Utile riedizione in vinile dell’esordio su lunga distanza dei tedeschi Lihhamon.
Se a qualcuno non fosse chiaro il concetto di metal estremo direi che questo album d’esordio dei Lihhamon dovrebbe risultare piuttosto esaustivo.
Il trio di Lipsia ha seguito un trafila inversa rispetto al solito, partendo subito con un full length, appunto Doctrine nel 2016) facendolo seguire da un demo e da uno split con i concittadini II; l’album è stato poi riedito in vinile dalla Nuclear War Now!, essendo stato sicuramente rinvenuto dalla label statunitense qualcosa di rispondente alla propria ragione sociale nel sound ivi contenuto.
Quello dei Lihhamon è un brutal death black che non lascia alcuno scampo se non nei quattro frammenti ambient/strumentali che accompagnano la altre sei impietose tracce, per lo più impostate su ritmiche parossistiche ma inframmezzate da rari quanto efficaci rallentamenti: nulla di inedito, questo è evidente, ma la proposta convince abbastanza perché si percepisce un’urgenza espressiva che fa intuire come nell’ex Germania Est post riunificazione ci sia ancora diversa rabbia da smaltire, e la maniera scelta dalla band è senz’altro ideale e soprattutto indolore (salvo che per le orecchie più delicate) Death Or Torment è l’ultima mitragliata offerta dal disco ed è un dilemma al quale è meglio non trovarsi a dover dare risposta, ma nel dubbio una soluzione ce la forniscono i Lihhamon, radendo tutto al suolo senza troppe remore o scrupoli di sorta.
Tracklist:
Side A
1. Decimation
2. Genocide Crusade
3. Throne of Eradication
4. Splendour
5. Hostes
Side B
6. Ironsides
7. Coronation
8. Cadaver Synod
9. Death or Torment
10. Triumph
Line-up:
A. Drums, Vocals
M. Guitars, Vocals
F. Bass, Vocals
Reflections in Darkness si rivela una sorta di bignamino del metal estremo, redatto con buona cura e indubbia competenza tanto da lasciare solo impressioni positive, per quanto su tratti di un’opera che ben difficilmente verrà ricordata bei secoli dei secoli .
Reflections in Darknessè l’esordio su lunga distanza dei Throaat, band statunitense attiva da qualche anno e messasi in mostra fino ad oggi tramite una manciata di ep e split album.
I nostri rappresentano alla perfezione ciò che si intende per suonare metal senza fronzoli: partendo da una base black il sound si arricchisce di volta in volta di elementi thrash, sfumature death e rallentamenti di stampo doom
Insomma, Reflections in Darkness si rivela una sorta di bignamino del metal estremo, redatto con buona cura e indubbia competenza tanto da lasciare solo impressioni positive, per quanto su tratti di un’opera che ben difficilmente verrà ricordata bei secoli dei secoli .
Fa sempre piacere comunque trovare band che, senza troppi proclami né pretese, offrono lavori convincenti e comunque non banali o monocordi, visto che i ritmi cambiano sovente anche all’interno dei singoli brani restando sempre ben incatenati alle pulsioni più oscure e corrosive del metal.
Essendo New York la residenza ufficiale del duo, qualche venatura proveniente da Carnivore/ primi Type 0 Negative talvolta affiora ma, effettivamente le band storiche che concorrono a formare lo stile dei Throaat sono tali e tante che, alla fine, è difficile individuarne una prevalente; questo è un bene perché depone a favore della capacità della band di rielaborare la materia con notevole proprietà riuscendo a renderla in più di un passaggio piuttosto accattivante.
Detto ciò, il meglio i Throaat lo offrono quando decidono di viaggiare al massimo della velocità consentita, quindi Burning the Ice, The Light, Tormentia e Impaler’s Night lasciano un discreto segno, scuotendo il giusto anche l’ascoltatore più distratto e lasciando in fin dei conti un’impressione piuttosto positiva.
Tracklist:
1. Burning the Ice
2. The Light
3. The Crypt
4. Radiation
5. Alive Inside of the Pentagram
6. The Bells of Newcastle upon Tyne
7. Tormentia
8. Tormentia II
9. Impaler’s Night
Esordio sulla lunga distanza per i Legions Of Wolves che, con Bringers Of The dark Sleep, confezionano un lavoro rivolto agli amanti del death metal old school di scuola europea.
Nati dalle ceneri degli Abaddon Incarnate nel 2009, arrivano all’esordio sulla lunga distanza i deathsters irlandesi Legion Of Wolves, fino ad ora sul mercato underground con solo due demo.
La Metal Scrap si è presa cura di questo massiccio esempio di death old school dal titolo Bringers of the Dark Sleep, un monolite pesantissimo di metal estremo oscuro e guerresco, in linea con il genere suonato in Europa nella prima metà degli anni novanta.
Pregno di mid tempo dall’incedere epico e distruttivo, l’album ha il pregio di seguire le linee tracciate a suo tempo da Bolt Thrower ed Asphyx, mentre il difetto maggiore è una staticità di fondo che non permette all’opera di decollare come promesso dalle prime battute.
Infatti, dopo le prime tre devastanti tracce (la title track, You Shall Know e Grond), la band non va oltre il compitino, perfetto per rompersi la testa in headbanging dettati dal clima battagliero che avvolge il lavoro ma nulla più.
Buona la produzione, assolutamente sul pezzo per attitudine ed impatto la band, ma ancora da migliorare il songwriting, così che Bringers Of The Dark Sleep risulta un album da consigliare con le dovute precauzioni solo ai fans del death metal old school di scuola europea.
Tracklist
1.Bringers of the Dark Sleep
2.You Shall Know
3.Grond (Hammer of the Underworld)
4.Brothers of Fury and Iron
5.Plague of the Immortal
6.Forged in Fire and Combat
7.Summoning the Elite
8.Sorrow Made Madness
9.Obsidian
10.Heavy Mass of Murder
Line-up
Hans – Bass
Jason Connolly – Drums
Arkadiusz Kupiszowski – Guitars
Annatar – Guitars
Chris – Vocals
Complessivamente l’opera non è male e mette in mostra una buon dinamismo compositivo volto a ricercare sonorità che coniughino melodie ed asprezze con buona fluidità, ma per ora quello che manca è proprio un indirizzo più preciso.
Sâmbăta Morților è il nome di questa one man band di Ploiesti, città che non è nota per produrre un numero considerevole di band metal, pur essendo la scena rumena piuttosto fiorente in tal senso negli ultimi tempi.
Il monicker prende spunto dall’omonima ricorrenza della religione cristiano ortodossa che, in qualche modo, è l’equivalente del 2 novembre cattolico (Sâmbăta Morților significa infatti “il sabato dei morti”).
Nonostante questa lugubre premessa il sound del progetto creato da Mihai Iorgu non è poi così catacombale, piazzandosi a metà strada tra death e black con pulsioni sinfonico progressive: Sâmbăta Morților IIè il secondo ep uscito alla fine dello scorso anno nel quale, per l’occasione, sono stati inseriti come bonus track i tre brani che facevano parte dell’omonimo ep di esordio.
Complessivamente l’opera non è male e mette in mostra una buon dinamismo compositivo volto a ricercare sonorità che coniughino melodie ed asprezze con buona fluidità, ma per ora quello che manca è proprio un indirizzo più preciso, anche se il buon Mihai sembrerebbe essere sulla giusta strada visto che i brani nuovi appaiono leggermente superiori rispetto a quelli più datati, con l’attenzione da puntare sull’ottima Endless Seeking, dai ritmi intensi e coinvolgenti ben condotti da chitarra e tastiere.
Bello anche lo strumentale Mortal Thoughts, che suggerirebbe forse una maggiore propensione in futuro per il lato atmosferico del black death, anche perché, almeno per ora, quella dei Sâmbăta Morților sembra essere un’idea stilistica ancora in divenire e della quale sarà possibile ottenere qualche coordinata più precisa allorché verrà pubblicato il primo full length attualmente in lavorazione.
Con un death/thrash metal oscuro, rigorosamente cantato in lingua madre, pregno di quella misantropica melanconia tipica dei gruppi nordici, la band non manca di deliziare gli ascoltatori con una decina di brani che uniscono pesantezza sonora tipica del death a ripartenze thrash
L’underground estremo proveniente dal nord Europa continua a regalare gioiellini metallici molto interessanti, anche ora che i riflettori si sono spenti sulle scene di Finlandia, Svezia e Norvegia e gli artisti sopravvissuti hanno raggiunto la fama internazionale, lasciando al sottobosco delle varie città il meglio che la musica di quelle parti può offrire.
Scavando in profondità ci troviamo molto spesso innanzi ad ottime band come i finlandesi Hautajaisyö, quintetto attivo da una manciata d’anni e arrivato al secondo full length tramite la Inverse Records.
Con un death/thrash metal oscuro, rigorosamente cantato in lingua madre, pregno di quella misantropica melanconia tipica dei gruppi nordici, la band non manca di deliziare gli ascoltatori con una decina di brani che uniscono pesantezza sonora tipica del death a ripartenze thrash, valorizzate da ritmiche schiacciasassi e assoli melodici che prendono spunto dal metal a tinte dark di band storiche come i Sentenced prima maniera.
Ne esce un album a tratti davvero bello ed intenso: i cinque musicisti finnici prendono per mano la morte (semplice ma bellissima la copertina) e con lei passeggiano al ritmo metallico di perle oscure come Jos voisin silmäni ummistaa o Unohdetut, lasciando al riff heavy della conclusiva Vain tuhkasi sinusta muistuttaa la palma di miglior brano del lotto, estremo, heavy e al tempo stesso pervaso da una melodia oscura, intimista e dark che ne fa un brano molto suggestivo nella sua natura diretta.
Il cantato in growl avvicina maggiormente il sound al death metal, anche se l’anima thrash esce rabbiosa e devastante (Tunteeton), insieme ad un talento per le melodie dark che piacerà non poco anche a chi ama il death metal melodico. Matkalla kohti hautaa merita senza dubbio l’attenzione di chi non si ferma ai soliti nomi, cercando sempre qualcosa di nuovo in un mondo estremo che ha ancora molto da dare.
Tracklist
1.Intro
2.Tunteeton
3.Väsynyt kuolemaan
4.Matkalla kohti hautaa
5.Jos voisin silmäni ummistaa
6.Minut pelastakaa
7.Lähdön hetki
8.Kuolleena haudattu
9.Unohdetut
10.Vain tuhkasi sinusta muistuttaa
Line-up
J. Partanen – Vocals
S. Lustig – Guitars
V. Moisanen – Guitars
S. Pesonen – Bass
T. Roth – Drums
Prodotto dalla band che conferisce un’atmosfera old school, oppressiva e soffocante, l’album alterna veri attimi di distruzione sonora a rallentamenti classici del death metal vecchia scuola per poi sorprendere con riff melodici di scuola nord europea.
Non è poi così scontato trovare band provenienti dalla Finlandia che al death metal aggiungono ancor più devastanti iniezioni grindcore.
Il nome della terra dei mille laghi è quasi sempre sinonimo di death metal melanconico, progressivo e old school, ma nell’underground più torbido e marcio vivono realtà spaventosamente estreme come i Galvanizer, trio di abominevoli musicisti dal sound feroce e distruttivo.
Putrido come una cantina dove vengono buttati i resti delle vittime di un serial killer, Sanguine Vigil è il primo full length, successore di due demo ed un ep licenziati in cinque anni di vita artistica, una mezz’ora di oscuro e mostruoso death metal scandinavo e grind che si alleano per arrivare ai padiglioni auricolari degli amanti dell’estremo in tutta la loro mostruosa e devastante natura.
Prodotto dalla band che conferisce un’atmosfera old school, oppressiva e soffocante, l’album alterna veri attimi di distruzione sonora a rallentamenti classici del death metal vecchia scuola per poi sorprendere con riff melodici di scuola nord europea, che sono il jolly giocato dai Galvanizer per rendere la propria proposta interessante.
Growl e scream death/grind accompagnano il passaggio di questo pezzo di granito estremo lasciando senza fiato, specialmente quando la band parte a tutto gas con devastanti cavalcate che del grindcore prendono l’impatto e la voglia di radere al suolo tutto senza pietà.
Si passa dunque dal death metal della title track, esempio perfetto di cosa si suona ancora in Scandinavia quando si parla del genere, e Gorefestation, classico brano grind. Sanguine Vigil risulta un buon lavoro, ben orchestrato nei suoi cambi repentini di velocità ed attitudine, pur rimanendo soffocato da un’atmosfera oscura e malsana.
Tracklist
1.Mood for the Blade
2.Enjoyment of Annihilation
3.Deathbeat Deity
4.Sanguine Vigil
5.Grind Till… You’re Dead!
6.Domestic Mastication
7.Gorefestation
8.Premature Rot
9.Unfinished Autopsy
10.A Painful End for Curiosity
Immaginate Meshuggah, TesseracT e Lamb Of God che jammano insieme ai Nevermore ed avrete un’idea del sound prodotto dal gruppo indiano, un insieme di buone idee valorizzate da una valida preparazione strumentale, ma ancora da perfezionare sotto l’aspetto della fruibilità.
Nuovo ep per gli Eccentric Pendulum, realtà progressiva proveniente dall’India.
Il quintetto asiatico, attivo da una decina d’anni ha all’attivo un full length licenziato nel 2011 (Winding The Optics), un primo ep di debutto (The Sculptor Of Negative Emotions) datato 2009, ed ora torna sempre in regime di autoproduzione con questi tre brani raccolti sotto il titolo di Tellurian Concepts.
Band tecnicamente preparatissima, gli Eccentric Pendulum estremizzano il concetto di progressive metal con un’attitudine moderna che raccoglie death, thrash ed alternative metal, digressioni, partiture jazzate e piccole sfumature di musica tradizionale.
Il growl ricorda più la rabbia core che il profondo abisso del death metal, così da confermare l’approccio moderno del sound di questi tre brani, dove l’opener Tellurian I-Nil risulta un intro strumentale, e le altre due tracce (Tellurian II-Accelerated Extinction e Tellurian III-Contrivance) ci presentano una band che ha i suoi problemi da affrontare nell’intricato, ipertecnico, ma freddo songwriting.
In poche parole, la mole di tecnica questa volta non è messa al servizio della forma canzone e l’ascolto, pur nella sua poca durata, è alquanto dispendioso.
Immaginate Meshuggah, TesseracT e Lamb Of God che jammano insieme ai Nevermore ed avrete un’idea del sound prodotto dal gruppo indiano, un insieme di buone idee valorizzate da una valida preparazione strumentale, ma ancora da perfezionare sotto l’aspetto della fruibilità.
Puncturing The Grotesque è il lavoro con cui gli Autopsy, vecchie volpi del metal estremo dalle tinte horror/gore, entrano in questo nuovo anno sempre con quella insana goliardia insita nei testi di putride tracce brutali e dall’atmosfera velenosa.
E’ arrivato anche per gli storici Autopsy il tempo di festeggiare i trent’anni di attività di una carriera lungo la quale il gruppo di Chris Reifert è stato uno dei punti fermi per i fans del death metal più brutale, con la parentesi dello stop di alcuni anni e la reunion del 2009 che ha ridato motivazioni ed un ritrovato entusiasmo al combo californiano.
Una discografia che non ha mai concesso passi falsi ha spinto la band verso quell’aura da cult band che, se non ha reso quanto poteva in termini di popolarità, ha sicuramente costruito intorno agli Autopsy un’intoccabilità che si evince dall’amore dei fans per il gruppo. Puncturing The Grotesque è il lavoro con cui gli statunitensi, vecchie volpi del metal estremo dalle tinte horror/gore, entrano in questo nuovo anno sempre con quella insana goliardia insita nei testi di putride tracce brutali e dall’atmosfera velenosa.
Ovviamente gli Autopsy targati 2018 esibiscono quello che sanno fare meglio, death metal solcato da rallentamenti doom soffocanti, abissali e marcissimi.
Si passa così in poco tempo, da capolavori death metal old school come The Sick Get Sicker a lente discese negli antri puzzolenti del brutal/doom con Gas Mask Lust e Gorecrow, per poi lasciare al death/thrash & roll di Fuck You!!! il compito di dare il “la” ai festeggiamenti tra fuochi d’artificio estremi.
Una band come gli Autopsy non lascia scampo e non tradisce anche dopo così tanti anni, risultando una sicurezza per i fans del death metal.
Tracklist
1.Depths of Dehumanization
2.Puncturing the Grotesque
3.The Sick Get Sicker
4.Gas Mask Lust
5.Corpses at War
6.Gorecrow
7.Fuck You!!! (Bloodbath cover)
Line-up
Chris Reifert – Vocals, Drums
Eric Cutler – Vocals, Guitars
Danny Coralles – Guitars
Joe Allen – Bass
In Cavern Of Foul Unbeings troverete strumenti che gridano dolore, accelerazioni ed improvvise frenate, un growl in arrivo dal centro dell’inferno per quasi cinquanta minuti di metal estremo tripallico, assolutamente poco originale ma ben fatto, soprattutto per chi ama il genere.
Nuovo lavoro per gli Ectoplasma, realtà estrema proveniente dalla penisola ellenica nata tre anni fa ma già al secondo full length, successore di Spitting Coffins uscito lo scorso anno, accompagnato da due ep ed uno split in compagnia dei colleghi Hatevomit.
La band suona death metal old school, duro e puro, brutale, senza compromessi e come vuole la tradizione appesantito da mastodontici rallentamenti di scuola doom e con attitudine anticristiana, impatto monolitico e ispirazioni che richiamano i nomi storici del death metal: la band greca non si smuove, con tutti gli annessi e connessi dai cliché che animano il genere, quindi l’album risulta la classica opera appannaggio dei fans del genere.
In Cavern Of Foul Unbeings troverete strumenti che gridano dolore, accelerazioni ed improvvise frenate, un growl in arrivo dal centro dell’inferno per quasi cinquanta minuti di metal estremo tripallico, assolutamente poco originale ma ben fatto, soprattutto per chi ama il genere.
L’album è facile da leggere, tutto è dove immaginiamo debba stare, ci si muove bendati in un mondo che conosciamo a menadito, tra blast beat ed atmosfere catacombali e con una track list che dà l’impressione di provenire dal secolo scorso.
Tra le varie Entranced In Blood, Seized In Cimmerian Darkness e quel mostro musicale a titolo Ghoulspawn troverete echi di Bolt Thrower, Morgoth, Asphyx e qualche accenno alla scena scandinava (Unleashed, tributati dal gruppo con la conclusiva cover del brano The Immortals), una parte del meglio che la vecchia Europa ha partorito nel periodo d’oro del death metal. Cavern of Foul Unbeings è un lavoro che troverà estimatori negli amanti del death metal classico e old school, forte di una sua precisa appartenenza al filone.
Tracklist
1.Amorphous Atrocity (Intro)
2.Entranced in Blood
3.Mortified and Despised
4.Seized in Cimmerian Darkness
5.Cavern of Foul Unbeings
6.Primeval Haunting
7.Reanimated in Trioxin
8.The Unspeakable One
9.GhoulSpawn
10.Disembodied Voice
11.The Immortals (Unleashed cover)
Line-up
Dion K. Alastor – Guitars (lead)
George Wolf – Guitars (rhythm)
Giannis Grim – Vocals, Bass
Maelstrom – Drums
Alzano le barricate gli Humanity Is A Curse e su queste combattono la loro guerra, mitragliando e bombardando senza pietà per venticinque minuti di metal estremo dall’impatto brutale.
Nel mondo del metal le sorprese sono piacevoli ed inaspettate, ancor di più se si scava nell’underground estremo, universo mai totalmente esplorato anche per una webzine attenta come la nostra.
In arrivo dalle umide notti berlinesi gli Humanity Is A Curse sono un trio italo/tedesco composto da M alla sei corde ed alla voce, xGx al basso e G, che i lettori di MetalEyes conoscono sotto altro nome quale picchiatore instancabile nei grindsters palermitani Cavernicular.
Con un simile monicker la band va esplicitamente contro un’umanità ormai allo sbando, devastata moralmente e distruttrice del mondo che le sta intorno, il tutto a colpi di grind/crust core, ricco di rallentamenti sludge e con un mai domo spirito hardcore, formando un sound violentissimo.
Alzano le barricate gli Humanity Is A Curse e su queste combattono la loro guerra mitragliando e bombardando senza pietà per venticinque minuti di metal estremo dall’impatto brutale, una furia che parte pesantissima con le prime mastodontiche note di Photic, per poi riversare sull’ascoltatore tutta la sua rabbiosa denuncia.
Un muro sonoro avanza e travolge senza fermarsi e si presenta nella sua parte più sludge, prima di mollare le briglie (Pelagic, Abyss, Hadal) ed abbattersi senza freni sull’audience.
I generi che compongono il sound di Raging For A Lighthouse sono i più estremi e senza compromessi del vasto mondo del metal, le ispirazioni pertanto vanno ricercate di conseguenza, alimentando una proposta inevitabilmente indirizzata agli appassionati dalla consolidata familiarità con questi suoni.
Metal estremo crudele, cattivo e senza compromessi, partendo dall’opener Don’t Cross My path e lasciando che aggressività, ripartenze e rallentamenti si incastrino in un sound che non concede tregua:questo è Far Beyond Existence, ultimo lavoro dei Torture Squad.
Nuovo lavoro per gli storici brasiliani Torture Squad, quartetto di San paolo attivo dalla prima metà degli anni novanta e protagonista di una discografia che raccoglie, oltre ad una manciata di lavori minori, otto full length dei quali l’ultimo è questo Far Beyond Existence.
L’album è composto da dieci massacri sonori a base di death/thrash vecchia scuola, ma valorizzato da una buona produzione, dove la voce di May “Undead” Puertas lascia esterrefatti per impatto e cattiveria, la sezione ritmica è un treno in corsa (Amilcar Christófaro alla batteria e Castor al basso) e le chitarra di Renê Simionato sputa sangue metallico old school.
Va da sé che la cantante sia il fulcro, non solo d’immagine, del gruppo sudamericano: la ragazza di un orco che cerca vendetta con la rabbiosa grinta di un branco di tigri, questa è in pratica la prova della bella vocalist dei Torture Squad, sostenuta dai tre colleghi, mentre in un attimo passa la furiosa tempesta abbattutasi su di noi e portata dai venti maligni delle notevoli No Fate e Blood Sacrifice.
Kreator, Slayer e primi Sepultura si ritrtovano tra le note dell’album, ma parlare di influenze per una band nata ormai quasi venticinque anni fa è oltremodo riduttivo, quindi Far Beyond Existence va fatto proprio senza indugi, perché la squadra di tortura è tornata al lavoro e vi farà soffrire.
Tracklist
1. Don’t Cross My Path
2. No Fate
3. Blood Sacrifice
4. Steady Hands
5. Hate
6. Hero for the Ages
7. Far Beyond Existence
8. Cursed by Disease
9. You Must Proclaim
10. Just Got Paid
11. Torture in Progress
12. Unknown Abyss
A Step Beyond Divinity è un’opera dal taglio internazionale che incolla l’ascoltatore alle cuffie, un dirompente fiume metallico che straripa tra debordanti e possenti passaggi estremi, orchestrazioni epiche ed apocalittiche e chitarre che sanguinano melodie.
Il nuovo lavoro dei deathsters nostrani Embryo è il classico album con il quale supportare la scena metal tricolore (non solo quella estrema, ovviamente) diventa non solo un dovere ma un grande piacere.
Al quarto album la band di Cremona estrae dal cilindro l’opera perfetta, quella che prendendo il meglio dal precedente omonimo lavoro, lo porta ad un livello ancora più alto regalando cinquanta minuti di death metal moderno, in un susseguirsi di emozionanti saliscendi tra tradizione melodica e moderno death metal dal piglio apocalittico.
Le orchestrazioni questa volta raggiungono vette altissime, la parte americana del sound del gruppo è ancora più potente, un macigno estremo che dai Fear Factory prende l’atmosfera epica da fine del mondo, mentre la cascata di solos guardano sempre verso nord e al melodic death metal.
Il concept si ispira alla figura di un genio come Leonardo Da Vinci, quindi anche in questo caso la band cerca una via intellettuale ai testi per valorizzare un songwriting sopra le righe.
Il bellissimo artwork è stato lasciato nelle mani dell’artista e musicista Spiros Antoniou alias Seth Siro Anton (Septic Flesh) mentre masterizzazione, registrazione e mix sono stati eseguiti da Simone Mularoni ai Domination Studio, con la band ad affiancarsi al noto produttore e musicista italiano (DGM) in fase di produzione.
Tutto questo rende A Step Beyond Divinity un’opera dal taglio internazionale che incolla l’ascoltatore alle cuffie, un dirompente fiume metallico che straripa tra debordanti e possenti passaggi estremi, orchestrazioni epiche ed apocalittiche e chitarre che sanguinano melodie. Vanguard For The Blind, The Greatest Plan e la devastante Leonardo spiccano sulle altre tracce, ma vi consiglio di fermarvi per un’oretta scarsa e lasciare che gli Embryo vi raccontino del Da Vinci a modo loro.
Tracklist
1. The Same Difference
2. Overwhelming your Disgust
3. Vanguard for the Blind
4. Painting Death
5. Looking for the Divine
6. Solitaria 1519
7. Leonardo
8. The Greatest Plan
9. Bastard of the Brood
10. Mouth of Shame
11. Witness of your Life
12. The Horror Carved
Chi è alla ricerca di musica che sia la più pesante ed oppressiva possibile dovrebbe buttare un orecchio a questo secondo full length dei finnici Coughdust.
Worldwrench offre infatti una quarantina di minuti di sonorità distorte, dal peso specifico insostenibile anche per le strutture di una centrale nucleare, con le corde degli strumenti talmente ribassate da andare creare una sorta di rombo sul quale si stagliano le urla belluine del vocalist Murtonen.
La cosa bizzarra è che, nelle note di accompagnamento, si parla anche di stoner rock ma, francamente, qui siamo di fronte ad un death sludge doom nel quali si annidano comunque decisive particelle di groove, elemento fondamentale per rendere ascoltabile quello che sarebbe altrimenti un’impietosa mannaia calata sulle teste degli ascoltatori.
Prendendo quale termine di paragone una band dall’approccio per certi versi simile come i Primituive Man, infatti, notiamo come i Coughdust riescano a sfuggire alla ferocia monolitica esibita dagli statunitensi proprio grazie ad un idea melodica che resta molto sullo sfondo ma è ugualmente presente, quasi fosse un carattere ereditario recessivo.
Parlare dei singoli brani serve a poco, tanto dall’incipit di Serpents of the Earth fino all’ultima nota di Blind, Worldwrench esibisce l’impatto di un meteorite in grado di spostare di qualche grado l’asse di rotazione del pianeta. Basta e avanza se ci si vuole fare molto male …
Tracklist:
1. Serpents of the Earth
2. The Second Principle
3. Gripless
4. Worldwrench
5. Dead Calm
6. Blind
Giovani, ma con una personalità da vecchi demoni, i Rapture ci consegnano un lavoro che non mancherà di soddisfare i thrashers old school di tendenza slayerana e con più di un orecchio alle opere di Possessed, Venom e della parte più estrema del genere nel periodo ottantiano.
Death/thrash che sputa puro odio e violenza, con un sound che partendo da una base thrash old school si potenzia di cattiveria death per un risultato annichilente: questo è Paroxysm Of Hatred, nuovo lavoro dei greci Rapture, secondo full length dopo Crimes Against Humanity, uscito nel 2015, ed una manciata di ep.
Il quartetto proveniente dalla capitale ellenica non si risparmia e parte veloce e cattivo come pochi, rifilando una serie di mitragliate per una quarantina di minuti senza soluzione di continuità: questo è un death/thrash vecchia scuola che molto deve ai primi Slayer, ma che si ricopre di una discreta gloria con questi otto brani spietati e assassini.
Odio, misantropia, orrore, guerra e morte, descritte con l’aiuto di un metal feroce ed aggressivo, suonato bene e prodotto quel tanto che basta per arrivare in fondo all’ascolto senza problemi (una virtù non da poco per il genere).
I Rapture ci sanno fare, interpretano la musica estrema con attitudine e quell’impatto necessario per convincere lungo tutto l’ascolto dell’album che forma, nella sua interezza, un assalto sonoro devastante.
Giovani, ma con una personalità da vecchi demoni, i Rapture ci consegnano un lavoro che non mancherà di soddisfare i thrashers old school appunto di tendenza slayerana e con più di un orecchio alle opere di Possessed, Venom e della parte più estrema del genere nel periodo ottantiano.
Tracklist
1.Thriving on Atrocity
2.Vanishing Innocence
3.Redemption Through Isolation
4.Paroxysm of Hatred: Procreation
5.Misanthropic Outburst
6.Taken by Apathy
7.Quintessence of Lunacy
8.Paroxysm of Hatred: Revelation
In Athanati, i Lloth antepongono a tutto un’emotività che si percepisce ad ogni nota, nonostante il dolore venga esplicitato tramite un sound robusto e spesso rabbioso, per quanto ammantato senza soluzione di continuità da un afflato melodico in grado di fare la differenza.
La storia dei Lloth è legata a stretto filo con quella delle Astarte, la band con la quale brillò fulgida la stella di Maria Tristessa Kolokouri prima che gli dei dell’Olimpo decidessero di richiamarla al loro cospetto.
Questo è infatti l’iniziale monicker che una delle prime band estreme interamente al femminile utilizzò prima di quello che la fece poi conoscere agli appassionati più attenti: non a caso i Lloth sarebbero dovuti rinascere parallelamente alle Astarte, se non fosse arrivata la malattia a interrompere bruscamente un progetto volto a sviluppare ulteriormente il black death melodico di tipica matrice mediterranea.
In ossequio alla memoria di Maria i riformati Lloth hanno pubblicato lo scorso anno questo Athanati (immortale, in greco) e, guidati dal marito della musicista Nicolas Sic Maiis, sono riusciti a dar vita a cinquanta minuti di musica magnifica, intensa ed emozionante, come spesso accade quando la vis compositiva si nutre delle avversità e del tentativo di elaborare i lutti per trasformare il dolore in una forma artistica dall’impatto dirompente.
Nel fare ammenda per l’aver ascoltato Athanati solo oggi, a sei mesi dalla sua uscita, non posso fare a meno di dire che un lavoro di tale spessore non ha avuto il risalto che avrebbe meritato; davvero strano, visto che il black death melodico costruito dai Lloth è quanto di più trascinante e coinvolgente sia stato dato ascoltare negli ultimi anni, grazie ad una formula che, partendo dalle basi poste da band come Moonspell e, ovviamente, Rotting Christ e Nightfall, ne incrementa la componente epica del sound innestandovi quel senso melodico che è marchio di fabbrica delle band dell’Europa meridionale.
Ma, come sempre, le parole rischiano essere riduttive per un lavoro che non molla mai la presa, baciato com’è da un songwriting eccellente e da un’esecuzione strumentale lineare quanto impeccabile, con il growl profondo di Nicolas Sic Maiis a condurre le danze, aiutato in alcune tracce da numi tutelari della scena metal ellenica come Efthimis Karadimas, in In the Name of Love (Sacrifice), e Sakis Tolis, in Hell (Is a Place on Earth), senza dimenticare i vocalizzi offerti in Tristessa da Androniki Skoula, cantante dei Chaostar di Christos Antoniou. Athanati offre una serie di brani splendidi, tra i quali si farebbe fatica ad estrarre dal mazzo un potenziale singolo solo per l’imbarazzo della scelta tra la title track (che trae linfa da Alma Mater dei Moonspell), Born Of Sin (per quel che vale la mia preferita) con una melodia chitarristica pressoché indimenticabile, In the Name of Love (Sacrifice), ultima traccia composta da Maria e che nell’interpretazione congiunta di Nicolas ed Efthimis finisce per renderne ancora tangibile la presenza tra di noi, Empitness (e non poteva essere diversamente con il già citato contributo di Sakis) e il conclusivo epico inno intitolato I (Dead Inside).
E se Pan, Alles in Black e Hell (Is a Place on Earth) sono comunque bellissimi pezzi, che magari restano solo un pizzico meno agganciati alla memoria rispetto a quelli citati, vanno segnalati ancora due episodi importanti nell’economia dell’album per il loro significato intrinseco, come Archos, dedicata al figlio della coppia, dai ritmi più rallentati ed avvolgenti, ed il poetico intermezzo acustico di Tristessa. Athanati potrà anche difettare in originalità, perché l’influenza di Rotting Christ e Nightfall è percepibile, non solo per l’imprimatur fornito all’album dai rispettivi leader, però la grandezza dei Lloth sta proprio nel far passare questo aspetto in secondo piano, anteponendo a tutto un’emotività che si percepisce ad ogni nota, nonostante il dolore venga esplicitato tramite un sound robusto e spesso rabbioso, per quanto ammantato senza soluzione di continuità da un afflato melodico in grado di fare la differenza.
Questo è un album stupendo, che lascia quale unico interrogativo quello sulla capacità dei Lloth di esprimersi nuovamente in futuro su questi livelli, quando potrebbero essere chiamati a dover comporre un’opera il cui significato non vada, come in questo caso, oltre quello prettamente musicale, anche se mi sento di scommettere sul fatto che Maria continuerà a lungo e con gli stessi esiti a fungere da Musa ispiratrice della band.
Tracklist:
1. Athanati
2. Archos
3. Pan
4. Born in Sin
5. In the Name of Love (Sacrifice)
6. Alles in Black
7. Hell (Is a Place on Earth)
8. Emptiness
9. Tristessa
10. I (Dead Inside)
Line-up:
Panthimis – Bass
Setesh – Guitars
Vaelor – Guitars
Nicolas Sic Maiis – Vocals
La musica dei Dephosphorus accoglie gran parte dei generi di cui si compone il lato più violento del metal e lo scaglia nello spazio perfettamente assemblato in un sound siderale, mistico ed affascinante, rendendo l’ascolto un’esperienza da vivere, specialmente se siete amanti dei suoni estremi dal taglio grind.
Dallo spazio profondo tornano i greci Dephosphorus, entità aliena della scena grind europea.
Una carriera iniziata dieci anni fa ha portato il gruppo fino ad oggi, con tre album pubblicati ed una manciata di split ed ep a continuare un discorso musicale che, partendo da una base grindcore, immette nello spazio cosmico un sound formato da death, black metal e hardcore, ovvero un caos lucido e micidiale, freddo come il buio nel profondo dell’universo, risvegliato dallo scream urlante del vocalist Panos Agoros. Impossible Orbits risulta così un navigare senza meta nello spazio astrale, mentre il silenzio è rotto dall’opener Above The Threshold e dal black metal che si insinua come un virus extraterrestre di The Light Of Ancient Mistakes.
Metal estremo che ha la sua forza nell’originalità non solo concettuale, la musica dei Dephosphorus accoglie gran parte dei generi di cui si compone il lato più violento del metal e lo scaglia nello spazio perfettamente assemblato in un sound siderale, mistico ed affascinante, rendendo l’ascolto un’esperienza da vivere, specialmente se siete amanti dei suoni estremi dal taglio grind.
Tracklist
1.Above the Threshold
2.Micro-Aeons of Torment
3.Rational Reappraisal
4.Αστερόσκονη (Asteroskoni)
5.Impossible Orbits
6.Imagination Is Future History
7.The Light of Ancient Mistakes
8.Suspended in a Void Universe
9.Blessed in a Hail
Cranial Obsession, se riferito a questa particolare interpretazione del death doom, è una delle cose migliori ascoltate ultimamente, nonostante le uscite di qualità nel settore non manchino di certo, e questo la dice lunga sul valore intrinseco dell’album e di chi l’ha concepito.
I giapponesi Anatomia sono in circolazione ormai da oltre quindici anni e, anche se Cranial Obsession è solo il loro terzo full length, hanno una discografia disseminata di split album che ne testimoniano un’incessante e non solo quantitativa attività.
Cranial Obsession dovrebbe riconciliare chiunque con il death doom, non quello melodico e intriso di malinconia tipico del vecchio continente, bensì con quello più aspro e diretto proveniente dall’altra parte dell’oceano: il malefico terzetto nipponico ci costringe ad un headbanging furioso con brani killer come Morbid Hallucination. per poi subito dopo rallentare i ritmi fino all’asfissia con Excarnated.
Se vogliamo, in questi quindici minuti centrali dell’album risiede la chiave di lettura dell’operato degli Anatomia, i quali, da una matrice death nel solco degli Autopsy, spaziano a loro piacimento in universo doom mai così distorto, cupo, ossessivo e poco rassicurante: tutto quanto viene fatto con una cura tipicamente giapponese senza che per questo la ruvidezza e la sporcizia ne risultino attenuate a livello d’impatto sonoro.
Il sound dei nostri è istintivamente malsano, ma possiede una misteriosa capacità di avvolgere l’ascoltatore nelle proprie minacciose spire fino a renderne vana ogni possibile difesa: se Vanishment e Uncanny Descension sono l’equivalente di una navigazione a vista piena di mortali insidie , Absymal Decay descrive un’idea di funeral doom priva di spazio per recriminazioni o atti misericordiosi, mentre la dronica e sperimentale Recurrence ci anticipa il pianto e lo stridore di denti che attende tutti, si spera il più tardi possibile. Cranial Obsession, se riferito a questa particolare interpretazione del death doom, è una delle cose migliori ascoltate ultimamente, nonostante le uscite di qualità nel settore non manchino di certo, e questo la dice lunga sul valore intrinseco dell’album e di chi l’ha concepito.
Con i suoi tre quarti d’ora torturati da colpi di death metal vecchia scuola, Feeding Hell’s Furnace è consigliato ai fans del genere che ancora amano i vecchi e un po’ romantici nastri magnetici.
Altra ristampa licenziata dalla label francese Krucyator Productions questa volta dedicata ad un combo storico della scena death metal statunitense, i Drawn And Quartered.,
Il trio si forma a Seattle nel lontano 1993, diventando una band di culto nel panorama estremo con una serie di lavori di ispirazione old school e molto vicino al brutal.
Sei lavori sulla lunga distanza ed una manciata di opere minori sono l’eredità che i Drawn And Quartered hanno lasciato fino ad ora agli amanti del genere, questo brutale assalto estremo dal titolo Feeding Hell’s Furnace uscì cinque anni fa sotto l’ala dell’etichetta greca Nuclear Winter Records, ed ora è reso disponibile dalla label transalpina anche in musicassetta.
Con due bonus track come piccolo regalo per i fans tratte dall’ep Conquerors of Sodom del 2011 (la title track e Seed Of Insanity), Feeding Hell’s Furnace è ancora una volta pronto a brutalizzare i padiglioni auricolari dei deathsters dai gusti old school.
Il trio americano è una macchina da guerra, la tensione è altissima, l’oscurità regna sovrana e l’album non concede tregua tra furiosi blast beat, atmosfere maligne ed eterne cadute negli abissi più profondi dove regna il male.
Vecchie volpi del genere, i tre musicisti sanno come manipolare la materia, portando un attacco frontale che non conosce pause, di chiara scuola Bay Area tra Cannibal Corpse, Morbid Angel e Massacre.
Con i suoi tre quarti d’ora torturati da colpi di death metal vecchia scuola, Feeding Hell’s Furnace è consigliato ai fans del genere che ancora amano i vecchi e un po’ romantici nastri magnetici.
Tracklist
1. Stabwound Invocation
2. Feeding Hell’s Furnace
3. A World in Ashes
4. Mutilated Offerings
5. Lustmörder
6. Horde of Leviathan
7. Gravescape
8. Cryptic Consecrations
9. No Absolution
10. Conquerors of Sodom
11. Seed of Insanity
Line-up
Kelly Kuciemba – Guitars
Herb Burke – Bass, Vocals
Dario Derna – Drums
I canadesi Paroxsihzem tornano dall’inferno grazie alla Krucyator Productions che ristampa in formato musicassette il loro unico lavoro sulla lunga distanza in dieci anni di attività, uscito originariamente autoprodotto nel 2010, poi ristampato due anni dopo dalla Dark Descent Records e nel 2013 licenziato in vinile dalla Hellthrashers Productions.
La loro discografia viene completata da una manciata di lavori minori tra cui l’ultimo diabolico parto uscito lo scorso anno in formato ep, dal titolo Abyss Of Coiling Atrocities.
I Paroxsihzem sprigionano caos in musica, e il loro metal estremo, misantropico e marcio fino al midollo risulta davvero insostenibile se non si è avvezzi ai generi di cui sopra estremizzati da piaghe di disagio notevoli.
Questo album omonimo rispecchia la totale mancanza di speranza e luce, con la band avvolta nell’oscurità ed ispirata da filosofie diaboliche in un contesto di musica primordiale, pesantissima e senza compromessi: un macabro esempio di metal estremo senza soluzione di continuità, brutale ed oscuro che ne esce come una lunga litania estrema divisa in sette terribili e maligni capitoli.
Gli estimatori della band canadese, in attesa del prossimo capitolo dopo l’ep dello scorso anno, nel frattempo si possono gustare questa sofferenza in musica targata Krucyator Productions.
The Awakening stupisce ed esalta, dalla produzione al songwriting, dalla tecnica con cui è suonato fino all’atmosfera che rimane di tensione estrema dalla prima all’ultima nota.
I Wrath Sins sono una band portoghese attiva dall’inizio del decennio e messasi già in luce con il full length d’esordio Contempt over the Stormfall del 2015.
Il quartetto lusitano torna a deliziare gli ascoltatori con The Awakening, un album di nobile heavy metal che non rinuncia a mitragliate devastanti di thrash classico e di chiara ispirazione statunitense, valorizzato da aperture progressive ed atmosfere drammatiche in una tempesta di metallo incandescente.
Siamo nel mondo dei mostri sacri del genere, Testament, Exodus e primi Metallica, lasciati a familiarizzare con i Dream Theater quel tanto che basta per dar vita ad una sequela di brani di una potenza imbarazzante.
Se volete potete chiamarlo prog metal, ma di quello cattivissimo e ruvido come la schiena di un caimano affamato tanto da divorare tutto quello che incontra, lasciando pochi brandelli di carne ed ossa. The Awakening stupisce ed esalta, dalla produzione al songwriting, dalla tecnica con cui è suonato fino all’atmosfera che rimane di tensione estrema dalla prima all’ultima nota e che fa di brani come Collision, Shadows Kingdom e la title track delle autentiche bombe sonore dall’impatto di un’atomica.
Il quartetto si avvale di una padronanza strumentale di altissimo livello, ma che non va ad intaccare una forma canzone che, nella sua estrema natura, ha quasi del miracoloso; un album di una bellezza ed una forza che impressionano e quindi da custodire gelosamente tra i gioielli metallici di questi ultimi tempi.
Tracklist
1.Beneath Black Clouds
2.Unquiet Heart
3.Shadow’s Kingdom
4.Collision
5.The Sun Wields Mercy
6.Fear of the Unseen
7.Strepidant Mist
8.Between Deaths Line
9.The Awakening
10.Silence from Above
Line-up
Mike Silva – Vocals & Guitars
Rui Coutinho – Guitars
Ricardo Nora – Bass & Back Vocals
Diego Mascarenhas – Drums