Colossus Morose – Seclusion

Anche non si tratta di un qualcosa in grado di sconvolgere le gerarchie all’interno della scena, il primo full length dei Colossus Morose mette in luce una realtà di sicuro interesse e con diverse frecce al proprio arco da poter utilizzare ancor meglio in futuro.

Ancora un esordio sotto l’egida della Endless Winter: questa volta tocca al duo Colossus Morose, formato dal tedesco C.J., il quale si occupa dell’intera parte musicale, e dal vocalist J.C., svizzero ora di stanza in Norvegia.

Il death doom proposto in Seclusion lascia uno spazio limitato alla melodia, anche se tale aspetto non è comunque del tutto assente, privilegiando un impatto più ruvido, con il lavoro chitarristico del musicista di Hannover che tesse un substrato sonoro denso e poderoso, sul quale si staglia il growl profondo e sofferto del suo compare elvetico.
Il lavoro gode di una durata ragionevole, cosa positiva anche in virtù delle caratteristiche di un sound piuttosto cupo e d’impatto, privo di particolari variazioni ritmiche o atmosferiche ma incisivo in ogni sua parte; una buona registrazione ed un’esecuzione complessiva apprezzabile rendono Seclusion un’opera di sicuro spessore, consigliata a chi predilige il death doom più ruvido e meno consolatorio.
Tra i brani spoicca la notevole Six (che nonostante il titolo è il quinto brano in scaletta …), in virtù di qualche variazione sul tema in più con l’alternanza chitarristica tra riff, parti soliste ed acustiche.
Anche non si tratta di un qualcosa in grado di sconvolgere le gerarchie all’interno della scena, il primo full length dei Colossus Morose mette in luce una realtà di sicuro interesse e con diverse frecce al proprio arco da poter utilizzare ancor meglio in futuro.

Tracklist:
1. Catatonical Embrace
2. Tarnished
3. Perpetually Enthralled
4. Sol(e)ace
5. Six
6. The Spiral Descent

Line-Up:
C.J. – All instruments
J.C. – Vocals

COLOSSUS MOROSE – Facebook

Oltretomba – L’Ouverture des Fosses

Il lavoro si snoda senza prendere in minima considerazione l’idea di una forma canzone, basando il tutto su un impatto ossessivo che va ad erigere un sound a suo modo primitivo e dichiaratamente privo di ogni modernismo.

Gli Oltretomba hanno un monicker italiano, cantano in francese e sono danesi: già questo basta per farci capire che questo trio ha bandito ogni forma di normalità a favore di sonorità disturbante e disturbanti, difficilmente riconducibili ad un genere specifico.

Se proprio dobbiamo incasellare la band da qualche parte, l’ambito nel quale maggiormente sembra muoversi più che agevolmente un album come L’Ouverture des Fosses è il doom, specialmente quando è l’organo di Grand Duc a prendere il sopravvento sul resto della strumentazione.
Il lavoro, che dovrebbe essere il secondo full length uscito in formato cassetta per Caligari Records, si snoda senza prendere in minima considerazione l’idea di una forma canzone, basando il tutto su un impatto ossessivo che va ad erigere un sound a suo modo primitivo e dichiaratamente privo di ogni modernismo, a favore di una ritualità che riporta alla tradizione egizia, in evidenza nella spaventosa Ablation de la Boite Cranniene, traccia che assieme allo strumentale Requiem Pour Grand Duc e a Le Texte des Pyramides appare meno pervasa dalla nichilistica incomunicabilità esibita, invece, in Des Experiences Cruelles Thoth e nella title track.
L’Ouverture des Fosses è un’idea espressiva non priva di spunti intriganti ma che, per sua natura, è rivolta ad una ristrettissima nicchia di ascoltatori: a me comunque questi bizzarri provocatori sonori piacciono e non poco; poi, da questo a far diventare la loro musica un ascolto abituale ovviamente ce ne corre , questo è chiaro …

Tracklist:
1. Des Experiences Cruelles
2. Thoth
3. Le Texte des Pyramides
4. Requiem Pour Grand Duc
5. Ablation de la Boite Cranniene
6. L’Ouverture des Fosses

Line-up:
Machoire – Drums
Grand Duc – Organ
Lord Fungus – Vocals, Bass, Guitars

Fretting Obscurity – Flags in the Dust

Flags in the Dust è un primo passo che merita un’abbondante sufficienza, perché alla fine i lati positivi superano quelli negativi, ancora troppi però per avvicinare per ora i Fretting Obscurity ai piani alti del genere.

Flags in the Dust è il primo parto discografico dei Fretting Obscurity, in realtà progetto solista del musicista ucraino Yaroslav Yakos.

Il death doom offerto nel corso di quest’ora abbondante è molto ortodosso, anche se possiede un che di antico, che a tratti ci riporta piacevolmente alla memoria album seminali per il genere come Serenades degli Anathema, tanto per citare quella che sembra essere la primaria fonte di ispirazione.
Anche per questo il lavoro si snoda con belle intuizioni melodiche sorrette da uno stile chitarristico un po’ naif ma alla lunga efficace, se è vero che al death doom si richiede soprattutto di produrre emozione e certo non virtuosismi strumentali in serie.
Così, tra dissonanze e distorsioni, il bravo Yaroslav ci introduce alla sua personale interpretazione del dolore che si fa musica, e tutto ciò avviene in maniera convincente, soprattutto se si è amanti, come detto, delle sonorità dei primissimi anni ottanta, anche a livello di resa sonora.
Così, se la title track si fa apprezzare appunto per i rimandi agli esordi dei fratelli Cavanagh, la successiva If There Is No Other Way to Love ‘Em si fa da subito struggente con un solo chitarristico sicuramente perfettibile ma ugualmente toccante, e cresce nel suo andamento più vicino al funeral.
Se Eternal Return è un brano ancora più lungo lungo ma interlocutorio, è senz’altro meglio la conclusiva Funeral Never Ends, nella quale il lavoro chitarristico diviene nuovamente fondamentale per rendere evocativo come merita il sound dei Fretting Obscurity.
Se l’album a livello compositivo non lascia spazio a recriminazioni, qualcosa da rivedere c’è invece dal punto di vista esecutivo e della produzione: la conformazione da one man band non sempre è la causa principale di una resa sonora scarna e perfettibile (i Doomed di Pierre Laube sono la dimostrazione più recente dell’esatto contrario) ma in questo caso forse Yakos avrebbe bisogno di qualcuno con cui confrontarsi, perché la sua conoscenza della materia è fuori discussione, ma la messa in pratica necessita ancora di qualche aggiustamento.
Detto ciò, Flags in the Dust è un primo passo che merita un’abbondante sufficienza, perché alla fine i lati positivi superano quelli negativi, ancora troppi però per avvicinare per ora i Fretting Obscurity ai piani alti del genere.

Tracklist:
1. Flags in the Dust
2. If There Is No Other Way to Love ‘Em
3. Eternal Return
4. Funeral Never Ends

Line up:
Yaroslav Yakos – Everything

Pissboiler – Att Med Kniv Ta En Kristens Liv

Dopo soli tre anni di attività, i Pissboiler rappresentano una solida certezza con il loro personale suono opprimente, ma dalla forte connotazione catartica.

Intrigante e derivante da un fatto di cronaca nera è il concept dietro il nuovo EP dei Pissboiler, duo svedese di Smaland; dopo il full length del 2017 (In the lair of lucid nightmares) nel quale proponevano una personale visione di drone, sludge doom ora, sempre per Third I Rex ci propongono un ulteriore assaggio della loro arte che ci illustra in musica “the act of a murder” in cui due persone anziane sono assassinate nel loro letto ed i samples usati nel disco derivano interamente dai fatti accaduti.

Il primo brano En visa for Elden rappresenta il momento prima dell’omicidio e offre un continuo arpeggio colmo di attesa e ansia, soprattutto quando la componente drone del suono prende il sopravvento, prima di sfociare nella seconda traccia Att med kniv ta en kristens liv (to take the life of a Christian with a knife), dove si entra in zone non confortevoli, quando doom e drone collidono e si uniscono in modo del tutto insano, creando un’atmosfera ammorbante e opprimente portandoci in territori funeral doom malevoli e realmente disturbanti; disperazione e pena sono gli ingredienti principali del brano, mentre un growl cavernoso si insinua nei nostri gangli nervosi fino a scuoterli. Qui si rappresenta il momento del massacro e non ci può essere luce ma solo infinità oscurità. La terza parte Ett Avslut rappresenta “the aftermath, burning the corpses” e la tensione insostenibile del secondo brano si stempera in un rassegnato suono funeral colmo di disperazione. L’opera è molto intensa, con i Pissboiler che ci conducono in territori extreme doom che si evidenziano ulteriormente nella bonus track di ventisei minuti Monolith of Depression, tratta dallo split con i francesi Deveikuth, altri mostruosi manipolatori di materiali urticanti. In questo brano estenuante si amalgama e si sublima tutta l’arte funerea del duo che magistralmente fonde a temperature altissime fangosità sludge, lentezza doom e terrificante drone, in un risultato di alto livello in cui la disperazione tocca punte veramente laceranti; le chitarre sommerse da distorsioni e drone ci conducono con le loro melodie in zone sconosciute dei nostri sensi. Dopo soli tre anni di attività, i Pissboiler rappresentano una solida certezza con il loro personale suono opprimente, ma dalla forte connotazione catartica.

Tracklist
1. En visa för elden
2. Att med kniv ta en kristens liv
3. Pt II – Ett avslut
4. Monolith of Depression

Line-up
Karl Jonas Wijk – Drums
LG – Vocals (lead), Bass

PISSBOILER – Facebook

The Sullen Route – Last Day In Utter Diseases

Quello che resta di Last Day In Utter Diseases è la sensazione di un lavoro da rifinire ma anche suggestivo di una band dalle potenzialità ancora da esprimere, oltre che indecisa sulla direzione da intraprendere.

I russi The Sullen Route si erano fatti notare nel 2016 con un lavoro piuttosto interessante come Last Day In Utter Diseases: il lavoro viene riproposto oggi da Grimm Distribution con l’intento di ridare un po’ di visibilità alla band.

Il death doom del gruppo formatosi a Volgograd è più aspro che melodico e, comunque, non resta più di tanto nei canoni del genere grazie ad un andamento dal buon groove, anche se magari privo dei picchi e della profondità necessaria in ogni frangente.
Anche l’uso della voce non è neppure troppo scontato con il ricorso, oltre al growl e a rivedibili cleans, anche a tonalità tipiche del metal alternativo.
Quello che resta di Last Day In Utter Diseases è la sensazione di un lavoro da rifinire ma anche suggestivo di una band dalle potenzialità ancora da esprimere, oltre che indecisa sulla direzione da intraprendere. Non resta quindi che ascoltare con curiosità buoni brani come Jack the Sinner e Lead Undone, in attesa di nuovo materiale inedito.

Tracklist:
1. Sullen Overcome
2. Bonesacs
3. Other Side of Pillars Truth
4. Pintacry
5. Dead Horizon
6. Jack the Sinner
7. Town Constructor
8. Lead Undone
9. Last Process of Falling (Morton’s Fork)

Line-up:
Elijah – Vocals, Guitars
Serge – Guitars, Vocals
Dmitry – Drums
Maks – Guitars (lead)

THE SULLEN ROUTE – Facebook

Amarok – Devoured

Mastodontica opera prima del quartetto californiano capace di unire in un epico viaggio desolazione,pesantezza e personalità.

Bisogna armarsi di tempo e pazienza per avventurarsi nelle mastodontiche quattro track che compongono l’opera prima degli statunitensi Amarok, giunti dopo otto anni al fatidico esordio sulla lunga distanza, dopo aver affilato le armi in vari split con Hell, Pyramido (doom sludge targato USA) e gli Enkh (funeral polacco).

Il quartetto californiano di Chico incorpora nel proprio sound elementi doom, sludge, funeral e black con una fluidità notevole; non ci sono forzature ma un ininterrotto flusso di note, che dipinge paesaggi desolati e disperati, marcati da una buona ispirazione e tensione narrativa. La melodia circolare punteggiata da note di piano dell’opener Sorceress, si carica di tensione e potenza con il passare dei minuti, mentre la ritmica dal passo marziale e le vocals in scream screziato di growl si caricano di una disperazione tangibile, soffocante e claustrofobica. Le due chitarre aprono colossali universi di distorsione mantenendo comunque il suono fluido e ricco di sfumature; gli ingredienti sono sempre gli stessi e la differenza in questo tipo di musica la fa sempre la capacità dei singoli musicisti di saper mantener alta la tensione, apportando anche solo minime variazioni al suono. Gli Amarok sono assolutamente credibili e in più hanno anche una capacità di scrittura varia anche in un genere monolitico come questo; le distorsioni finali e le laceranti urla alla fine di Sorceress inscenano paesaggi terrifici. Settanta minuti di questo suono non disturbano certo chi è avvezzo a frequentare questi paludosi lidi, capaci di creare sensazioni ed emozioni molto particolari; i ventitre minuti di Rat Tower ci trasportano in un viaggio epico e dolente rimembrante alcune belle pagine del funeral doom dell’est europeo, dove le band hanno la maestria di creare “soundscapes” infiniti e dal forte impatto emotivo. Di sicuro una band da seguire ma per i cultori del doom non è neanche il caso di dirlo!

Tracklist
1. VI Sorceress
2. VII Rat Tower
3. VIII Skeleton
4. IX Devoured

Line-up
Brandon Squyres – Bass, Vocals
Kenny Ruggles – Guitars, Vocals
Colby Byrne – Drums
Nathan collins – Guitars

Witch Mountain – Witch Mountain

I riff di scuola classica si alternano ad aperture blues psichedeliche, senza intaccare il rituale oscuro e sabbathiano, lunghe ed estenuanti danze stregonesche in alcuni casi al limite dello sludge, che la nuova cantante dirige con la sua voce ipnotica e calda.

La scena doom classica sta vivendo un ottimo periodo, le opere che arrivano da ogni parte del mondo dimostrano che nell’underground il genere vive e si evolve, si muove tra le ispirazioni e le influenze in un clima tradizionale e vintage, trainato dal successo dei suoni settantiani degli ultimi tempi.

I suoni classici hanno una loro marcata tradizione anche sul territorio americano, non solo nel Nord Europa, e gli Witch Mountain ne sono il classico esempio.
Attivo da vent’anni, il gruppo di Portland può vantare quattro full length più una manciata di lavori minori: l’ultimo album risale al 2014, quel Mobile Of Angel che vedeva ancora in sella la cantante Uta Plotkin, su questo nuovo album omonimo sostituita dalla bravissima Kayla Dixon, una voce “nera” che apre nuovi orizzonti musicali al quartetto.
Witch Mountain, infatti, mantiene la sua natura doom e psichedelica, quel poco di stoner tanto da risultare al passo coi tempi, ma al crocicchio del diavolo prende la strada del blues.
Ed il sound se ne giova assai, riuscendo nella non facile impresa di risultare vario, preso per mano dalla voce particolare e versatile della singer che sciorina una prestazione intensa e personale, passando da toni evocativi a passaggi blues rock e feroci scream, così da sembrare in preda a più demoni che affiorano in superficie, dopo essersi impossessati della sua anima.
I riff di scuola classica si alternano così ad aperture blues psichedeliche, senza intaccare il rituale oscuro e sabbathiano, lunghe ed estenuanti danze stregonesche in alcuni casi al limite dello sludge, che la nuova cantante dirige con la sua voce ipnotica e calda.
Troviamo in scaletta solo cinque brani, che hanno nell’opener Midnight e nella conclusiva suite Nighthawk il loro apice compositivo: la prima più dinamica e potente, la seconda è invece una cadenzata suite di quattordici minuti impregnata del sound di cui è rivestito Witch Mountain.
Un buon lavoro che conferma la reputazione del quartetto, in una scena che ultimamente regala grandi soddisfazioni a chi la segue con interesse.

Tracklist
01. Midnight
02. Mechanical World
03. Burn You Down
04. Hellfire
05. Nighthawk

Line-up
Rob Wrong – Guitars
Nathan Carson – Drums
Kayla Dixon – Vocals
Justin Brown – Bass

WITCH MOUNTAIN – Facebook

King Heavy – Guardian Demons

Guardian Demons si rivela un lavoro di buona fattura, curato ed onesto, sicuramente adatta ai fans del doom, i quali troveranno nei King Heavy una band affidabile nel suo genere.

Doom metal di estrazione classica ed heavy è quello che ci propongono i King Heavy, band per tre quarti cilena che si avvale del cantante belga Luce Vee (Luther Veldmark).

Guardian Demons è il loro secondo full length, successore dell’ep Horror Absoluto con cui hanno aperto le ostilità nel 2014 ed il primo album omonimo rilasciato l’anno dopo.
Potente, epico ed evocativo, il lavoro è un buon esempio di doom metal tradizionale: il quartetto segue la strada tracciata da Candlemass, Trouble e Slough Feg, le atmosfere ricalcano con coerenza i dettami del genere senza sorprese a livello di sound, proponendo la formula collaudata del genere con lente marce e dirompenti acuti heavy metal.
Il singer riesce a coinvolgere con il suo approccio alla Messiah Marcolin, la musica viaggia in scioltezza tra non pochi riferimenti allo storico gruppo svedese, e riff pesantissimi e solos heavy di buona fattura fanno di Guardian Demons un buon lavoro, epico e dinamico nella sua pesantezza e potenza doom metal.
I brani di durata medio lunga, come impone il genere, hanno in Come My Disciples il migliore esempio del sound proposto dai King Heavy, trattandosi di una monolitica suite di dieci minuti nella quale una lenta ed inesorabile marcia doom viene resa epica da un cantato evocativo ed attraversata da solos che fungono da litanie heavy, creando così un’atmosfera pesantissima e granitica.
In conclusione, Guardian Demons si rivela un lavoro di buona fattura, curato ed onesto, sicuramente adatta ai fans del doom, i quali troveranno nei King Heavy una band affidabile nel suo genere.

Tracklist
1.Guardian Demon
2.(Death is but an extreme form of) Narcosis
3.Doom Shall Rise
4.Cult Of The Cloven Hoof
5.Come My Disciples
6.As in a Nightmare

Line-up
Luce Vee – Vocals
Matias Aguirre – Guitar
Daniel Pérez Saa – Bass
Miguel Canessa – Drums

KING HEAVY – Facebook

Lurk – Fringe

Fringe è un’opera di devastante potenza, nel corso della quale il quartetto esibisce un doom che, alla preponderante componente sludge, aggiunge anche elementi black e death, andando a formare un quadro davvero intrigante per tutti gli appassionati di sonorità oscure

Quella denominata Lurk è l’ennesima mostruosa creatura che avanza strisciante, questa volta non in fangose paludi americane bensì tra le nevi ed i ghiacci dei mille laghi finlandesi.

Fringe è un’opera di devastante potenza, nel corso della quale il quartetto esibisce un doom che, alla preponderante componente sludge, aggiunge anche elementi black e death, andando a formare un quadro davvero intrigante per tutti gli appassionati di sonorità oscure.
Abbiamo così un sound che, nella sua monolicità di fondo, a tratti può richiamare i primissimi Cathedral, come nell’opener Ostrakismos, oppure srotolarsi nel mid tempo black di Reclaim; lo sludge viene offerto nella sua forma più esasperata nella notevole Elan, mentre un più movimentato death doom prende forma in Furrow.
Proteus Syndrome chiude al meglio il lavoro, racchiudendo in sé buona parte delle caratteristiche sopra accennate, a suggello di un operato che lascia ben poco spazio alla melodia ma che offre più di uno spunto capace di agganciare l’ascoltatore, al netto dello snodarsi di un sound sulfureo e pachidermico.
I Lurk sono l’ennesima band che viene portata all’attenzione grazie al meritorio lavoro della Transcending Obscurity, label indiana specializzata nello scavare in profondità nell’undergroung fino al reperimento di grezzi diamanti sonori come questo Fringe.

Tracklist:
1. Ostrakismos
2. Tale Blade
3. Reclaim
4. Elan
5. Offshoot
6. Furrow
7. Nether
8. Proteus Syndrome

Line-Up:
Kimmo Koskinen – Vocals
Kalle Nurmi – Drums
Arttu Pulkkinen – Guitar
Eetu Nurmi – Bass

Guest vocals by Aleksi Laakso on Elan
Alto saxophone by Aino Heikkonen on Ostrakismos

LURK – Facebook

Omit – Medusa Truth, Part 2

In questo mondo ovattato le regole della nostra dimensione vengono cambiate e si entra in un qualcosa di profondamente diverso. Un disco suonato e composto con cura e dedizione, e che non lascia nulla al caso, una splendida fuga.

Gli Omit suonano un doom metal con forti influenze funeral e gothic, con la splendida ed eterea voce femminile di Cecilie Langlie.

I norvegesi sono qui alla loro terza prova, e questo è il seguito di Medusa Truth Part One del 2014. Il loro intento è di illustrare con ogni disco un determinato periodo della vita di ciascun uomo, esplorando ciò che si vede e soprattutto ciò che non si vede. Le canzoni degli Omit durano molto e sono tutte composte come se fossero piccole opere, molto ben strutturate ed epiche. Questo secondo disco della serie Medusa Truth prende le mosse da questa frase di Jack London che possiamo trovare nel libro L’Ammutinamento della Elsinore del 1914 : “The profoundest instinct in man is to war against the truth; that is, against the Real. He shuns facts from his infancy. His life is a perpetual evasion. Miracle, chimera and to-morrow keep him alive. He lives on fiction and myth. It is the Lie that makes him free. Animals alone are given the privilege of lifting the veil of Isis; men dare not. The animal, awake, has no fictional escape from the Real because he has no imagination. Man, awake, is compelled to seek a perpetual escape into Hope, Belief, Fable, Art, God, Socialism, Immortality, Alcohol, Love. From Medusa-Truth he makes an appeal to Maya-Lie.
Insomma come dare torto a Jack… la nostra vita è una continua fuga, e anche l’ascolto di questo bell’album, decadente e dolce, è una fuga da ciò che viviamo o da ciò che siamo. E questo disco è una bella fuga, essendo gli Omit un buon gruppo di doom metal melodico, con parti funeral, ma soprattutto un gran substrato gotico che permea il tutto, dando un’accezione romantica al loro lavoro. Il loro incedere è lento, ma possente, dolce ma tagliente, la musica è l’ancella della splendida voce di Cecilie, ma non è affatto un semplice ornamento, ma una parte importante del tutto. In questo mondo ovattato le regole della nostra dimensione vengono cambiate e si entra in un qualcosa di profondamente diverso. Un disco suonato e composto con cura e dedizione, e che non lascia nulla al caso, una splendida fuga.

Tracklist
01. Passage
02. Veil Of Isis
03. Medusa Truth

Line-up
Cecilie Langlie – Vocals
Kjetil Ottersen – Keyboards
Tom Simonsen – Guitars, keyboards, bass, drums and programming.

OMIT – Facebook

Khemmis – Desolation

Questo ultimo disco dei Khemmis ne conferma la formula di successo, ovvero una miscela di giri di chitarra e voce ora melodici ora pesanti, a seconda della necessità del momento.

I Khemmis sono di Denver, Colorado e fanno un gran bel doom metal ricco di molteplici influenze.

Attivi dal 2012, hanno conosciuto un buon successo con l’album Hunted del 2016, che li ha fatti notare a tutti gli amanti della musica pesante. Questo loro ultimo disco ne conferma la formula di successo, ovvero una miscela di giri di chitarra e voce ora melodici ora pesanti, a seconda della necessità del momento. La melodia è una delle peculiarità principali dei Khemmis, i quali la trattano in maniera speciale. Desolation è composto da molte forze diverse che concorrono tutte a farne un disco molto fruibile e che regala moltissimi ascolti. La prima traccia Bloodletting è paradigmatica su ciò che verrà i seguito, con i suoi tempi cadenzati, i riff di chitarra molto ariosi e la voce che è calda e piena, creando un effetto d’insieme molto potente. I Khemmis sono un gruppo da ascoltare a volume molto, e come i compagni di etichetta Pallbearer fondono musica pesante e melodia in una maniera importante, come si può sentire benissimo in Desolation. L’album non cambierà le sorti della musica, ma alzerà l’umore di moltissime persone ascoltandolo, oppure le farà ragionare, dato che è intriso di malinconia espressa in decibel. I Khemmis sono uno dei risultati della musica pesante americana che presenta alcune differenze rispetto a quella europea, dato che in alcuni frangenti dall’altra parte dell’Atlantico sanno suonare con più semplicità ed immediatezza. C’è un sentire che ti avvolge immediatamente in questo disco, come se il gruppo lo si conoscesse da sempre, oppure come se il disco fosse quello che si aspettava da tempo. Ogni canzone contiene sviluppi e svolte assai interessanti e non c’è mai nulla di scontato in questo doom che incontra il pop senza mai perdere la sua rumorosa identità.

Tracklist
1.Bloodletting
2.Isolation
3.Flesh To Nothing
4.The Seer
5.Maw Of Time
6.From Ruin

Line-up
Ben
Dan
Phil
Zach

KHEMMIS – Facebook

Hangman’s Chair – Banlieue Triste

Potenza,drammaticità, melodia sono gli ingredienti primari del quinto album degli Hangman’s Chair: stoner/doom personale e con una forte identità.

Con il quinto full length i francesi Hangman’s Chair proseguono il loro viaggio all’ interno dell’anima triste e disagiata della metropoli parigina; a loro non interessa disegnare con la musica e con i testi paesaggi fantastici o avventurosi, o raccontare storie sociali a lieto fine.

La musica e i testi si inabissano nel degrado sociale, nella noia, nella mancanza di futuro, nelle dipendenze e in tutte quelle situazioni che, a loro dire, rappresentano il “broken French dream”. Attivo dal lontano 2009, il quartetto esprime la propria arte doom e stoner ricorrendo a un suono drammatico, intenso, aggressivo, rifuggendo dai soliti schemi sonori e inoltrandosi in brani visionari e potenti dal forte sapore seduttivo; in Sleep Juice un grande lavoro al basso conduce in territori viziosi dove le vocals di Cedric Toufouti ci ammaliano con toni suadenti, ma decisi nel refrain (“…everything must die tonight”). Le vocals di Cedric sono estremamente convincenti nella ricerca di tonalità il più possibili varie e, non ricorrendo né a growl o scream, rappresentano un vero valore aggiunto perché impreziosiscono i vari brani con fascino e mistero. La tesa Touch the Razor nel suo lungo sviluppo, memore di suoni darkwave, tocca punte drammatiche importanti mentre le chitarre mostrano potenza ed inventiva. E’ un modo diverso di intendere la materia doom, i brani hanno una tensione interiore a tratti insostenibile, ma nascondono una anima melodica dark e seducente molto personale; la voce suadente dai toni morbidi entra sotto pelle e lacera lentamente le nostre terminazioni nervose narrando storie vere di desolazione e disperazione dei sobborghi parigini, dove la vita è spesso condotta ai margini, senza speranza di poterla cambiare. L’opera è lunga (circa 68 minuti) e non perde un grammo del proprio fascino, avvolgendoci in atmosfere notturne e fumose dal taglio cinematografico (gli strumentali Tara, Banlieu Triste e la disperata Sidi Bel Abbes) e stritolandoci con immani ritmi stoner (la kyussiana 04/09/16) carichi di potenza e antico fascino. Tired Eyes nasconde tratti melodici fuori dall’ordinario e il gran finale Full Ashtray con la sua atmosfera pesante ci ricorda una volta di più che il doom sa offrire sempre molteplici varianti emozionali. Opera veramente notevole.

Tracklist
1. Banlieue Triste
2. Naive
3. Sleep Juice
4. Touch the Razor
5. Tara
6. 04 09 16
7. Tired Eyes
8. Negative Male Child
9. Sidi Bel Abbes
10. Full Ashtray

Line-up
Cédric Toufouti – Vocals, Guitars
Julien Chanut – Guitars
Clément Hanvic – Bass
Mehdi Birouk Thépegnier – Drums

HANGMAN’S CHAIR – Facebook

Obseqvies – The Hours Of My Wake

L’album d’esordio degli Obseqvies riporta prepotentemente alla ribalta il miglior funeral doom melodico ed atmosferico.

L’album d’esordio degli Obseqvies riporta prepotentemente alla ribalta il miglior funeral doom melodico ed atmosferico.

Di questa band si sa poco o nulla, se non che proviene dalla Finlandia, il che rappresenta una sorta di bollino di garanzia quando si parla di questo genere: la naturale conseguenza non può che essere quella di affidare alla musica il compito di raccontare agli ascoltatori l’ennesimo doloroso capitolo di una storia che trova sempre nuova linfa e magnifici interpreti, nonostante il suo risibile appeal commerciale.
The Hours Of My Wake riparte pressapoco da dove ci avevano lasciato gli Ea con il loro ultimo album del 2013, con un sound però ancor più curato e ammantato di un’aura oscura e leggermente meno melodica, includendo anche alcuni spunti che riconducono agli Shape Of Despair; l’esito non può che essere esattamente ciò che vorrebbe sempre ascoltare chi adora questo genere: ritmiche bradicardiche e variazioni di tono quasi impercettibili ma costanti, fondamentali per accrescere il pathos.
Grazie anche ad un growl che per profondità si avvicina non poco a quello di Daniel Neagoe, i tre lunghi brani si trascinano dolenti per quasi un’ora con la loro ricetta essenziale ma sempre di grande efficacia, con gli Obseqvies che affidano il lavoro di costruzione melodica alle tastiere e mettono in scena, alla fine, una litania funebre che non può lasciare indifferenti gli animi più sensibili.
Soloqvam è un brano di squassante bellezza, con il cantato che nella parte conclusiva diviene uno straziante screaming, indicativo del fatto che il risveglio al quale fa riferimento il titolo non dev’essere stato esattamente quello auspicato; Dawning è una traccia relativamente più aspra nella parte iniziale ma destinata a divenire più ariosa con i suoi accenni ad un canto di tipo monastico, mentre Cold è l’ideale unione tra i diversi spunti offerti in precedenza, per quanto tali scostamenti possano essere pressoché impercettibili per orecchie poco esperte.
Contrariamente ad un avvio illusoriamente consolatorio, il lavoro degli Obseqvies assume via via toni sempre più disperati con inesorabile e costante lentezza; il sonno eterno resta pur sempre la soluzione finale e più sicura, indipendentemente da come la si voglia pensare.

Tracklist:
1. Soloqvam
2. Dawning
3. Cold

OBSEQVIES – Facebook

Fading Bliss – Journeys in Solitude

Journeys in Solitude è gradevole, ben suonato e ben prodotto, tutti i tasselli sono al loro posto ma non penetra in profondità, come dovrebbe e potrebbe, con la necessaria continuità.

I belgi Fading Bliss arrivano con Journeys in Solitude al loro secondo full length in circa un decennio di attività.

Il precedente From Illusion to Despair, risalente al 2013, era stato un buon esordio che attingeva a piene mani dalla tradizione del gothic doom novantiano, con tanto di voce femminile a sostenere un growl profondo, entrambi adagiati su un tappeto melodicamente malinconico.
Nonostante siano trascorsi cinque anni non c’era da attendersi che le coordinate sonore potessero subire una variazione, visto che alla fine il genere, così come lo amiamo, è questo, prendere o lasciare; quello che viene richiesto alle band che vi si cimentano è produrre emozioni e metterci comunque qualcosa di proprio per evitare di apparire delle copie, seppur ben riuscite, delle band che hanno fatto la storia.
Ecco, se devo trovare un difetto ai Fading Bliss è proprio la mancanza di una maggiore personalità, che è poi l’ingrediente che rende irrinunciabile l’ascolto di un album: a tratti, infatti, sembra d’essere al cospetto di un gruppo abile nell’assemblare tutte le istanze provenienti dal passato senza però riuscire, se non a tratti, nell’intento di far scaturire quella scintilla capace di scuotere emotivamente l’ascoltatore.
Journeys in Solitude è gradevole, ben suonato e ben prodotto, tutti i tasselli sono al loro posto ma non penetra in profondità, come dovrebbe e potrebbe, con la necessaria continuità: indubbiamente l’opener Ocean è il brano migliore dei quattro con le sue notevoli intuizioni melodiche, mentre alla successiva Mountain manca il cambio di passo necessario per dare continuità all’evocativa chiusura della traccia precedente.
La cover di A Forest dei Cure è coraggiosa nel suo intento (cimentarsi con brani iconici come questo è sempre un’arma a doppio taglio), ma se è vero che è inutile proporre composizioni altrui in maniera eccessivamente fedele, qui i Fading Bliss eccedono in senso opposto, visto che in comune con il capolavoro di Robert Smith ci sono fondamentalmente solo il titolo ed il testo (apprezzabile comunque il lavoro della chitarra solista, come del resto avviene un po’ in tutto il disco).
I diciassette minuti di Desert, che regalano nuovamente un bellissimo assolo nella sua parte finale, chiudono un album gradevole e ben costruito ma che, al di là dei notevoli ma non sempre adeguatamente sfruttati guizzi chitarristici, fatica ad imprimersi con forza nella memoria: la dicotomia tra voce maschile e femminile funziona sulla carta ma, all’atto pratico, è troppo netto lo scostamento dei livelli di tensione percepibili allorché entra in scena l’una o l’altra voce.
Parlando di una band di Liegi mi si consenta il paragone ciclistico: con Journeys in Solitude i Fading Bliss dimostrano di reggere agevolmente l’andatura sostenuta del gruppo in pianura ma, allo stato attuale, manca loro quello spunto per restare con i migliori allo scollinamento della di Côte de Saint-Nicolas; questo almeno oggi, ma non è detto che non ci possano riuscire in futuro, visti i buonissimi mezzi a loro disposizione.

Tracklist:
1. Ocean
2. Mountain
3. A Forest
4. Desert

Line up:
Mélanie : Vocals
Dahl : Vocals
Steph : Guitars
Michel : Drums
Kaz : Guitars
Arnaud : Bass
Venema : Keyboards

FADING BLISS – Facebook

The Body – I Have Fought Against It, But I Can’t Any Longer

Lasciatevi intrigare dalla persuasiva copertina e immergetevi in un calderone ribollente di industrial,noise,doom da parte di una band che non ha eguali.

Il potere persuasivo di una semplice, ma particolare copertina, può incidere molto spesso nella scelta e nell’acquisto di un’opera; è bastato uno sguardo alla cover del sesto full length degli statunitensi The Body per convincermi che si nascondeva qualcosa di intrigante e di inafferrabile nella loro musica.

Attivo dal 2004 il duo, formato da Lee Buford e Chip King, ha sempre definito la propria musica noise e ha intrecciato il proprio percorso artistico con diversi act mutanti del panorama weird e heavy statunitense, con i powernoise grinder Full of Hell o con i blackster Krieg, senza dimenticare quella con i mostruosi Thou; tutto nella costante ricerca di musica stimolante, senza schemi e libera da vincoli commerciali. Anche questa opera, sulla scia del precedente No One Deserves Happiness del 2016 , dove il duo aveva tentato un riuscito approccio più meditato alla materia investendola di una personalissima forma pop, necessita di pazienza per essere ben assimilata, trattandosi di suoni sfuggenti dove momenti di grazia sono disintegrati da muri di noise, vocals dolcissime e suggestive sono inseguite da scream e urla sinistre e agghiaccianti. L’opener The Last Form of Loving presenta misteriose note di violino su uno sfondo noise sfumato che, lentamente, si trasforma in un cuore pulsante, mentre una delicata voce femminile declama intrecciandosi direttamente con il secondo brano, dove il ritmo lentamente cresce creando un atmosfera dal forte sapore cinematografico. I brani sono vari, intrecciando al loro interno sonorità doom, industrial, dub e trip hop e fornendo molteplici chiavi di lettura: il drum beat incessante e marziale di Partly Alive, le mutazioni noise su abissali ritmiche dub e le urla terrorrizzate in The West Has Failed dipingono, ricordando i Dalek, quadri di desolante oscurità. La band non ha assolutamente paura di osare, del resto è stato sempre il suo trademark e raggiunge vertici assoluti in Nothing Stirs, dove l’atmosfera si incupisce ulteriormente creando paesaggi fortemente disperati e claustrofobici. E’ un modo diverso di creare musica estrema ma fortemente appagante, perché sviluppata da menti creative; la mancanza di schemi e la capacità di miscelare ingredienti molto diversi è la chiave vincente ed è necessario realmente un approccio “open minded”per apprezzare queste sonorità.

Tracklist
1. The Last Form of Loving
2. Can Carry No Weight
3. Partly Alive
4. The West Has Failed
5. Nothing Stirs
6. Off Script
7. An Urn
8. Blessed, Alone
9. Sickly Heart of Sand
10. Ten Times a Day, Every Day, a Stranger

Line-up
Lee Buford – Drums
Chip King – Guitars, Vocals

THE BODY – Facebook

Demetra Sine Die – Past Glacial Rebound

Una vera lezione di stupendo post-black sperimentale, con intrusioni dark, noise, drone e doom. Un nuovo ed ulteriore volto dei Demetra Sine Die, fedeli a sé stessi eppure sempre capaci di rinnovarsi.

E’ a dir poco strepitoso il nuovo capitolo dei Demetra Sine Die, eccellente gruppo italiano, giunto al terzo full-length, pubblicato dalla inglese Third I Rex.

Il lavoro si dipana attraverso sette tracce, tutte all’insegna di una grande varietà sonora. Post Glacial Rebound è – come anticipa il titolo – freddo e cerebrale, ma anche emozionale ed evocativo, intenso ed attento alle suggestioni che la musica – un grandioso mix di post-black, drone doom, noise e dark prog sperimentale – sa evocare ad ogni solco in maniera sublime. Quasi alla stregua di un film, le composizioni di questo nuovo CD dei Demetra Sine Die – nei suoi quarantasette minuti di durata complessiva – si presentano come una sorta di viaggio nello spazio, un’esplorazione cinematica che può ricordare, con il suo post-metal mutante, Tool, Virus e in particolare Oranssi Pazuzu. Si ascoltino al riguardo, tra loro collegate, l’opener Stanislaw Lem – il suo Solaris è stata una fonte d’ispirazione letteraria fondamentale – e la quarta traccia, Gravity: nelle due composizioni i sintetizzatori (tutti analogici, a cominciare dal Korg MS20) rendono atmosferico e fantascientifico il sound. Un taglio futuristico che non è tuttavia privo di calore, come sottolinea la sezione ritmica (il batterista Marcello Fattore, abilissimo nelle sue tessiture percussive, e il bassista Adriano Magliocco, dal tocco, a tratti, quasi grunge). I riverberi e gli squarci materici della chitarra di Marco Paddeu fanno il resto, compattando e variegando il magma sonoro esplorato dai Demetra Sine Die, declinandolo in termini ora tesi e drammatici (Lament), ora più melodici (Liars). Anche le linee vocali sono assai varie: abbiamo parti recitate (quelle iniziali di Eternal Transmigration hanno un che di pinkfloydiano), clean vocals ed uno screaming di stampo più classicamente black (in veste di ospite partecipa Luca Gregori dei torinesi Darkend), il che dona un tocco weird al tutto. La title-track conclusiva riassume tutte le caratteristiche della band ligure e di questo suo nuovo magistrale lavoro, densa e concettuale, spirituale e cangiante, pulitissima nelle soluzioni timbriche adottate di volta in volta e potente nell’impatto. La grafica di Anna Levytska, che ha collaborato tra gli altri con i Blut Aus Nord, incornicia il tutto. Capolavoro, tra i dischi dell’anno.

Tracklist
1 Stanislaw Lem
2 Birds Are Falling
3 Lament
4 Gravity
5 Eternal Transmigration
6 Liars
7 Post Glacial Rebound

Line up
Adriano Magliocco – Bass, Synthesizers
Marco Paddeu – Vocals, Guitar, Korg MS20
Marcello Fattore – Drums

DEMETRA SINE DIE – Facebook

Tannoiser – Alamut

Con una classica formazione a tre, i Tannoiser propongono un lavoro che spazia con buona fluidità tra le influenze dichiarate (Celtic Frost, Electric Wizard e primissimi Cathedral), mettendo a frutto l’esperienza live maturata in questi anni.

Alamut è un ep della durata di circa mezz’ora che rappresenta l’esordio in formato fisico per i Tannoiser, band bresciana dedita ad un’interessante forma di doom (al 2016 invece risale l’altro ep Mekkano, uscito solo in digitale).

Con una classica formazione a tre, i Tannoiser propongono un lavoro che spazia con buona fluidità tra le influenze dichiarate (Celtic Frost, Electric Wizard e primissimi Cathedral), mettendo a frutto l’esperienza live maturata in questi anni.
Baba Vanga apre al meglio il lavoro con un giro di basso killer, facendo presupporre un approccio catchy al genere che in realtà poi non si rivelerà tale: infatti, sin dalla seconda traccia Paradacsa, il sound si fa sempre più buio, rallentato e disturbato, accompagnato dal ringhio sgraziato ma efficace dell’addetto alle quattro corde Bruno Almici. Le distorsioni pronunciate di Necrophage donano al brano un’aura particolare, mentre con March of Wrecks i ritmi divengono ancor più rarefatti, e se The Void rilancia in parte l’andatura, la conclusiva Mekkano pianta i classici chiodi sulla bara con il suo doom mortifero ed essenziale.
Proprio quest’utimo aspetto a tratti può rivelarsi un limite, perché un sound leggermente più ricco (magari con l’apporto di una tastiera sullo sfondo) valorizzerebbe ancora di più le buone intuizioni dei Tannoiser: Alamut è in ogni caso un altro buonissimo tassello, piazzato al posto giusto allo scopo di edificare sonorità oscure capaci di intrecciarsi efficacemente con un contenuto lirico affascinante che, partendo dalla citazione della storica fortezza iraniana che dà il titolo all’album, trae spunto dal passato finendo per tratteggiare scenari foschi per l’umanità riguardo al suo futuro.

Tracklist:

1. Baba Vanga 04:11
2. Paradacsa 05:33
3. Necrophage 05:20
4. March of Wrecks 03:59
5. The Void 05:52
6. Mekkano

Line up:
Davide Serpelloni Drums (2015-present)
Francesco Bellucci Guitars (2015-present)
Bruno Almici Vocals, Bass (2015-present)

2018

Craneium/Black Willows – Split

Licenziato in una splendida versione in vinile bianco e in edizione limitata dall’etichetta genovese, questo ottimo split ci presenta due modi diversi di approcciarsi allo stoner/doom metal, genere che di questi tempi incontra i favori degli appassionati.

Split di spessore marchiato BloodRock Records con due realtà europee che si muovono nel magma sonoro di ispirazione stoner/doom, i finlandesi Craneium e gli svizzeri Black Willows.

Il quartetto di Turku, attivo dal 2011, arriva a questo split dopo un ep, un primo split con i 3rd Trip ed il debutto sulla lunga distanza intitolato Explore The Void, uscito tre anni fa.
La proposta del gruppo è un classico stoner /doom dalle influenze che alternano ispirazioni sabbathiane e rock desertico suonato nella Sky Valley, quindi anni settanta e novanta che si incontrano nel nord Europa per una jam stonata e fumosa, tra chitarroni fuzz e riff hard & heavy.
La band finlandese non risparmia un tocco melodico ed un approccio “statunitense” che lascia sensazioni positivi, anche a chi non è avvezzo alla parte più underground del genere.
Due tracce (Your Law e Try, Fail, Repeat) bastano ai Craneium per convincere ed essere aggiunti alla lunga lista delle band da seguire.
Discorso diverso per Bliss, lungo rituale psichedelico suonato dagli svizzeri Black Willows, formazione di Losanna con due full length alle spalle: il debutto uscito nel 2013, intitolato Haze, e Samsara, secondo lavoro su lunga distanza licenziato un paio di anni fa.
Shamanic rock’n’roll lo chiamano loro, certo è che Bliss risulta una lunga ed inesorabile jam nella quale lentamente la nostra mente abbandona il mondo terreno per confondersi tra la lava doom che il combo lascia scivolare, un denso fiume che nasce dagli strumenti per scendere verso valle bruciata e dall’incedere che ricorda a tratti gli Electric Wizard.
Sicuramente più ostico che quello dei loro colleghi, il sound del gruppo svizzero risulta un potentissimo esempio di doom metal psichedelico, monumentale e dall’impatto sonoro e concettuale notevole.
Licenziato in una splendida versione in vinile bianco e in edizione limitata dall’etichetta genovese, questo ottimo split ci presenta due modi diversi di approcciarsi allo stoner/doom metal, genere che di questi tempi incontra i favori degli appassionati.

Tracklist
Side A
1.Craneium – Your Law
2.Craneium – Try, Fail, Repeat

Side B
3.Black Willows – Bliss

Line-up
Craneium:
Axel Vienonen – Bass, Vocals (track 2)
Joel Kronqvist – Drums
Andreas Kaján – Guitars, Vocals (track 1)
Martin Ahlö – Guitars

Black Willows:
Sacha Ruffieux -Bass
Don Schpak – Drums
Aleister Crowley – Vocals, Guitars

CRANEIUM – Facebook

BLACK WILLOWS – Facebook

Moanhand – Fawn

L’inizio dell’avventura nel mondo della musica estrema underground è iniziato e per i Moanhand le premesse per fare bene ci sono tutte.

Esordio per questa one man band russa chiamata Moanhand, creatura doom/sludge, black, hardcore metal del giovane musicista e compositore Roman Filatov.

Fawn è un ep di quattro brani che si nutrono di questa manciata di generi estremi creando un particolare sound, un’altalena infernale che oscilla tra lo sludge /doom dell’opener Mark The Plaguehand, con una buona ed evocativa voce pulita, e le sferzate black metal della potentissima Jeweled Claws, brano che continua la ricerca di Filatov della chiave che unisce sludge e black metal.
Con Raptured i toni si fanno ancora più estremi: una devastante sferzata black metal, che ricorda gli act scandinavi, mentre lo strumentale conclusivo Tower Of Dirt solca strade progressive e post hardcore.
Il coraggio non manca di sicuro al musicista russo, Fawn convince anche per la buona produzione che permette di ascoltare perfettamente le varie ispirazioni che Filatov ha assemblato nel sound creato.
L’inizio dell’avventura nel mondo della musica estrema underground è iniziato e le premesse per fare bene ci sono tutte: sicuramente ascoltare un solo brano del lavoro non permette d’avere un quadro preciso del credo musicale dei Moanhand, quindi il consiglio è di ascoltare Fawn in tutta la sua interezza.

Tracklist
1. Mark The Plaguehand
2. Jeweled Claws
3. Raptured
4. Tower Of Dirt (instrumental)

Line-up
Roman Filatov – vocals, guitars, bass

Konstantin Sigua – additional guitars
Nikolay Kirutin – drums on “Tower Of Dirt”

MOANHAND – Facebook