Decay è il loro secondo full-length dopo l’esordio “Burepolom” risalente a cinque anni fa.

La musica proposta in questo lavoro è un discreto mix di influenze che, dopo un’opportuna frullata, si può definire in maniera alquanto vaga alternative metal; le band di riferimento citate in sede di presentazione sono 30 Secconds To Mars, Alice In Chains, Sistem Of A Down e Breaking Benjamin: sinceramente non conosco in maniera così approfondita i primi e gli ultimi per poter fare una verifica attendibile ma, a naso, direi che i PTSD sono senz’altro meno commerciali di entrambi, mentre l’accostamento ai più noti mostri sacri della scena, se può valere con la band di Seattle in qualche armonia vocale e nell’utilizzo di melodie dal retrogusto malinconico, con il combo armeno-americano non riesco a trovare alcuna affinità evidente se non l’attitudine al crossover tra generi diversi.
Detto questo. il disco è senz’altro valido e, pur collocandosi a una certa distanza da quelli che sono i miei ascolti abituali, l’ora di musica contenuta in A Sense Of Decay mi ha piacevolmente colpito, poiché presenta diversi momenti di livello piuttosto elevato, come nell’opener Event Horizon e, in particolare, nell’intensa Solar Matter Loss. Azzeccata e molto ben eseguita la cover del brano di Anastacia Heavy On My Heart e molto interessante anche il remix del già citato brano d’apertura; del resto la crescita di questa band appare evidente anche esaminando i particolari: la produzione a cura di un nome pesante come Jim Caruana e il contributo in sala d’incisone da parte di uno dei batteristi più quotati della scena, quel Marco Minnemmann , attualmente impegnato anche con gli Ephel Duath.
Henry Guy possiede un bel timbro vocale, sporcato sporadicamente dal un growl avente la sola funzione di supporto, attorno al quale vengono costruiti brani dalla fruizione piuttosto immediata ma non per questo scontati.
In sintesi, i PTSD con A Sense Of Decay forniscono una prova decisamente buona, anche se ho la sensazione che la loro proposta possa attecchire più oltreoceano che non all’interno dei nostri confini ma, vista la notevole differenza dei due mercati, non è detto che questo per i nostri sia una cattiva notizia, anzi …

Tracklist:
1. Event Horizon
2. A Reason To Die
3. Parasomnia
4. Staring The Stormwall
5. Suicide Attitude
6. A Sense Of Decay
7. Breathless
8. Solar Matter Loss
9. By A Thread
10. Heavy On My Heart (Anastacia cover)
11. ……If?
12. Event Horizon (Forgotten Sunrise rmx)

Line-up :
Henry Guy – Vocals
Yorga – Lead Guitars
Jason – Rhythm Guitars
Rob Star – Bass
Marco Minemann – Drums

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Abysmal Grief – Feretri

Lungi da tentazioni sciovinistiche, si può tranquillamente affermare che un disco con tali caratteristiche poteva estrarlo dal cilindro solo una band italiana.

Arrivando un po’ in ritardo sull’uscita di questo disco, si rischia inevitabilmente di essere ripetitivi o, ancor peggio, di fare un bignamino di tutte le recensioni già uscite.

Ciò che mi resta, a questo punto, è provare a parlare, da genovese, di una band della mia città che perpetua un filone musicale che, all’ombra della Lanterna, trae ispirazione da un immaginario agli antipodi della modernità, fatto com’è di riferimenti ai mitici sceneggiati tv in bianco e nero e all’horror all’italiana, più Fulci-Bava che Argento, e lo dimostra scegliendo come copertina un’immagine tratta da uno dei rivalutati B-movies dei primi anni ’70.
In una città che si sta decomponendo seppellita dalla crisi, prima ancora morale che economica, avvilita dall’ignavia dei governanti e aggrappata alle sorti di un porto che fatica a reggere l’accresciuta competitività della concorrenza, gli Abysmal Grief come sfondo per le loro (rare) foto promozionali non scelgono, come parrebbe logico, i monumenti funebri di Staglieno, simbolo decadente della nobiltà di una Superba che ha cessato di esistere da decenni, bensì i piccoli cimiteri di periferia o di campagna, nei quali anonimi resti contrassegnati da una semplice croce faticano a ritagliarsi spazio tra le erbacce e l’incuria volte a simboleggiare, anch’esse, un degrado che appare irreversibile.
Seguendo la strada tracciata, perlomeno a livello di immaginario retrospettivo, dai Malombra prima e da Il Segno Del Comando poi, gli Abysmal Grief esorcizzano il terrore della morte nel miglior modo possibile, ovvero con un doom malsano e dai tratti antichi, nel quale è un magnifico hammond a condurre le macabre danze contrappuntato da un basso pulsante e, talvolta, dominante anche su una chitarra che, quando si ritaglia spazio in versione solista, lascia sempre il segno; a piantare gli ultimi chiodi sulla bara è, idealmente, la voce di Labes C. Necrothytus che ricorda in senso lato quella del grande Carl McCoy, almeno nell’impostazione, passando da tonalità baritonali ad un growl profondo ma sempre comprensibile, e nella capacità di comunicare il funesto contenuto lirico dei brani.
Questo disco mostra un volto diverso, più orrorifico e morboso, del doom, che in tutte le sue versioni mantiene le proprie caratteristiche di musica per pochi, e pazienza se la sua visibilità a livello di media è nulla e se, conseguentemente, chi organizza i concerti fatica a riempire locali anche piccoli; il doom è un modus vivendi (e non “moriendi” come potrebbe erroneamente pensare qualcuno) e per suonarlo ed ascoltarlo è necessaria una sensibilità diversa che consente di godere di sensazioni e vibrazioni psichiche precluse alla maggioranza delle persone.
Feretri in definitiva, corrisponde per filo e per segno a ciò che ogni appassionato avrebbe voluto ascoltare dagli Abysmal Grief; l’insinuante e malefica tastiera che pervade questi tre quarti d’ora di grande musica si è incuneata nel mio cervello e non ha nessuna intenzione di abbandonarlo in tempi brevi.
Lungi da tentazioni sciovinistiche, si può tranquillamente affermare che un disco con tali caratteristiche poteva estrarlo dal cilindro solo una band italiana.
Letteralmente imperdibile.

Tracklist :
1. Lords of the Funeral
2. Hidden in the Graveyard
3. Sinister Gleams
4. Crepusculum
5. The Gaze of the Owl
6. Her Scythe

Line-up :
Lord Alastair – Bass
Regen Graves – Guitars, Drums
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

Kaledon – Altor: The King’s Blacksmith

I Kaledon dimostrano come sia possibile, anche dopo anni di attività, continuare a progredire e a migliorarsi quando la passione rende l’incisione di un nuovo disco la finalizzazione di un processo creativo e non la periodica timbratura di un cartellino.

I Kaledon sono sulle scene ormai da diversi anni proponendo un power sinfonico dalle forti sfumature epiche; Altor: The King’s Blacksmith è già il loro settimo full-length ma è il primo dopo la conclusione della saga strutturata sui sei capitoli che hanno contrassegnato la passata produzione, anche se rimane collegato alle tematiche passate visto che il concept è incentrato sul fabbro del re, uno dei personaggi (pur se minori) presenti nella loro “Legend Of The Forgotten Reign”.

Al di là dell’aspetto concettuale, ciò che preme evidenziare è la notevole caratura di quest’ultimo lavoro, che appare come un riuscitissimo tributo ad un genere che, troppo spesso invece, è afflitto da un’asfittica ridondanza; a detta della stessa band, l’essere stati in tour per gran parte del periodo successivo alla pubblicazione di “Chapter VI”, ha portato ad una naturale evoluzione sia dal punto di vista tecnico sia da quello compositivo. Dopo una canonica intro, Childhood apre alla grande grazie a uno splendido incipit chitarristico in grado di restare impresso a lungo nella memoria; la successiva Between The Hammer And The Anvil è un classico brano power che unisce con buon equilibrio ritmo e melodia. My Personal Hero è un altro brano dal buon impatto mentre Lilibeth è una ballad invero un pò zuccherosa; A New Beginning apre la parte finale del disco che d’ora in poi mostra il volto migliore dei Kaledon: questo è un altro brano davvero riuscito nel quale va evidenziato l’ottimo lavoro delle tastiere. Kephren è un esempio calzante di come il songwriting si sia attestato su livelli ragguardevoli, mentre Screams In The Wound possiede una certa drammaticità di fondo che lo rende l’ideale antipasto del botto finale costituito da A Dark Prison, autentico gioiello impreziosito dalla presenza di un nome che non ha bisogno di presentazioni come quello di Fabio Lione. Un evidente progresso rispetto al precedente full-length, unito al ritorno a sonorità più dirette e maggiormente votate ad un più classico power melodico, fa di Altor: The King’s Blacksmith un lavoro che, pur non essendo epocale, rappresenta la migliore risposta a chi pensa che questo genere abbia ormai poco o nulla da dire. I Kaledon, al contrario, dimostrano come sia possibile, anche dopo anni di attività, continuare a progredire e a migliorarsi quando la passione rende l’incisione di un nuovo disco la finalizzazione di un processo creativo e non la periodica timbratura di un cartellino.

Tracklist:
1. Innocence
2. Childhood
3. Between the Hammer and the Anvil
4. My Personal Hero
5. Lilibeth
6. A New Beginning
7. Kephren
8. Screams in the Wind
9. A Dark Prison

Line-Up:
Paolo Lezziroli – Bass, Vocals
Alex Mele – Guitars (lead)
Tommaso Nemesio – Guitars (rhythm)
Daniel Fuligni – Keyboards
Marco Palazzi – Vocals
Luca Marini – Drums

KALEDON – Facebook

Black Capricorn – Born Under The Capricorn

Con i cagliaritani Black Capricorn il doom tricolore trova un’altra grande band, in grado di combattere ad armi pari con i magnifici Doomraiser.

Con i cagliaritani Black Capricorn il doom tricolore trova un’altra grande band, in grado di combattere ad armi pari con i magnifici Doomraiser.

Born Under The Capricorn è un disco dall’intensità sorprendente, nel quale oscurità, esoterismo, sonorità limacciose e incursioni psichedeliche si mescolano creando una perfetta alchimia. Il trittico iniziale, accomunato dalla presenza del Capricorno nel titolo di ogni brano, regala mezz’ora di musica di livello eccelso, fatta di riff potenti, spesso rallentati allo spasimo e atmosfere dall’elevato tasso lisergico, grazie ad un sapiente dosaggio della componente psichedelica. Peraltro, le tracce, pur essendo accomunate da tali caratteristiche, differiscono comunque tra loro: mentre Tropic Capricorn mostra diverse affinità stilistiche con “Erasing The Remenberance” dei già citati doomsters romani (la voce di Matteo, però, è più affine a quella di un Matt Pyke piuttosto che a quella di Nicola Rossi), Born Under The Capricorn si rivela come la vera summa dell’omonimo album racchiudendo nei suoi impressionanti sedici minuti tutto ciò che si vorrebbe ascoltare in un brano doom e, infine, Capricornia, con tanto di intro di launeddas (strumento a fiato tipico della Sardegna) è in grado di frantumare in via definitiva la fievole resistenza dell’usurato rachide cervicale degli appassionati di più antica militanza. Tutt’altro che trascurabili, comunque, anche i due brani di chiusura, Double Star Goatfish e Scream Of Pan, anche se leggermente meno intensi rispetto a quelli che li hanno preceduti: va detto che l‘ultima traccia si muove sorprendentemente su territori tali da trasformare i Black Capricorn in una versione ultradoom degli Alice In Chains, una combinazione ideale per chi, come il sottoscritto, ha vissuto in tempo reale i fasti della formidabile band di Seattle. Born Under The Capricorn è un disco che chiunque si definisca appassionato di doom deve far proprio ascoltandolo fino alla consunzione; c’è da augurarsi, quindi, che la band sarda decida di rimettersi in viaggio (pur con tutte le problematiche logistiche che possiamo ben immaginare) per presentare dal vivo questo magnifico lavoro.

Tracklist:
1. Tropic Capricorn
2. Born Under the Capricorn
3. Capricornia
4. Double Star Goatfish
5. Scream of Pan

Line-up :
Matteo – Vocals, Synths
Andrea – Guitar (lead)
Fabrizio – Guitar (rhythm)
Virginia – Bass
Rachela – Drums

BLACK CAPRICORN – Facebook

Carved – Dies Irae

L’interessante uso delle tastiere e la voglia di non appiattirsi su modelli precostituiti rendono meritevole d’attenzione questo lavoro che mette a frutto l’intensa attività live svolta dai Carved a supporto di nomi prestigiosi della scena metal italiana.

Interessante il potenziale esibito dagli spezzini Carved con questo loro esordio su lunga distanza.

Il death melodico proposto dai nostri, infatti, differisce senza dubbio dagli schemi consueti e, pur condividendone la catalogazione di sottogenere e la data di pubblicazione del disco, per esempio, non hanno neppure troppi punti in comune con i compagni d’etichetta Kruna.
In effetti, come accade, sia pure con modalità diverse, alla band friulana, tutto sommato anche i Carved aderiscono solo a tratti agli stilemi classici della scuola svedese, prendendo come possibile riferimento, specialmente nei brani più sinfonici, i Dark Lunacy, pur mostrando rispetto a questi una ridotta componente orchestrale; azzarderei anche, per attitudine e varietà compositiva, una certa affinità con i primi due lavori dei tedeschi Pyogenesis, usciti a metà degli anni ’90.
Dies Irae si snoda pertanto in maniera snella alternando, nei suoi quaranta minuti scarsi, brani dalla notevole forza evocativa, quali Echo Of My Cinderella, The Perfect Storm e Black Lily Of Chaos, ad altri episodi più diretti ma non privi di azzeccati inserti melodici (Enter The Silence, Scripta Manent, Ashes Of A Scar).
Un interessante uso delle tastiere e la voglia di non omologarsi più di tanto a modelli precostituiti rendono meritevole d’attenzione questo lavoro che, peraltro, mette a frutto l’intensa attività live svolta a supporto di nomi prestigiosi (uno su tutti, i corregionali Necrodeath), anche perché questo pare essere solo il primo passo di un percorso che potrebbe riservare alla band ligure non poche soddisfazioni.

Tracklist :
1. Dies Irae (Praeludium)
2. Echo of My Cinderella (The Final Symphony)
3. Enter the Silence
4. Scripta Manent (Bullshit)
5. The Perfect Storm
6. At the Gates of Ice
7. Ashes of a Scar 0
8. Black Lily of Chaos
9. A New World (Postludium)

Line-up :
Nicola Paganini – Bass
Francesco Daniele – Drums
Alessio Rossano – Guitars
Alessandro Ferrari – Guitars
Mattia Nuti – Keyboards
Cristian Guzzon – Vocals

CARVED – Facebook

DGM – Momentum

Dopo uno, cinque, dieci ascolti di “Momentum”, alla fine non si può evitare di chiedersi cosa possano avere i DGM in meno di Dream Theater, Symphony X, Vanden Plas e compagnia: oggettivamente nulla, si direbbe, se non un monicker senza dubbio molto meno “pesante”.

Dopo uno, cinque, dieci ascolti di Momentum, alla fine non si può evitare di chiedersi cosa possano avere i DGM in meno di Dream Theater, Symphony X, Vanden Plas e compagnia: oggettivamente nulla, si direbbe, se non un monicker senza dubbio molto meno “pesante”.

Considerate le prove non sempre esaltanti messe in scena negli ultimi anni da alcune delle band citate, non sarebbe male che, almeno gli appassionati italiani, volgessero con maggiore attenzione lo sguardo alla più vicina “città eterna” invece che oltreoceano o verso le fredde lande nordeuropee.
Se è vero che il suono della band laziale è oggettivamente accostabile ai Symphony X , va anche rimarcato il fatto che qui non si sta parlando di epigoni dell’ultima ora dato che entrambi i gruppi si sono formati attorno alla metà degli anni novanta.
La presenza di Russell Allen nella traccia d’apertura Reason è una dimostrazione della comunione d’intenti tra le due band e, nel caso specifico, il contributo dell’illustre ospite è senz’altro pregevole, ma il fatto stesso che non spicchi più di tanto dimostra anche l’enorme qualità della prestazione vocale offerta da Mark Basile in quest’album.
In Momentum viene messo in scena il repertorio ideale di una band che suona prog metal: un caleidoscopio di fughe tastieristiche e delicati passaggi pianistici (Emanuele Casali), riff rocciosi e assoli dal grande impatto melodico (Simone Mularoni, noto ai più anche come rinomato producer), con il valore aggiunto di una base ritmica perfetta (Andrea Arcangeli e Fabio Costantino) e, come detto, un cantante che non mostra un solo attimo di cedimento.
Non resta che godersi senza alcuna remora questo magnifico disco, che si snoda tra accelerazioni irreali (per la tecnica esibita) e passaggi più orecchiabili che, solo in occasione di Repay sfociano in un formato simil-ballad; forzando un pò la mano con i paragoni, si potrebbe affermare che i DGM si collocano in perfetto equilibrio, a metà strada tra le spigolosità metalliche dei Symphony X ed il gusto melodico della prima prova solista di Allen in coppia con l’altro “mostro” Jorn Lande (“The Battle”), insediandosi in un territorio nel quale la band romana mostra d’avere ben pochi rivali.
Considerando che l’uscita di Momentum coincide con un altro eccellente esempio di prog metal, come l’album degli Odd Dimension, la Scarlet esibisce in un colpo solo un’invidiabile coppia d’assi; speriamo solo che la crisi economica che continua a mortificare i nostri portafogli non costringa qualcuno a dover fare una scelta dolorosa, sacrificando in ogni caso dei lavori che, per la qualità esibita, non meritano davvero d’essere accantonati, fosse anche solo momentaneamente.

Track-list :
1. Reason
2. Trust
3. Universe
4. Numb
5. Pages
6. Repay
7. Chaos
8. Remembrance
9. Overload
10. Void
11. Blame

Line-up :
Mark Basile – Vocals
Fabio Constantino – Drums
Andrea Arcangeli – Bass
Simone Mularoni – Guitars
Emanuele Casali – Keyboards

DGM – Facebook

Worstenemy – Revelation

I Worstenemy, in questa prima uscita su lunga distanza, hanno sicuramente sfruttato al meglio l’esperienza e le influenze accumulate in oltre un decennio di attività, anche per questo è lecito attendersi in tempi più brevi una conferma della bontà della loro proposta.

I sardi Worstenemy hanno alle spalle una storia piuttosto lunga, iniziata addirittura nel secolo scorso sia pure con un diverso monicker, ma solo dopo oltre quindici anni giungono finalmente alla realizzazione del loro primo full-length.

Se i tempi necessari per arrivare a questo fatidico passo sono stati oggettivamente un po’ lunghi, bisogna anche dire che il risultato vale in tutto e per tutto l’attesa: Revelation è un disco di death metal di grande valore, radicato nel solco della tradizione estrema del genere e, quindi, più orientato al versante brutal che non a quello melodico. Il trio proveniente da Oristano ci regala un lavoro di grande sostanza, nel quale ogni nota ha una sua precisa funzione e nessuno spazio viene concesso ad inutili orpelli stilistici. Mario Pulisci è il motore della band, essendo autore sia del growl efferato volto a dilaniare le viscere dell’ascoltatore, sia dei macigni che vengono rovesciati sul suddetto malcapitato sotto forma di riff densi e distruttivi come una colata lavica; la base ritmica, precisa d essenziale è ad opera del batterista Andrea Fodde e della bassista Elena Zoccheddu. Senza voler scomodare i grandi nomi, Revelation ha tutte le carte in regola per divenire anche un prodotto da esportazione, non avendo, appunto, alcunché da invidiare a produzioni straniere ben più reclamizzate; va sottolineato che qui non si ci si limita ad una semplice e monolitica aggressione sonora, la band sarda quando vuole alzare il piede dall’acceleratore lo fa sempre con cognizione di causa mostrando una tecnica di prim’ordine, come accade in Karnak (nome della prima incarnazione del band) ed in War Of Hate . I Worstenemy, in questa prima uscita su lunga distanza, hanno sicuramente sfruttato l’esperienza e le influenze accumulate in oltre un decennio di attività, anche per questo è lecito attendersi in tempi più brevi una conferma della bontà della loro proposta; per ora godiamoci questo splendido lavoro che ogni vero appassionato del death più genuino non può e non deve ignorare.

Tracklist :
1. V.I.T.R.I.O.L.
2. Revelation
3. Arms of Kali
4. Strange Life
5. The Fallen
6. Karnak
7. The Redeemer Is a Liar
8. War of Hate
9. Black Storm
10. New Enemy

Line-up :
Elena Zoccheddu – Bass
Andrea Fodde – Drums
Mario Pulisci – Vocals, Guitars

WORSTENEMY – Facebook

 

The Magik Way – Materia Occulta (1997-1999)

Materia Occulta si rivela una riscoperta non solo utile ma fondamentale per completare il quadro del versante più occulto e spirituale della musica, sviluppato in maniera particolare all’interno dei nostri confini.

Alla fine degli anni ’90 alcuni componenti dei Mortuary Drape decisero di dare vita a un progetto denominato The Magik Way, tramite il quale poter esplorare ancora più a fondo, se possibile, il lato rituale ed esoterico della musica.

A tredici anni dall’interruzione dell’attività, la Sad Sun Music pubblica questo disco che raccoglie due promo, l’omonimo del 1997 e Cosmocaos di due anni dopo, operazione, questa, che merita un sentito plauso per aver sottratto a un probabile oblio il materiale contenuto in questa raccolta. I primi quattro brani , tratti da The Magik Way, mostrano un sound ancora debitore degli stilemi black della band di provenienza facendo però intravedere, attraverso l’inserimento di samples e passaggi di stampo ambient, la voglia di sperimentare nuove vie stilistiche che troverà il suo compimento in Cosmocaos, le cui tredici tracce sono intrise di atmosfere di difficile assimilazione ma non per questo meno affascinanti. I Signori del Caos introduce questa sorta di lungo rituale nel quale vengono convogliati in maniera competente e personale gli influssi di tutti quegli artisti che hanno dato sfogo alla propria creatività nel segno della sperimentazione musicale e concettuale; se questa traccia, infatti, con le sue atmosfere malinconiche accompagnate da vocalizzi femminili richiama alla mente l’opera di Malleus, nella successiva Le Maschere di Pietra aleggia inquietante il fantasma di Mr.Doctor e dei suoi Devil Doll, avvicinabili per l’uso del pianoforte e per la teatralità della voce maschile utilizzata. In effetti l’intero lavoro assorbe e rielabora influenze nobili seppure non sempre così vicine tra loro, ne è esempio la schizofrenica Lupenare, con una chitarra di stampo progressive che ne marchia la prima parte nel segno di realtà seminali quali Antonius Rex/Jacula per poi esplodere in un finale di stampo sinfonico/apocalittico degno dei primi Elend. Il valore intrinseco di questa raccolta risiede indubbiamente nella freschezza della proposta che, forse anche in virtù della sua carica evocativa, non fa apparire affatto datati i brani in essa contenuti. Chiaramente qualche imperfezione affiora ugualmente nel corso dell’ascolto, per esempio la voce femminile mostra qualche pecca in tracce come La Quiete o Mantramime dove, in un contesto riconducibile a un nome pesante come i Dead Can Dance, l’ipotetico confronto con una Lisa Gerrard potrebbe apparire impietoso. Ma al di là di sporadici peccati veniali, Materia Occulta si rivela una riscoperta non solo utile ma fondamentale per completare il quadro del versante più occulto e spirituale della musica, sviluppato in maniera particolare all’interno dei nostri confini.

Track-list :
The Magik Way 1997
1. The Doubt (Il Dubbio)
2. The Dizziness (La Folgorazione)
3. The Sacrifice (Il Sacrificio)
4. The Knowledge (La Conoscenza)
Cosmocaos 1999
5. I Signori del Caos
6. Le Maschere di Pietra
7. L’Icona
8. Gloria
9. Lupenare ( La Luna Crescente – Il Caotico Divenire – L’Uomo con la Falce)
10. Le Prigioni di Corda
11. La Quiete
12. Trasposizione
13. Mantramime
14. La Caduta
15. Danza degli Elementi
16. Pianto ed Estasi
17. Il Tempo si è Fermato

Line-up :
Nequam – vocals, keyboards, guitars, percussions
Diabolical Obsession – bass, textures, backing vocals
Old Necromancer – guitars, noises, backing vocals
Azach – drums and percussions, backing vocals
Berkana – female vocals

Straight On Target – Pharmakos

Deathcore monolitico e privo di compromessi per gli Straight On Target; diritti all’obiettivo, come vuole il monicker prescelto, i nostri abbattono sull’ascoltatore la loro furia iconoclasta, fatta di riff chirurgici, di una base ritmica metronomica e di un growl efficace.

Sporadiche ma appropriate aperture melodiche, poche variazioni sul tema ma un groove complessivo sufficiente per consentire a un disco come questo di risultare abbastanza digeribile nonostante la sua compattezza di fondo.
Nulla che non si sia mai sentito, certo, ma la convinzione e la grinta che traspaiono da ogni nota dei nostri riescono ampiamente a compensare la relativa originalità di Pharmakos; brani killer come Ostrakon e Demonized spiccano sul resto del lotto, ma la tranvata inferta dai cinque piacentini va assorbita in blocco affinchè ottenga effetti ancor più devastanti; solo la traccia di chiusura Palm Leaves Readers, con i suoi rallentamenti e gli effetti piazzati nel finale, si discosta parzialmente dal canovaccio seguito nel resto del disco.
In ogni caso, ascolto vivamente consigliato con volume a 11 nelle giornate no: sapere che in giro ci può essere in quel momento qualcuno molto più incazzato di voi avrà sicuramente un effetto catartico …

Tracklist :
1. Theta
2. Ostrakon
3. Demonized
4. Wake The Apathetic
5. Dreadful Eyes
6. Initiation
7. He Spreads Hypocrisy
8. Synesthesia
9. Palm Leaves Readers

Line-up :
Andrea Scaglia – Voice
Federico Buzzetti – Drums
Giulio Castruccio – Guitar
Daniele Molinari – Guitar
Nicolò Rossi – Bass

STRAIGHT ON TARGET – pagina Facebook

Caronte – Ascension

La band proveniente da Parma con questo disco s’impone con prepotenza all’interno della scena doom, in Italia e non solo, creando un disco capace di trovare un feedback immediato nell’ascoltatore.

Quando ho cominciato ad ascoltare Ascension un brivido mi è corso lungo la schiena: puro doom fatto come si deve, proprio di quello che fa tremare il pavimento sotto ai propri piedi.

Bisogna immaginarsi di essere in una stanza piena di esalazioni sulfuree, con percussioni penetranti, un basso che fa vibrare ogni cosa, una chitarra pronta a demolire qualsiasi essere si stagli lungo il suo cammino ed insieme a tutto questo una voce proveniente dai luoghi più abietti che si possano immaginare (stupenda quindi); forse ora potreste avere una vaga idea dei Caronte, ma non basta comunque a farvi intuire la ferocia di cui sto parlando. Sette tracce intrise di esoterismo ed occultismo, come nella migliore tradizione doom, per una durata totale di quasi un’ora, alla fine della quale si entra in uno stato di estasi e tristezza, una bomba pronta ad esplodervi fra le mani senza che voi possiate fare niente; da notare che gli argomenti affrontati vengono trattati con cognizione di causa, tra riferimenti a tradizioni sciamaniche, ad Aleister Crowley e alla teosofia: ci piace. Oltre a tutto questo, come se già non bastasse, uno stupendo booklet e una custodia che meritano un plauso. La band proveniente da Parma con questo disco s’impone con prepotenza all’interno della scena doom, in Italia e non solo, creando un disco capace di trovare un feedback immediato nell’ascoltatore. Gran band, gran disco, nient’altro da dire, se non buon ascolto.

Tracklist:
1. Leviathan
2. Ode To Lucifer
3. Sons Of Thelema
4. Horus Eye
5. Black Gold
6. Solstice Of Blood
7. Navajo Calling

Line-up:
Dorian Bones – Voce
Tony Bones – Chitarra e cori
Henry Bones – Basso
Mike De Chirico – Batteria

CARONTE – Facebook

Tystnaden – Anima

Dopo quasi un decennio di attività, i friulani Tystnaden al terzo disco fanno centro con un lavoro che, con molta approssimazione, si potrebbe inserire nel calderone informe del gothic metal con voce femminile ma che, in realtà, si dimostra essenzialmente un pregevolissimo metal dai tratti moderni ed eclettici.

Partendo dall’assunto che, in fondo, non ci sono più molti spazi di manovra per proporre qualcosa di realmente innovativo, ciò che si chiede alle band che si cimentano in questo filone stilistico sono, in ordine sparso, un’ottima cantante, musicisti impeccabili e una raccolta di belle canzoni: i Tystnaden possiedono tutte queste caratteristiche, a partire da una vocalist dotata ma, soprattutto, sobria ed essenziale come Laura De Luca, la quale esibisce uno stile che rifugge gli insopportabili gorgheggi pseudo-operistici mettendo in mostra ciò che alla fine è quel che serve, ovvero una voce bella, versatile e al servizio del gran lavoro agli strumenti dei propri compagni d’avventura.
Rispetto al precedente disco, risalente a quattro anni fa, è probabile che i cambiamenti avvenuti nella line-up abbiano contribuito a sfrondare la proposta dei nostri di un growl oggettivamente ingombrante (da parte dell’allora tastierista), focalizzandola invece sulla voce femminile e limitando all’indispensabile gli interventi di quella maschile, spostando naturalmente il sound verso una connotazione più melodica.
Ogni brano, infatti, possiede passaggi che non si lasciano dimenticare facilmente ed è proprio la capacità di resistere alla prova di ascolti ripetuti, nonostante la sua immediatezza, che fa di Anima un disco riuscito con poco o nulla da invidiare a band ben più reclamizzate, italiane e non, operanti nello stesso segmento stilistico.
Lust introduce al meglio le caratteristiche del combo udinese, riff corposi alternati a grandi aperture melodiche, mentre la successiva Struggling In The Mirror, dai tratti marcatamente alternative, è il primo singolo estratto (con relativo video). Egonist è invece, a mio avviso, uno dei picchi dell’album, grazie al suo gusto maggiormente prog esaltato da uno splendido assolo di chitarra.
Da rimarcare anche la coinvolgente prestazione di Laura in Father Mother e l’azzeccata alternanza in War tra la sua voce e quella ruvida del tastierista Giancarlo Guarrera, autore nell’occasione anche di incisivi passaggi sinfonici.
The Journey chiude nel migliore di modi un disco che, al netto di qualche ridondanza di stampo orchestrale (l’incipit arabo-spagnoleggiante di Against Windmills non appare molto adeguato al contesto), è davvero una piacevole sorpresa e mostra un’altra realtà nostrana in grado di produrre un lavoro di indiscutibile qualità che potrebbe e dovrebbe ritagliarsi uno spazio importante nel panorama musicale nazionale (e non solo).

Tracklist :
1. Lust
2. Struggling at the Mirror
3. Egonist
4. Days and Lies
5. Against Windmills
6. Father Mother
7. Mindrama
8. War
9. The Life Before
10. Innerenemy
11. The Journey

Line-up :
Cesare Codispoti – Guitars
Laura De Luca – Vocals
Alberto Iezzi – Drums
Arthur Sahakjan – Bass
Marco Cardona – Guitars
Giancarlo Guarrera – Keyboards, Vocals

TYSTNADEN – pagina Facebook

Lord Agheros – Demiurgo

Lord Agheros si muove su terreni contigui al black metal nella sua versione più atmosferica, ma va detto che l’etichetta BM applicata a questo progetto può essere fuorviante considerato che i momenti dall’andamento più impetuoso sono in netta minoranza rispetto alla componente ambient

Quello di Lord Agheros è un nome in circolazione ormai da un lustro, nel corso del quale il musicista catanese Gerassimos Evangelou, unico titolare del progetto, ha prodotto quattro album, ultimo dei quali l’appena pubblicato Demiurgo, oggetto di questa recensione.

Il nostro si muove su terreni contigui al black metal nella sua versione più atmosferica, ma va detto che l’etichetta BM applicata a questo progetto può essere fuorviante considerato che i momenti dall’andamento più impetuoso sono in netta minoranza rispetto alla componente ambient, che si rivela predominante, in particolare, nella seconda metà del disco. A livello lirico, Demiurgo è un concept dedicato alla nota figura platonica descritta come “artefice e padre dell’universo”; nell’intento di seguire in maniera coerente il filo conduttore del racconto, Lord Agheros rappresenta la contrapposizione tra bene e male, tra notte infernale e notte terrena, suddividendo l’opera in due parti ben distinte dal punto di vista stilistico. Se nella prima, che va da Prologue a Erebo sono maggiormente presenti elementi di matrice black quali blast beats e uno screaming velenoso, nella seconda parte, che prende vita con Nyx, il suono pare acquietarsi assumendo le vere e proprie sembianze di una colonna sonora in stile dark ambient. Per gusto personale ho molto apprezzato il disco proprio nella sua prima parte, almeno fino a Lyssa, grazie alla riuscita amalgama tra le sonorità estreme e le melodie oniriche create da Gerassimos; dalla successiva Letum, traccia che resterà comunque l’ultimo episodio dai tratti parzialmente aggressivi, il lavoro purtroppo perde un po’ della brillantezza mostrata nella sua prima mezz’ora. Detto questo, è innegabile che Demiurgo sia comunque un buon disco, nel quale il musicista siciliano dimostra di saper comporre con padronanza atmosfere sognanti e malinconiche, e costituisce senz’altro un ulteriore passo avanti rispetto al predecessore Of Beauty And Sadness. Ciò che non convince del tutto è proprio, nel caso specifico, il lento ma progressivo affievolirsi dell’impatto sonoro, sia pure in ossequio al tema del concept. Continuo a pensare che la formula adottata nei primi brani dove, come detto, vengono amalgamate con successo le componenti black, sia pure in proporzione ridotta, e ambient, dovrebbe essere quella da perseguire con maggior convinzione; migliorando anche la resa sonora della parte vocale, con uno screaming spesso in secondo piano rispetto agli altri strumenti, un progetto come Lord Agheros potrebbe ambire a raggiungere quell’eccellenza che, in Demiurgo, viene raggiunta solo a tratti.

Track-list :
1.Prologue
2.Eris
3.Styx
4.Thanatos
5.Moros
6.Nemesi
7.Lyssa
8.Letum
9.Erebo
10.Nyx
11.Oizys
12.Emera
13.Geras
14.Lysimele
15.Ker
16.Apate
17.Etere

Line-up :
Gerassimos Evangelou – All Instruments, Vocals

VAREGO

Se vi piace la musica cerebrale, ma siete metallari dentro, se gli Alice in Chains vi hanno scavato un solco dentro, i liguri Varego sono il gruppo giusto per voi. Di seguito trovate la piacevole chiacchierata con Gero, chitarrista dei suddetti Varego, un gruppo che va sicuramente oltre la musica e che ci stupirà nel futuro.

iye Potete spiegarci la storia dietro al disco ? Sembra un concept album …

Ciao Massimo, sì, è un vero e proprio concept album, anzi, a dirla tutta, sono i Varego stessi ad essere una “concept band”, se mi passi l’espressione. “Tvmvltvm” è, infatti, una prima parte di una lunga storia che esploreremo con successivi lavori e che si ramificherà in diverse direzioni. A livello generico, per non entrare troppo nel dettaglio, qui si affronta l’incipit di un lungo percorso che ha come fine ultimo l’interfacciarsi dell’Uomo con l’infinità dell’Universo. Tutto ruota attorno alla figura di un negromante, che svela un percorso mistico di trasmutazione.

iye A mio avviso avete una grande influenza dal grunge anni ’90, quali sono i vostri punti di riferimento del genere ?

Per noi è un grande complimento, abbiamo vissuto in pieno l’età d’oro del grunge, la sua esplosione negli anni’90, quando c’erano band selvagge e cariche di belle speranze. La grandiosità della scena grunge era nella differenziazione della proposta, al tempo stesso però riconducibile a determinate caratteristiche di base come la genuinità e la freschezza delle varie band. La nostra formazione musicale viene anche da qui e per la precisione posso citare due band in particolare, ossia gli Alice in Chains, per la loro carica emotiva, e i Soundgarden, per l’impatto sonoro.

iye Raccontateci il vostro lavoro con Billy Anderson, uno che ne ha fatta musica …

Sì, ed è stata una grande soddisfazione a livello professionale, sapere di lavorare con una persona che nei suoi studi ha ospitato leggende viventi come Cathedral, Brutal Truth, Fantomas (tra le altre decine che potrei citare) è una cosa che ti riempie di orgoglio. Nello specifico sono stati due mesi di collaborazione intensa, in cui le nostre anime si sono alimentate vicendevolmente con opinioni, idee e consigli di ogni tipo, per poter generare al meglio il mostro che avevamo in mente. Billy Anderson si è dimostrato da subito empatico con le nostre richieste, dando poi il suo fondamentale tocco, unico e professionale, all’album.

iye Lovecraft e i suoi miti maledetti risuonano molto nella vostra musica, come potete descrivere il vostro rapporto con il grande misantropo ?

Lovecraft ha avuto un’importanza formativa a livello di gusti e preferenze non solo letterarie, ma anche musicali appunto. Essendo un autore che si scopre in gioventù, per forza di cose non riesci più a liberartene, i suoi scritti ti catturano e ti avvolgono e sei quasi costretto ad estrapolare un valore ulteriore, dai tratti universali, che va oltre al semplice significato letterario dei racconti. Nello specifico, nel nostro album Lovecraft è un pretesto per ambientare la narrazione in un mondo al tramonto, cosparso di insidie e di terribili verità provenienti da altre dimensioni e pronte a travolgerci.

iye Cosa vi aspettate da questo disco ?

Riteniamo che la realizzazione di un album non sia un punto di arrivo, ma un punto di partenza, un mattone importante su cui costruire i passi successivi, a maggior ragione nel nostro caso, visto che si tratta del primo lavoro. Stiamo lavorando per poter diffondere il più possibile “Tvmvltvm” presso i tradizionali canali di vendita, abbiamo ottenuto la collaborazione di prestigiosi partner di caratura internazionale e da qui vogliamo partire per avere solide basi nel futuro più prossimo. Stiamo inoltre portando avanti la nostra label www.argonautarecords.com, con l’intento di farla diventare un polo per le sonorità Post Metal e derivati.

iye I vostri testi sottintendono molto di più di quello che dicono, vi definireste esoterici nel vero senso della parola ?

Direi di sì, intendendo il termine “esoterico” nella sua accezione più radicale e pura, nulla a che vedere con le baggianate dei nostri giorni quali cartomanzia o astrologia, con i cosiddetti “maghi da tv”. L’uomo per sua natura tende al soprannaturale e alla ricerca della divinità. Questi aspetti non sono intuibili grazie ai soli sensi fisici, ma devono esser ricercati nella parte più profonda e autentica di noi stessi e non all’esterno.

iye Se ne aveste la possibilità con chi vorreste suonare dal vivo ?

Siamo autentici divoratori di musica e potrei citarti decine di band che stimiamo e con cui vorremmo condividere il palco. Per cui, evitando così un elenco infinito, esagero e vado dritto al sodo: Tool, Kyuss, Neurosis, Mastodon, Pink Floyd e Doors.

iye Le vostre ultime delusioni musicali ?

Generalmente ci avviciniamo alle band che ci incuriosiscono praticamente conoscendo già tutto di loro, per cui ci è difficile esprimere giudizi negativi su questo e quell’album di cui a grandi linee sapevamo già cosa aspettarci. Rovescio però la tua domanda e ti cito invece un lavoro che ci ha sorpreso molto positivamente, avendo comunque sempre apprezzato la band, ossia il recentissimo OM, in cui la violinista Jackie Perez Gratz degli Amber Asylum ha fatto un lavoro da lacrime agli occhi tanta è la sua eleganza.

iye E’ pronto il vostro primo video ?

Ci stiamo lavorando, non è semplice, in quanto anche qui come per l’album stiamo impostando tutto in base alla logica del “do it yourself”, abbiamo molte idee e molte energie, aspettiamo il momento opportuno per canalizzarle al meglio. Siamo decisamente molto più avanti invece con i brani nuovi, che andranno a costituire un cd dalla media durata e per il quale ci avvarremo nuovamente della collaborazione di Billy Anderson. In più vedrà la presenza di uno special guest d’eccezione con cui abbiamo avuto il piacere di entrare in contatto grazie proprio al nostro album, ma di cui al momento non possiamo anticipare nulla, ma solo per ragioni scaramantiche, sia chiaro.

iye Grazie per la pazienza, ciao Gero e ciao Varego !!!

Figurati, è sempre un piacere avere la possibilità di entrare nel dettaglio della nostra musica, grazie piuttosto a te per la splendida recensione al nostro album Tvmvltvm e a IYEzine per l’opportunità concessaci con questa intervista.