Midnight Sin – Sex First

“Sex First” è un altro ottimo esempio di come l’hard rock dai suoni sleazy stia tornando a far danni.

Dopo la fine degli anni d’oro ottantiani, l’hard rock dall’impronta street e glam aveva perso appeal nel mercato discografico, sostituito dal successo mondiale del grunge e dei suoni alternative.

Relegato nel sottobosco dell’underground, il genere ha cominciato a risalire la china già da un pò di anni, grazie alle sferzate rock’n’roll provenienti dal nordeuropa, che non hanno lasciato indifferenti né i paesi a sud del vecchio continente né gli Stati Uniti. Vero è che molte delle band storiche votate ai suoni del Sunset Strip si sono lanciate in reunion più o meno riuscite, trascinando agli onori della cronaca anche le nuove leve. I Midnight Sin arrivano all’esordio sotto l’ala della Bakerteam con questo divertente Sex First, che percorre la strada già intrapresa da ottime band che sono balzate agli onori della cronaca negli ultimi tempi (Steel Panthers), con questo riuscito esempio di street/sleazy grintoso e dai riff metallici graffianti che faranno la gioia di chi ancora si diverte con l’hard rock da party, selvaggio e mai domo, e dall’attitudine dannatamente rock’n’roll. Suonato davvero bene dai cinque ragazzacci italiani, Sex First si rivela a tratti esaltante, grazie a songs che entrano in testa al primo ascolto e che ci costringono a trattenerci dal saltare come grilli tra le mura domestiche in piena trance da festa, totalmente sopraffatti dalla carica che la band immette in dosi massicce in brani come l’opener Midnight Revolution, squarciata da ottimi riff metallici e trascinante come un fiume in piena, ‘Till It’s All Gone Away, Rise And Yell e 2 Words, brani dall’impatto debordante e veri inni al rock’n’roll iper vitaminizzato. Non mancano momenti da lacrimucce, avvinghiati alla metal girl d’ordinanza, con le classiche ballad che stemperano il clima selvaggio dell’album e ci fanno riprendere fiato (You Piss Me Off e la conclusiva Sweet Pain). Sex First è un altro ottimo esempio di come il genere stia tornando a far danni, noi non possiamo che rallegrarci di ciò e premere per l’ennesima volta il tasto play del nostro lettore, rituffandoci nel party organizzato per noi dai Midnight Sin.

Tracklist:
1. Snake Eyes
2. Midnight Revolution
3. Feed Me With Lies
4. No Matter
5. ‘Till It’s All Gone Away
6. You Piss Me Off
7. Rise & Yell
8. Code: 69
9. 2 Words
10. Sweet Pain

Line-up:
Albert Fish – vocals
LeStar – lead guitar
Maurice Flee – rhythm guitar
Acey Guns – bass
Dany Rake – drums

MIDNIGHT SIN – Facebook

Oberon – Dream Awakening

Bard, con questo suo ritorno discografico, ottiene un risultato eccellente mettendo sul piatto una fluidità compositiva che gli consente di muoversi senza apparenti scossoni tra umori neofolk, punte di oscurità, passaggi di stampo progressive ed riferimenti cantautorali di nobile lignaggio.

Il secondo full-length del solo project Oberon arriva dopo ben tredici anni di silenzio, nel corso dei quali colui che ne è l’artefice, il norvegese Bard Oberon, è rimasto ai margini dell’ambiente pur continuando a comporre musica.

Molta di questa è confluita poi in Dream Awakening, il disco che, in fondo, costituisce la chiusura di un cerchio, giacché l’etichetta che lo licenzia è quella stessa Prophecy che, nel 1997, tra le prime produzioni immesse sul mercato, pubblicò proprio l’omonimo mini di Oberon. Diciamo subito che questo album è l’ennesimo centro da part di una label che, da anni, continua a proporre musica sempre contraddistinta da un incommensurabile valore artistico. Devo ammettere, senza particolari remore, che prima di oggi il nome Oberon mi era del tutto sconosciuto; ne deriva, quindi, che la valutazione di questo lavoro e le sensazioni scaturite dall’ascolto esulano inevitabilmente da qualsiasi raffronto con la produzione passata. Bard, con questo suo ritorno discografico, ottiene un risultato eccellente mettendo sul piatto una fluidità compositiva che gli consente di muoversi senza apparenti scossoni tra umori neofolk, punte di oscurità, passaggi di stampo progressive ed riferimenti cantautorali di nobile lignaggio. Una voce limpida ed evocativa conduce l’ascoltatore lungo un percorso disseminato di momenti incantevoli, un qualcosa di avvicinabile alla purezza dell’acqua che sgorga da una fonte; caratteristica, questa, che non viene meno neppure quando i suoni si irrobustiscono, ma che semmai viene ulteriormente esaltata dal gioco di luci ed ombre. Empty And Marvelous inaugura questo magnifico album con umori folk, soppiantati dal successivo brano capolavoro Escape nel quale, a tratti, viene evocato nientemeno che Jeff Buckley e, tutto sommato, il mai abbastanza compianto singer statunitense può costituire un valido punto di riferimento per capire meglio ciò di cui è capace Bard in Dream Awakening. Certo, la voce del musicista norvegese, pur pregevole, non è comparabile con quella di Jeff, ma la sensibilità compositiva e la capacità di tratteggiare brani dell’enorme impatto emotivo non sono affatto da meno. Anche quando è il folk ad impadronirsi del songwriting il risultato merita il nostro plauso, ma è certo che gli episodi che restano più impressi sono quelli in cui vengono messe in evidenza sia una più spiccata anima melodica (Flight Of Aeons), sia un’impronta di stampo prog/rock (I Can Touch The Sun With My Heart ). Le atmosfere sottilmente inquietanti di Machines sono la penultima perla di un lavoro che regala in chiusura un altro brano splendido (Age Of The Moon) nel quale la chitarra elettrica si ritaglia un ultimo spazio all’interno di suoni che, se trasposti visivamente, assumerebbero delicati color pastello. Oberon è stata un autentica folgorazione con la scoperta di un musicista rimasto per anni in una sorta di oblio: questo è un altro buon motivo, tra i tanti, per il quale nessuno dovrebbe mai ritenersi appagato di ciò che ha ascoltato in passato. Per chi come me , si è innamorato a prima vista di questa eccellente entità musicale, sarà cosa gradita sapere che la Prophecy ha programmato anche la ristampa dell’intera produzione targata Oberon, una buona occasione per approfondire la conoscenza e magari scovare altre gemme dimenticate composte dall’ottimo Bard.

Tracklist:
01. Empty And Marvelous
02. Escape
03. In Dreams We Never Die
04. Dark World
05. Flight Of Aeons
06. Dream Awakening
07. I Can Touch The Sun With My Heart
08. Phoenix 09. Secret Flyer
10. Machines That Dream
11. Age Of The Moon

OBERON – Facebook

L’Ira Del Baccano – Terra 42

Un grande disco, pieno di prati e pianeti dove riposare il nostro stanco cervello e poter riscoprire una nuova Terra, che potrebbe essere proprio la 42.

Movimento cerebrale continuo per una band che dà il meglio nelle jam sessions.
L’Ira Del Baccano è semplicemente uno dei migliori gruppi italiani nell’ambito psych rock: le loro canzoni sono lunghi viaggi, riproduzioni di tessuti multimolecolari di note, sequenze di un dna musicale che parte dai Grateful Dead ed atterra negli Hawkwind, passando per la mutazione dei Black Sabbath.

Nati come Loosin’ O’ Frequencies da Alessandro “Drughito” Santori e Roberto Malerba, i nostri incidono un mini cd prodotto da un certo Paul Chain (che, se andiamo a ben vedere, ha influenzato gli ultimi venti anni di musica underground italiana ) e, nel 2006, si trasformano in un gruppo strumentale cambiando nome in L’Ira Del Baccano.
Nell’estate del 2008 il gruppo pubblica il primo album “Si Non Sedes Is … Live”, una jam dal vivo di 56 minuti che impressiona davvero molto. Il disco è in free download sul loro sito e rende benissimo l’idea di cosa sia questa band.
L’Ira Del Baccano è continuo movimento, un tendere alla spiritualizzazione della musica, un viaggio psicotonico; si potrebbe dire che fanno psych prog poiché, sebbene partano dalla cultura della jam session, i ragazzi inseriscono intarsi di prog davvero notevoli.
Terra 42 al momento è questo, ma potrebbe presto mutare cambiando forma, e dovrete essere voi a completare il processo all’interno della vostra testa.
Un disco che non annoia mai, anzi è da sentire e risentire più volte, come quando si notano particolari nuovi e mai notati prima nella strada che fate per tornare a casa, una continua scoperta, un viaggio che apre la mente verso una nuova direzione.
Ci sono movimenti come The Infinite Improbability Dive, di 33 minuti, ispirato a “Guida Galattica Per Autostoppisti” di Douglas Adams, che è davvero un infinito viaggio galattico; in mezzo troviamo Sussurri Nel Bosco Di Diana, il pezzo più prog e suadente del disco, che si muove nella seconda parte dopo una prima di placida fermezza.
Chiude questa opera psicoattiva Volcano, quattordici minuti e rotti di fratture, ricomposizioni e nuove proliferazioni.
Un grande disco, pieno di prati e pianeti dove riposare il nostro stanco cervello e poter riscoprire una nuova Terra, che potrebbe essere proprio la 42.
Ancora per favore.

Tracklist:
1 The Infinite Improbability Drive Part 1
2 The Infinite Improbability Drive Part 2 & 3
3 Sussurri… nel Bosco Di Diana Part 1 & 2
4 Volcano X 13

Line-up:
Alessandro “Drughito” Santori – Chitarra e Baccano
Roberto Malerba – Chitarra e Synth
Sandro “Fred” Salvi – Batteria
Luca Primo – Basso

L’IRA DEL BACCANO – Faceboook

Rival Sons – Great Western Valkyrie

Quarto album e ancora grande hard rock settantiano per i Rival Sons.

Che l’hard rock di matrice settantiana sia tornato alla ribalta nel panorama internazionale da un po’ di anni è cosa nota, le band che riesumano con abilità il sound che fece la fortuna di Led Zeppelin, The Doors e Deep Purple, tanto per fare tre nomi a “caso”, sono tante e di ottima qualità: tra queste ci sono i californiani Rival Sons, giunti con questo Great Western Valkyrie al quarto disco in studio, dopo l’esordio del 2009 “Before The Fire”, il primo per la Earache del 2011 “Pressure And Time”, ed il bellissimo predecessore “Head Down” del 2012, intervallati da un EP del 2011 autointitolato.

Intanto il nuovo album porta un paio novità, la presenza del bassista Dave Beste e l’aiutino alle tastiere di Ikey Owens, già The Mars Volta e session per Jack White, e conferma i Rival Sons come una delle più talentuose band della nuova generazione, con una compilation di brani irresistibili, un inchino davanti all’altare del dio del rock che aveva i maggiori e più affezionati discepoli nel decennio settanti ano: spettacolari atmosfere hard rock colme di groove ed accenni blues, un Hammond che a tratti diventa protagonista come poteva esserlo quello del grande Jon Lord e momenti di calda poesia musicale presa dai migliori spartiti della band di Jim Morrison, un susseguirsi di riff direttamente da casa Page e la caldissima voce di Buchanan a rinverdire i fasti dei grandi singer del passato, con una prova mai così efficace su dei brani splendidi.
Electric Man e Good Luck invitano l’ascoltatore ad un giro sulla giostra dei Rival Sons, un ottovolante di suoni freak, un caleidoscopio di colori e vibrazioni direttamente dall’universo hard blues ai quali è impossibile resistere; Secret non è da meno, chitarra e Hammond accompagnano il vocalist mai così “plantiano”, mentre i brani si susseguono uno più bello dell’altro e sembra che questa libidine non abbia mai fine: Play the Fool, la bellissima Good Things che sembra uscita da un film di Quentin Tarantino, con il suo andamento da danza con un serpente albino (chi si ricorda la danza vampirica della stupenda Salma Hayek di “Dal tramonto all’alba”?).
Ancora la doorsiana Rich and Poor, la emozionale ballad dal sapore blues Where I’ve Been e la conclusiva Destination on Course, suite zeppeliniana dove chitarra psichedeliche incrociano cori dai rimandi gospel, in una jam acida d’antologia.
Grande band e grandissimo disco, l’hard blues nel 2014 passa assolutamente da band come i Rival Sons, non certo da raccolte o remasters di dinosauri di cui si conosce la discografia nei dettagli.
Album bellissimo da avere, punto.

Tracklist:
01. Electric Man
02. Good Luck
03. Secret
04. Play The Fool
05. Good Things
06. Open My Eyes
07. Rich and the Poor
08. Belle Starr
09. Where I’ve Been
10. Destination on Course

Line-up:
Jay Buchanan – Vocals
Scott Holiday – Guitars
Michael Miley – Drums
Dave Beste – Bass

RIVAL SONS – Facebook

Kal-El – Pakal

Stoner Rock classico e fumoso in arrivo dalla Norvegia

Stoner Rock classico e fumoso in arrivo dalla Norvegia. Dalla città di Stavanger arriva questo rumoroso combo norvegese che ci propone uno stoner rock in rigoroso stile Kyuss, Monster Magnet e Slo Burn.

Niente di nuovo ed eccezionale, ma sicuramente un buon album, che dà una certa carica. Ormai raramente capita di ascoltare un album di stoner bene fatto e suonato decentemente. I Kal – El sono al di sopra della media e si sente. Infatti questa è la prima uscita stoner della WormHoleDeath, etichetta che ha finora spaziato nei territori metal. Per tutta la durata del disco lo spirito del rock è tangibile, i ragazzi hanno passione e stile, e non sono per nulla presuntuosi ma, anzi, lavorano molto di olio di gomito. Forse la loro non più verdissima età li rende molto più maturi e consapevoli rispetto ad altre band più giovani. Lo stoner c’è, ed è anche un album divertente.

Tracklist:
1 Falling Stone
2 Upper Hand
3 Spaceman
4 Solar Windsurf
5 Quasar
6 Qp9
7 Fire Machine
8 Black Hole

Line-up:
Ulven – Voce
Roffe – Chitarra
Liz – Basso
Bjudas – Batteria

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Dogmate – Hate

Tutto da ascoltare il debutto dei romani Dogmate, un metal/stoner colmo di groove dall’ottimo impatto.

L’etichetta romana Agoge Records licenzia il debutto dei suoi concittadini Dogmate, band che strappa applausi a scena aperta con questo fottutissimo Hate, lavoro che sprizza groove da tutti i pori, con una riuscitissima amalgama di suoni stoner e grunge violentati da mazzate al limite del thrash; metallico il giusto per piacere non solo a chi è più orientato a suoni hard rock “alternativi”, l’album consta di dieci brani dal tiro pazzesco, suonati con un piglio da band navigata dai quattro musicisti.

I Dogmate nascono nel 2012 e ne fanno parte Ivan Perres (Ivn) alla batteria, che con l’aiuto di Roberto Fasciani (Jeff) al basso compone una sezione ritmica potentissima, Stefano Nuccetelli (Sk)che, alla sei corde, dichiara guerra con un chitarrismo che passa inesorabilmente molto vicino all’approccio degli axeman statunitensi del genere (Zakk Wylde ma anche il compianto Dimebag Darrell) ed il vocalist Massimiliano Curto (Mad Curtis), interprete doc per la musica della band con la sua tonalità sporca, a metà strada tra il citato Zakk e Pepper Keenan, ex-Corrosion of Conformity.
Si comincia con Buried Alive ed il gruppo ci va giù pesante, la sezione ritmica tiene il passo con bordate stoner belle grasse che si accentuano nei brani dove il sound si velocizza, strizzando l’occhio al metal panterizzato (Inflated Psychotic). Nel corso dell’album sono molteplici le band alle quali i Dogmate fanno riferimento, ma rimane a mio parere (e qui sta il bello) ad aleggiare su Hate il fantasma dei Corrosion of Conformity, sia quelli più hardcore degli esordi (“Technocracy”), sia nella veste alternativa del capolavoro “Blind”, per arrivare infine allo stoner da “Deliverance” ai giorni nostri; in più i nostri aggiungono riff panteriani ed elementi pescati dalla musica di Seattle per un risultato che a tratti ho trovato esaltante.
In questo esordio i Dogmate risultano una band compatta, i loro brani che non lasciano respiro ed affondano il colpo ad ogni passaggio e nella loro totalità spiccano la bellissime Witness of the Shamelessness, Hunter’s Mind, Mesmerizing Truth e la ballad conclusiva Black Swan, nella quale il vocalist lascia le consuete tonalità per avvicinarsi al Chris Cornell solista dell’intimista e maturo “Song Book”.
Disco da avere e da ascoltare, ennesima prova che ormai la differenza tra le nostre band underground e quelle del sogno americano si è ridotta al minimo.

Track list.
1. Buried Alive
2. Inflated Psychotic
3. Witness of the Shamelessness
4. Stripped & Cold
5. Dark in the Eyes
6. Me-Stakes
7. Hunter’s Mind
8. Mesmerizing Truth
9. World War III
10. Black Swan

Line-up:
Massimiliano “Mad Curtis” Curto – Voce
Stefano “Sk” Nuccetelli – Chitarra
Roberto “Jeff” Fasciani – Basso
Ivan “Ivn” Perres – Batteria

DOGMATE – Facebook

Hangarvain – Best Ride Horse

Esordio bomba per i napoletani Hangarvain con il loro Best Ride Horse, hard rock zeppo di influenze southern e post grunge.

Comincio ad avere un’età, e botte di vita come questo disco lasciano il segno su un vecchio sognatore metal/rocker come me che, per non farsi mancare nulla, deve anche spiegare le sensazioni provate nell’ascoltare una decina di canzoni che ti entrano nelle vene e cominciano a circolare nell’organismo: la pressione si alza, le tempie sembrano esplodere ed è quasi impossibile rimanere seduti e insomma, tutto questo quando non si è più dei ragazzini può anche far male …

La Red Cat immette sul mercato questa bomba sonora dei napoletani Hangarvain, dal titolo Best Ride Horse, dieci brani nei quali  l’hard rock americano ricamato di fantastiche sfumature southern ed il post grunge si incontrano e, amoreggiando, danno alla luce una creatura perfetta, una raccolta di hit da infilare nell’autoradio del vostro “cinquefette” (beh siamo in Italia, non scordiamolo) e partire liberi, dalla Valtellina alla Sicilia, trasformando le vie della nostra penisola nelle infinite super strade americane. Sergio Toledo Mosca è il fantastico cantore di tanta meraviglia, voce dal tiro micidiale che diventa malinconicamente southern nelle splendide ballad che profumano di Lynyrd Skynyrd, strappando più di una lacrima al vecchio di cui sopra. Alessandro Liccardo, alla sei corde, è invece colpevole di far saltare le coronarie a suon di riff su riff stracolmi di groove, per poi tornare ad imbastire accordi acustici al limite del roots; Alessandro Stellano al basso e Andrea Stipa alle pelli sono la gettata di cemento su cui è costruito il sound degli Hangarvain, una sezione ritmica tostissima, piena, sempre presente e aiutata da una produzione da top band ad opera dello sesso chitarrista. Dai primi due pezzi (Through the space and time e Get on) si intuisce subito che l’album non farà prigionieri, con due bordate hard rock trasudanti groove, con quel quid post grunge (su tutti i Creed) che piacerà anche ai più giovani, ma a mio parere sono le ballad a fare la differenza e la prima di queste è già un capolavoro (Turning back on my way). Free bird e Knock back doors tornano su ritmi sostenuti ma più vicini alla frontiera americana, mentre Way to salvation è l’ennesima buona ballad; Hesitation sorprende per l’uso della doppia voce, una creediana e l’altra che sembra provenire direttamente dai primi anni settanta, prima che Father to shoes ci avvolga nel più confortevole spirito southern: un brano capolavoro con inizio acustico e la chitarra che prende per mano il pezzo con riff da applausi a scena aperta. Last time e la conclusiva A life for Rock’n’roll mettono la parola fine a un disco di assoluta eccellenza, da far ascoltare e riascoltare a chi ci chiede perché amiamo tanto il rock: Best Ride Horse è la migliore risposta.

Tracklist:
1.Through the space and time
2.Get on
3.Turning back on my way
4.Free bird 5.Knock back doors
6.Way to salvation
7.Hesitation
8.Father shoes
9.Last time
10.A life for rock’n’roll

Line-up:
Sergio Toledo Mosca – Vocals
Alessandro Liccardo – Guitars,Backing Vocals
Alessandro Stellano – Bass, Backing Vocals
Andrea Stipa – Drums

The Sunburst – Tear Off The Darkness

Gran bel disco l’esordio dei savonesi The Sunburst, il meglio dell’ultimo ventennio di hard rock alternativo tutto in un unico album.

Questo è il classico album che, se registrato da una band americana, farebbe sfracelli occupando anche le copertine della stampa specializzata, quella con le copertine lucide e le recensioni da tre righe, ma, purtroppo per loro, i The Sunburst sono liguri (Savona) e allora, pur avendo concepito un gran disco d’esordio, sono destinati a lottare e non mollare mai.

Il loro Tear Off The Darkness è un album di hard rock alternativo nel quale le influenze del passato si sentono chiaramente pur risultando un disco moderno, fresco, suonato benissimo, cantato ancora meglio, che non ha (appunto) nulla da invidiare ai pur ottimi prodotti che giungono dagli States. Curiosi? Bene, allora fare un passo indietro è doveroso per conoscerli meglio: la band nasce nel 2012 da un idea della coppia Davide Crisafulli (cantante e chitarra ritmica) e Luca Pileri (chitarra solista), ai qiuali si aggiunge la sezione ritmica composta da Stefano Ravera alla batteria e, in questo 2014, Francesco Glielmi al basso. In quello stesso anno, con la prima line-up, registrano un Ep ai Nadir Studios di Tommy Talamanca ottenendo recensioni positive, facendo diverse date dal vivo e, dopo uno stop di qualche mese, i The Sunburst riprendono la strada che porta a Tear Off The Darkness. L’inizio dell’album è da ovazione, con Follow Me che riempie la stanza con un riff corposo ed un ritornello cantabile già al primo ascolto, talmente è bello e memorizzabile; scopriamo così che alla band piace andare giù pesante, grazie ad assoli melodici e accelerazioni ritmiche non così distanti dal metal, con Davide che si conferma un signor cantante: la sua voce bella e carismatica affascina e rapisce, e siamo solo alla prima traccia. Infatti arrivano Something Real e la stupenda The Flow, dal riffone alla Black Label Society a farci ormai innamorare di questo bellissimo lavoro; si continua a viaggiare su territori di eccellenza con Be Yourself, con le chitarre ora all’unisono, ora con parti soliste melodiche ad ergersi a protagoniste del brano, altro potenziale singolo, così come Left Behind. Gli Alter Bridge sono forse il riferimento che ad un primo ascolto più di altri escono maggiormente allo scoperto, soprattutto a mio parere l’uso della voce di Davide, dallo stile più metallico come accade nella band americana, ma è un po’ tutta la scena degli ultimi vent’anni ad essere assimilata dai nostri. Louder Than Love, il disco più bello dei Soundgarden, è tutto nel riff di Rising, conclusiva e stupenda song che inizia come e meglio di Hands All Over, picco di quel magnifico lavoro, per poi virare su umori più personali con un rallentamento a metà brano ed una sfuriata conclusiva con la quale tutta la band si congeda alla grande. Prodotto benissimo, l’album è stato registrato ai Greenfog Studios di Mattia Cominotto a Genova per poi essere masterizzato e mixato ad Imperia negli Ithil World Studios da Giovanni Nebbia. Mai avuto dubbi sulle qualità delle nostre band quando si tratta di rock alternativo ma un lavoro come questo, assieme a quello degli Swallow My Pride recensito ultimamente, dimostrano ancora una volta che in Italia ci sono tutte le potenzialità per giocarsela alla pari con il resto del panorama musicale internazionale, basta volerlo e supportare una scena che lo merita.

Tracklist:
1.Follow me
2.Something real
3.The flow
4.Be yourself
5.Left behind
6.Unforgiven
7.Another day
8.Rising

Line-up:
Davide Crisafulli – Voce,Chitarra ritmica
Luca Pileri – Chitarra solista
Stefano Ravera – Batteria
Francesco Glielmi – Basso

THE SUNBURST – Facebook

Whiskey Myers – Early Morning Shakes

Terzo Album per una delle migliori realtà southern rock del nuovo millennio.

I Whiskey Myers, insieme ai Blackberry Smoke, sono sicuramente le due band dell’ultima generazione che più di altre stanno portando, nel nuovo millennio, i suoni e le atmosfere dei grandi che hanno fatto la storia del rock sudista, ricreando quel po’ di meritato interesse anche fuori dagli States, dove il genere non ha mai perso la propria popolarità, essendo una sorta di dottrina per l’americano della provincia.

Il gruppo texano, a sei anni dall’esordio “Road of Life”, complice il bellissimo secondo album “Firewater” di tre anni fa, è riuscito a crescere vertiginosamente in popolarità,trovandosi così in poco tempo a calcare i palchi dei festival più prestigiosi insieme alle band che del genere sono considerate le istituzioni. Capitanati dal vocalist e chitarrista Cody Cannon, personaggio dallo smisurato carisma, il gruppo arriva al terzo full-length con la consapevolezza di essere ormai una delle top band del southern sfornando un lavoro dal songwriting magnifico, pregno di hard rock, suoni roots e blues alcolico. Early Morning Shakes, a differenza del suo predecessore, mette in secondo piano l’approccio country per suoni più taglienti, le chitarre risultano graffianti il giusto per far risaltare il suono zeppeliniano, sempre presente nella band ma mai così in risalto: ne è la prova Hard Row To Hoe, dove il riff è uno stupendo copia/incolla di “Heartbraker” degli Zep. Cody Cannon conferma di essere perfetto cantore del suono americano, sia quando il sound si fa più duro, sia quando le atmosfere si rilassano e i Whiskey Myers ci emozionano con ballad nelle quali il country rock fa la sua comparsa e dove il blues prende il sopravvento, portandoci in viaggio verso territori musicali vicino ai Black Crowes dei fratelli Robinson. Cody Tate e John Jeffers sono una coppia di chitarristi eccezionali, capaci di ricamare i brani di ritmiche e solos affascinanti, ma anche di graffiare il giusto con personalità, facendo risultare il suono dei Whiskey Myers riconoscibile al primo ascolto. Così risulta piacevole abbandonarsi al suono americano di brani come Dogwood, Home, Reckoning, Lightning, Need A Little Time Off For Bad Behaviour senza per questo sminuire le altre song che compongono il lavoro entusiasmante di questa grande band, praticamente il meglio che oggi il southern rock possa regalare.

Tracklist:
01.Early Morning Shakes
02.Hard Row to Hoe
03.Dogwood
04.Shelter from the Rain
05.Home
06.Headstone
07.Where the Sun Don’t Shine
08.Reckoning
09.Wild Baby Shake Me
10.Lightning
11.Need a Little Time Off for Bad Behavior
12.Colloquy

Line-up:
Cody Cannon –Lead Vocals, Acoustic Guitars
Cody Tate – Lead Guitars, Vocals, Rhythm Guitars
John Jeffers – Rhythm Guitars
Gary Brown-Bass
Jeff Hogg-Drums

WHISKEY MYERS – Facebok

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Rhino – Rhino

La Sicilia si conferma, con l’esordio dei Rhino, terra di ottimi artisti e nuovo fulcro dello stoner tricolore.

One, two, three, four rock’n’roll … anzi stoner rock.

Dalla Sicilia, sotto gli influssi dei vapori vulcanici dell’Etna e non solo, arrivano a noi i Rhino con il loro stoner desertico e dai rimandi psichedelici, assuefatti da dosi massicce di Kyuss, Black Sabbath, Sleep e molto rock’n’roll. Jammano che è un piacere i ragazzi siciliani, la loro musica grezza e potente stordisce come un mega joint fumato nei pressi delle fauci di quel vulcano e ci sembrerà di essere inghiottiti dal cono di questo gigante neanche troppo addormentato. I quattro brani che formano questo EP di esordio regalano atmosfere legate allo stoner americano, con suoni impastati come da copione, riff settantiani e un’aura “tossica” che rende il tutto molto freak. A parte la bellissima Bing Bong Bubbles, la più psichedelica del lotto, con i suoi rimandi pinkfloydiani e vicina al capolavoro “Cloud Eye” di un’altra band siciliana come gli Elevators To The Grateful Sky, l’album è una lunga jam composta da tanto spirito rock’n’roll ipervitaminizzato da bombardate di hard rock acido, supportate da una sezione ritmica potente, composta da Marco “Franksquirt” al basso e Alfredo “Frankhobo” alla batteria, i quali non mollano un attimo il tiro ed accompagnano i deliri distorti delle due chitarre, in mano a Seby “Redfrank” e Francesco “Feliscatus”, quest’ultimo alle prese anche con il microfono. Spiral Target, Hiperviper e la grandiosa For My Pleausure, brano sopra le righe dove sono presenti rimandi al blues sporcato da iniezioni di Kyuss, Fu Manchu e Monster Magnet (praticamente il meglio dello stoner psichedelico a stelle e strisce), formano un tris di song che non fanno prigionieri, assottigliando sempre di più la linea che passa dalla Sicilia al deserto americano. Buon banco di prova questo demo per i Rhino, ora più che mai pronti al gran salto del full-length.

Tracklist:
1.Spiral Target
2.Hiperviper
3.Bing Bong Bubbles
4.For My Pleausure

Line-up:
Marco “Franksquirt” – Bass
Alfredo “Frankhobo” – Drums
Seby “Redfrank” – Guitars
Francesco “Feliscatus” – Guitars,Vocals

RHINO – Facebook

Tenebrae – Il Fuoco Segreto

Da sentire, risentire e sentire ancora, finchè la musica composta dai Tenebrae a supporto della storia tragica, ma illuminante, del protagonista Johann Georg, riuscirà a rapire la vostra anima senza che possiate opporre la minima resistenza.

Siete convinti di vivere in una nazione nella quale tutto va catastroficamente alla rovescia ? Pensate che ci deve essere qualche grosso equivoco alla base di una realtà che vede milioni di persone perbene faticare per sbarcare il lunario mentre le camere della repubblica sono affollate da pregiudicati e da plurindagati? Ebbene, l’ascolto di un disco come Il Fuoco Segreto  rafforzerà ulteriormente la vostra convinzione riguardo all’andamento delle cose in questo splendido quanto contraddittorio frammento di pianeta.

Non che i Tenebrae  si occupino di questioni sociali, intendiamoci, anzi, le tematiche trattate dalla band genovese si ispirano all’opera di un gigante della letteratura dello scorso millennio quale fu Goethe; il motivo che mi ha spinto ad introdurre in questa maniera il disco è l’amara constatazione di quanto la meritocrazia da queste parti si riveli, in qualsiasi campo, una pura utopia: al termine dell’ascolto di Il Fuoco Segreto  buona parte di voi, in particolare quelli che non conoscevano i Tenebrae, non potranno fare a meno di chiedersi come gli autori di un’espressione artistica di tale livello abbiano faticato persino a trovare una label desiderosa di promuoverli, prima del recente accordo raggiunto con la House Of Ashes.
Se non altro il buon Marco Arizzi, anima e unico superstite della formazione originaria, non si è mai perso d’animo in tutti questi anni, fatti di line-up rivoluzionate e mille altri problemi che avrebbero fatto desistere chiunque non fosse stato mosso dalla ferma convinzione d’avere ancora molto da dire (e da fare) in una scena musicale spesso afflitta da un’inspiegabile cecità.
Per certi versi, i Tenebrae sono probabilmente vittime della difficoltà di catalogarli in un genere ben definito (e non è un caso se lo stesso leader ama definirne lo stile “art rock”), essendo alla fine molto più spostati verso un ambito progressive nonostante i musicisti che ne fanno parte abbiano fondamentalmente un background metal; per quanto mi riguarda non ci sono dubbi di alcun tipo: Il Fuoco Segreto è un album progressive in tutto e per tutto, in grado di rivaleggiare dal punto di vista qualitativo con un altra perla partorita lo scorso anno dalla Superba, ovvero “Le Porte Del Domani” de La Maschera Di Cera.
Attenzione, però, pur partendo da posizioni contigue, le due band esplorano differenti versanti musicali proprio alla luce della diversa estrazione di ciascuno: se gli uni, quindi, rivolgono il loro sguardo principalmente verso l’epopea settantiana del prog italiano, andando addirittura a proporre un sequel di “Felona e Sorona”, gli altri vanno ad attingere al migliore rock nostrano (Litfiba, Timoria) senza omettere di conferire al tutto un’aura oscura attraverso frequenti incursioni nell’heavy metal, con tanto di voce in growl a rimarcare l’asprezza di tali momenti.
Le chiavi della riuscita del lavoro sono sostanzialmente due: l’indubbio talento compositivo di Marco Arizzi e la voce di Pablo Ferrarese, un cantante conosciuto in ambito locale anche per le sue performance vocali in una tribute band di Ozzy Osbourne, un ruolo per certi versi riduttivo se rapportato alla voce del “Madman” (sia detto con il dovuto rispetto), alla luce della versatilità esibita nell’interpretare, con la giusta dose di enfasi e teatralità, i profondi testi, rigorosamente in italiano e liberamente adattati dal “Faust” da Antonella Bruzzone.
Dopo essere stato folgorato dalla loro esibizione di supporto ai Secret Sphere lo scorso 29 marzo, Il Fuoco Segreto è entrato definitivamente in loop nel mio lettore e, anche grazie alla sua lunghezza non eccessiva, è possibile goderne ogni intenso attimo, a partire dalla intro Faust sino all’ultima nota di Limite, in un ininterrotto susseguirsi di emozioni in grado di toccare vette altissime nel capolavoro Margarete, un brano che, pur sapendo di attirarmi le ire o gli sberleffi di qualche purista del prog, mi azzardo a definire la “750.000 anni fa l’amore” del nuovo millennio, tale è la capacità di portare alla commozione l’ascoltatore grazie al perfetto connubio tra le dolenti note del pianoforte e la magnifica interpretazione di Ferrarese.
La verità è che non si ravvisa un solo momento di stanca in un disco per il quale, tutto sommato, la durata limitata si traduce nella sintesi perfetta grazie alla quale nessuna nota viene sprecata per diluire inutilmente un contenuto musicale che rasenta la perfezione.
Rock, prog e metal per una volta vanno a braccetto come pochi sono riusciti a fare nel recente passato, e i Tenebrae lo fanno per di più attingendo meritoriamente alla nostra tradizione musicale che rimane, questa sì, uno degli aspetti del paese di cui andare fieri.
Da sentire, risentire e sentire ancora, finchè la musica composta a supporto della storia tragica, ma illuminante, del protagonista Johann Georg, riuscirà a rapire la vostra anima senza che possiate opporre la minima resistenza.

Tracklist:
1. Faust
2. Luce nera
3. Mephisto
4. Perdizione
5. Fuoco segreto
6. Margarete
7. Occhi spezzati
8. Schegge di specchio
9. Limite

Line-up :
Marco “May” Arizzi – Chitarre
Francesco Mancuso – Tastiere
Alessandro Fanelli – Batteria
Pablo Ferrarese – Voce e Cori
Fabrizio Bisignano – Basso

TENEBRAE – Facebook

Killers Lodge – Unnecessary I

La tensione resta alta per tutto il disco, poco più di mezzora di rock sparato da un cannone direttamente nelle nostre orecchie, che diverte senza essere ruffiano, suonato alla grande da musicisti esperti e che danno l’impressione di divertirsi a loro volta.

Ancora una grande band si affaccia sulla scena metal italiana, questa volta nella mia amata Genova: il suo nome è Killers Lodge ed è formata da tre musicisti molto conosciuti nel circuito estremo della nostra penisola e non solo.

Infatti, fanno parte del progetto John KillerBob, basso, voce e factotum del combo, con trascorsi nei Cadaveria, Raza De Odio, Dynabyte e Necrodeath, Christo Machete, batteria, con alle spalle collaborazioni illustri del calibro, tra gli altri di Cadaveria, Tiranti, Mastercastle, Raza De Odio e Zorn, e il chitarrista Olly Razorback il quale è stato impegnato con la sua chitarra con Sadist, Metal Gang, Raza De Odio, Nerve e Cadaveria.
L’idea di fondare una nuova band parte da KillerBob e Machete dopo lo scioglimento dei Raza De Odio e, solo in seguito, si unisce al duo Olly Razorback; così la band si chiude in studio per uscirne con un lavoro di rock’n’roll sanguigno, dall’impronta Motorhead, composto da dieci brani che spaccano.
Cosa da non trascurare, il disco è stato realizzato in toto dal gruppo, senza aiuti esterni, incluso mixaggio e produzione, ed il risultato soddisfa sotto tutti i punti di vista: il suono risulta sporco, come il genere insegna, ma soprattutto è sorprendentemente live, senza aggiustamenti di sorta, tanto che vi sembrerà davvero di essere sotto il palco.
Dicevo Motorhead, ma ho riscontrato anche quell’attitudine cara a certe band rock’n’roll scandinave, quelle non piegate al music business, tipo Hellacopters e Turbonegro, ed un approccio punk che rende questo lavoro fuori da schemi predefiniti, tornando a quello per cui questo genere è nato: divertimento, sudore e tantissima passione.
La tensione resta alta per tutto il disco, poco più di mezzora di rock sparato da un cannone direttamente nelle nostre orecchie, che diverte senza essere ruffiano, suonato alla grande da musicisti esperti e che danno l’impressione di divertirsi a loro volta.
Le canzoni sono tutte notevoli, ma Like A Rock, che sprigiona Motorhead da tutti i pori, The Grudge, a metà tra Hellacopters e Sex Pistols, con un giro di basso irresistibile, New Life, la mia preferita ed anche la più metal del lotto, Land Of Doom, dove la band va due volte più veloce della band di Lemmy, e Bow And Scrape, sono quelle che mi hanno più impressionato per freschezza compositiva, bravura strumentale e sagacia nel saper manipolare la materia rock’n’roll risultando comunque originali.
Primo disco del nuovo anno e primo botto, e se il buongiorno si vede dal mattino …

Tracklist:
1.Cosmos
2.Like A Rock
3.The Grudge
4.Inefficiency
5.New Life
6.Who We Are
7.Land Of Doom
8.Ship Of Fools
9.Bow And Scrape
10.The Glory Of The Pillory

John KillerBob – bass,vocals
Christo Machete – drums
Olly Razorback – guitars

KILLERS LODGE – facebook

OvO – Abisso

Abisso. Suoni neri, demoni africani, extra normalità, infelice pungiglione di uno scorpione che uccide piangendo, grida dall’abisso.

Tornano a risvegliare ciò che deve stare sopito Bruno Dorella e Stefania Pedretti, per tutti gli OvO.

Questo disco è un abisso, uno sprofondare a volte cosciente a volte no in territori di soffici incubi, accompagnati dalla saggezza sperimentale ed avanguardistica di questo demoniaco duo.
Il quid di questo disco è però l’africanità, molto presente nel ritmo. Africa di terrore, di notti buie nella savana, di cacce a uomini ed animali. In questa incessante ed incombente opera non sono soli, sono solidali e complici Rico Gamodi dei Uochi Toki, Alan Dubin dei Khanate, Carla Bozulich e i suoi Evangelista, e nella fase di registrazione e missaggio c’è stato l’aiuto di Giulio Favero. Questo disco è stato ispirato sia da “Alchimia & Mistica” di Alexander Robb nella splendida edizione della Taschen, sia dall’Eneide (i capolavori classici sono esenti da virgolette) e dai racconti di E. A. Poe.
Ma l’intensità e la ferocia è tutta degli OvO. Tredici anni di carriera correndo sempre in avanti, cercando nuove soluzioni, trovando vecchi incubi. OvO è sempre stato un progetto interessante e fuori da qualsiasi schema, anche di quello del circuito alternativo. Abisso segna un cambiamento introdotto dall’uso di campioni, batterie elettroniche, registrazioni ambientali e sintetizzatori, alzando l’asticella.
Dopo l’ultimo lembo di estremo, gli OvO.

Tracklist:
1 Harmonia Microcosmica
2 Tokoloshi
3 I Cannibali
4 A Dream Within A Dream
5 Harmonia Macrocosmica
6 Aeneis
7 Abisso
8 Pandemonio
9 Ab Uno
10 Fly Little Demon

Line- up:
Bruno Dorella : batteria e tanto altro.
Stefania Pedretti : chitarra e tantissimo altro.

From Oceans To Autumn – A Perfect Dawn

Grande band di post rock, ma quante emozioni sono escluse da questa fredda, seppur esaustiva, definizione ?

Ascoltando i From Oceans To Autumn se ne provano molte di emozioni, con un post rock o diversamente rock alla maniera degli Isis e dei Rosetta, suonato con vigore, potenza e melodia.

Non si può rimanere indifferenti a questa musica, a questa ricerca della bellezza sonora, e ve n’è davvero bisogno di bellezza in questo putridume di mondo. A Perfect Dawn porta molto lontani, laddove l’aria è più rarefatta e il nostro stanco corpo è più leggero, più permeato di anima. Il nome del gruppo è riferito alla città di Charlotte nel North Carolina, dove si passa dall’oceano alle montagne in breve tempo. In questo spazio compreso tra mare e terra, c’è posto per un grande post rock che si fonde con l’ambient. La produzione rende al meglio la potenza dei From Oceans To Autumn, senza far cmai perdere la loro capacità di emozionare. Se il vostro cuore e il vostro cervello ancora si struggono per la musica, questo disco vi darà grandi gioie. Il cd è anche la terza uscita targata Argonauta Records, la prima che non sia dei Varego, il cui il chitarrista Gero è l’anima dell’etichetta. E come prima uscita è davvero notevole e da tenere d’occhio assolutamente. L’album uscirà l’11 novembre.

Tracklist :
1 Aurora
2 Zenith
3 Eos
4 Halo
5 Visible light
6 Legend
7 Split Sky
8 The Absolute
9 The illusion of a Moving Sun
10 Faultless

Line-up:
Brandon
Eddie
Jodi
Allen

FROM OCEANS TO AUTUMN – Facebook

The Great Saunites – The Ivy

The Ivy merita di entrare a far parte della discografia degli ascoltatori dalle vedute più aperte.

Quando ogni tanto, nello smazzare il materiale che ci arriva, mi imbatto in un disco che esula dai generi che meglio conosco, il problema maggiore è quello di aver poco da raccontare e soprattutto d’essere sprovvisto di adeguati termini di paragone.

Per fortuna questo lavoro dei The Great Saunites non mi ha lasciato affatto spiazzato benché sia apparentemente lontano dalle forme di doom che costituiscono il mio habitat naturale: The Ivy mostra infatti, tra le proprie caratteristiche, un volto psichedelico che omaggia in maniera competente il sound pinkfloydiano dei primi anni ’70, senza però tralasciare diverse pulsioni derivanti dallo stoner più opprimente, oltre a una sviluppata componente noise.
La breve opener Cassandra è un’assaggio del delirio sonoro costituito dalla successiva Medjugorje, otto minuti in grado di stordire ed affascinare allo stesso tempo, grazie ai suoi ritmi ossessivi e lisergici; Bottles & Ornaments appare invece come una sorta di citazione del trittico “Alan’s Psychedelic Breakfast” che chiudeva il geniale (quanto ingiustamente sottostimato rispetto ad altri album più celebrati) “Atom Heart Mother”.
Ocean Raves regala qualche minuto di pace acustica prima che la scena venga occupata dalla lunghissima title –track, nella quale i The Great Saunites danno libero sfogo alla propria creatività amalgamando gli umori psichedelici con un sapiente utilizzo dell’elettronica; questi venti minuti sono emblematici dell’attitudine sperimentale e priva di alcuna linea di demarcazione dei due musicisti lombardi e, nonostante una durata indubbiamente impegnativa, la traccia scorre senza lasciare alcun sentore di noia.
Da segnalare, infine, che questo ep esce sotto l’egida di un pool di etichette (Bloody Sound Fucktory, Hypershape, HysM?, Il Verso del Cinghiale, Lemming, Neon Paralleli, Terracava, Villa Inferno) che si sono mosse per consentire a The Ivy di entrare meritoriamente a far parte della discografia degli ascoltatori dalle vedute più aperte.

Tracklist :
1.Cassandra
2.Medjugorje
3.Bottles & Ornaments
4.Ocean Raves
5.The Ivy

Line-up :
Leonard Kandur Layola (drums,effects,guitar,keyboards)
Atros (bass,keyboards,guitar,vocals)

THE GREAT SAUNITES – pagina Facebook

Xenosis – Of Chaos And Turmoil

Se da una parte è lecito apprezzare dischi che traggono la loro forza dall’integrità stilistica, dall’altra non si può fare a meno di lodare ed incoraggiare chi non si pone troppi limiti compositivi, provando ad abbattere i confini, spesso eretti in maniera artificiosa, tra i diversi generi musicali.

Notevole prova di forza da parte degli esordienti Xenosis, giovane band britannica in forza alla label nostrana Wormholedeath, tramite la proposta di un progressive death che tiene fede all’etichetta in virtù di continui cambi di tempo e di atmosfera nel corso di tutta la durata di Of Chaos And Turmoil, senza perdere mai di vista la componente estrema del sound.

La title-track e la successiva Building Seven, poste in apertura, delineano in maniera chiara quali siano le caratteristiche del combo della Cornovaglia: innumerevoli variazioni sul tema, quasi mai fine a se stesse, inserite in maniera appropriata all’interno di un tessuto sonoro costruito su un riffing violento ma cangiante e contrassegnato dall’ottimo growl di Ryan Denning, il quale si lascia andare di rado a passaggi puliti, per lo più recitati.
In diversi frangenti emergono alcune assonanze con il lato più aggressivo e sperimentale dei Mudvayne del terremotante disco d’esordio, per l’uso decisamente fuori dagli schemi consueti del basso e della base ritmica, oltre che per la timbrica vocale di Ryan talvolta molto simile a quella di Chad Gray; in altri momenti vengono esibite le naturali influenze provenienti sia dalla scuola death d’oltremanica, sia dalla componente più tecnica del genere, con i Death quale inevitabile punto di riferimento.
Si potrebbe pensare, quindi, che il tentativo di convogliare tutti questi aspetti abbia dato come frutto un prodotto difficilmente digeribile ma, per fortuna, non è così: i quattro dimostrano d’avere le idee molto chiare in ogni frangente, supportati da un tecnica individuale all’altezza del compito; la varietà stilistica diventa così un valore aggiunto, piuttosto che un ostacolo, nel favorire l’accessibilità di un disco solo apparentemente ostico.
Chiaramente, il rischio per i Xenosis è quello di risultare troppo cervellotici per gli appassionati del death più canonico e troppo brutali per chi ama le atmosfere più soffuse e raffinate del prog ma, del resto, se da una parte è lecito apprezzare dischi che traggono la loro forza dall’integrità stilistica, dall’altra non si può fare a meno di lodare ed incoraggiare chi non si pone troppi limiti compositivi, provando ad abbattere i confini, spesso eretti in maniera artificiosa, tra i diversi generi musicali.
Un ottimo lavoro che, come è intuibile, si renderà ancora più apprezzabile dopo ripetuti ascolti.

Tracklist :
1. Of Chaos & Turmoil
2. Building Seven
3. Homeland Insanity
4. Soulless Army
5. All Seeing Eye
6. Bromance
7. I Am Caesar
8. Abyssuss
9. Nature Erased
10. Bilderberger King

Line-up :
Ryan Denning – Bass & Vocals
Dean Slaney – Guitars
Jules Maas-Palmer – Guitars
Ross Mitchell – Drums

XENOSIS – pagina Facebook

Sick Monkey – Anatomia Dell’Essere

Le sensazioni che restano impresse dopo l’ascolto di “Anatomia dell’Essere” sono del tutto positive e per questo motivo contiamo di poterci gustare al più presto un album intero degli ottimi Sick Monkey.

Potente, ruvido e genuino: tre aggettivi che servono per inquadrare il sound dei Sick Monkey, alle prese con il loro primo EP Anatomia Dell’Essere.

La band, proveniente dalla sponda orientale del lago di Garda, nasce nel 2007 e musicalmente, come ci informano le note biografiche, trae linfa dallo stoner in stile Kyuss senza precludersi eventuali escursioni in altri generi.
Lo testimonia la title-track posta in apertura che, dopo un avvio cadenzato come ci si aspetterebbe, si sposta in certi frangenti su ritmiche più spedite che lambiscono territori hardcore pur mantenendo complessivamente l’impatto e le chitarre lisergiche dei maestri del desert rock.
Già a partire dalla successiva Entiende il sound si fa più sempre più viscoso e le chitarre più distorte, mentre con la terza traccia Ruggine il quartetto veneto esprime al massimo le proprie potenzialità grazie a quello che sembra essere un vero marchio di fabbrica: riff granitici, una base ritmica spaccaossa e testi mai banali che raccontano i disagi e le problematiche della quotidianità.
Senza Testo (che, nonostante il titolo non è un brano strumentale) rinsalda l’ottimo lavoro svolto dai Sick Monkey chiudendo un EP nel quale si riscontrano sicuramente molte luci e pochissime ombre: a tale proposito è da valutare quanto possa essere funzionale alla riuscita del lavoro l’utilizzo della lingua italiana che, se da una parte consente ai nostri di comporre i testi in maniera più diretta ed efficace, dall’altra potrebbe costituire un ostacolo al tentativo di donare in futuro un respiro internazionale alla loro musica.
Ma, al di là di questa annotazione, le sensazioni che restano impresse dopo l’ascolto di Anatomia Dell’Essere sono del tutto positive e per questo motivo contiamo di poterci gustare al più presto un album intero degli ottimi Sick Monkey.

Line-up:
Marco Fila – Batteria
Antonio Bonizzato – Voce, Basso
Claudio Luce – Chitarra Solista
Pierpaolo Modena – Voce, Chitarra

1. Anatomia dell’Essere
2. Entiende
3. Ruggine
4. Senza Testo

Les Discrets – Ariettes Oubliées

Sicuramente le emozioni che dà questo rock virato shoegaze sono notevoli, e questo doppio cd è un’opera che crea dipendenza

Progetto di Fursy Teyssier attivo dal 2003, arriva a farsi notare nello split del 2007 con gli Alcest, con cui i Les Discrets condividono la visione sonora, ovvero quel rock sognante e depresso, incline allo shoegaze, ma con profonde radici nel black metal, di cui diviene un’evoluzione possibile.

Teyssier, il fulcro del gruppo, ha militato negli Amesoeurs che furono il luogo d incontro di musicisti molto interessanti, com Neige, già nei Peste Noire, formazione black metal transalpina tra le migliori nel suo genere, e Winterhalter, batterista anch’egli già nei Peste Noire e poi negli Alcest e altri. C’è un forte interscambio tra questi gruppi, e si può osservare la maturazione di musicisti che, cominciato con il black metal, si spostano su altri lidi, trovando nello shoegaze o comunque nel black dai toni ambient la loro vera vocazione. Ad esempio i compagni di etichetta dei Les Discrets, gli Alcest, nel loro ultimo album sono andati decisamente su atmosfere rock, salendo un ulteriore gradino nella scala della loro maturazione. I Les Discrets fanno shoegaze, o comunque musica decadente, decadenza intesa in senso di abbandono alla vita, con predilezione per un stanca contemplazione degli affanni umani. Personalmente la trovo una musica perfetta per la meditazione, poiché stimola molti pensieri, ci guarda dentro. I Les Discrets sono uno dei gruppi francesi che stanno portando avanti un discorso molto originale e particolare, con destinazione ancora ignota. Non è musica commerciale ma vende, non è musica facile, ma ha un grosso seguito in questi tempi bui. Sicuramente le emozioni che dà questo rock virato shoegaze sono notevoli, e questo doppio cd è un’opera che crea dipendenza, poichè le sue soffuse carezze e il senso di cullamento che troviamo qui è qualcosa di ancestrale in certi animi umani, che sono profondamente convinti che alla fine la vita sia un inutile affanno. Molto meglio la musica e l’assenzio.

LES DISCRETS – Facebook