Fallen – Tout Est Silencieux

Come sempre l’abilità di Fallen risiede sostanzialmente nel non rendere la sua musica ambient eccessivamente minimale, riuscendo invece a conferirle un senso melodico, prefigurante una calma che viene però spesso screziata da rumori assortiti di sottofondo, quasi a volerci ricordare che proporre questo tipo di sonorità significa anche saper cogliere gli spunti che giungono dalla quotidianità.

Commentare le uscite targate Fallen (al secolo Lorenzo Bracaloni) sta diventando una piacevole consuetudine.

Il musicista toscano, a distanza relativamente breve dall’uscita del bellissimo Glimpses, ritorna con quest’album intitolato Tout Est Silencieux, edito dall’etichetta transalpina Triple Moon Records .
Forse anche per questo sia il titolo del lavoro che quello di tutti i brani è in lingua francese, un aspetto questo che ovviamente ha un valenza del tutto relativa, dato che si parla di musica ambient per sua natura del tutto strumentale.
Rispetto all’album precedente, che era volto all’evocazione di atmosfere e situazioni notturne, gli scostamenti sono minimi ma sufficienti, comunque, a farci sembrare le sonorità più consone a quella copertina in cui un uomo ed un cane paiono in procinto di essere avvolti e resi invisibili dalla nebbia
Come sempre l’abilità di Fallen risiede sostanzialmente nel non rendere la sua musica ambient eccessivamente minimale, riuscendo invece a conferirle un senso melodico, prefigurante una calma che viene però spesso screziata da rumori assortiti di sottofondo, quasi a volerci ricordare che proporre questo tipo di sonorità significa anche saper cogliere gli spunti che giungono dalla quotidianità.
L’intento di considerare ogni impulso colto dal nostro udito un elemento a suo modo musicale, benché non venga prodotto da uno strumento, non è certo una novità ma, a mio avviso, caratterizza non poco questo lavoro che come sempre non delude e anzi, aumenta ancor più le quotazioni di uno dei compositori più brillanti (e anche più prolifici) in circolazione oggi nel nostro paese in questo settore.

Tracklist:
01 la tempête dans le coeur
02 chèrement
03 mémoires du vent
04 la chanson des enfants
05 dans les rêves oublié
06 tout est silencieux

Line-up:
Fallen – piano, electric piano, guitars, synthesizers and field recordings

FALLEN – Facebook

Die Sonne Satans – Metaphora

Ci si perde in questo tempo dilatato, in questi suoni altri, in questo austero tempo che non è il nostro, ed il tutto sarebbe immensamente piaciuto all’inquisitore Eymerich, a parte il monicker ovviamente.

Dopo 25 anni dalla sua uscita torna il disco Metaphora del progetto dark ambient italiano Die Sonne Satans, manovrato dalle tenebre da Paolo Beltrame, deus ex machina del gruppo.

Metaphora era originariamente uscito nel 1993 come metà dello spilt con i Runes Order, per i tipi della mitica Old Europa Cafè, un’etichetta di ambient e industrial che ha tracciato una strada ancora molto futuristica tuttora. Su Die Sonne Satanas non si sa granché, solo che dietro al nom de plume c’è Paolo Beltrame, ma va benissimo così, perché ci sono le sue opere a parlare di e per lui. Il disco ha avuto un ottimo restauro sonoro da parte di Maurizio Pustinaz, il tutto avvallato da Beltrame stesso. L’opera in questione non è prettamente musica, né si avvicina minimamente alla sua concezione tradizionale ma va ben oltre: è un insieme di ambient e di spunti che hanno per oggetto il simbolismo religioso, come se si lavorasse sulla materia religiosa e la si facesse uscire in un’altra maniera. Centrale è il concetto espresso dal breve titolo Metaphora, che in greco significa trasportare oltre, per cui un termine viene usato per significare qualcosa di diverso dalla sua origine. Qui è esattamente così, nel senso che si prende un significato e lo si usa in contesti diversi, facendolo diventare altro. Ciò che stupisce maggiormente in un disco come questo è la capacità di penetrare dentro l’ascoltatore, e come fosse un rito sciamanico portarlo lontano, in un ambiente diverso dal suo. Alcuni stilemi della religione cristiana vengono qui lavorati a tal punto che diventano un qualcosa ora di liquido, ora di monolitico, come se fossero salmi che minimali salgono al cielo accompagnati da droni e loop. Metaphora era un disco gigantesco già all’epoca dell’uscita, in un momento magico per il movimento ambient industrial occultistico italiano. Ascoltare questo album è una vera esperienza sonora, e ognuno ci sentirà ciò che preferisce, non ci sono limitazioni qui od intrattenimento. In quei fantastici anni novanta in Italia si producevano autentiche chicche di questo genere, musica che era ben oltre la musica, poi è arrivata la risacca e si è affievolito tutto, anche se rimane qualcosa. L’etichetta Annapurna di Firenze, una delle migliori in Italia con un catalogo notevolissimo, ci dà la possibilità di ascoltare un disco che è bellissimo e che è meraviglioso nel senso che produce autentica meraviglia e bellezza. Ci si perde in questo tempo dilatato, in questi suoni altri, in questo austero tempo che non è il nostro, ed il tutto sarebbe immensamente piaciuto all’inquisitore Eymerich, a parte il monicker ovviamente.

Tracklist
1.The garden of Hydra
2.Body snatcher
3.Spiritwook (revised)
4.Source
5.Orbis
6.The Venerable
7.Advent
8.Pleurotomaria (revised)
9.Cheopys

ANNAPURNA – Facebook

Fallen – Glimpses

Gli scorci di vita, propria o altrui, passata, presente o futura che sia, vengono trasmessi con l’ormai consueta maestria da Fallen, musicista in grado come pochi altri di questi tempi nell’offrirci l’ideale accompagnamento sonoro alle varie fasi della nostra esistenza.

Pochi mesi dopo ást, Lorenzo Bracaloni, alias Fallen, torna a regalarci sprazzi della sua musica ambient che, grazie alla qualità esibita, sta ottenendo consensi da più parti.

Glimpses, come ci dice l’autore, è una raccolta di brani composti durante la notte, un momento della giornata nel quale di norma il corpo si riposa e la mente si colloca in stand by, ma questo non vale per tutti.
La notte per molti è il momento ideale magari per studiare, oppure può essere l’occasione giusta, sfruttando il silenzio ed il buio circostante, per fare il punto rispetto a qualche situazione che ci provoca ansietà o che merita d’essere approfondita con calma; allo stesso tempo, le tenebre fanno indulgere alla malinconia, al ricordo di qualcosa o qualcuno smarrito per sempre, piuttosto che osservare con sguardo distaccato gli scenari notturni come se tutto ciò che accade attorno non ci riguardasse.
Le otto tracce si snodano tra tutte queste sensazioni, spesso di matrice opposta a livello umorale, ma accomunate dal loro acuirsi durante le ore più tarde: ovviamente ne risente anche la struttura musicale che, se per la natura stessa dell’ambient non è soggetta a scostamenti bruschi, diviene ugualmente più minimale e soffusa, sacrificando magari qualche slancio melodico a favore di un approccio più rarefatto.
Gli scorci di vita, propria o altrui, passata, presente o futura che sia, vengono trasmessi con l’ormai consueta maestria da Lorenzo, musicista in grado come pochi altri di questi tempi nell’offrirci l’ideale accompagnamento sonoro alle varie fasi della nostra esistenza.
L’ambient targata Fallen continua quindi a regalare puntualmente sensazioni magnifiche, a maggior ragione in considerazione anche della recentissima uscita di Tout Est Silencieux, lavoro del quale contiamo di parlare prossimamente, anche se come sempre quando si tratta di sonorità simili le parole sono davvero nulla rispetto ad un ascolto diretto.

Tracklist:
01 in between days
02 glimpses
03 heart(less)
04 3:05 AM
05 night reveries
06 shape(less)
07 empathetic
08 an overview

Line-Up:
Fallen – piano, celesta, guitars, synthesizers and field recordings (gardens, squares, radios)

FALLEN – Facebook

Nhor – Wildflowers

Nhor compie una sorta di miracolo musicale, proponendo un’ora e venti di musica ambient di stupefacente qualità, tenendosi ampiamente alla larga dal rischio di tediare l’ascoltatore che, anzi, troverà in maniera naturale il modo compenetrarsi con tali sonorità.

Quello di Nhor è un nome che avevamo già incontrato ai tempi di IYE, quando ci fu l’occasione di parlare di un bellissimo lavoro come Within the Darkness Between the Starlight.

All’epoca il musicista britannico riusciva a fondere mirabilmente la musica ambient con pulsioni black metal, andando a creare un ibrido in assoluto non innovativo ma sicuramente carico di rara intensità emotiva.
Con il tempo la parte estrema si è praticamente azzerata, lasciando spazio in maniera tutto sommato naturale alla sola componente ambient, consistente in un delicato e mai stucchevole lavoro pianistico.
Questo Wildflowers non è in realtà un album di inediti ma rappresenta la compattazione in un solo formato dei quattro ep dedicati alle stagioni usciti lo scorso anno tra aprile e dicembre.
Il lavoro viene così offerto dalla Prophecy Productions in versione doppio vinile e fornisce l’occasione di ascoltare in sequenza le quattro parti che, in tal modo, vanno a formare un’opera a sé stante come probabilmente era già inizialmente l’intenzione dell’autore.
Nhor compie una sorta di miracolo musicale, proponendo un’ora e venti di musica ambient di stupefacente qualità, tenendosi ampiamente alla larga dal rischio di tediare l’ascoltatore che, anzi, troverà in maniera naturale il modo compenetrarsi con tali sonorità.
Quello offerto dal compositore inglese è, in fondo, il circolare flusso musicale che accompagna le stagioni della nostra esistenza, ripartendo ogni volta daccapo come se ognuna di esse fosse la prima, o magari l’ultima ad essere vissuta ed assaporata.
Wildflowers è un’opera nella quale l’approccio pianistico essenziale (il modus operandi non è dissimile ovviamente da quello del maestro Eno) è l’antitesi della svolazzante ridondanza dei neoclassici; a Nhor non servono particolari artifici per emozionarci e trasportarci dolcemente in un’altra dimensione spazio temporale: l’ascolto di un brano di rara limpidezza come I Have No Stars Left to Wish Upon è sufficientemente esemplificativo di quanta bellezza sarà possibile rinvenire in questo magnifico doppio album.

Tracklist:
Disc 1
1. Windowpanes
2. Knelt at the Altar that Lays Atop the Stars
3. And So Passes the Glory of Our World
4. There was a Time When I Knew the Way
5. Wildflowers
6. Vernal
7. Let the Rains Knock at My Door
8. In Moonlight

Disc 2
1. Light, Sing to Me
2. Where Morning Breaks Over the Pines
3. I Have No Stars Left to Wish Upon
4. Even in Dreams
5. You Will Never Shine as Bright as the Moon
6. I Remember
7. Sunlit Rest

Disc 3
1. All That Is Sacred to Me
2. Where They Once Were
3. The Trees Knew Not of Me Then
4. Moonfall
5. We Set Their Bodies Free in the Cold River
6. What We Hid in the Night
7. Fire Promises Guidance
8. In Search of Those We Lost
9. Fate

Disc 4
1. Bereft
2. Murmurations Above Me
3. Owls Through Snowfall
4. Wreaths of Hoarfrost
5. The Moon Belongs to All and None
6. They Leave No Trace
7. I Found You There, Beside the Night
8. Mercy

Line-up:
Nhor – Everything

NHOR – Facebook

Faction Senestre – Civilisation

Un rumorismo dronico e industriale fa da tappeto sonoro a testi declamati in lingua madre, invero molto interessanti per la loro feroce quanto esplicita critica della modernità: questo chiaramente rende il tutto affascinante quanto dannatamente ostico.

Faction Senestre è un progetto di nuovo conio formato da membri di band di un certo spicco della scena francese come Still Volk, Rosa Crux, Malhkebre e Sektarism.

Quello che ne scaturisce è un brano sperimentale della durata di oltre 20 minuti, suddiviso in quattro parti, che mette sicuramente a dura prova l’apertura mentale dell’ascoltatore medio.
Un rumorismo dronico e industriale fa da tappeto sonoro a testi declamati in lingua madre, invero molto interessanti per la loro feroce quanto esplicita critica della modernità: questo chiaramente rende il tutto affascinante quanto dannatamente ostico.
Resta il fatto che questi musicisti transalpini sanno il fatto loro e, pur scendendo su un terreno molto scivoloso, riescono a mettere in scena una riproduzione credibile di sonorità avanguardiste per quanto, ovviamente, Civilisation si vada a collocare decisamente al di fuori di quelli che sono i normali ascolti.
Difficile quindi affibbiare all’operato dei Faction Senestre le semplicistiche etichette di bello o brutto: tutto dipende dal tipo di approccio, dalla sensibilità e dal desiderio di farsi scuotere che ciascuno possiede; detto ciò, personalmente trovo Civilisation un’opera di un certo spessore, musicalmente e concettualmente, il che desta quindi una certa curiosità nei confronti di eventuali prossimi sviluppi di questo progetto.
Ta civilisation est en péril, je le prédis et tu t’enfuis

Tracklist:
1. Ta Civilisation

Canaan – Images From A Broken Self

I Canaan producono un altro disco bellissimo e terribile, nel quale l’elettronica regna sovrana e dalla freddezza del silicio nasce un calore che avvolge tutto e tutti, e si proiettano verso uno spazio che è differente da quello nel quale viviamo.

I Canaan sono dei moderni sciamani che ci fanno vedere la realtà squarciando il velo che la avvolge e che ce la fa sembrare sostenibile.

La loro ultima opera è incentrata sul rendere in musica le immagini delle nostre anime spezzate dalle vite che facciamo e le lacerazioni che procurano. Ascoltare i Canaan è come fare terapia psicologica iniettandoci il virus che vogliamo sconfiggere, è lottare senza stare comodi, andare avanti senza sapere dove potremmo arrivare, ma continuare. La parabola musicale di questo gruppo è una delle più interessanti e preziose della musica underground italiana, ed è cominciata tanto tempo con il gruppo doom death dei Ras Algethi, per poi continuare nei Canaan con due terzi del gruppo capitanati da Mauro Berchi, una delle figure più importanti che abbiamo nella musica in Italia. I Canaan non suonano un genere musicale ben preciso, essendo uno di quei pochi gruppi che non è circoscrivibile in uno specifico ambito, esibendo uno stile del tutto proprio. Se gli esordi erano molto darkwave e gothic, con gli ultimi dischi il suono si sta rarefacendo, portandolo più in alto, ma il tutto appare ancora più soffocante e claustrofobico. Come detto prima, i Canaan ci fanno vedere con le loro sensazioni in musica che la nostra vita è abbastanza inutile, che il nulla ci avvolge e che i nostri sforzi, oltre che vani, sono controproducenti. Tutto ciò sarebbe spaventoso, anche se nell’arte abbiamo tantissimi esempi, o forse l’arte serve proprio a farci vedere il nulla, ma il gruppo milanese riesce a rendere sublime tutto ciò. Dopo il meraviglioso il Giorno Dei Campanelli del 2016, i Canaan producono un altro disco bellissimo e terribile, nel quale l’elettronica regna sovrana e dalla freddezza del silicio nasce un calore che avvolge tutto e tutti, e si proiettano verso uno spazio che è differente da quello nel quale viviamo: forse è sogno, perché la musica dei milanesi è un qualcosa di meravigliosamente indefinito, un sogno con la febbre, una febbre che ci fa capire, il nulla che parla. Ogni canzone è molto curata, come sempre ogni nota e ogni respiro elettronico ha un senso per un gruppo che va davvero oltre la musica e ti porta in un luogo tutto suo. Per chi li ascolta da anni non è facile descrivere l’esperienza che viene vissuta, perché i Canaan non sono un gruppo che si possa ascoltare con le cuffie mentre si va a lavorare, ma devono essere assimilati come un rito, perché aprono una dimensione nuova nella quale il dolore prende vita e forma, e il nulla si può rivelare liberamente.

Tracklist
1.My Deserted Place
2.The Story Of A Simple Man
3.Words On Glass
4.Hint On The Cruelty Of Time
5.I Stand And Stare
6.Of Sickness And Rejection
7.The Dust Of Time
8.Adversaries
9.That Day
10.A Tired Sentry
11.Worms
12.Through Forging Lines

Line-up
Alberto
Mauro
Nico

CANAAN – Facebook

Empty Chalice – Ondine’s Curse

Per circa tre quarti d’ora Empty Chalice offre quella che si dimostra, ancora una volta, un’interpretazione peculiare e sopra la media della materia, riuscendo davvero a far vivere all’ascoltatore la terribile battaglia che si combatte all’interno di un organismo colpito dalla sindrome di Ondine.

Il nuovo lavoro di Antonio Airoldi (Antonine A.), nella sua incarnazione denominata Empty Chalice, è la quarta di una serie di uscite targate Ho.Gravi.Malattie, etichetta dal nome indubbiamente bizzarro ma del tutto attinente al catalogo proposto, visto che ogni disco è dedicato ad una delle molte patologie che affliggono l’umanità.

Con Empty Chalice viene affrontata la Sindrome di Ondine, disturbo assai raro ma fortemente invalidante visto che, di fatto, l’organismo “dimentica” di respirare durante il sonno: tale scelta appare fin da subito azzeccata, visto che il musicista trentino ci ha abituato da tempo all’esibizione di una forma di ambient claustrofobica ma allo stesso tempo sempre inquieta e in divenire.
Se rispetto ai generi, per cosi dire, canonici l’ambient può essere definita a buon titolo una sorta di flusso sonoro, in Ondine’s Curse il suo scorrere appare quanto mai disturbato, quasi ad fotografare la discrasia provocata da un cervello che si rifiuta di fornire i comandi atti a garantire la sua stessa sopravvivenza .
Per circa tre quarti d’ora Airoldi offre quella che si dimostra, ancora una volta, un’interpretazione peculiare e sopra la media della materia, riuscendo davvero a far vivere all’ascoltatore la terribile battaglia che si combatte all’interno di un organismo colpito dalla sindrome, lacerato dalla necessità fisiologica di dormire, da un lato, e dall’impossibilità di cedere al sonno pena la cessazione delle funzioni vitali, dall’altra.
L’ambient targata Empty Chalice di certo non scorre senza lasciare tracce: sul terreno restano tracce di paure ancestrali e conflitti interiori irrisolti, con suoni che se, in The Awake, possiedono una recondita parvenza melodica, in II esibiscono un substrato di canti gregoriani, e  da III in poi si tramutano nella trasposizione musicale di una elettroencefalogramma imbizzarrito: tutto ciò senza che nessuna nota o rumore possa apparire superfluo o fuori luogo.
Ondine’s Curse conferma una volta di più lo status acquisito da Antonio Airoldi, avviato a diventare (ammesso che già non lo sia) uno dei nomi di punta del nostro avanguardismo musicale.

Tracklist:
1. The Awake
2. II
3. III
4. IV
5. The Sleep

Line-up:
Antonine A.

EMPTY CHALICE – Facebook

In Tenebriz – Winternight Poetry

Wolfir offre un’interpretazione del death doom melodica e convincente, denotando una certa abilità nell’alternare ampie aperture atmosferiche a passaggi di natura ambient e a riff robusti e decisi.

Non è una novità imbattersi in one man band eufemisticamente definibili prolifiche, specialmente quando ad essere esplorato è lo sterminato territorio russo.

Gli In Tenebriz appartengono a questo novero e se, come sempre, in simili casi ci si chiede se tali caratteristiche non vadano a detrimento della qualità delle uscite, è anche vero che il più delle volte questi workaholic del metal sorprendono per l’ottimo livello medio espresso.
Con questo Winternight Poetry, Wolfir (al decimo full length in poco più di un decennio di attività, oltre ad un nugolo di ep e split album) offre un’interpretazione del death doom melodica e convincente, seppure a tratti un po’ minimale a livello di soluzioni tastieristiche.
Il tutto non penalizza più di tanto la resa finale, dato che il musicista moscovita è abile nell’alternare ampie aperture atmosferiche a passaggi di natura ambient e a riff robusti e decisi.
Winternight Poetry si esaurisce in poco meno di quaranta minuti lasciando buone sensazioni e qualche rimpianto relativo al fatto che, se il buon Wolfir si avvalesse di qualche aiuto ai vari strumenti, il risultato sarebbe potuto essere ancora più soddisfacente, come testimoniano ampiamente tracce come III e IV, le più emblematiche di doti compositive nient’affatto trascurabili.

Tracklist:
1. Winternight Poetry I
2. Winternight Poetry II
3. Winternight Poetry III
4. Winternight Poetry IV
5. Winternight Poetry V
6. Winternight Poetry VI
7. Winternight Poetry VII

Line up:
Wolfir – Guitars, Bass, Vocals, Synth

IN TENEBRIZ – Facebook

2018

Fallen – ást

Fallen veicola sentimenti che, valutati con i parametri della modernità, appartengono a tempi in cui la semplicità era una virtù e non sinonimo di banalità o di sciatteria: anche per questo ást è un’opera preziosa, da cullare e coltivare con la stessa cura ed attenzione che il musicista ha riversato nel comporla, rendendola una testimonianza musicale fulgida e a suo modo rara.

Torna nuovamente a farsi sentire Fallen, ovvero il musicista toscano Lorenzo Bracaloni, con la sua musica ambient di limpida qualità.

Come già scritto in occasione dell’ultima opera intitolata No Love Is Sorrow, il flusso musicale continua a trarre linfa dagli insegnamenti settantiani del caposcuola Brian Eno e di tutti i numerosi discepoli di uno dei maggiori compositori contemporanei.
L’ambient, nelle mani di Lorenzo, riprende la sua forma originaria, ovvero quella di musica che trovava la sua naturale collocazione nell’accompagnamento di installazioni visive, quindi ben lontana dalle forme droniche e disturbanti che, pur validissime, si rivelano alla fine più impattanti e meno neutre, andando un po’ in contrasto con le finalità iniziali immaginate dal maestro britannico.
ást non è però solo carezzevole e la sua bellezza risiede in una ricerca di suoni non sempre convenzionali, capaci di increspare splendidamente il placido moto ondoso, come avviene in ást III, o con un impatto melodico più definito ed accentuato, come nella magnifica ást V.
E’ anche vero che, in presenza di una continuità compositiva, la proposta di Bracaloni si fa sempre più ricca e composita, colma di sfumature che si possono cogliere, sotto forma di voci e rumori opportunamente processati che non appaiono mai fuori luogo, in quanto facenti parte di una quotidianità dalla quale Fallen non vuole farci evadere ma, semmai, spingerci ad apprezzarne gli aspetti più puri; anche le più piccole cose, persino quelle apparentemente insignificanti, grazie all’ást (amore in islandese) divengono tasselli utili a completare un quadro esistenziale.
Fallen veicola sentimenti che, valutati con i parametri della modernità, appartengono a tempi in cui la semplicità era una virtù e non sinonimo di banalità o di sciatteria: anche per questo ást è un’opera preziosa, da cullare e coltivare con la stessa cura ed attenzione che il musicista ha riversato nel comporla, rendendola una testimonianza musicale fulgida e a suo modo rara.

Tracklist:
1. ást I
2. ást II
3. ást III
4. ást IV
5. ást V
6. ást VI
7. ást VII
8. ást VIII

Line-up:
Fallen

FALLEN – Facebook

Dreamfire – Atlantean Symphony

Opere come queste si possono sicuramente considerare fuori dal tempo, avvicinatevi con cautela se non avete ben in mente di cosa vi troverete di fronte, e crogiolatevi nelle atmosfere e sfumature di Atlantean Symphony se questo tipo di musica è un vostro ascolto abituale.

Questa misteriosa band di cui si conosce pochissimo è un entità strumentale attiva dalla fine del secolo scorso, oltre a questo album ha negli anni riproposto brani con l’aiuto del supporto di video tratti da Star Wars e Games Of Throne, ma ad oggi Atlantean Symphony rimane l’unico album, licenziato in varie versioni dal 2012.

Quest’anno tocca alla Minotauro Records che, dopo la firma con Dreamfire , ristampa l’album rimasterizzandolo completamente, con l’aggiunta di un paio di bonus tracks (una nuova versione di An Epitaph Engraved In Water e una propria versione di  The Rains Of Castamere di Ramin Djawadi) ed una nuova copertina: musica ambient, colonna sonora per epici film dove lunghi viaggi in terre inesplorate o nei misteri dell’universo fungono da immagine per questi quattordici magici brani, difficili da digerire se non si è in confidenza con questo tipo di suoni.
Consigliato dunque a chi maneggia con cura musica ambient, Atlantean Symphony regala visioni mistiche ed epiche, con il suono di tastiere e synth che creano atmosfere epiche e magniloquenti in un contesto fuori da ogni tipo di reminiscenza metal.
Un’ora immersi in un mondo parallelo dove all’orizzonte si intravedono i fuochi della battaglia appena conclusa dominati da un cielo grigio di fuliggine e dal mare che lambisce le rive rosse dal sangue dei guerrieri caduti.
Un modo per vivere una storia solo con la forza della musica che, magicamente, apre il cinematografo della vostra mente e vi trasporta nel mondo di brani come Embraced By The Light Of The Final Dawn o A Reflection Of Rebirth Through The Eye Of Forlorn.
Opere come queste si possono sicuramente considerare fuori dal tempo, avvicinatevi con cautela se non avete ben in mente di cosa vi troverete di fronte, e crogiolatevi nelle atmosfere e sfumature di Atlantean Symphony se questo tipo di musica è un vostro ascolto abituale.

Tracklist
1 – Across The Ageless Ocean
2 – Approaching Atlantean Monoliths
3 – Embraced By The Light Of The Final Dawn
4 – The Opening Of Eternity
5 – A Reflection Of Rebirth Through The Eyes Of The Forlorn
6 – Into The Temple Of The Elements
7 – (Immersion Into) The Azure Mirror Of Infinity
8 – Tears Of The Enlightened
9 – Of Grandeur And Fragility
10 – A Timeless Lamentation Carried Upon The Storm
11 – Through Fire Into Legend
12 – An Epitaph Engraved In Water
13 – The Rains Of Castamere
14 – An Epitaph Engraved In Water MMXVIII

DREAMFIRE – Facebook

Vesta – Vesta

I Vesta ci spiegano, portandoci le prove, del perché il post rock sia un genere molto bello se fatto bene come lo fanno loro.

I Vesta sono un trio viareggino di post rock e molto altro, dal bel tiro musicale per un disco che vi renderà devoti di questo suono.

La copertina è molto bella ed aperta ad interpretazioni soggettive, e rende molto bene ciò che è questo disco : un viaggio bello robusto verso qualcosa di molto lontano. I riferimenti sarebbero quelli del post rock classico e meno classico, ma i Vesta rielaborano il tutto in maniera molto personale ed originale. Il gruppo viareggino costruisce una narrazione musicale e cerebralmente visiva, con risultati entusiasmanti che lasciano il segno. Musica e sensazioni che suonano, e ci sono anche pause e silenzi che valgono davvero molto, qui conta l’insieme, anche se ogni episodio è notevole. I Vesta rompono gli schemi del genere, forse perché non decidono di appartenere in maniera ortodossa a nessun genere, decidendo di fare un percorso tutto loro, e la scelta è più che mai giusta. Questo disco omonimo piacerà a tante persone dai differenti gusti musicali, a chi ama il post rock, ma anche a chi apprezza sonorità più pesanti, mentre lo potrà gradire anche chi è abituato a cose più soft. Per apprezzare al meglio questo album lo si deve ascoltare e lasciarlo fluire dentro di noi, perché è un fluido che scorre e porta i pensieri di ognuno, e ci fa vedere le nostre azioni dall’alto. I Vesta ci spiegano, portandoci le prove, del perché il post rock sia un genere molto bello se fatto bene come lo fanno loro.

Tracklist
1. Signals
2. Resonance
3. Constellations
4. Ethereal
5. Nebulae
6. Aurora pt.1
7. Aurora pt.2

Line-up
Giacomo Cerri – Guitar & Drones
Sandro Marchi – Drums & Cymbals
Lorenzo Iannazzone – Bass & Noise

VESTA – Facebook

Aurora Borealis – Goodbye

Con il monicker Aurora Borealis, Déhà va ad esplorare territori ambient che confluiscono poi in un post rock delicato ed emozionante, quello che ogni appassionato vorrebbe sempre ascoltare.

Può un musicista muoversi incessantemente tra generi apparentemente antitetici tra loro offrendo sempre e comunque opere di livello superiore alla media ?

La risposta è si, specialmente se ci si chiama Déhà, un nome che ormai è sinonimo della capacità innata di unire un’irrequietezza ed un’iperattivita compositiva ad una qualità che stupisce ogni volta di più.
Con il monicker Aurora Borealis il musicista belga va ad esplorare territori ambient che confluiscono poi in un post rock delicato ed emozionante, quello che ogni appassionato vorrebbe sempre ascoltare ma che, stranamente, la maggior parte degli altri musicisti riesce a proporre con tale maestria solo a intermittenza.
In virtù di un talento pressoché infinito, Déhà propone poco meno di tre quarti d’ora di melodie splendide e di stupefacente profondità, nel senso che non ci si stufa mai di ascoltarle e soprattutto, non appaiono mai stucchevoli.
Nel prime due parti di Goodbye (racchiuse in un unico brano), che se non ho inteso male dovrebbero essere state composte qualche tempo prima rispetto al restante contenuto dell’album, salta subito all’orecchio quello che è l’influsso primario di chi si cimenta con musica che a che fare con l’ambient, quel Brian Eno del quale vengono evocate note pianistiche che ricordano un capolavoro come By This River, e un lampo di memoria mi fa ricordare che uno dei geni indiscussi della musica contemporanea, seppure di nazionalità inglese, è di madre belga, cosa che di fatto è ininfluente ma che mi piace ritenere non del tutto casuale.
Non so questo imprinting iniziale sia consapevole o meno, fatto sta che man mano che l’album procede le atmosfere più corpose ed atmosferiche del post rock divengono preponderanti rispetto alle rarefazioni dell’ambient, rispettando in qualche modo anche la progressione temporale delle composizioni che sembrano farsi via via più robuste arrivando alle più recenti e conclusive Sun Up e Sun Down, alle quali si giunge però per gradi, con le parti più recenti di Goodbye che, in precedenza, hanno reso un po’ meno sognante l’incedere di un album in  possesso un afflato melodico difficilmente riscontrabile altrove.
Un album solo strumentale corre seriamente il rischio di annoiare dopo una ventina di minuti, ma se ti chiami Déhà tutto ciò non può accadere, perché ovunque si muova il musicista belga le cose scontate e banali sono bandite, ed ogni ascoltatore, qualsiasi possa essere il genere che predilige, ad ogni sua uscita ne resterà sempre e comunque appagato. E questo non è da tutti …

Tracklist:
1.Goodbye (1 & 2)
2.Goodbye (3)
3.Goodbye (4)
4.Goodbye (5)
5.Sun up – Lights
6.Sun down – Lights

Line-up:
Déhà

Déhà – Facebook

Aborym – Something for Nobody Vol​.​1

Un’uscita interessante, che conferma il valore e la peculiarità di una delle eccellenze nazionali in ambito metal (e non solo).

Dopo aver piazzato con Shfting.Negative un altro fondamentale tassello nel loro percorso artistico, gli Aborym tornano ad offrire musica inedita con questo lavoro intitolato Something for Nobody Vol​.​1.

Ovviamente non siamo di fronte ad un nuovo full length, perché in realtà l’album in questione è incentrato su una lunga traccia intitolata, appunto, Something for Nobody pt.1, la prima parte di una trilogia che Fabban sta scrivendo per farne una colonna sonora, commissionata dal regista Raffele Picchio per il suo cortometraggio Sakrifice.
Anche (ma non solo) per questo i venti minuti della traccia sono attraversati da molte delle pulsioni che animano la creatività del musicista pugliese; così, se per la maggior parte il contenuto è caratterizzato da una ambient a tratti alternativamente delicata ed inquieta, non mancano spunti jazzistici e altri di pungente elettronica senza che venga mai meno l’impronta del marchio Aborym, ormai riconoscibile indipendentemente dal genere musicale offerto.
Il resto del lavoro è completato da cinque remix che vedono un reciproco scambio di cortesie con Keith Hillebrandt (facente parte della cerchia dei Nine Inch Nails) con il sound producer che rimaneggia a modo suo For A Better Part e gli Aborym che fanno altrettanto con la sua Farwaysai, e i romani Deflore che industrializzano You Can’t handle The Truth ricevendo lo stesso favore per la loro Mastica Me; oltre a questi, Fabban cura anche il remix di Deathwish degli ottimi Angela Martyr.
Per mia indole fatico a ritenere i remix, chiunque ne sia l’autore e in qualsiasi ambito, un’operazione in grado di aggiungere o togliere qualcosa all’operato di un musicista o di una band, ma non per questo devono essere trascurate a prescindere, specialmente in questo caso: come detto, dipende molto anche dalla sensibilità e dalla ricettività dell’ascoltatore, resta il fatto che queste cinque tracce, alla fine, si rivelano un buonissimo contorno al brano principale, aumentando i motivi di potenziale interesse di un’opera che conferma il valore e la peculiarità di una delle eccellenze nazionali in ambito metal (e non solo).

Tracklist:
1.Aborym – Something for Nobody pt.1 (Sakrifice)
2.Keith Hillebrandt – For A Better Past (Deconstruction mix by Keith Hillebrandt)
3.Deflore – You Can’t handle the Truth (Evil dub deconstruction by Deflore)
4.Aborym – Deathwish (Ecstasy under duress remix by Aborym)
5.Keith Hillebrandt – Farwaysai (Inertia remix by Fabban, Aborym)
6.Aborym – Mastica Me (Digitalis Ambigua remix by Aborym)

ABORYM – Facebook

Uruk – I Leave A Silver Trail Through Blackness

Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale, questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Cosa succede nel momento in cui si compenetrano due stili musicali diversi, due cammini effettuati con mezzi differenti ma con lo stesso imperativo di ricercare sempre e comunque ?

Succede che nasce un’entità musicale dalla ben difficile collocazione come gli Uruk, figlia dell’incontro tra Massimo Pupillo, l’immenso bassista degli Zu e nei Triple Sun, e Thighpaulsandra, epica figura già nei Coil, poi con Julian Cope e eminente membro di quell’esoterismo inglese, non solo musicale, che vive da molto tempo. I due si sono sempre ammirati, e questo disco, una suite di circa trentanove minuti, è qualcosa di più di una semplice collaborazione. Il disco è un qualcosa di esoterico, una commistione di ambient e di drone, un ricollegarsi alle nostre origini più ancestrali, come indicato dal nome del gruppo. Uruk era una città della civiltà sumera, narrata nell’epopea di Gilgamesh, ed uno dei maggiori insediamenti della nostra antichità. Gruppi come Zu e i Coil attraverso la loro musica hanno sempre ricercato e smosso qualcosa di antico dentro di noi, scavalcando la nostra modernità e parlando a qualcosa che tentiamo di negare. Proprio come questo disco, che ci mostra un’antichissima storia messa in musica, ovvero la capacità umana di dare un senso differente e personale a dei suoni, semplici come il rumore primordiale. I Leave A Silver Trail Through Blackness fa scaturire dentro ognuno di noi una propria personale interpretazione, ma più di tutto è un portale, un codice di vibrazioni per portarci da qualche altra parte in uno stato alterato di coscienza, obiettivo anche dei live del duo, davvero molto coinvolgenti. Non ci si può approcciare a questo disco aspettandosi della musica come la intendiamo comunemente, perché questo è il senso ancestrale di tale arte. Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale. Questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Tracklist
1. I Leave A Silver Trail
2. Through Blackness

Line-up
Massimo Pupillo
Thighpaulsandra

COUNSULING SOUNDS – Facebook

We All Die! What A Circus! – Somnium Effugium

L’album è davvero molto curato e la limpidezza dei suoni ne favorisce l’assimilazione, anche perché qui è netta la sensazione d’essere al cospetto di un artista con la A maiuscola e non di un pur valido assemblatore di suoni.

Devo ammettere che le ultime uscite nelle quali mi sono imbattuto mi hanno parzialmente riconciliato con i dischi strumentali, specialmente quelli basati su un melodico e riflessivo post rock.

Così, dopo il bellissimo lavoro degli americani In Lights, tocca a questo progetto solista del portoghese João Guimarães dal monicker piuttosto bizzarro, We All Die! What A Circus!.
Nonostante le ingannevoli premesse, il sound offerto dal musicista lusitano è quanto mai ortodosso nel suo dipanarsi liquido, melodico e spesso riflessivo tanto da andare a sconfinare più volte l’ambient; indubbiamente il post rock si presta maggiormente a tale formula, proprio perché la rarefazione del sound porta inevitabilmente a sonorità che sono per loro natura strumentali, mentre le aperture melodiche, quando sono di eccelsa qualità come in questo caso, imprimono alla musica un loro marchio ben definito.
A comprovare quanto affermato è sufficiente l’ascolto di Effugium IV che, dopo un avvio tenue e sommesso, si libera poi in un magnifico assolo di chitarra che la dice lunga sul gusto melodico di cui è in possesso Guimarães.
L’album è davvero molto curato e la limpidezza dei suoni ne favorisce l’assimilazione, anche perché qui è netta la sensazione d’essere al cospetto di un artista con la A maiuscola e non di un pur valido assemblatore di suoni.
Il senso della musica, quando non è supportata dalle parole, è in fondo proprio quello di evocare quanto promesso con i titoli dell’album o dei brani, o comunque di tenere fede a quanto dichiarato dai musicisti in fase di introduzione del disco.
In questo caso, Guimarães ci suggerisce che i temi dell’album sono il sogno della fuga e la fuga stessa, dato che in un mondo disseminato di confini e di rovine, dentro e fuori di noi, la necessità di fuggire diviene impellente.
Somnium Effugium è la colonna sonora che ci accompagna in questo stato che oscilla tra l’onirico ed il reale, con i brani intitolati Somnium improntati ad un ambient piuttosto inquieta, mente gli episodi denominati Effugium sono più orientati al post rock, e in quanto tali portatori di splendide melodie chitarristiche venate di una profonda malinconia.
João regala oltre tre quarti d’ora di pennellate sonore di stupefacente profondità, inducendo alla riflessione e alla commozione, e comunque lasciando un segno profondo in chi desidera lasciarsi avvolgere dalla musica creata da questo musicista dotato di rara sensibilità.
Anche se è proprio grazie alle band più celebrate che questo stile è uscito da uno status di nicchia, il mio consiglio è quello di rivolgere l’attenzione a questi nomi minori e magari misconosciuti, la cui freschezza tiene ben alla larga il manierismo ed il rischio di tediosità che ne consegue.

Tracklist:
1.Somnium I
2.Effugium I
3.Effugium II
4.Somnium II
5.Effugium III
6.Effugium IV
7.Somnium III

Line-up
João Guimarães

WE ALL DIE! WHAT A CIRCUS! – Facebook

La Tredicesima Luna – Il sentiero degli Dei

Una bellissima prova, ovviamente di fruizione meno immediata rispetto alle opere prodotte da Brusa con il monicker Medhelan, ma con una profondità anche concettuale che sarebbe un vero peccato non cogliere nella sua interezza.

Proprio qualche giorno fa ho avuto occasione di parlare della riedizione dei due seminali lavori che Mortiis pubblicò ad inizio carriera sotto l’egida della Cold Meat Industry.

Infatti, Ånden som Gjorde Opprør e Keiser av en Dimensjon Ukjent sono considerati unanimemente tra le opere che hanno favorito lo sviluppo della forma di ambient definita dungeon synth, che vede tra i suoi più brillanti esponenti in terra italiana il milanese Matteo Brusa.
Con questo suo nuovo progetto denominato La Tredicesima Luna, Brusa sposta il tiro su una forma di ambient che prende le mosse dai precursori del genere (su tutti Brian Eno, con puntate anche sulla Kosmische Musik degli anni ‘70) ma ammantandola di un’aura oscura che, rispetto alla produzione del genio inglese, rimanda soprattutto a un lavoro come Apollo.
In effetti, il tutto viene anche suffragato da un afflato cosmico che pervade la mezz’ora di musica di cui si compone Il Sentiero degli Dei; i due lunghi brani si rivelano così avvolgenti e senz’altro riusciti nella loro funzione evocatrice di scenari probabilmente solo immaginati dai migliori scrittori di fantascienza o da registi visionari come Kubrick: va detto che il senso di pace e di apparente armonia con l’universo viene contrastato da uno sgomento latente, derivante  dall’incapacità della mente umana di circoscrivere ciò che di fatto è illimitato.
Una bellissima prova, ovviamente di fruizione meno immediata rispetto alle opere prodotte da Brusa con il monicker Medhelan, ma con una profondità anche concettuale che sarebbe un vero peccato non cogliere nella sua interezza.

Tracklist:
1.Parte I – Fuochi sotto le stelle / Tra due mondi
2.Parte II – Energie ancestrali / La luce dorata dell’aurora

Line-up:
Matteo Brusa

LA TREDICESIMA LUNA – Facebook

Mortiis – Ånden som Gjorde Opprør / Keiser av en Dimensjon Ukjent

Funeral Industries e Plastichead, a poco più di vent’anni dalla prima pubblicazione, offrono la riedizione di Ånden som Gjorde Opprør e Keiser av en Dimensjon Ukjent, due lavori, usciti all’epoca per la leggendaria Cold Meat Industry, che portarono all’attenzione di una più vasta fascia di pubblico il nome di Mortiis.

Funeral Industries e Plastichead, a poco più di vent’anni dalla prima pubblicazione, offrono la riedizione di Ånden som Gjorde Opprør e Keiser av en Dimensjon Ukjent, due lavori, usciti all’epoca per la leggendaria Cold Meat Industry, che portarono all’attenzione di una più vasta fascia di pubblico il nome di Mortiis.

Per chi non ne conoscesse la storia la riassumiamo in breve: il musicista norvegese è stato uno dei protagonisti dei primi vagiti della scena black metal rivestendo il ruolo di bassista negli Emperor e partecipando ad un album seminale come Into The Nightside Eclipse.
Dopo la successiva uscita dalla band, Håvard Ellefsen (questo è il suo vero nome) ha iniziato una carriera solista dedicata all’esplorazione di sonorità di matrice ambient, innestandovi però le proprie radici black sotto forma di un’aura fortemente epica e glacialmente solenne, divenendo di fatto un precursore di quel filone che oggi viene definito Dungeon Synth.
Va detto che, all’epoca, la scelta di Mortiis fece discutere (cosa che sarà un po’ il leit motiv di tutto il suo percorso musicale, a ben vedere) un po’ perché alcuni lo consideravano una copia edulcorata di Burzum o ancora a causa del suo presentarsi truccato da troll, un qualcosa di sicuramente originale ma dall’impatto altrettanto grottesco.
Al di là di questo, e riascoltandole con piacere dopo che molta acqua è passata sotto i ponti, è innegabile il valore intrinseco di queste due opere, piuttosto omologhe per contenuti essendo uscite a distanza di qualche mese l’una dall’altra, in quanto risultano ancora oggi portatrici di un fascino ancestrale senza apparire irrimediabilmente datate, anche perché il loro minimalismo indotto dal confronto con i mezzi a disposizione oggi, finisce per aumentarne in ogni caso il fascino.
Il percorso del folletto norvegese si sposterà in seguito verso un approccio ben più modernista, andando a lambire forme di industrial dai risultati altalenanti e comunque ben lontane anche per attitudine dai lavori dei primi anni novanta.
Ben venga quindi la riedizione diÅnden som Gjorde Opprør e Keiser av en Dimensjon Ukjent, opere che lo stesso Mortiis ha deciso di riproporre dal vivo in diverse occasioni in questa fine del 2017, cosa che sicuramente farà piacere a molti ma che, sotto certi aspetti, ha l’effetto di una parziale retromarcia rispetto a quanto fatto nella fase più recente della sua carriera.
Detto ciò, ritengo che la riedizione di questi album sia quanto mai opportuna anche in veste di ideale istantanea del fermento creativo che si viveva all’epoca in Norvegia, sicuramente legato all’esplosione della scena black metal ma anche ai diversi rivoli stilistici che ne sarebbero susseguiti.

Tracklist:
Ånden som Gjorde Opprør
1.En mørk horisont
2.Visjoner av en eldgammel fremtid

Keiser av en Dimensjon Ukjent
1.Reisene til grotter og ødemarker
2.Keiser av en dimensjon ukjent

Line-up
Maks Molodtsov

MORTIIS – Facebook

Satanath – Your Personal Copy

L’approccio all’ambient di Aleksey Korolyov non prevede lunghe reiterazioni di uno stesso tema. bensì è caratterizzata da un continuo cambio di scenario, e più che la colonna sonora di missioni spaziali o di documentari naturalistici, Your Personal Copy potrebbe essere l’ideale accompagnamento di qualche strambo cartone animato.

Prima di questo lavoro conoscevo Aleksey Korolyov solo come mente della Satanath Records (e delle sub label Symbol Of Domination e GrimmDistribution), per cui ragionando in maniera fin troppo lineare era lecito aspettarsi che un suo progetto solista potesse fare riferimento ai generi normalmente trattati dalla sua etichetta (black, death, thrash, in particolare).

Nulla di tutto questo: a confermare l’acutezza e l’imprevedibilità di questo progetto che porta lo stesso nome della label, Your Personal Copy è un qualcosa che sta a metà strada tra ambient e elettronica, ma con un approccio a suo modo unico nell’affrontare la materia.
L’album consta di una ventina di brani la cui gran parte è di durata convenzionale (2-3 minuti) ma con alcune eccezioni come Vigtio e la conclusiva Univraris che si spingono oltre gli 8-9 minuti; anche per questo l’ambient di Satanath è nervosa, cangiante e soprattutto fuori dagli schemi, saltabeccando da passaggi atmosferici a bizzarri inserti elettronici da video game del secolo scorso. Pertanto, a differenza dell’ambient più canonica e carezzevole, l’approccio di Aleksey non prevede lunghe reiterazioni di uno stesso tema bensì è caratterizzata da un continuo cambio di scenario, e più che la colonna sonora di missioni spaziali o di documentari naturalistici, Your Personal Copy potrebbe essere l’ideale accompagnamento di qualche strambo cartone animato.
La creatività del musicista russo è indubbia, e in fondo sembra che il tutto nasca in maniera più spontanea che calcolata, lasciando immaginare che il nostro forse abbia fatto per assurdo più fatica ad inventarsi i venti improbabili titoli rinvenibili nella tracklist.
Ma, aldilà della battute, Satanath in questo caso si fa portavoce di un linguaggio musicale differente, all’interno del quale possiamo dedurre una cultura musicale molto ampia che, attingendo dal krautrock e dall’elettronica (un background che è insito molto più spesso di quanto si pensi in chi si dedica poi alle forme di metal estremo), offre un risultato senz’altro anomalo, di ascolto oggettivamente complesso, ma dannatamente intrigante dalla prima all’ultima nota.

Tracklist:
01. Peitefuv
02. Masfois
03. Inratit
04. Nodaser
05. Movsak
06. Kiomlu
07. Gegnuz
08. Invotod
09. Erimop
10. Vigtio
11. Hegtaras
12. Briloam
13. Lartagik
14. Hetatro
15. Kehtatos
16. Opkito
17. Knurat
18. Farzmit
19. Onihmas
20. Univraris

Line-up:
Aleksey Korolyov – music and concept

SATANATH – Facebook