Warp – Warp

Diverse ma ancora più estreme rispetto a quelle americane, le aree desertiche del loro paese hanno ispirato non poco questo trio israeliano che dimostra notevole competenza in fatto di psichedelia, stoner ed heavy doom.

Questa macchina macina riff chiamata Warp proviene da Tel Aviv e debutta con questa mezzora di stordente e psichedelico lavoro omonimo.

Diverse ma ancora più estreme rispetto a quelle americane, le aree desertiche del loro paese hanno ispirato non poco i tre musicisti israeliani che corrispondono a Itai Alzaradel (chitarra e voce), Sefi Akrish (basso e voce) e Mor Harpazi (basso e voce), un trio che dimostra notevole competenza in fatto di psichedelia, stoner ed heavy doom con questa jam di mezzora divisa in otto brani potenti, drogati ed ispirati tanto dall’heavy rock settantiano, quanto dallo stoner/doom anni novanta.
Il riff viene rimesso sul trono del rock dagli Warp, stordente come i raggi del sole che scaldano la sabbia del deserto, accompagnato da liquide parti jammate dove psych e hard rock si fondono tra le rocce arroventate tra le quali stanno in agguato serpi e scorpioni micidiali in attesa del passaggio delle loro vittime.
Licenziato in cd dalla Reality Rehab Records ed in seguito nella versione in vinile dalla Nasoni Records, Warp ci fa viaggiare tra illusioni ottiche in cui appaiono oasi di musica fuori dal tempo, tra atmosfere dilatate, solos incisivi e blues sporco di hard rock stonato a caratterizzare brani come l’opener Wretched, Gone Man, Out Of My Life e la conclusiva Enter The Void.
Sleep, Orange Goblin, Radio Moscow sono i primi nomi che sovvengono tra gli indistinti miraggi che appariranno dopo le troppe ore trascorse al sole.

Tracklist
1.Wretched
2.Into My Life
3.Gone Man
4.”Confusion Will Be My Epitaph” Will Be My Epitaph
5.Intoxication
6.Out Of My Life
7.Hey Littly Rich Boy II
8.Enter The Void

Line-up
Itai Alzaradel – Lead Guitar, Vocals
Sefi Akrish – Bass Guitar, Vocals
Mor Harpazi – Drums, Vocals

Mike Tramp – Stray From The Flock

Stray From The Flock è dunque un lavoro consigliato non solo ai fans di Mike Tramp ma anche a chi ha piacere di ascoltare del buon rock melodico di matrice statunitense.

White Lion, Freak Of Nature, senza dimenticare la collaborazione con gli House of Lords sul bellissimo Sahara (1990) e la sua lunga carriera solista, arrivata con questo splendido Stray From The Flock all’undicesimo album in studio.

Parliamo ovviamente di Mike Tramp, singer di origine danese tornato con dieci nuovi brani raccolti in un album imperdibile per gli amanti dell’hard rock melodico.
Registrato all’Ark Studio in Danimarca e mixato in Svezia da Peter Masson, Stray From The Flock risulta, a detta di Tramp, un ritorno alle radici del rock’n’roll, ma diciamo che, molto probabilmente l’atmosfera che si respira è più quella di un album cantautorale, registrato su coordinate semi acustiche e arioso nel quale il vocalist dà sfoggio di tutto il bagaglio musicale che si porta dietro da anni, tra aor, west coast e rock che, come suggerisce l’artwork, disegna paesaggi da frontiera e sconfinate aree incontaminate.
La voce del cantante nordico aiuta ad immergersi in questo sogno ad occhi aperti, con l’aiuto di una raccolta di brani convincenti tra John Mellencamp ed un Tom Petty d’annata, uniti sotto l’egida di un rock melodico che solo raramente lascia le briglie e cavalca selvaggio.
Live It Out riassume le caratteristiche peculiari del nuovo album e, con Dead End Ride e One Last Mission, forma la sacra triade di Stray From The Flock che si avvale di una qualità tale da non scendere da un livello di eccellenza, consegnandoci un Mike Tramp in splendida forma.
Stray From The Flock è dunque un lavoro consigliato non solo ai fans dell’ex White Lion ma anche a chi ha piacere di ascoltare del buon rock melodico di matrice statunitense.

Tracklist
1.No End To War
2.Dead End Ride
3.Homesick
4.You Ain’t Free No More
5.No Closure
6.One Last Mission
7.Live It Out
8.Messiah
9.Best Days Of My Life
10.Die With A Smile On Your Face

Line-up
Mike Tramp – Guitars, Vocals

MIKE TRAMP – Facebook

Kamion – Gain

I Kamion si presentano in modo assolutamente convincente sulla scena underground con un lavoro robusto e tellurico come Gain, consigliato agli amanti dei gruppi citati quale riferimento.

Una folle corsa senza freni con un mastodontico mostro a sei ruote, un muro d’acciaio e sangue che spazza via ogni ostacolo.

Gain è il debutto dei Kamion, uscito autoprodotto lo scorso anno e ora promosso dall’Atomic Stuff, label nostrana con cui il quintetto veneto ha iniziato a collaborare.
Mezzora di pesantissimo heavy/thrash rock è quello che ci propone il gruppo con Gain, lavoro composto otto brani pregni di groove, ripartenze veloci e mid tempo pesantissimi.
L’opener The Reaper apre le ostilità, come un micidiale predatore aspetta il momento giusto per colpire, tra bordate metalliche, sferzate thrash metal ed attitudine heavy rock.
Bruciante e diretta, Another God va a formare un’accoppiata vincente con l’opener, ma è tutta la tracklist di Gain che non perde un colpo, tra esplosioni di nitroglicerina metallica.
I Kamion vedono al microfono una vera tigre come Dodo, singer molto conosciuto nella scena veneta, i due chitarristi e fondatori Paul e Patch e la sezione ritmica composta dal bassista Lux e dal batterista Dan a formare un combo massiccio, ispirato dalla scena metal statunitense e da band come Black Label Society, Pantera ed Alice In Chains, influenze primarie del quintetto che marchiano brani granitici come Mr.Sucker e Going Wrong.
Un grande brano è anche la conclusiva Jungle, mix perfettamente bilanciato tra le band dell’orso Zakk Wilde e di Jerry Cantrell due dei musicisti più influenti della scena metal/rock a stelle e strisce degli ultimi trent’anni.
I Kamion si presentano in modo assolutamente convincente sulla scena underground con un lavoro robusto e tellurico come Gain, consigliato agli amanti dei gruppi citati quale riferimento.

Tracklist
01. The Reaper
02. Another God
03. Queen Of Hate
04. Home
05. Mr. Sucker
06. Going Wrong
07. Escape
08. Jungle

Line-up
Dodo – Vocals
Paul – Lead Guitar
Patch – Rhythm Guitar
Lux – Bass
Dan – Drums

KAMION – Facebook

Sergeant Thunderhoof – Terra Solus

Un viaggio a ritroso nel tempo, un’esplorazione musicale del cosmo, che attinge al cospirazionismo alieno con sonorità calde e valvolari, analogiche e vintage.

Gli inglesi Sergeant Thunderhoof già avevano impressionato in termini altamente positivi con Ride of the Hoof (2015).

Con questa quarta fatica, come sempre autoprodotta, la band britannica non fa altro che confermare – sin dalle bellissima copertina, stile Andromeda-Saturnalia – tutte le proprie indubbie qualità. Siamo in presenza di un heavy psych che guarda esplicitamente al passato (non di uno stoner moderno, come numerose volte in questi casi accade). In particolare, nelle otto tracce di questo Terra Solus, tutte di durata compresa tra i quattro e i nove minuti complessivi, si respira aria di fine anni Sessanta-primissimi Settanta. Arcadium, Pink Floyd, Astral Navigations e Dark paiono essere gli amori musicali del gruppo inglese, che ci dona un platter di suoni pesanti e ipnotici, scuri e fantascientifici. La scrittura è sempre abbastanza complessa, le ambientazioni sonore a tratti quasi siderali (vengono in mente pure i primi tre degli UFO oppure gli ultimi Move di Roy Wood, nonché gli Hawkwind degli esordi). Anche i titoli e testi dei vari brani confermano un’attitudine molto rock e spaziale. A livello lirico e ispirativo, i Sergeant Thunderhoof mettono inoltre in mostra testi molto colti ed intelligenti, complessi e sofisticati, consacrati per lo più a temi quali il cospirazionismo, gli Illuminati, la mitologia aliena e la tradizione esoterica ed astrologico-occulta. Vale davvero la pena di ascoltarli, nonostante non siano di facilissima reperibilità dalle nostre parti (ci si può rivolgere a Black Widow di Genova). Le edizioni in vinile, oltre ad essere magnifiche, rendono giustizia a tutto l’immaginario musicale e iconografico dei Sergeant Thunderhoof, un combo realmente senza tempo, capace di riportare in vita (nell’episodio conclusivo) pure certe ritmiche raga della Notting Hill di fine ’60.

Tracklist
1- Another Plane
2- Stellar Gate Drive
3- The Tree and the Serpent
4- B Oscillation
5- Diesel Breath
6- Priestess of Misery
7- Half a Man
8- Om Shaantih

SERGEANT THUNDERHOOF – Facebook

Ruxt – Back To The Origins

La voce che fa vibrare corde ormai sopite, le chitarre foriere di riff spettacolari e la sezione ritmica rocciosa e sempre sul pezzo danno lustro ad una raccolta di brani a tratti esaltanti: questo è Back To The Origins e questi sono i Ruxt, che con una punta d’orgoglio campanilistico possiamo senz’altro definire una delle massime espressioni del genere in assoluto.

Era il 2016 quando sulle pagine di MetalEyes si parlava per la prima volta dei Ruxt, hard rockers genovesi che debuttavano con il notevole Behind The Masquerade, album che proponeva un sound ispirato da Dio e Whitesnake, ma riletto in chiave moderna e groovy.

Il secondo, bellissimo Running Out of Time vedeva un gruppo in continua crescita con il proprio sound che, ben radicato nella scuola britannica, espandeva i suoi orizzonti tra Rainbow e Deep Purple con l’asso nella manica rappresentato dal singer Matt Bernardi, straordinario interprete a metà strada tra Coverdale e Dio o, più semplicemente emulo del grande Jorn Lande.
Il gruppo si presenta con un nuovo album ed una line up che vede l’avvicendamento alla batteria tra Alessio Spallarossa (Sadist) e Alessandro Fanelli (Ashen Fields , ex Path Of Sorrow), mentre le vecchie volpi del rock genovese sono tutte ancora al loro posto (il bassista Steve Vawamass, Stefano Galleano e Andrea Raffaele alle chitarre, ed ovviamente Matt Bernardi al microfono).
Back To The Origins conferma dunque il valore assoluto di questa band nel genere, andando forse oltre alle più rosee aspettative grazie ad una alchimia consolidata tra i musicisti, un tocco di sana gioventù portata dal nuovo drummer, ed una consapevolezza ancora più accentuata dell’essere una delle realtà più convincenti nel portare avanti la tradizione britannica sulla scena hard rock del nuovo millennio.
Già dal titolo si intuisce che i Ruxt questa volta hanno dato ampio spazio alle produzioni a cavallo tra gli anni settanta e ottanta con l’accoppiata d’apertura Here And Now/I Will Find Away che fanno vibrare la lingua del serpente bianco tatuato sulla mia spalla (dalla copertina di Trouble).
E’ un sussulto continuo l’ascolto del nuovo lavoro targato Ruxt: la scaletta alterna tracce dall’appeal più moderno ed in linea con quanto fatto dal Lande solista a quelle di ispirazione tradizionale che gli esperti del genere avranno già potuto ascoltare non solo sui monumentali lavori delle band storiche ma anche in quel Once Bitten… che Lande registrò con la storica coppia Moody/Marsden sotto il monicker The Snakes.
La voce che fa vibrare corde ormai sopite, le chitarre foriere di riff spettacolari e la sezione ritmica rocciosa e sempre sul pezzo danno lustro ad una raccolta di brani a tratti esaltanti, heavy rock alla massima potenza sporcato da quel tocco di blues che fece la fortuna del rettile più famoso della storia del rock: questo è Back To The Origins e questi sono i Ruxt, che con una punta d’orgoglio campanilistico possiamo senz’altro definire una delle massime espressioni del genere in assoluto.

Tracklist
1. Here And Now
2. I Will Find The Way
3. All You Got
4. River Of Love
5. Be What You Are
6. Train Of Life
7. Another Day Without Your Soul
8. Come Back To Life
9. Remember The Promise You Made
10. Tonight We Dine In Hell
11. Back To The Origins

Line-up
Matt Bernardi – Vocals
Stefano Galleano – Guitars
Andrea “Raffo” Raffaele – Guitars
Steve Vawamas – Bass
Alessandro “Attila” Fanelli – Drums

RUXT – Facebook

Gandalf’s Owl – Who’s The Dreamer?

Con questa prova il musicista siciliano dà riprova del suo eclettismo, dote assolutamente dai connotati positivi ma che in futuro andrebbe maggiormente incanalata per evitare di disperdere in qualche rivolo di troppo un sound decisamente pregevole.

Dopo l’esordio di qualche anno fa ritroviamo Gandolfo Ferro, vocalist degli Heimdall, alle prese con il suo progetto solista Gandalf’s Owl.

Rispetto a quell’ep, dal quale vengono riprese comunque due tracce (Winterfell e White Arbour (…The North Remembers), c’è di sicuro un elemento nuovo che è l’utilizzo della voce in alcuni brani, cosa in effetti desueta per opere di matrice ambient. Ferro ovviamente non utilizza per lo più i toni stentorei esibiti in ambito power (fa parzialmente eccezione solo A Dwarf In The Lodge Pt2) ma offre uno stile più soffuso ed adeguato al contesto.
Il lavoro oscilla tra tracce ambient tout court ai confini del rumorismo (Garmonbozia) o altre che evocano scenari naturalistici, tra voli di gabbiani e sciabordio delle onde (White Arbour), ed episodi in cui si evince un’anima più spiccatamente prog, grazie soprattutto ad un elegante e gilmouriano lavoro chitarristico senza che vengano tralasciate incursioni elettroniche.
Discorso a parte merita la cover del capolavoro de Le Orme, Il Vento, La Notte, Il Cielo, molto ben eseguita e a mio avviso opportunamente arrangiata in modo da non apparire pedissequamente uguale all’originale, a rimarcare l’impronta progressive fornita al disco in più frangenti.
Spingendosi su una distanza più probante, Ferro lascia fluire in manie ancor più libera la propria naturale ispirazione e questo lo porta talvolta a sconfinare, nel senso che arrivati al termine di un album comunque decisamente ben riuscito, non si capisce però se sia ascoltato un lavoro di matrice ambient dalla spiccata indole progressive, o viceversa; ammesso che tutto ciò sia un difetto, resta il fatto che l’unico problema di Who’s The Dreamer? È la sua difficile catalogazione anche se, considerando il comune bacino di utenza a cui il lavoro è rivolto, tutto sommato i suoi contenuti dovrebbero mettere d’accordo più persone.
Con questa prova il musicista siciliano dà riprova del suo eclettismo, dote assolutamente dai connotati positivi ma che in futuro, a mio avviso, andrebbe maggiormente incanalata per evitare di disperdere in qualche rivolo di troppo un sound decisamente pregevole.

Tracklist:
1. Winterfell
2. A Dwarf In The Lodge Pt1
3. A Dwarf In The Lodge Pt2
4. Garmonbozia
5. Between Two Worlds
6. White Arbour (…The North Remembers)
7. Sunset By The Moon
8. Coming Home
9. Il Vento, La Notte, Il Cielo (cover LE ORME)

Line Up:
Gandolfo Ferro: all instruments
Guests:
Gaetano Fontanazza:
Guitar Ambient, Keys & Tibetan Bells on tracks 1-2-3-7
Tony Colina: Keys & Organs on tracks 5-7-9

GANDALF’S OWL – Facebook

 

Zebrahead – Brain Invaders

Un album molto piacevole, uno dei migliori episodi della discografia di un gruppo dato per morto tante volte ma che spinge sempre.

Certe cose non cambiano mai, metti l’ultimo disco dei Zebrahead e non riesci a stare fermo, e ciò succede dal 1995 quando furono fondati in California nella Orange County. Con questo fanno tredici dischi e non si vede il motivo per smettere, anzi.

La loro mistura di pop punk, un nu metal leggero ed hardcore melodico continua a far divertire molte persone in giro per il globo, ora come venti anni fa. Il segreto dei Zebrahead è fare musica veloce e da cantare a squarciagola, prendendo la velocità dell’hardcore melodico, la melodicità del pop punk e passaggi di numetal e rapcore che permettono di fare un suono originale. Brain Invaders è la conferma che la formula è vincente, anche perché questa opera è decisamente la migliore dell’ultimo periodo della loro discografia, se non addirittura sul podio. Questo è un suono decisamente americano, in apparenza facile, ma invece racconta cose non semplici da dire, come il gran bel messaggio del singolo All My Friends Are Nobodies, ovvero stare vicino a chi vuoi bene anche se non sei tu stesso in un bel periodo, inoltre il singolo è una bellissima traccia che racchiude tutto ciò che sono i Zebrahead: velocità, messaggio e divertimento. Questo gruppo è pressoché indistruttibile, ha avuto vari cambi di formazione, ha pubblicato con major per arrivarsi ad autoprodursi come ora. Inoltre sono uno dei gruppi rock metal fra i più amati dai giapponesi, infatti il disco uscirà prima in Giappone che nel resto del mondo, dato che da quelle parti hanno sempre avuto buon gusto per il rapcore ed affini. Alcuni diranno che è il segno dei tempi, invece la normalità è ora, mentre venti anni fa era una bolla di pazza megalomania che doveva scoppiare ed è scoppiata. Ora gli Zebrahead hanno il controllo totale ed i risultati sono eccellenti, come testimonia questo disco che non è assolutamente fuori tempo massimo e, anzi, dimostra che certi suoni se fatti con passione e cura sono molto attuali. I riempitivi in questo lavoro sono al massimo uno o due, il resto sono tutti potenziali singoli, con una manciata di episodi che valgono l’intero disco. Chi era già in giro venti anni fa potrà riscoprire fragranze e suoni che sembravano essere andati persi, invece per i più giovani sarà una scoperta non da poco. I Zebrahead sono in gran forma e il tutto viene messo in risalto da una produzione davvero potente, che confeziona un suono fresco ed immediato. Un album molto piacevole, uno dei migliori episodi della discografia di un gruppo dato per morto tante volte ma che spinge sempre.

Tracklist
1. When Both Sides Suck, We’re All Winners
2. I Won’t Let You Down
3. All My Friends are Nobodies
4. We’re Not Alright
5. You Don’t Know Anything About Me
6. Chasing the Sun
7. Party on the Dancefloor
8. Do Your Worst
9. All Die Young
10. Up in Smoke
11. Ichi, Ni, San, Shi
12. Take A Deep Breath (And Go Fuck Yourself)
13. Better Living Through Chemistry
14. Bullet on the Brain

Line-up
Ali Tabatabaee – vocals
Dan Palmer -guitar
Ben Osmundson -bass
Ed Udhus – drums/beer
Matty Lewis – vocals/guitar

ZEBRAHEAD – Facebook

Ring Van Moebius – Past the Evening Sun

Dark prog vandergraafiano per questo terzetto norvegese, che dimostra una volta di più quanto resti particolare e creativo l’approccio musicale di chi viene da Nord.

Tra gli dei immortali del progressive, i Van den Graaf Generator sono stati sempre i meno imitati (al riguardo ci vengono in mente, di primo acchito, giusto gli Islands svizzeri, i Netherworld americani, i TNR ed Egoband italiani, gli Uberfall tedeschi).

Del resto, non è mai stato, né è, facile accostarsi alla sepolcrale energia della creatura di Peter Hammill. Ci riescono, oggi, questi norvegesi Ring Van Moebius, amici dei connazionali e crimsoniani Arabs in Aspic, trio (con la fondamentale aggiunta di un sassofonista, davvero molto alla David Jackson) che rinuncia intenzionalmente alla chitarra, per esplorare, con tastiere-basso-batteria, atmosfere nel medesimo tempo melodiche e oscure, pregne di umori nordici e brumosi, non privi comunque di un certo calore, o quantomeno della ricerca di esso attraverso la ricerca compositiva. Con i tre brani di questo lavoro – la suite di 22 minuti che apre il disco, un più conciso interludio ed un’altra mini-suite a chiudere l’album (ad ogni modo, di quasi 12 minuti) – siamo a livelli assai alti: tanta magia si spigiona da questi solchi, pieni di fantasia, di belle aperture ed accelerazioni, con uno sviluppo interno della trama sonora che non perde mai di vista il suo filo logico e la coerente identità artistica di questi tre hippies, innamorati di suggestioni a tratti lovecraftiane. Molto bella anche la copertina che riecheggia Can e Harmonia.

Track list
1- Past the Evening Sun
2- End of Greatness
3- Racing the Horizon

Line up
Thor Erik Helgesen – Vocals / Keyboards / Moog / MS20
Havard Rasmussen – Bass / Effects
Dag Olav Husas – Drums / Effects
Karl Christian Gronhaug – Sax

RING VAN MOEBIUS- Facebook

Luciano Onetti – Sonno profondo / Francesca

Fantastico lavoro di dark prog cinematografico, per chi ama le colonne sonore di film gialli, thriller e horror vecchia scuola.

I Tangerine Dream nel 1977, naturalmente i Goblin (per Dario Argento, e non solo), più di recente l’americano Steve Moore, degli Zombi: tutti nomi grandi ed importanti, nell’universo delle colonne sonore per pellicole dell’orrore e dintorni.

La genovese Black Widow, da sempre attentissima a tale nesso, strettamente instauratosi sin dagli anni Settanta, tra musica e cinema, pubblica ora due lavori di Luciano Onetti, insieme regista e musicista: Sonno profondo e Francesca sono, infatti, due film indipendenti, scritti e diretti da Onetti. Le locandine, che vanno a comporre la grafica dei dischi – nel CD li troviamo abbinati – poggiano in maniera intenzionale su una grafica che pare direttamente uscire dalla prima metà degli anni Settanta italiani. Spirito underground, amore per le tinte forti nel dominio giallo-horror (prima che si iniziasse a parlare di thriller movies), suoni analogici, melodie e ritmi serrati: tutto questo accompagna l’immagine in movimento. E tutto questo si ritrova nei pezzi di queste due soundtracks: barocchi ed eleganti, progressivi e oscuri, senza mai perdere di vista quel che è e deve essere l’impatto rock di fondo. Efficacissimo, in merito, l’interplay chitarra-tastiere, con Korg PA600 e Yamaha psr s710 sugli scudi. Luciano Onetti, come John Carpenter, è dunque autore completo: compone in funzione dell’immagine e quest’ultima, a sua volta, trae linfa e forza – come ci ha insegnato l’immenso Ennio Morricone, sin dalle sue colonne sonore per le prime tre pellicole di Dario Argento (1970-1971) – dal contributo musicale stesso. Che è, in questo senso, apporto; non soltanto mero supporto. D’altra parte, come diceva Gilles Deleuze, la musica è suono in movimento e il cinema immagine in movimento. Con Onetti l’interscambio tra i due è fortissimo, con opportuni tocchi gotici ed elettronici, sempre e comunque di ascendenza Seventies (leggasi al riguardo Fabio Frizzi, altro maestro). Grandiosamente inquietante: una autentica sinfonia nera, magistrale pure nei suoni, sovente sperimentali e talvolta spaziali.

Tracklist
1- Mamma
2- Nel profondo
3- Sonno profondo
4- Nero
5- Assassino
6- Soddisfazione
7- Ricordare
8- Finale
9- Francesca
10- La bambola di Francesca
11- Caronte senza tregua
12- Inferno 8
13- Motus Tenebrae
14- Demonio guardiano
15- Una moneta sugli occhi
16- Canto III
17- Guanti rossi
18- Canto dell’Inferno
19- Jazz psicopatico
20- Paolo e Francesca
21- Canto V
22- Città dolente

Line up
Luciano Onetti – Guitars / Bass / Drums / Electronic Drums / Keyboards / Synthesizers / Effects / Piano

LUCIANO ONETTI – Facebook

Acajou – Under The Skin

Questo lavoro è la dimostrazione che talento, sicurezza e possibilità di non dover dimostrare nulla possono portare a fare ottime cose, e Under The Skin è una di quelle piccole che rendono migliore la vita.

Tornano dopo molti anni i padovani Acajou, con il loro secondo disco Under The Skin.

Il gruppo fu incluso nella mitica raccolta Stone Deaf Forever, in compagnia di The Atomic Bitchwax, Beaver, Ufomammut, Spirit Caravan, Unida ed altri. Nati a cavallo dell’epoca grunge con quella stoner, i padovani sono tornati e sono molto meglio di prima. Il loro disco di esordio era un quattro pezzi del 1998 intitolato Hidden From All Eyes ed era piuttosto stoner grunge, mentre quello attuale è un lavoro maturo a basi di blues, rock, grunge, funky e tanta classe. Si rimane sinceramente stupiti dalla fluidità e dalla quieta bellezza di un disco composto e suonato in totale libertà. Ascoltando Under The Skin i suoni caldi, sinuosi e potenti degli Acajou in breve tempo conquisteranno l’ascoltatore che in seguito non ne potrà più fare a meno. Davvero peculiare un ritorno dopo così tanto tempo di un gruppo che ha suonato ere musicali fa, e per di più di così grande impatto poi. Definire un genere è difficile per questo album, perché si spazia in molti lidi musicali, ma si può dire che il sentimento generale sia blues rock, e c’è anche del ritmo funky in una miscela che raramente troviamo alle nostre latitudini. Questo lavoro è la dimostrazione che talento, sicurezza e possibilità di non dover dimostrare nulla possono portare a fare ottime cose, e Under The Skin è una di quelle piccole che rendono migliore la vita. La voce di Marco Tamburini scalda il cuore e lo scartavetra un po’, con il suo timbro blues ma adatto anche a molto altro. Un disco molto piacevole da ascoltare, che libera l’anima e predispone bene senza negare che la vita sia un casino, ma se mettiamo i piedi per terra qualcosa sarà.

Tracklist
01 La Ferrari
02 We’ve Never Met
03 Old Home Boy
04 Under The Skin
05 In The Waves
06 Sometimes
07 Jeez (in The Mood For Love)
08 Dim Noise

Line-up
Filippo Ferrarretto – basso
Nicola Tomas Moro – chitarra
Simone Ruffato – batteria
Marco Tamburini – voce e synth

ACAJOU – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=EhdIePuVll8)

Paolo Siani & Nuova Idea – The Leprechaun’s Pot of Gold

Nuovo capitolo della intrigante collaborazione di Paolo Siani con i Nuova Idea, nomi veramente storici del nostro prog.

Dopo il disco Castles, Wings, Stories and Dream (2010), il Live Anthology (2010) su DVD e Faces With No Traces (2016, con ex membri dei Prodigy) tornano a incidere Paolo Siani e i Nuova Idea, al terzo capitolo della trilogia The Leprechaun’s Pot of Gold.

Si tratta di otto magnifici pezzi, con – in più – la registrazione di una storica esibizione dal vivo presso la Rai nel 1971: un vero documento d’epoca. Le atmosfere di questo nuovo album si muovono nel solco del pro tradizionale, con tocchi di stampo blues e inflessioni floydiane, con in aggiunta belle liriche di taglio esistenziale. Le tracce sono assai incisive, malgrado una solo apparente morbidezza. Chi ama il calore delle produzioni di impronta vintage rimarrà di certo conquistato da questo lavoro, moderatamente sinfonico e ricco di ospiti di pregio. Tra questi, segnaliamo almeno Martin Grice al sax ed al flauto, Giorgio Usai alle tastiere, Roberto Tiranti e Guido Guglielminetti al basso e Marco Biggi alla batteria. La presenza di uno strumento come il theremin dona poi un tocco volutamente ‘antico’ a tutto il lavoro, già di per sé impregnato di atmosfere old fashioned. Il livello delle composizioni, assai omogenee, è assai alto e su tutte forse si staglia il decadentismo sonoro del pezzo dedicato a Georges Brummel, tra i padri del dandismo (come ebbe a rimarcare già il grande Barbey d’Aurevilly).

Tracklist
1- Standing Alone I / II
2- Inflate Your Veins
3- The Leprechaun’s Pot of Gold
4- Statue of Wax
5- Lord Brummel
6- Walking on the Limit
7- Time to Play
8- We’re Going Wrong

Line up
Paolo Siani / Marco Biggi – Drums
Anthony Brosco / Paul Gordon Manners – Vocals
Roberto Tiranti / Guido Guglielminetti – Bass
Martin Grice – Reeds
Ivana Gatti – Theremin
Nick Carraro – Guitars
Giorgio Usai – Hammond Organ
Giangiusto Mattiucci – Fender Rhodes

PAOLO SIANI – Facebook

https://www.facebook.com/malaproduction87/videos/paolo-siani-feat-nuova-idea-three-things-official-video/1032381440155444/

Hauméa – Unborn

La voce, il suono, l’essere portati lontani, una musica coinvolgente, veloce e dura, il metal nel suo lato più melodico e la speranza di essere salvati. Un debutto di sole quattro canzoni ma gigantesco.

L’underground metal è un mondo bellissimo, nel quale le sorprese stanno dove meno te lo aspetti e in cui si possono trovare dischi come questo ep di debutto dei normanni Hauméa, una piccola meraviglia di metal melodico.

In questi quattro brani che compongono il primo atto discografico di questo gruppo nato nel 2018, sono concentrati molte delle cose che rendono piacevole un disco di metal melodico. Melodia per l’appunto, belle aperture e la sensazione di trovarsi di fronte ad una band mai banale e di talento. Non c’è una netta appartenenza ad un genere, quanto piuttosto la volontà di fare musica ben fatta e piacevole, con molta melodia che si lega alla durezza di un metal che è qualcosa in più di un hard rock. Colpisce la grande maturità di un gruppo formatosi da poco, ma le canzoni di Unborn sono una testimonianza di talento e versatilità. Il pathos è molto alto, le canzoni sono costruite in maniera da rimanere impresse nella testa degli ascoltatori, non sono musiche per un ritornello o per un motivo musicale, ma sono composizioni che vanno ascoltate e degustate nella loro interezza. La direzione è dettata dalle emozioni e da una costruzione che risente molto del gusto grunge, quell’andare su e giù con chitarroni distorti, rendendo bene il gusto di un certo gotico moderno che è qualcosa ci difficile da maneggiare, ma qui è nelle mani giuste. Gli Hauméa sono un gruppo che già al primo colpo ha una fisionomia ed un suono assolutamente precisi e personali, basta ascoltare il primo minuto dell’iniziale Unborn che già si è dipendenti ed assuefatti senza speranza. La voce, il suono, l’essere portati lontani, una musica coinvolgente, veloce e dura, il metal nel suo lato più melodico e la speranza di essere salvati. Un debutto di sole quattro canzoni ma gigantesco.

Tracklist
1.Unborn
2.Not Usual
3.Dad Is Fool
4.Here I am

HAUMEA – Facebook

Robben Ford – Purple House

Robben Ford da vita ad un lavoro vario, benedetto da un’alternanza di generi che vanno dal southern al blues, dal rock alla fusion in un caleidoscopio di sgargianti colori di musica che ha nella chitarra sempre ispirata di Ford la bacchetta magica per ammaliare per l’ennesima volta i fans del genere.

Per gli amanti del rock a stelle e strisce di matrice blues, southern e fusion un nuovo album del guitar hero Robben Ford è un appuntamento imperdibile.

Lo storico chitarrista statunitense in oltre mezzo secolo di carriera ha collaborato con i più grandi artisti della storia del rock: da Miles Davis, a George Harrison, da Joni Mitchell ai Kiss, senza dimenticarsi di Dizzy Gillespie, Georgie Fame, Steely Dan e tanti altri.
La leggendaria marca di chitarre Fender gli ha dedicato una sua creazione (Robben Ford Signature), mentre la rivista Musician lo ha inserito nella classifica dei migliori cento chitarristi del mondo.
Con queste premesse è chiaro che Purple House è un album importante e che, diciamolo subito, non tradisce le attese, almeno per chi segue il chitarrista americano nel suo esemplre percorso da solista.
L’album è stato registrato in studio e co-prodotto da Casey Wasner e in veste di ospiti hanno collaborato la cantante blues Shemekia Copeland, il cantante dei Natchez Travis McCready e la band del Mississippi Bishop Gunn.
Robben Ford dà vita ad un lavoro vario, benedetto da un’alternanza di generi che vanno dal southern al blues, dal rock alla fusion in un caleidoscopio di sgargianti colori di musica
che ha nella chitarra sempre ispirata la bacchetta magica per ammaliare per l’ennesima volta i fans del genere.
L’opener Tangle With Ya, la splendida Bound For Glory, che profuma di grano arso dal sole del sud, il southern blues di Break In The Chains e Somebody’s Fool sono i brani trainanti di questa bellissima raccolta di canzoni che confermano ancora una volta il talento di questo immenso musicista.

Tracklist
1.Tangle with Ya
2.What I Haven’t Done
3.Empty Handed
4.Bound for Glory
5.Break in the Chain
6.Wild Honey
7.Cotton Candy
8.Willing to Wait
9.Somebody’s Fool

Line-up
Robben Ford – Guitars

ROBBEN FORD – Facebook

Asymmetry of Ego – Forsake Beyond the Dusk

Una giovane band nostrana, la dimostrazione che la modernità può guardare (e con frutto) alla tradizione. Senza essere eccessivamente post, per chi ama ad esempio i Coheed and Cambria.

Negli anni Novanta l’alternative rock fu – o comunque divenne presto – una moda, dichiaratamente nemica della tradizione rappresentata dal progressive e dal metal.

Oggi che molta acqua è passata sotto i ponti, tante cose – giudizi, limitazioni, pregiudizi – sono cambiate e per fortuna in meglio, al punto che si possono esprimere diverse e più serene valutazioni. Gli Asymmetry of Ego – bel nome, complimenti! – provengono dal giro del rock alternativo, anzi di fatto lo suonano. Eppure, il gruppo genovese sa altresì incorporare, all’interno della propria gamma sonora, anche elementi progressivi, che rendono più obliqua la scrittura musicale (fra l’altro, amano molto i Genesis), nonché di matrice metal (apprezzano i Circle ed adorano i Pain of Salvation). Tutto ciò concorre a rendere assai varia e diversificata la proposta complessiva di queste dieci interessantissime tracce. Ovviamente, la band può e deve ulteriormente progredire, tuttavia questo Forsake Beyond the Dusk già si segnala per una bella serie di idee ben tradotte in pratica. Avanti così, dunque.

Tracklist
1 Intro
2 Erase Myself
3 The Sound of Brightness
4 The Monster
5 Deep From the Underground
6 I Don’t Know
7 One Word
8 Fake Lies
9 The Antheap Awakers
10 Outro

ASYMMETRY OF EGO – Facebook

The High Jackers – Da Bomb

Da Bomb è un disco assolutamente consigliato, un ritorno a sonorità che hanno marcato in modo indelebile la storia della musica e della cultura del secolo scorso e che risulta imprescindibile anche nel nuovo millennio.

Da Bomb è il primo lavoro dei The High Jackers, un manipolo di musicisti capitanato da Stefano Taboga, cantante e bassista dei The Mad Scramble.

La loro missione è suonare rock, blues, soul e R&B come si faceva negli anni sessanta/settanta, una musica sanguigna e letteralmente irresistibile, tra brani briosi ed altri elegantemente vestiti di soul.
Sono in tredici, praticamente una piccola orchestra che regala emozioni sopite a chi ogni tanto ama tornare alle origini di note nate negli States molti anni fa e che ancora oggi ispirano artisti e gruppi legati ai generi citati.
The High Jackers è una band in continuo divenire, visto che si propone in varie vesti, dal duo acustico fino all’intera line up che ha suonato questa dozzina di perle, un magnete che attira a sé ascoltatori di generi lontani tra loro ma uniti dall’amore per la musica delle origini.
Il blues sporcato di soul dell’opener Burgers And Beers, Everybody’s Burning, la ballata Hush Now, il ritmo nero di You Make Me Mad e il crescendo dell’irresistibile This Is The Sound (Da Bomb), che conclude l’opera, vi faranno sognare, saltare, muovere come non facevate da tempo, grazie a Mr Steve ed ai suoi numerosi compari.
Da Bomb è un disco assolutamente consigliato, un ritorno a sonorità che hanno marcato in modo indelebile la storia della musica e della cultura del secolo scorso e che risulta imprescindibile anche nel nuovo millennio.

Tracklist
1.Burgers and beers
2.If I don’t have you
3.Going crazy
4.Sunshine
5.Everybody’s burning
6.Stunned and dizzy
7.Hush now
8.Live it
9.My new paradise
10.The wrong side of the street
11.You make me mad
12.This is the sound (Da bomb)

Line-up
Mr Steve Taboga
Mr Johnny Paper
Mr Marzio “Scoot” Tomada
Mr Fabio ” Fabulous” Veronese
Mr Alberto “Pezz” Pezzetta
Mr Pablo De Biasi
Mr Alan Malusa’ Magno
Mr Andrea “Cisa” Faidutti
Mr Filippo Orefice
Mr Mirko Cisilino
Mr Marco “Magic” D’orlando
Mr Emanuele Filippi
Mr Jeremy Serravalle

THE HIGH JACKERS – Facebook

Macchina Pneumatica – Riflessi e Maschere

Potente e fantasioso debutto di questo gruppo di fede gobliniana, bravo a comporre e a suonare.

Quella delle macchine pneumatiche è una lunghissima tradizione tecnico-scientifica, la cui storia va dall’età ellenistica di Erone d’Alessandria sino all’Inghilterra newtoniana di inizio ‘700.

In musica, il nome è quello scelto da questo gruppo esordiente. Il loro Riflessi e Maschere, forte di sei eccellenti composizioni (tutte tra i sei ed i dieci minuti), propone un entusiasmante e fresco rock progressivo, molto dinamico e dal taglio quasi cinematografico (certi passaggi sono davvero da colonna sonora), con belle inflessioni di natura a tratti fusion ed una componente più heavy che interviene in maniera più che opportuna, qua e là, per metallizzare le atmosfere sapientemente costruite dai quattro. Quello che ne emerge è, pertanto, un paesaggio sonoro a più voci, non privo di un’oscurità concettuale, che ci può non a torto riportare alla mente i primi Goblin. Del resto, le scelte timbriche sono abbastanza e piacevolmente settantiane. Veramente un bel debutto, da ascoltare e riascoltare per apprezzarne al meglio ogni rilucente sfaccettatura, non esente da tocchi space rock grazie all’utilizzazione dei synth e delle tastiere.

Tracklist
1 Gli abitanti del pianeta
2 Quadrato
3 Come me
4 Avvoltoi
5 Sopravvivo per me
6 Macchina pneumatica

Line up
Raffaele Gigliotti – Vocals / Guitars
Carlo Giustiniani – Bass
Vincenzo Vitagliano – Drums
Carlo Fiore – Keyboards / Synth

MACCHINA PNEUMATICA – Facebook

kNowhere – Spiral

Un sound intimista, sofferto e dalle atmosfere ombrose, che scivola liquido per poi sbattere contro muri di rock duro e drammatico, è quello che ci propone la band torinese, con sfumature grigie come il cielo autunnale della loro città avvolta in una sottile coltre di foschia dentro la quale è facile perdersi alla ricerca di sé.

Nella scena underground tricolore si stanno muovendo label sempre più professionali e con roster di tutto rispetto che spaziano tra molti dei generi che gravitano nell’universo rock/metal.

Una di quelle più attive attualmente è di sicuro la Volcano Records, rifugio per un numero importante di ottime realtà nazionali ed estere.
L’ultima proposta dell’etichetta napoletana sono I kNowhere, alternative band piemontese in uscita con un nuovo lavoro intitolato Spiral, con nove brani per poco più di trenta minuti in compagnia del loro alternative post rock, dal taglio dark in molti passaggi, ma legato all’alternative anni novanta e a gruppi come Biffy Clyro e God Machine.
Un sound intimista, sofferto e dalle atmosfere ombrose, che scivola liquido per poi sbattere contro muri di rock duro e drammatico, è quello che ci propone la band torinese, con sfumature grigie come il cielo autunnale della loro città avvolta in una sottile coltre di foschia dentro la quale è facile perdersi alla ricerca di sé.
Dall’opener The Fly alla conclusiva The Seed (da cui è stato estratto un video) i kNowhere ci invitano a seguirli tra atmosfere di sofferenza e ricerca interiore attraverso un post rock che non lesina atmosfere drammatiche e forza elettrica, sempre in un crescendo di notevole impatto.
The Sword è l’esempio di come la band, da sfumature post rock, accresca l’intensità fino ad esplosioni di alternative rock che si nutre di una drammatica elettricità che ci accompagna per tutta la durata di Spiral.
I kNowhere risultano quindi un altro centro da parte della Volcano Records e Spiral un lavoro emozionale e personale, assolutamente consigliato.

Tracklist
1. The Fly
2. Imploding
3. The Sword
4. Envy
5. Taking Time
6. Tsunami
7. Ulisse
8. Pride
9. The Seed

Line-up
Federico Cuffaro – Vocals, guitars
Bruno Chiaffredo – Drums, backing vocals

KNOWHERE – Facebook

Warm Sweaters For Susan – Warm Sweaters For Susan

Un suono scarno, essenziale, che unisce alternative rock e post punk, caratterizza il sound di questi cinque brani compresi nell’ep d’esordio degli Warm Sweaters For Susan.

Dopo essere saliti lo scorso giugno sul palco della FIM a Milano, arrivano all’esordio con questo ep di cinque brani i pugliesi Warm Sweaters For Susan, quartetto originario di Taranto formato da Gabriele Caramagno (batteria), Luca D’andria (chitarra), Mimmo Gemmano (canto, chitarra e tastiere) e Gianluca Maggio (basso).

Un suono scarno, essenziale, che unisce alternative rock e post punk, caratterizza il sound di questi cinque brani che partono con l’alternative di That’s The Way My Passion Stirs, brano che accomuna Cure, Smashing Pumpkins ed elettricità punk.
E nel suo insieme quanto proposto avvicina gli Warm Sweaters For Susan più ad una band post punk di fine anni ottanta che ad un gruppo indie rock, ed il basso su cui si appoggia The Quick Brown Fox Jumps Over The Lazy Dog richiama in modo chiaro la band di Robert Smith, mentre il brano è pregno di pulsioni punk/alternative.
Il sound creato dai quattro musicisti pugliesi attinge dagli anni ottanta e dalle prime spinte alternative rock del decennio successivo così che, a mio avviso, mostra poco di indie e molto dei generi citati; forse manca qualcosa a livello di cura nella produzione, ma siamo solo al primo appuntamento con i fans del rock alternativo, quindi aspettiamo il prossimo passo del gruppo per esprimere un giudizio definitivo.

Tracklist
1. That’s The Way My Passion Stirs
2. Gravity
3. Teach Me To Walk
4. The Quick Brown Fox Jumps Over The Lazy Dog
5. Satellites

Line-up
Gabriele Caramagno – Drums
Luca D’Andria – Guitars and backing vocals
Mimmo Gemmano – Lead vocals, Rhythm guitar, Keyboards
Gianluca Maggio – Bass guitar

WARM SWEATERS FOR SUSAN – Facebook

Frank Caruso Feat. Mark Boals – It’s My Life

Quattro brani che nulla aggiungono e nulla tolgono al talento del chitarrista nostrano e che risultano un buon ascolto per gli amanti dell’hard rock melodico, valorizzati dalla sempre coinvolgente voce del leone Statunitense.

Frank Caruso è uno dei chitarristi più quotati della scena hard & heavy tricolore, protagonista con la sua sei corde nei seminali Arachnes, nei Thunder Rising ed ultimamente contattato dal compositore Mistheria per collaborare in qualità di arrangiatore all’imponente progetto Vivaldi Metal Project.

Il suo vagare in compagnia della sua chitarra e del suo talento lo ha portato ad interagire con alcuni mostri sacri del’hard rock internazionale tra cui il singer Mark Boals (Malmsteen, Dokken e Ted Nugent), con il quale ha scritto i brani racchiusi in It’s My Life, ep prodotto dalla RTI.
La title track è un brano roccioso con un chorus che mette subito in evidenza la buona forma di Boals, un hard & heavy d’ordinanza che Caruso valorizza con un solo graffiante, mentre armonie acustiche riempiono la stanza con I Don’t Want To Come Back.
Born To New Life è una power ballad melodica, intimista e molto anni ottanta, mentre Summer Road lascia il palcoscenico al chitarrista nostrano, impegnato in uno strumentale diviso tra splendide melodie ed una robusta chitarra hard rock.
I quattro brani nulla aggiungono e nulla tolgono al talento del chitarrista milanese, rivelandosi un buon ascolto per gli amanti dell’hard rock melodico, valorizzati dalla sempre coinvolgente voce del leone statunitense.

Tracklist
1.It’s My Life
2.I Don’t Want To Come Back
3.Born To New Life
4.Summer Road

Line-up
Frank Caruso – Guitars
Mark Boals – Vocals

FRANK CARUSO – Facebook

John Diva & The Rockets Of Love – Mama Said Rock Is Dead

Da Mama Said Rock Is Dead parte il nuovo anno per queste sonorità, un’asticella piazzata molto in alto e che sarà difficile superare per chiunque abbia a che fare con un genere dato più volte per morto ma che sa ancora farci divertire come se il tempo non fosse passato e le luci del Sunset ancora accese per una nuova notte di rock’n’roll.

Se suoni per ben tre volte davanti al popolo di Wacken senza aver già pubblicato un album, potrai anche avere dei santi in paradiso ma la stoffa non ti manca di certo.

I John Diva & The Rockets Of Love, band che prende il nome dal suo frontman, per anni hanno reso tributo al sound degli anni ottanta, fino all’inevitabile esibizione della propria creatività, supportata da live esplosivi in puro stile da Sunset Boulevard.
Catturato dalla SPV/Steamhammer, il quintetto composto, oltre che dal vocalist John Diva, dai chitarristi Snake Rocket e J.J. Love, dal bassista Remmie Martin e dal batterista Lee Stingray Jr., debutta con questo spettacolare album intitolato Mama Said Rock Is Dead, un assalto alle coronarie dei vecchi rockers sopravvissuti ai party selvaggi nelle caldi notti del Viper Room, del Wiskey A Go Go o del Rainbow, oppure alle prime voglie di trasgressioni dei giovani che sbavano per l’Hair Metal, lo street e l’hard rock colorato dai sex symbol in lustrini e paillettes.
Non si resiste neanche un minuto, poi ci si comincia a dimenare in modo convulso, la sudorazione diventa abbondante, la gola si secca e la voglia di trasgressione e divertimento diventa irrefrenabile sotto le bordate delle varie Whiplash, Lolita (in quota Van Halen), Rock ‘n’ Roll Heaven (Poison e Bon Jovi shakerati in un cocktail che è pura dinamite sleaszy), Wild Life (Motley Crue) e poi Get It On, Long Legs, Rocket Of Love che a giro richiamano miti e leggende del popolo degli anni ottanta.
Da Mama Said Rock Is Dead parte il nuovo anno per queste sonorità, un’asticella piazzata molto in alto e che sarà difficile superare per chiunque abbia a che fare con un genere dato più volte per morto ma che sa ancora farci divertire come se il tempo non fosse passato e le luci del Sunset ancora accese per una nuova notte di rock’n’roll.

Tracklist
1. Whiplash
2. Lolita
3. Rock N’ Roll Heaven
4. Wild Life
5. Blinded
6. Dance Dirty
7. Just A Night Away
8. Fire Eyes
9. Get It On
10. Long Legs
11. Toxic
12. Rocket Of Love

Line-up
John Diva – vocals
Snake Rocket – guitars
J.J. Love – guitars
Remmie Martin – bass
Lee Stingray jr. – drums

JOHN DIVA – Facebook