Un lavoro ben strutturato, pensato per demolire difese nei prossimi live, dalle melodie che si appiccicano addosso e dalla potenza di uno schiacciasassi.
Quinto album, secondo per la Despotz Records, per i rockers svedesi Corroded, quartetto che negli ultimi anni ha avuto modo di mettersi in mostra sui palchi dei maggiori festival tenutisi in patria.
E’ un hard rock moderno, diviso da un esile confine dal modern metal tanto caro in terra statunitense, ciò che compone il sound di questo nuovo lavoro basato su un impatto che come scritto si fa molto più metallico, con chorus di buona presa e solos melodici.
Ma Bitter è stato creato con l’intenzione di non fare prigionieri e sinceramente ci riesce anche bene, con quelle ritmiche che in alcuni casi strizzano l’occhio al metal core, ma pur sempre inserite in un contesto che si potrebbe definire alternative metal.
In questo vario e neanche troppo originale alternarsi di sfumature, la band ne esce con una raccolta di brani potenti, melodici ed in alcuni casi ruffiani il giusto (Burn), che faranno scorrere il sangue alla velocità della luce,
Black è una semi ballad che stempera la tensione, forse troppo, ma si torna a sbattere la capoccia con le ottime Testament e Scream, prima che Destruction con quel suo alternare melodia e potenza si riveli il brano top di Bitter.
Un lavoro ben strutturato, pensato per demolire difese nei prossimi live, dalle melodie che si appiccicano addosso e dalla potenza di uno schiacciasassi.
Un esperimento in parte riuscito ma che va rivalutato ovviamente su un minutaggio più probante.
Sono tre i brani con in quali i The Alligator Wine provano a convincerci che la loro proposta, oltre ad essere originale, è anche valida.
Le tre canzoni dai tratti rock/pop vintage sono suonati con tastiere, batteria, amenità elettroniche e senza uso di basso e soprattutto chitarra, una scelta coraggiosa considerando che il genere viene riprodotto senza due strumenti primari.
La Century Media ci ha creduto e li ha messi sotto contratto, loro non hanno tradito le attese e regalano brani davvero interessanti, dove gli strumenti elettronici creano atmosfere dal taglio pop, per poi virare su di un rock a metà strada tra la tradizione settantiana e quella del decennio successivo, anche se a mio avviso il meglio è tutto racchiuso nella conclusiva Reptile, episodio psichedelico che prende le distanza dalle facili melodie da balera rock delle prime due tracce (la title track e Dream Eyed Little Girl) per sette minuti tra la liquida follia compositiva dei più psichedelici The Doors ed il freddo ed alternativo sound elettronico degli svizzeri The Young Gods.
Un esperimento in parte riuscito ma che va rivalutato ovviamente su un minutaggio più probante.
Tracklist
01. The Flying Carousel
02. Dream Eyed Little Girl
03. Reptile
Line-up
Thomas Teufel – Drums, Vocals & Percussion
Rob Vitacca – Vocals, Organ & Synthesizer
Un album delicato, a tratti introspettivo, ma in grado di tenere alta l’attenzione di chi ascolta con soluzioni improvvise, cambi di umore e colori che sono la carta vincente di questi sei nuovi brani creati dagli Eris Pluvia.
Tornano con un nuovo lavoro i genovesi Eris Pluvia, band da considerarsi storica nel panorama del rock progressivo nazionale.
Rings of Earthly Light, album licenziato nel lontano 1991, è considerato un passo fondamentale nel ritorno in auge del genere, in anni in cui l’interesse degli ascoltatori era spostato verso differenti sonorità, ma per trovarne il successore, complice anche la prematura scomparsa del tastierista Paolo Raciti, si sono dovuti attendere quasi vent’anni (Third Eye Light, 2010), mentre del più recente Different Earths, uscito nel 2016, ne avevamo già parlato sulle pagine di Metaleyes.
Questa volta non abbiamo dovuto aspettare troppo tempo per un nuovo album targato Eris Pluvia e Tales From Another Time torna a far parlare del gruppo ligure e del suo progressive rock di gran classe.
Un’ora di musica divisa in sei capitoli, un album che si presenta come le classiche opere degli anni settanta, eppure tra le trame della musiva di Tales From Another Time ci si perde tra tradizione e soluzioni moderne, un mix di musica progressiva classica, new prog inglese ed ispirazioni che riflettono la voglia del gruppo di sperimentare nuove soluzioni, più vicine a quanto si ascolta in questi primi anni del nuovo millennio.
Ne esce un sunto elegante e raffinato di quello che in gran parte abbiamo ascoltato in tanti anni di progressive rock, con la band che non ha paura di sperimentare rimanendo legata alle sue influenze primarie, dai Pink Floyd a Genesis e Camel fino ai Porcupine Tree.
Bellissime le tre suite, La Chanson de Jeanne, The Call of Cthulhu e la conclusiva The Hum, ma è comunque tutto Tales From Another Time che funziona al meglio, regalando all’ascoltatore momenti di rock progressivo di qualità.
Un album delicato, a tratti introspettivo, ma in grado di tenere alta l’attenzione di chi ascolta con soluzioni improvvise, cambi di umore e colori che sono la carta vincente di questi sei nuovi brani creati dagli Eris Pluvia.
Tracklist
1. When Love Dies
2. Lost in the Sands of Time
3. La Chanson de Jeanne (Pt’s 1-3)
4. The Call of Cthulhu (Pt’s 1-3)
5. Last Train to Atlanta
6. The Hum (Pt’s 1-5)
Line-up
Alessandro Cavatorti – guitars & words
Marco Forella – bass, piano, programming keyboards & drums
Roberto Minniti – vocals
Roberta Pitas – flute
Ferris Mc confeziona un ottimo disco crossover, mischiando hip hop, punk, hardcore ed elettronica, il tutto in maniera orecchiabile ma con testi abrasivi, ironici e fuori dal comune.
Munitevi di traduttore, ancora meglio se sapete il tedesco, perché vale davvero la pena di capire i testi del disco di Ferris Mc, con un nuovo lavoro solista fuori dai Mongo Clikke, un collettivo hip hop che ha fatto scuola nella florida scena rap di lingua tedesca.
Ferris Mc confeziona un ottimo disco crossover, mischiando hip hop, punk, hardcore ed elettronica, il tutto in maniera orecchiabile ma con testi abrasivi, ironici e fuori dal comune. Per questo suo nuovo disco solista Ferris Mc è tornato alle origini, ripescando nella tradizione punk hc tedesca, con riferimenti ai Die Toten Hosen, Die Artze, e anche anglosassone come Exploited e Ramones. La decisione di fare cose diverse rispetto all’hip hop nasce dalla considerazione che con quel genere Ferris ha raggiunto la saturazione e quindi non riuscirebbe più a proporre cose interessanti come in questo disco in cui ripesca dal passato per proiettarsi nel futuro. Il lavoro è molto piacevole, con melodie gradevoli che sono alla base di ritornelli che rimangono impressi nella mente, tutto è al suo posto. Wahrscheinlich Nie Wieder Vielleichtè un disco che parla delle contraddizioni che sono nella nostra società, facendolo con una maturità assai rara, e soprattutto della Germania come in un pezzo come Fuer Deutschland Reicht’s, che analizza la pericolosa voglia di sovranismo in voga in Germania come altrove. Il disco è molto fresco, ben prodotto e ha la caratteristica molto importante di parlare ai giovani in maniera molto particolare, con una musica che piacerà a pubblici diversi, perché ha molte soluzioni sonore diverse. Molto importante è anche la questione del titolo, che significa Probabilmente Mai Più: anni fa si sarebbe detto solo “Mai Più”, e sappiamo tutti cosa non si vorrebbe accadesse mai più in Germania e non solo, ma visto come sta andando in tutto il mondo oggi si deve aggiungere il “probabilmente” e questo non è affatto una bel segnale. Un disco musicalmente molto potente e piacevole, con una marcia in più nei testi.
Tracklist
01. Allianz Der Außenseiter
02. Wahrscheinlich Nie Wieder Vielleicht
03. Was Ist Aus Mir Geworden
04. Die Normalen
05. Für Deutschland Reicht’s
06. Shitstorm
07. Der Teufel Tanzt weiter
08. Scherben Bringen Glück
09. Krank
10. Mein Herz Hat ‘Ne Knarre
11. Amok Amok Amok
12. Niemandsland
13. Friedhof Der Kuscheltiere
14. Fake News
Flectar è una raccolta di musica tutta da ascoltare, progressiva, metallica, a tratti intrisa di poesia come nella migliore tradizione del genere, scaraventando in un angolo la tecnica per esaltare l’ascoltatore con canzoni emozionanti.
Nella scena progressive metal italiana le sorprese sono sempre dietro l’angolo e a noi divoratori di musica non rimane che archiviare a distanza di pochissimo tempo splendide opere provenienti da ogni angolo del nostro troppe volte bistrattato (e non solo parlando di musica) stivale.
Una premessa doverosa, scaturita dopo l’ascolto di Flectar, nuovo album dei torinesi Dayslived, band nata nel 2010 con un album di debutto licenziato nel 2015 (The Black Mouse) e un ep live uscito un apio d’anni fa (Reborn & Lived).
Lanciato sul mercato dalla Rockshots, il nuovo lavoro del quintetto è stato prodotto con la collaborazione di Marco Strega dei magnifici Materdea, mentre per il mastering la band si è affidata a Tony Lindgren nei Fascination Street Studios.
Con queste premesse Flectar non poteva certamente deludere, ed infatti l’album, con i suoi dieci brani, esplora l’universo progressivo partendo dagli anni settanta per arrivare ai giorni nostri, un viaggio musicale affascinante che convincerà anche i più conservatori tra gli amanti dei suoni progressivi.
Preso per mano dalla notevole interpretazione della vocalist Monik Fennelles, davvero personale e molto interpretativa, il sound del gruppo si nutre di tradizione e modernità, alternando ispirazioni che vanno dal prog rock degli Yes, fino a solcare lidi metallici di scuola Dream Theater e persino pulsioni elettroniche, strada che il progressive moderno sta attraversando grazie alle opere di Leprous e Haken.
Ne esce ovviamente una raccolta di musica tutta da ascoltare, progressiva, metallica, a tratti intrisa di poesia come nella migliore tradizione del genere, scaraventando in un angolo la tecnica per esaltare l’ascoltatore con canzoni emozionanti come il singolo Along Your Miles, Triora,Behind My Skin e la conclusiva Mater Musica, brano che in dieci minuti riassume l’intero concept musicale di Flectar, gioiello progressivo da non perdere per alcun motivo
.
Tracklist
01.Another Start
02.Flectar
03.Along Your Miles
04.Triora
05.My Angel Said
06.Touching The Clouds
07.Their Violent Game
08.Dark Exile
09.Behind My Skin
10.Non Frangar
11.Mater Musica
Hell Over Salem è consigliato agli amanti dell’horror metal, del gothic rock e dell’hard rock a stelle e strisce, e rappresenta per la band una partenza con il botto, a cui si spera faccia seguito al più presto un nuovo lavoro sulla lunga distanza.
Nel mondo dell’underground metallico la sorpresa è sempre dietro l’angolo ed un ep arrivato in mezzo a tante proposte più importanti, può diventare un piacevole incontro con una nuova band.
Succede con i Lords Of Salem, band tedesca che lancia sul mercato questa bomba di quattro brani intitolata Hell Over Salem, un perfetto ed irresistibile mix tra Danzig, Motley Crue e Rob Zombie.
I quattro brani non risparmiano potenza, attitudine rock’n’roll e sfumature dark alternative, con il vocalist Postel a guidare il quartetto di zombie apocalittici come un novello Glenn Danzig.
L’opener Monster Girl ci invita al sabba consumato sul Sunset Boulevard, la title track è un brano horror metal dal taglio moderno, Zombie Monkey Woman e Rock ‘n’ Roll Machine danno il la alla trasformazione degli astanti in un gruppo di vampiri famelici che faranno incetta di sangue al ritmo di Hell Over Salem, come in un remake di Dal Tramonto all’Alba.
Accompagnato da una bellissima copertina e da una produzione assolutamente professionale, Hell Over Salemè consigliato agli amanti dell’horror metal, del gothic rock e dell’hard rock a stelle e strisce, e rappresenta per la band una partenza con il botto, a cui si spera faccia seguito al più presto un nuovo lavoro sulla lunga distanza.
Tracklist
01. Monster Girl
02. Hell Over Salem
03. Zombie Monkey Woman
04. Rock ‘N’ Roll Machine
Line-up
Postel – Vocals
Arian – Guitars
Marple – Bass
Alex – Drums
Night of the Worm Moon è sedersi in cima ad una collina californiana e guardare in cielo strane luci che corrono veloci e che giocano con la nostra immaginazione, ma anche guardare con interesse carcasse di insetto e asfalto che cucina sangue nottetempo.
Debutto solista per la cantante chitarrista del gruppo surf La Luz, Shana Cleveland.
Shana ci propone un folk nella tradizione americana, minimalista, con una voce che narra più che cantare e che si rifà a dei modelli inusuali per questo genere. Il titolo Night of the Worm Moon riporta all’analogo Night Of The Purple Moon di Sun Ra, una delle fonti di ispirazione di Shana. Infatti in questo debutto convergono diverse forme di vita artistiche, dalla fantascienza al folk pastorale americano, e qualche eco diverso come un risuonare lontano di musica distorta che abbia trovato la pace in un deserto. Il disco è stato registrato in un’occasione speciale, l’eclissi di luna del 2017, e ne porta su in sé i segni, con il femmineo ad imperare. La musica è un folk minimale, con chitarra, batteria e pochissimo altro, e il risultato è molto forte e tipicamente americano, anche se la forza del disco sta nel dare un gusto diverso al folk. Shana con il suo gruppo La Luz è sempre stata innovatrice e molto avanti, e anche questo suo debutto solista risponde all’esigenza di fare qualcosa di nuovo in un genere preesistente. Tutto è molto calmo e guarda alle stelle più che alle vicende terrene, e non è il disco medio di folk americano, ma va oltre. Il mondo di Shana è molto composito e speciale, fortemente influenzato dalla fantascienza. Dieci canzoni molto weird, che si vanno ad inserire in quel filone della fantascienza che sta recentemente dando ottimi frutti oltreoceano. Night of the Worm Moon è sedersi in cima ad una collina californiana e guardare in cielo strane luci che corrono veloci e che giocano con la nostra immaginazione, ma anche guardare con interesse carcasse di insetto e asfalto che cucina sangue nottetempo. Un disco che è la narrazione dell’inaspettato e del fuori dal comune, ma che è quello che vorremmo vedere, oltre alle miserie che vediamo quotidianamente. Un debutto diverso ed incisivo.
Tracklist
1 Don’t Let Me Sleep
2 Face of the Sun
3 In Another Realm
4 Castle Milk
5 Night of the Worm Moon
6 Invisible When the Sun Leaves
7 The Fireball
8 Solar Creep
9 A New Song
10 I’ll Never Know
About Life (In The Rubbish) è un lavoro vario e formato da generi diversi, perciò entrare in sintonia con il sound del gruppo non è facilissimo, ma una volta trovatane la chiave di lettura si scoprirà un mondo di note liberate da confini e barriere.
I Pazzi Del Riformatorio sono un gruppo progressive/alternative metal siciliano nato nel 2011 e questo lavoro venne pubblicato la prima volta tre anni dopo.
La band, dopo qualche anno di pausa, ritorna con una line up rivoluzionata e di fatto a tre, con i due membri fondatori, Marco Blandini (voce e chitarra) e Lorenzo Giannì (chitarra e voci) raggiunti da Francesco Zanotti (batteria).
Il primo passo dei “nuovi” I Pazzi Del Riformatorio è la riedizione dell’album d’esordio con l’aggiunta di due brani inediti (Centro Nichilista, Inri) e da uno in versione live (Atracrar). About Life (In The Rubbish) è un lavoro originale che amalgama in modo sorprendente, progressive rock, alternative metal, indie ed attitudine punk rock: la band si supera in quei momenti dove il tutto è perfettamente inglobato in brani che non lasciano letture precise sulla strada intrapresa ma giocano a sorprendere chi ascolta.
La cosa buona è che il tutto riesce in brani e attimi in cui il progressive metal di scuola Dream Theater viene violentato da scariche alternative/indie per poi tornare a trame progressive addirittura di stampo settantiano.
In tutto questo ben di dio musicale il metal è il collante che tiene i generi ben saldi tra loro nell’economia di brani come God Is A Woman, la suite Democracy’s Slave e la thrash/punk Escape The Grave. About Life (In The Rubbish) è un lavoro vario e formato da generi diversi, perciò entrare in sintonia con il sound del gruppo non è facilissimo, ma una volta trovatane la chiave di lettura si scoprirà un mondo di note liberate da confini e barriere.
Tracklist
1.Frankenstein
2.God Is Woman
3.I Pazzi Del Riformatorio
4.Democracy’s Slave
5.Last Chance
6.Green
7.Unforgivable
8.Escape The Game
9.Centro Nichilista (Bonus Track 2019)
10.Inri (Bonus Track 2019)
11.Atracar (Bonus Track 2019 – Live)
Line-up
Marco Blandini – Voci, Chitarre
Lorenzo Giannì – Chitarre, Basso, Tastiere, Voci
Francesco Zanotti – Batteria
Line-up 2014:
Marco Blandini – Voci, Chitarre
Lorenzo Giannì – Chitarre, Voci
Salvo Ilacqua – Basso
Vincenzo Fiorilla – Tastiere
Francesco Zanotti – Batteria
Line-up 2012:
Marco Blandini – Voci, Chitarre
Lorenzo Giannì – Chitarre, Voci
Elena Giudice – Basso
Francesco Zanotti – Batteria
Roberto Ferrara – Tastiere
La band, in questo nuovo lavoro, torna alle sonorità che avevano caratterizzato il debutto, lasciando in parte lo spirito garage che aveva animato lo splendido Cape Yawn per un viaggio che dal deserto porta la band ancora una volta nelle strade della piovosa Seattle.
Sono passati cinque anni dal bellissimo debutto Cloud Eye e tre dal capolavoro Cape Yawn e il viaggio degli Elevators To The Grateful Sky nel rock degli ultimi trent’anni del secolo scorso continua con questo terzo album intitolato Nude.
Con un contratto nuovo di zecca con la label greca Sound-Effects Records, ed accompagnato dallo splendido artwork realizzato come sempre dal frontman Sandro di Girolamo, i rockers parlermitani tornano con un questi nuovi undici brani che confermano il loro status di spicco nella scena underground in ambito stoner/psych rock.
D’altronde i componenti della band hanno sempre dedicato il loro talento a più di un genere, passando con disinvoltura dal metal estremo al rock ed alle sue tante sfaccettature dimostrando di saper convincere sia come Elevators To The Grateful Sky che nelle altre incarnazioni Sergeant Hamster, Haemophagus, Undead Creep e Cavernicular, tanto per nominare quelle di cui nel tempo ci siamo occupati e che puntellano una delle scene più interessanti del nostro paese.
La band, in questo nuovo lavoro, torna alle sonorità che avevano caratterizzato il debutto, lasciando in parte lo spirito garage che aveva animato lo splendido Cape Yawn per un viaggio che dal deserto porta la band ancora una volta nelle strade della piovosa Seattle.
Ovviamente la parte psichedelica e stoner è ben presente nei vari brani che compongono Nude, con l’opener Addaura che come un trip sale, stonata e psichedelica e di matrice settantiana.
Il quartetto prepara il campo per quello che sarà l’album più vario scritto fino ad oggi, con una serie di ispirazioni ed atmosfere che vanno dagli anni sessanta ai novanta, trent’anni di rock e hard rock catapultati in un’opera che affascina e tiene incollati alle cuffie dalla prima all’ultima nota. Beggars Can’t Be Choosers, Insects In Amber, lo stoner/doom di Flowerian,Song For July, In Your Hands (che ricorda non poco gli Alice In Chains), mostrano un gruppo dall’approccio più diretto rispetto al passato.
Manca in questo lavoro il brano da jam session come poteva essere la title track dell’album precedente, ma il suo fagocitare ispirazioni che vanno dai The Beatles agli Alice In Chains, dai Kyuss ai Nirvana, dai Black Sabbath ai Cathedral per restituirle sotto forma di un sound personale ed ormai riconoscibilissimo, contribuisce a rendere Nude un altro straordinario lavoro targato Elevators To The Grateful Sky.
Tracklist
1.Addaura
2.Beggars Can’t Be Choosers
3.Like A Seashell
4.Nude
5.Insects In Amber
6.Night’s Out
7.Flowerian
8.Drowned Dragness
9.Song For July
10.In Your Hands
11.The Trembling Watermoon
Line-up
Sandro di Girolamo – vocals and percussion
Giorgio Trombino – guitars, bass, alto saxophone, congas, keyboards, alternate lead vocals
Giuseppe Ferrara – rhythm guitars
Giulio Scavuzzo – drums, darbouka, tambourine, percussion and alternate lead vocals
Stupisce la capacità dei Danko Jones di essere molto interessanti in ogni loro uscita nonostante facciano un genere abbastanza minimale, ma con il loro amore per il rock tutto è possibile.
Tornano i Danko Jones, e fin dal primo brano I’m In A Band, si sente l’immenso amore per la musica, ed in particolare per il rock and roll che ha il musicista canadese, una vera e propria istituzione per tutti gli amanti dei suoni ruvidi.
Il disco è la sublimazione di ciò che è un disco dei Danko Jones: chitarroni, batteria esplosiva e basso che ruggisce. I Danko Jones sono uno di quei gruppi che non tradisce mai, il trio canadese nella sua lunga carriera non ha in pratica sbagliato un colpo, tutti i dischi sono piacevoli e ben suonati, ma questo ha forse qualcosa in più. La produzione di GGGarth Richardson, che ha lavorato con gruppi come Red Hot Chili Peppers e Rage Against The Machine, è sensazionale, riesce a dare una nuova forma ai suoni di Danko e soci. E poi la melodia… il trio è pressoché perfetto in questo, con dei ritornelli che sono coinvolgenti ed avvolgenti. Tutte le canzoni potrebbero essere potenziali singoli, non ci sono riempitivi, e tutto è concepito con lo scopo di suonarlo dal vivo. Ci sono momenti di autentico entusiasmo, durante i quali proprio non si riesce a stare fermi allorché il gruppo rielabora la tradizione rock and roll e la porta nel futuro, perché i Danko Jones sono in realtà uno delle più grandi band rockabilly in giro, incarnando da tempo il rock come lo si può interpretare al meglio. Questo disco è un’affermazione di superiorità, una dichiarazione per il rock and roll, e cosa più importante, un lavoro molto divertente che regalerà un po’ di tragua dall’affanno del mondo. Stupisce la capacità dei Danko Jones di essere molto interessanti in ogni loro uscita nonostante facciano un genere abbastanza minimale, ma con il loro amore per il rock tutto è possibile. Ballerete, eccome se ballerete.
Tracklist
01. I’m In A Band
02. I Love Love
03. We’re Crazy
04. Dance Dance Dance
05. Lipstick City
06. Fists Up High
07. Party
08. You Got Today
09. That Girl
10. Burn In Hell
11. You Can’t Keep Us Down
Line-up
Danko Jones – guitar, vocals
John “J.C.” Calabrese – bass
Rich Knox – drums
Non sono suoni per tutti, è musica che parla ad anime che sanno agire dentro la sconfitta, ma è qualcosa di davvero valido e sentito, musica che è sentimento e vita, sangue vivo che scorre lentamente e fa uscire il calore.
A volte si ascoltano cose che ti lasciano qualcosa dentro, e rarissime volte si sente un disco che in pratica parla di cosa vivi o di cosa provi.
Questo lavoro del duo svedese A Swarm Of The Sun per ognuno può essere una cosa diversa, è un disco aperto a tutto, un libero fluire della coscienza di due persone che incontra altri flussi simili ed entrano in sintonia. La coppia parte dal post rock per arrivare all’ambient, ma soprattutto creano atmosfere basse, ansiogene, si è costantemente in pericolo, la salvezza è lontana, è un requiem che suona per noi. Le canzoni sono tre e misurano ognuna più di tredici minuti, sono delle suite che si sviluppano perfettamente, tre sogni che sospendono il tempo durante l’ascolto. A Swarm Of The Sun sono giunti al quarto album, sono un gruppo conosciuto ed apprezzato e portano avanti la via scandinava al post rock, che è una cosa diversa poiché incontra in maniera importante l’ambient, soprattutto nella composizione delle canzoni. La calma di alcuni momenti è ancora più terribile, il suono rarefatto del gruppo incide l’anima e ci fa tornare indietro a pensieri antichi. Si comincia ad ascoltare la canzone e non si riesce a smettere, come quando sei sotto ad un temporale e ti stai bagnando ma non puoi farne a meno. Non sono suoni per tutti, è musica che parla ad anime che sanno agire dentro la sconfitta, ma è qualcosa di davvero valido e sentito, musica che è sentimento e vita, sangue vivo che scorre lentamente e fa uscire il calore. Le soluzioni musicali del gruppo sono molteplici e tutte molto ben approfondite, non c’è nessuna derivazione, è tutto originale. Per capire, ci sono momenti nei quali ricordano alcune atmosfere dei Radiohead, soprattutto quelle in cui l’ascoltatore capisce in profondità cosa vogliono dire e ne è partecipe. Quando entra la voce nella terza canzone è davvero difficile non piangere lacrime di consapevolezza. Un disco che come un acido ad ognuno farà un effetto diverso, ma che è oggettivamente meraviglioso.
Tracklist
1.Blackout
2.The Woods
3.An Heir to the Throne
Rock’n’roll melodico, graffiante a tratti emozionante nel far rivivere atmosfere che si erano perse davanti ai palchi del Whiskey a Go Go, del Viper Room, o del Rainbow in un’escalation di puro divertimento che non fa prigionieri, questo è Vain Vipers e quello che trasmettono le dieci tracce suonate da Mick, Wild, Scott e Aaron.
L’uscita in questo periodo del biopic sui leggendari Motley Crue ha riacceso qualche luce sul Sunset Boulevard e sulla scena glam/hair/street metal di Los Angeles, balzata gli onori della cronaca musicale a metà anni ottanta e diventata una delle scene più influenti della storia del metal/rock mondiale.
Siamo lontani anni luce dalle esagerazioni di una generazione di musicisti votati al rock’n’roll style, ma è pur vero che la fiamma ha continuato in questi anni a bruciare nell’underground e per i fans più attenti le sorprese non sono certo mancate.
I Vain Vipers per esempio sono una band italiana al debutto per la Volcano Records con questo buon album omonimo, ispirato dalle leggende della scena losangelina, composto da un lotto di belle canzoni e in grado di risvegliare antichi pruriti in chi ha vissuto da testimone lo spettacolo pirotecnico e non solo musicale offerto dagli eroi del Sunset.
Rock’n’roll melodico, graffiante a tratti emozionante nel far rivivere atmosfere che si erano perse davanti ai palchi del Whiskey a Go Go, del Viper Room, o del Rainbow in un’escalation di puro divertimento che non fa prigionieri, questo è Vain Vipers e quello che trasmettono le dieci tracce suonate da Mick, Wild, Scott e Aaron.
L’album ci mette un po’ ad ingranare, l’opener I Hate You risulta un crescendo di tensione che arriva ad esplodere lasciando che la musica ci travolga e non trovi più ostacoli.
E dalla successiva Bitch (Please Shot Up) si entra in un vortice creato dal rock’n’roll selvaggio, irriverente ed irresistibile delle varie Kissy Doll, Let’s Party, 80’s Whore e Rock’n’Roll, brani che saranno derivativi quanto si vuole, ma il piedino non smette di battere il tempo e i chorus entrano in testa al primo colpo.
Un buon lavoro per una band che sa come far divertire gli amanti del genere: i gruppi a cui sono legati i Vain Vipers mi sembra inutile nominarli, basta premere il tasto play e si torna idealmente a bere una birra sul Sunset Boulevard.
Tracklist
1. I Hate You
2. Bitch Please (Shut Up)
3. Kissy Doll |
4. Lost In Your Eyes
5. Let’s Party
6. Reach Me In The Dark Side |
7. 80’s Whore
8. Devil Is Waiting |
9. Rock‘n’Roll
10. Weeping
Line-up
Mick – Vocals
Wild – Guitars / Back Vocals
Scott – Bass Guitar/ Back Vocals
Aaron – Drums
VAIN VIPERS – Facebook Contenuto musicale (link youtube – codice bandcamp – codice soundcloud)
Febbraio conferma appieno il valore degli Eva Can’t, la cui nuova veste assume contorni sempre più definiti, tali da non lasciare spazio a fraintendimenti riguardo al fatto che il percorso artistico di questa band bolognese sia sfociato in un sound a suo modo unico nel nostro panorama per stile e contenuti musicali e lirici.
Gravatum è stato in assoluto uno degli album cantati in italiano che, personalmente, ho più amato all’epoca della sua uscita, per cui riguardo a questa nuova produzione offerta dalla band guidata da Simone Lanzoni le aspettative erano notevoli.
Febbraio, ep contenente cinque brani per un totale di circa venticinque minuti di musica, vede un’ulteriore evoluzione verso una forma di cantautorato progressivo che ormai del metal degli esordi conserva solo poche ma ben inserite tracce.
L’intro strumentale Februus è ben più di quello che sovente è un semplice frammento volto a preparare il terreno al resto del lavoro, visto che il suo sviluppo consistente avvince ed avvolge fin da subito, rivelandosi l’ideale e non banale per premessa per l’episodio chiave Vermiglia, una canzone superba a livello lirico e musicale, con la quale Lanzoni sembra trarre linfa vitale dalla rinomata scuola cantautorale della sua Bologna, con il tutto ovviamente rivisto ed attualizzato con il background della band.
Di fronte ad un simile gioiello intriso di emotività, i restanti brani rischiano di venire offuscati ma questo non succede perché il livello di intensità del lavoro si mantiene elevatissimo, prima con Candele, in cui certi passaggi strumentali più evocativi quanto aspri rievocano nella parte conclusiva i migliori Primordial, poi con la title track, il cui avvio leggermente in sordina viene ampiamente compensato da una seconda parte nelle quale la chitarra solista si prende la scena e, infine, con il rock movimentato anche dal growl di Finale, degna chiusura di un lavoro di grande spessore. Febbraio conferma appieno il valore degli Eva Can’t, la cui nuova veste assume contorni sempre più definiti, tali da non lasciare spazio a fraintendimenti riguardo al fatto che il percorso artistico di questa band bolognese sia sfociato in un sound a suo modo unico nel nostro panorama per stile e contenuti musicali e lirici.
Tracklist:
1. Februus
2. Vermiglia
3. Candele
4. Febbraio
5. Finale
Line-up:
Simone Lanzoni: guitars, vocals
Diego Molina: drums
Luigi Iacovitti: guitars
Andrea Maurizzi: bass
Flowers At The Scene nulla aggiunge e nulla toglie al precedente lavoro ed alla discografia solista di Bowness, risultando un album destinato ad essere amato dai fans dei due artisti che lo hanno composto e probabilmente trascurato da tutti gli altri.
Torna Tim Bowness, cantante dei progsters No-Man con un nuovo album a distanza di un paio d’anni dal precedente Lost In The Ghost Of Light.
Il nuovo lavoro, scritto in coppia con Steven Wilson, vede come in passato una serie di ospiti di spicco come Peter Hammill (Van Der Graaf Generator), Andy Partridge (XTC), Kevin Godley (10cc), Colin Edwin (Porcupine Tree), Jim Matheos (Fates Warning), David Longdon (Big Big Train), il co-produttore Brian Hulse (Plenty), il trombettista australiano Ian Dixon e i batteristi Tom Atherton e Dylan Howe, tra gli altri, a valorizzare queste undici composizioni all’insegna di un rock elegante e raffinato ma che, come già nel disco precedente, fatica a lasciare il segno.
Infatti anche questo nuovo Flowers At The Scenepromette tanto ma mantiene solo in parte: gli ospiti fanno parte della crema del rock progressivo mondiale, la musica si muove sinuosa e delicata, pregna di note d’autore ma senza picchi emozionali, arrivando in fondo ai suoi tre quarti d’ora senza particolari squilli.
Da due artisti come Bowness e Wilson ci si aspetterebbe qualcosa in più, invece l’album continua la strada intrapresa in precedenza, con atmosfere e sfumature pink floydiane a rappresentare i momenti più alti dell’opera (It’s The World, Ghostlike). Flowers At The Scene nulla aggiunge e nulla toglie al precedente lavoro ed alla discografia solista di Bowness, risultando un album destinato ad essere amato dai fans dei due artisti che lo hanno composto e probabilmente trascurato da tutti gli altri.
Tracklist
1.I Go Deeper
2.The Train That Pulled Away
3.Rainmark (feat. Jim Matheos)
4.Not Married Anymore (feat. Dylan Howe)
5.Flowers At The Scene (feat. Jim Matheos)
6.It’s The World (feat. Peter Hammill, Jim Matheos, Steven Wilson)
7. Borderline (feat. Dylan Howe, David Longdon)
8.Ghostlike
9.The War On Me
10.Killing To Survive (feat. Peter Hammill)
11.What Lies Here (feat. Kevin Godley, Andy Partridge)
Line-up
Tim Bowness – vocals, backing vocals, ukulele, trumpet and guitar loops
Guests:
Brian Hulse – synth/keyboards, guitar, drum programming
Peter Hammill – guitar and vocals, backing vocals
James Matheos – guitar
Andy Partridge – guitar
Ian Dixon – trumpet
Aleksei Saks – looped trumpet
Colin Edwin – bass / double bass / fretless bass
David K Jones – bass / double bass
Tom Atherton – drums
Dylan Howe – drums
Charles Grimsdale – drums
Kevin Godley – vocals
David Longdon – backing vocals, flute, melodica
Steven Wilson – synth, additional drum programming
Alistair ‘The Curator’ Murphy – string arrangement
Fran Broady – Bridge 5 string electro-acoustic violin, octave violin
Gli Anna Havoc sono una band di San Pietroburgo che suona un buon hardcore caotico, magmatico e molto duro.
Gli Anna Havoc sono una band di San Pietroburgo che suona un buon hardcore caotico, magmatico e molto duro.
Il loro primo ep è un buon esempio di cosa possa offrire un giovane gruppo di talento e in grado di ottenere ottimi ascolti. Certamente i numi tutelari sono i Converge e tutta quella scena che ha cambiato l’hardcore negli ultimi anni che è tuttora è un’onda che avanza. I riff sono molto precisi e colpiscono nel segno, le canzoni sono costruite e sono sviluppate bene. La furia di questi ragazzi non è cieca, è incanalata nella via giusta e viene espressa al meglio, attraverso questo hardcore pesante ed incalzante. La tensione rimane alta per tutto il disco, il minutaggio è adeguato ad esprimere quello che vogliono questi russi, ovvero la descrizione di una società che sta morendo e questo è il suono del coltello che la seziona. Gli Anna Havoc riescono a non essere derivativi perché hanno un’alta qualità nel loro sound e l’esprimersi in lingua madre è segno di forte personalità e di voglia di non farsi omologare, il messaggio lo si capisce benissimo. Ci sono momenti intensi e molto coinvolgenti, ma tutto il disco si attesta su buoni livelli: anche nei pezzi più lenti e sofferti gli Anna Havoc si esprimono molto bene e riescono sempre a costruire cose interessanti. E’ sempre piacevole ascoltare dell’hardcore nuova scuola suonato in questa maniera, peraltro il disco è in offerta libera sul loro bandcamp e ne vale davvero la pena.
Nèktar è un disco che ha molte letture e regala tantissimi spunti diversi, è uno di quei dischi che porta l’ascoltatore lontano, in una terra dove le leggi fisiche non sono le stesse, un sogno che chiede di mutare forma per essere capito in fondo, un disco di musica bellissima e psichedelicamente altro.
Etereo, esoterico, dolce, lancinante e additivo viaggio messo in musica in maniera davvero originale per questo terzo disco della creatura sonica chiamata Julinko, il primo in forma di terzetto.
La dea musicale che ha dato avvio al tutto è Giulia Parin Zecchin, cantante, chitarrista e visionaria che fonda il gruppo a Praga nel 2015 e per varie tappe arriva a concepire questo piccolo capolavoro in una discografia già ottima. Il disco possiede un suono che fa nascere un universo tutto suo, lo stile musicale ingloba molte cose, molti rimandi e tante cose che rendono speciale il tutto. Per prima cosa spicca la voce di Giulia, che altro non è che una bellissima connessione ad un qualcosa di superiore, che si può capire solo se legato alla musica degli altri componenti del gruppo, Carlo Veneziano alla batteria e synth e Francesco Cescato al basso. Nèktar è un distillato di riverberi, psichedelia profonda e di un’oscurità che piano piano si prende tutto. C’è un senso di sogno, di visione alchemica che prepara a qualcosa d’altro, un non stare mai fermi in un mondo che vive nel buio e scava nei simboli. Come altri pochi esempi, Giulia è una sciamana che suona per far nascere o rinascere qualcosa di antico che è in noi dormiente. L’ispirazione del disco le è venuta in un momento di conoscenza indotta da agenti esterni ed interni che ha fatto diventare il Nèktar del titolo un percorso a ritroso dalla morte ad una nuova vita. Giulia taglia carni con la sua voce e la sua chitarra, che è come una spada oppiacea che uccide e fa godere, il resto del gruppo la segue benissimo, in un percorso che non può essere lineare, ma che è anzi scosceso e difficile come tutti i percorsi iniziatici. La musica è dolce e sinuosa, pericolosa e bellissima come il canto di una sirena. Musicalmente si segue una certa tradizione italiana fortemente underground che ha sempre dato ottimi frutti, quella di un certo tipo di psichedelia rumorista e lisergica di alta qualità. Nèktar è un disco che ha molte letture e regala tantissimi spunti diversi, è uno di quei lavori che porta l’ascoltatore lontano, in una terra dove le leggi fisiche non sono le stesse. Un sogno che chiede di mutare forma per essere capito in fondo, un disco di musica bellissima e psichedelicamente altro.
Tracklist
1.Into the Flowing Stream Plunge Me Deep
2.Deadly Romance
3.Venus’Throat
4.Leonard
5.The Hunt
6.Spirit
7.Servo
8.Death and Orpheus
9.The Woods, the Wheel
10.Nèktar
Line-up
Giulia Parin Zecchin – Guitar and Voice
Carlo Veneziano – Drums and Synth
Francesco Cescato – Bass
Un lavoro riuscito ed estremamente godibile per gli amanti dei suoni stoner/groove metal.
Dall’immaginario horror e dai fumetti di Dylan Dog (l’indagatore dell’incubo) nasce il concept dietro a The Illusionist, primo lavoro su lunga distanza dei rockers milanesi The Worst Horse.
Il quartetto nasce per volere del cantante David Podestà e del chitarrista Omar Bosis , a cui si aggiungono in seguito il batterista Francesco Galimberti e recentemente il bassista Riccardo Crespi. The Illusionist racconta di una società sempre più malvagia e crudele con i deboli, mentre l’indagatore dell’incubo e l’illusionista si danno battaglia tra le trame di molte delle canzoni che competano un lavoro di hard rock che si nutre di varie ispirazioni ed influenze.
Dal blues sporcato di stoner rock, al rock duro vero e proprio, dal rock’n’roll al southern metal paludoso e viscido della scena di New Orleans, The Illusionistnon manca di prendere per il colletto e sbattervi contro il muro a colpi di rock che si potenzia di iniezioni groove metal.
Sono tre quarti d’ora intensi e sanguigni quelli offerti dal gruppo milanese, le chitarre sature, la voce graffiante e bagnata da Jack Daniels d’annata si riveste di blues mentre la caccia all’illusionista si fa intensa tra le note di Tricky Spooky, il rock blues di Circles, Leather Face, il rock’nroll di Grimorium e la conclusiva It.
Registrato con l’aiuto di Gabriel Pignata al basso (Destrage) e la chitarra di Luca Princiotta (Doro Pesch, Blaze Bayley), ospite in It, l’album risulta un lavoro riuscito ed estremamente godibile per gli amanti dei suoni stoner/groove metal.
Tracklist
01. Tricky Spooky
02. 313 Pesos
03. The Illusionist
04. Circles
05. Leather Face
06. Grimorium
07. XIII
08. Blind Halley
09. Elevator To Hell
10. It
Line-up
David Podestà – Vocals
Omar Bosis – Guitars
Francesco Galimberti – Drums
Riccardo Crespi – Bass
Il progetto di Albin avanza ulteriormente e fragorosamente, se lo si legge in chiave musicale questo disco è una delle cose migliori che sia ultimamente uscita in campo psichedelico e non solo, perché qui ci sono forti elementi di new wave e di ottimo krautrock.
Continua l’immensa parabola musicale di Albin Julius aka Der Blutarasch, geniale e controverso artista che forse nei tempi passati sarebbe stato un magnifico musicista classico, ma che oggi sicuramente è un medium attraverso il quale la musica fluisce e si disperde nell’universo.
La prima fase della sua vita musicale è stata all’insegna del martial neofolk politicamente schierato nell’estrema destra, collaborando anche con Death In June. Dal 2011 la svolta psichedelica, cambiando nome in Der Blutarsch and The Infinite Church Of The Leading Hand. La cesura musicale con il passato è pressoché totale, dato che qui siamo nei territori della psichedelia più libera e visionaria, per un disco che cattura e porta lontani. La svolta di Albin, che con musicisti come Douglas Pearce, deus ex machina dei Death In June condivide la stessa visione estremamente contraddittoria dell’arte della vita, non gli ha procurato grandi elogi dal suo passato pubblico, mentre invece gli ha fatto guadagnare nuovi adepti tra chi ama la musica più visionaria ed eterea. Wish I Weren’t Here, oltre ad essere una manata nei coglioni ai Pink Floyd e alla musica alternativa tutta, è un disco libero e contundente, un qualcosa di totalmente slegato dalle logiche commerciali, la cosa più lontana che ci possa essere da una zona di comfort. Der Blutarsch con i suoi soci vuole fare male, penetrare nel profondo della nostra psiche modernamente devastata, rompere gli argini del facile, distorcere una realtà già distorta, in un infinito che si ripiega su se stesso. Il suono è dirompente, la voce femminile è quella di una sciamana che ci porta in una regressio ad infinitum, mentre il gruppo evolve in jam che tendono a dilungarsi, con tutti gli spazi riempiti ed il vacuum che non esiste. Il progetto di Albin avanza ulteriormente e fragorosamente, se lo si legge in chiave musicale questo disco è una delle cose migliori che sia ultimamente uscita in campo psichedelico e non solo, perché qui ci sono forti elementi di new wave e di ottimo krautrock. Al di là di qualsiasi altra considerazione, lasciamo parlare appunto la musica per ora, perché quella è ottima.
Tracklist
1.evil
2.wish I weren`t here
3.all one
4.make me see the light
5.just because I can
6.my soul rests free
7.forgotten
8.he is here
9.o lord
I ventitré minuti della conclusiva Singularity potrebbero valere quale sunto di tutto l’album, ma sarebbe come estrapolare da un’opera letteraria di oltre mille pagine un solo capitolo: resta solo da trovare il tempo, prealtro speso benissimo, per dedicarsi all’ascolto di questo capolavoro.
Empath è un album la cui musica potrebbe riempire le discografie di almeno dieci gruppi di generi totalmente diversi uno dall’altro.
Dopo la quantità di materiale ascoltato credo che questo sia il modo più semplice per descrivere l’ultimo capolavoro di quello che probabilmente (gusti a parte) è uno dei geni della musica moderna, un esempio fulgido di come il rock stia all’arte tanto quanto le più “nobili” forme musicali di stampo classico.
Un quadro di colori in costante mutazione, la musica che Devin Townsend ha creato per Empath non trova eguali o facili paragoni, è solo lucida follia tramutata in note che, come sempre, sorprendono ad ogni passaggio ora magniloquente, ora estremo, ora pervaso da una matrice elettronica che, girata la pagina di questo magico spartito, si trasforma in opera a tutti gli effetti.
Lo chiamano progressive, ma sinceramente la musica del canadese è lontana da qualsiasi genere specifico, essendo ormai di livello talmente superiore da rendere difficilissimo termini di paragone, per cui ci si può solo prendere un’ora abbondante della propria vita per perdersi nel mondo musicale di Townsend.
Empath è monumentale in tutto, a partire da un’infinita serie di ospiti infinita, tra i quali Mike Keneally (Frank Zappa) come direttore artistico ed altri come Morgan Ågren (Mats And Morgan, Frank Zappa, Fredrik Thordendal), Anup Sastry (Monuments, Periphery), Samus Paulicelli (Decrepit Birth, Abigail Williams), Nathan Navarro, Elliot Desagnes, Steve Vai, Chad Kroeger, Anneke Van Giersbergen, Ché Aimee Dorval, Ryan Dhale e The Elektra Women’s Choir, arrivando poi ad un cd bonus di materiale extra, per un pieno di musica che passa dal thrash, all’elettronica, dall’opera al grindcore, dal funky/jazz al symphonic metal, in un delirio artistico in realtà perfettamente studiato.
I ventitré minuti della conclusiva Singularity potrebbero valere quale sunto di tutto l’album, ma sarebbe come estrapolare da un’opera letteraria di oltre mille pagine un solo capitolo: resta solo da trovare il tempo, prealtro speso benissimo, per dedicarsi all’ascolto di questo capolavoro.
Tracklist
1. Castaway
2. Genesis
3. Spirits Will Collide
4. Evermore
5. Sprite
6. Hear Me
7. Why?
8. Borderlands
9. Requiem
10. Singularity 1) Adrift 2) I Am I 3) There Be Monsters 4) Curious Gods 5) Silicon Scientists 6) Here Comes The Sun!
Bonus CD “Tests of Manhood”:
1. The Contrarian (Demo) 2. King (Demo) 3. The Waiting Kind (Demo) 4. Empath (Demo) 5. Methuselah (Demo) 6. This Is Your Life (Demo) 7. Gulag (Demo) 8. Middle Aged Man (Demo) 9. Total Collapse (Demo) 10. Summer (Demo)
Line-up
Genesis:
Drums: Anup, Morgan & Samus
Bass: Nathan
Additional Vox: Elektra, Ché & Elliot
Additional Guitar and Keys: Mike Keneally
Spirits Will Collide:
Drums: Anup
Bass: Dev
Additional Vox: Elektra and Elliot
Evermore:
Drums: Anup
Bass: Nathan and Dev
Additional Vox: Elektra and Elliot
Sprite:
Drums: Morgan
Bass: Dev
Additional Vox: Elektra, Elliot, Josefa & Nolly
Hear Me:
Drums: Samus
Bass: Dev
Additional Vox: Anneke Van Giersbergen and Chad Kroeger
Why?:
Drums: Morgan
Bass: Nathan
Additional Vox: Elektra and Elliot
Additional Guitar and Keys: Mike Keneally
Requiem:
Vox: Elektra
Borderlands:
Drums: Anup and Morgan
Bass: Dev and Nathan
Additional Vox: Elektra, Jessica, Eric
Severinsen, Zim, Mike Keneally & Jess
Vaira
Additional Guitar and Keys: Mike
Keneally, Scott Reinson & Ryan Dahle
Singularity:
Drums: Anup, Morgan & Samus
Bass, Dev and Nathan
Additional Vox: Elektra, Anneke and
Elliot,
Whistles: Callum
Additional Guitar and Keys: Steve Vai and
Mike Keneally
Ci sono momenti alla Calexico, cose più vicine a gente come King Dude, lo spirito di un Elvis nettamente sconfitto e purtroppo ancora in vita, aperture che ricordano il più tenebroso american gothic, insomma un grande disco davvero pieno di angoli e di chilometri da fare senza meta.
Dopo sei anni di assenza tornano i livornesi Virginiana Miller, gruppo tra i padri fondatori dell’ indie in Italia che ha sempre fatto cose interessanti, anche se sono cambiate molte cose in sei anni.
Innanzitutto non hanno più nulla da dirci in italiano, come hanno affermato loro, e allora cantano in inglese. E nella lingua di oltremanica ci raccontano come immaginano l’America vista da Torino, senza muoversi da casa, usando testimonianze e quell’immenso immaginario che ha prodotto la terra americana in questi anni. In pratica si potrebbero considerare gli Stati Uniti come uno sconfinato produttore di sogni, incubi, racconti ed immagini. Tutti noi ci siamo abbeverati, e tuttora lo facciamo, ma i Virginiana Miller vanno oltre e lo raccontano attraverso nove tracce di bellissimo indie rock, con la voce di Simone Lenzi che in inglese è ancora più incisiva che in italiano, e non era facile. Il disco è un concentrato di pop rock composto e suonato ad un livello superiore, unendo musicalmente Inghilterra, Italia e Usa, in un qualcosa di molto originale, in linea con la produzione precedente e andando oltre, da grande gruppo. Se l’ascoltatore non lo sapesse, potrebbe pensare che questo disco sia di un gruppo americano, e ciò per le atmosfere, la languida sensualità dell’unione fra parole e musica, e quei racconti di polvere e merda che poi è l’America vera, quella che non si vede ma decisamente maggioritaria rispetto a quella che appare sui nostri schermi. Difficile sbarcare il lunario là, nonostante i tanti proclami di un’America che tornerà ancora grande, forse l’America è morta o forse è solo un luogo della mente, e l’unica maniera per raccontarla è quella dei Virginiana Miller. Tornando a loro, con questo lavoro dopo una lunga pausa, confermano d’essere uno dei migliori gruppi italiani, nel senso che riescono ad andare oltre le loro gloriosa storia per fare un qualcosa di dirompente e davvero nuovo. Ci sono momenti alla Calexico, cose più vicine a gente come King Dude, lo spirito di un Elvis nettamente sconfitto e purtroppo ancora in vita, aperture che ricordano il più tenebroso american gothic, insomma un grande disco davvero pieno di angoli e di chilometri da fare senza meta. I Virginiana Miller potevano fare un disco più confortevole e facile, mentre qui raccontano usando codici nuovi per loro, e dimostrando che possono fare ciò che vogliono sempre con ottimi risultati. Un grande ritorno, ma in realtà non se ne sono mai andati, siete voi che avete la fregola di avere un disco all’anno come minimo, questo è artigianato musicale.
” The sky is clear / We feel safe / In the fallout shelter / God is strong / No communists around ”
Tracklist
01. The Unreal McCoy
02. Lovesong
03. Old Baller
04. Motorhomes Of America
05. Christmas 1933
06. The End Of Innocence
07. Soldiers On Leave
08. Toast The Asteroid
09.Albuquerque
Line-up
Antonio Bardi: Electric and acoustic guitar
Daniele Catalucci: Bass, backing and harmony vocals
Giulio Pomponi: Acoustic and electric piano, synth, farfisa, keyboards
Matteo Pastorelli: Electric, acoustic and steel guitar, Synth, Mini theremin
Simone Lenzi: lead vocals
Valerio Griselli: drums
Ale Bavo: synth on The unreal McCoy
Ada Doria, Daniela Bulleri: harmony vocals on The unreal McCoy
Andrea “Ciro” Ferraro: harmony vocals on Soldiers on leave
Matteo Scarpettini: percussions on Old baller, Motorhomes of America, Christmas 1933, The end of innocence, Soldiers on leave, Toast the asteroid, Albuquerque