Un buon ritorno per un ottimo gruppo di black metal senza fronzoli.
Torna uno dei gruppi black metal fra i più longevi ed influenti in circolazione, i Denial Of God, attivi fin dal 1991.
Tornano con un mini album di quattro pezzi, due inediti e due cover, una dei Bathory e l’altra degli Exuma. Il loro stile non è cambiato nel corso degli anni, e si può tranquillamente definire come black metal classico, l’anello di congiunzione fra la prima e la seconda ondata di gruppi scandinavi e non. I due pezzi inediti li mostrano in grande forma, riprendendosi ciò che è loro, mostrando anche a band ben più recenti che il black metal è una faccenda che sembra semplice ma non lo è affatto. Fa molto piacere ascoltare il suono rassicurante di questo gruppo, ti si apre una zona di comfort infernale alla quale è davvero difficile resistere. Il primo pezzo inedito The Shapeless Mass, che è anche il titolo del disco, è il pezzo più veloce e violento fin dai suoi primordi e spazza via tutto ciò che incontra con il consueto stile del duo danese, e porta via anche i dubbi sulla sua efficacia. Il secondo pezzo comincia più cadenzato per poi esplodere, e non può essere altrimenti quando si pensa a che massa informe sia la nostra, sia individualmente che collettivamente. Si prosegue poi con una gran bella cover dei Bathory, dal capolavoro del 1987 Under The Sign Of The Black Mark, un disco da riascoltare: i Denial Of God con questa cover, leggermente più veloce dell’originale, sottolineano l’estrema importanza che i Bathory hanno avuto e sempre avranno per il black metal e per la musica estrema in generale. Quorthon e soci hanno lasciato un’eredità musicale che si sente in tantissime cose odierne, un nero percorso da iniziati. Bella e tribale anche l’altra cover degli Exuma, che sono una one man band degli anni settanta ad opera di Macfarlane Gregory Anthony Macke, un uomo ed un musicista interessantissimo, molto versato nelle opere e nella sapienza occulta.
Un buon ritorno per un ottimo gruppo di black metal senza fronzoli.
Tracklist
1.The Shapeless Mass
2.The Statues Are Watching
3.Call From The Grave
4.Mama Loi, Papa Loi
Il settimo disco dei Deathspell Omega, The Furnaces of Palingenesia, continua sul solco stilistico tracciato dal precedente The Sinarchy Of Molten Bones, ovvero un rallentamento del loro caos sonoro, ma più che un frenare è un recidere maggiormente in profondità, un’autopsia demoniaca di entità dannate.
I Deathspell Omega sono uno dei gruppi maggiormente paradigmatici dell’intero movimento black metal.
La centralità della loro opera è la musica e qualche scarna rappresentazione grafica, ma la cosa davvero importante, l’unica che conta, sono gli abissi che ci mostra. Si sa qualcosa dei membri che compongono il gruppo, ma i Deathspell Omega non hanno mai fatto concerti, non hanno mai rilasciato inutili interviste o altre promozioni, hanno fatto video minimali ma molto ben centrati. La musica è al centro di tutto, anzi il black metal è al centro di tutto, ed è importante e non solo di facciata il discorso esoterico e satanista che portano avanti da anni. Il loro settimo disco, The Furnaces of Palingenesiacontinua sul solco stilistico tracciato dal precedente The Sinarchy Of Molten Bones, ovvero un rallentamento del loro caos sonoro, ma più che un frenare è un recidere maggiormente in profondità, un’autopsia demoniaca di entità dannate. Le strutture sonore sono sempre molto bilanciate e ascoltando e riascoltando il disco si colgono molti elementi che portano il suono dei Deathspell Omega ancora più avanti, in quella poetica musicale progressiva che è sempre stata al centro dei pensieri di questo gruppo. L’ensemble francese ha sempre tracciato la via, e con questo nerissimo settimo disco lo fa più che mai. Ogni canzone è un tassello che forma un disegno superiore di musica malata e satanica: qui i Deathspell Omega alzano l’asticella, e abbandonano la forma caotica, che comunque affiora spesso andando anche a lambire momenti di chaotic hardcore, per comporre un suono che si contorce come un serpente ricordandoci, come nell’iniziale Neither Meaning Nor Justice, che la razza umana basa le sue fondamenta su illusioni bestiali. L’umanità, specie negli ultimi duecento anni, ha avuto una fede quasi cieca nelle sue sorti progressive, ovvero che sarebbe andato tutto bene, anzi meglio, mentre il disastro è sotto gli occhi ed i piedi di tutti. I Deathspell Omega sono qui a ricordarcelo come solo loro sanno fare, con una cattiveria ed un abbandono totale, tuffandosi in un nero vortice che è l’unica risposta al tumore chiamato vita. The Furnaces Of Palingenesiaè un disco che assume valore in ogni singola nota, in ogni passaggio, in ogni parola trasmutata fuori dal corpo di un cantante che altro non è che un medium. Oltre ai momenti di furia e di abisso cosmico, i migliori momenti sono quelli in cui tutto sembra esplodere ed invece continua a strisciare verso l’annullamento totale, come nella traccia 1523. Il gruppo francese fa un altro disco che ne rafforza la leggenda, la fama e la credibilità costruita con il sangue ed i sentimenti, forgiando un black metal che rimane incollato. Il loro progetto sonoro si arricchisce di un episodio che non è il migliore solo perché tutti i loro dischi sono dei capisaldi del nero metallo, ma rappresenta la continuazione di una nuova via sonora. Se si vuole ascoltare della musica che va avanti queste sono le vostre fornaci.
Tracklist
1.Neither Meaning nor Justice
2. The Fires of Frustration
3.Ad Arma! Ad Arma!
4.Splinters from Your Mother’s Spine
5.Imitatio Dei
6.1523
7.Sacrificial Theopathy
8.Standing on the Work of Slaves
9.Renegade Ashes
10.Absolutist Regeneration
11.You Cannot Even Find the Ruins…
Kosmik si rivela così una buona esibizione in questo specifico ambito musicale e, se vogliamo, il suo problema principale è proprio quello d’essere un po’ dispersivo, nel senso che si fatica ad individuare un nucleo centrale in grado di fungere da elemento compattatore per i diversi ingredienti musicali messi sul piatto.
Probabilmente in Azerbaigian il cognome Guliyev ben si associa ad un’idea di velocità: il formidabile Ramil (che oggi batte però bandiera turca per motivi prettamente economici) è campione europeo e mondiale in carica dei 200 metri, mentre il qui presente Emin, pur non dedicandosi all’atletica leggera, dimostra una rapidità compositiva da sprinter di razza.
Il musicista azero, dall’avvio della sua avventura solista denominata Violet Cold avvenuta nel 2013, ha infatti pubblicato infatti oltre quaranta lavori tra singoli, ep e album su lunga distanza (in tal senso Kosmik è l’ottavo), senza contare che mentre scriviamo è già uscito un nuovo ep.
Se come sempre resta qualche dubbio sulla capacità di questi stakanovisti delle sette note nel focalizzarsi su ogni singola uscita, in modo da non disperdere il talento che madre natura ha messo loro a disposizione, va anche detto che tale modus operandi appare leggermente meno penalizzante allorché il genere offerto è, come in questo caso, un post black dalle ampie aperture melodiche derivanti da una forte componente post rock e shoegaze. Kosmik si rivela così una buona esibizione in questo specifico ambito musicale e, se vogliamo, il suo problema principale è proprio quello d’essere un po’ dispersivo, nel senso che si fatica ad individuare un nucleo centrale in grado di fungere da elemento compattatore per i diversi ingredienti musicali messi sul piatto.
Emin possiede un giusto melodico tutt’altro che banale e questo consente alla maggior parte delle sue composizioni di esibire quei passaggi in grado di catturare l’attenzione dell’ascoltatore, ma purtroppo viene più di una volta diluito rischiando di finire compresso tra pulsioni etniche (Contact e Black Sun) e classiche (Ai(R), omaggio a J.S. Bach) condensando il meglio nelle quattro tracce centrali in cui l’anima black si sposa più efficacemente con le aperture atmosferiche, con menzione d’onore proprio per la bellissima title track. Kosmik è un disco che in qualche modo fa arrabbiare, perché si percepisce chiaramente che con una minore frenesia compositiva, una maggiore cura a livello di produzione e nell’uso della voce e, in definitiva, recuperando quel dono della sintesi di cui sono carenti per definizione i musicisti iperproduttivi, il nome Violet Cold avrebbe tutti i numeri per attrarre, indipendentemente dalla sua provenienza esotica.
Finora così non è, per cui non ci resta che apprezzare quanto di buono ci propone il buon Emin Guliyev, con il rammarico e la consapevolezza che il tutto potrebbe essere di levatura ben superiore.
Tracklist:
1. Contact
2. Black Sun
3. Mamihlapinatapai
4. Space Funeral
5. Ultraviolet
6. Kosmik
7. Ai(R)
Il duo danese si pone all’attenzione degli ascoltatori con un’opera di discreta fattura: le atmosfere pregne di malvagia oscurità sono quelle già ascoltate in passato, la parte sinfonica è ben inserita nel contesto estremo del sound e a tratti Profound offre momenti di intenso ed oscuro fascino.
I Sinnrs sono una giovane e misteriosa entità oscura proveniente dalla Danimarca e Profound è il loro album di debutto.
Nero e Maestus sono i due musicisti che danno vita a questo progetto dal sound che trova le sue ispirazioni principalmente nel black metal sinfonico dei Dimmu Borgir, anche se la musica del combo si nutre pure di death metal e black/death di scuola Behemoth, divenuti una delle principali fonti a cui attingono le nuove leve del metal estremo di matrice sinfonica e melodica di stampo black.
Fredde atmosfere che scendono dalla vicina Scandinavia si mescolano al death metal dei primi masterpiece del gruppo di Nergal, mantenendo sempre un’attitudine melodica che valorizza le oscure ed estreme strade che portano Profound nel nero abisso della fiamma nera.
Dieci brani che nulla aggiungono e nulla tolgono al genere suonato, dal songwriting che ha il solo limite di risultare altamente derivativo, ma in grado di non deludere gli amanti di queste sonorità e con almeno tre brani sopra la media, Lift My Bones, No Promise To Mankind e Et Sic Incipit.
Il duo danese si pone all’attenzione degli ascoltatori con un’opera di discreta fattura: le atmosfere pregne di malvagia oscurità sono quelle già ascoltate in passato, la parte sinfonica è ben inserita nel contesto estremo del sound e a tratti Profound offre momenti di intenso ed oscuro fascino.
Tracklist
1.Nihil
2.To Derive Even’s Flame
3.The Storm Of I
4.Lift My Bones
5.Renowed Praetorians
6.No Promise To Mankind
7.It Calls Me
8.Et Sic Incipit
9.Watch Her Soul Burn
10.Commemorate None
Il genere è di per sé ostico, ma è indubbio che il gruppo parigino abbini al sound una certa alternanza di atmosfere che rendono l’ascolto più fluido.
Quando di mezzo c’è la label francese Les Acteurs de l’Ombre non ci si trova mai davanti ad opere banali, trend confermato dal primo lavoro degli Heaume Mortal, gruppo parigino nato dalla mente del polistrumentista Guillaume Morlat, accompagnato in questa avventura dal batterista Jordan Bonnet e dal cantante Julien Henri.
Solstices è composto da sei brani, di cui la metà superano abbondantemente i dieci minuti, immersi nella natura selvaggia, glaciale e violenta ed usata come metafora della vita.
Le sonorità di cui si caricano i brani presenti alternano black metal atmosferico, doom e dark metal, in un crescendo di drammatica tensione: la violenza black viene apparentemente smorzata da passaggi intimisti e doom, lente marce in territori ostili, disperati e tragici momenti di tempeste black ed atmosferiche sfumature post metal formano composizione di non facile ascolto come l’opener Yesteryears, Oldborn e Tongueless (part III).
Il genere è di per sé ostico, ma è indubbio che il gruppo parigino abbini al sound una certa alternanza di atmosfere che rendono l’ascolto più fluido: Solstices rimane comunque un’opera a cui va concesso il giusto tempo per farsi spazio anche negli ascoltatoti più attenti.
A confermare l’atmosfera glaciale ed ostile dell’album, gli Heaume Mortal ci regalano la cover di un brano di Burzum, Erblicket Die Tochter des Firmament dal masterpiece Filosofem, in una loro personale versione assolutamente riuscita.
Tracklist
1.Yesteryears
2.South of No North
3.Oldborn
4.Erblicket die Tochter des Firmament (Burzum cover)
5.Tongueless (Part III)
6.Mestreguiral
Line-up
Jordan Bonnet – Drums
Guillaume Morlat – Guitars, Bass, Synths
Julien Henri – Vocals
Un lavoro di buona fattura che riesce nell’intento del suo autore di voler trasmettere il dolente sentire di chi è condannato da una sensibilità superiore a sminuzzare all’infinito ogni frammento dell’esistenza.
Laho è il titolo del secondo full length della one man band Kval, guidata dall’omonimo musicista finlandese.
L’album mostra un approccio al black metal decisamente atmosferico ed ammantato di quel velo di malinconia che accompagna, nella maggior parte dei casi, le opere musicali provenienti dal paese dei mille laghi. Anche se certe soluzioni le abbiamo già sentite innumerevoli volte, non si può fare a meno di apprezzare il lavoro del giovane Kval per il gusto melodico che dimostra in ogni frangente e per un inserimento efficace di elementi folk con l’utilizzo di strumenti tradizionali. I quattro lunghi brani sono decisamente validi con menzione d’onore per la title track con la sua alternanza tra passaggi acustici ed ariose aperture melodiche. La bonus track, ripresa strumentale del brano d’apertura Valosula, nulla aggiunge ad un lavoro di buona fattura (e la cosa non sorprende quando un album esce sotto l’egida della Hypnotic Dirge) che riesce nell’intento del suo autore di voler trasmettere il dolente sentire di chi è condannato da una sensibilità superiore a sminuzzare all’infinito ogni frammento dell’esistenza.
Quella marchiata Deitus è quindi un’offerta davvero da non sottovalutare e, semmai, da fare propria andando magari a riscoprire il precedente full length Acta Non Verba anche se non si è proprio dei fan incalliti del black metal, perché qui oggettivamente c’è molto di più.
Deitus è il nome di una one man band londinese dedita al black metal e giunta con Via Dolorosa al secondo full length.
Rispetto ad altre realtà omologhe l’operato di questo musicista britannico si merita una doverosa attenzione per un
approccio alla materia non del tutto convenzionale: non che il buon A.G. si metta riscrivere la storia del genere ma la scelta di focalizzarsi su un lavoro chitarristico di grande pregio, includendo anche notevoli passaggi solisti di stampo quasi classico, non è certo un qua cosa che si verifichi con frequenza.
Forse titolo e copertina possono ingannare perché richiamano istintivamente qualcosa di molto più cupo ed abrasivo, ma Via Dolorosaè davvero un lavoro volto che scorre in maniera è così fluida da andare oltre certe minuzie. Se l’impronta scandinava è ben presente questa non fa quindi capo alla frangia più cruda ed oltranzista ma semmai a quella che vede come punto di riferimento gli imprescindibili Dissection.
I cinque lunghi brani si rivelano quindi molto convincenti, con una title track che mette più in evidenza l’abilità chitarrista del nostro e la successiva Salvifici Doloris, che si dipana tra un’indolente incedere che ricorda i Cure di Pornography ed una sfuriata di black tout court, sempre sotto controllo, nella seconda metà.
Quella marchiata Deitus è quindi un’offerta davvero da non sottovalutare e, semmai, da fare propria andando magari a riscoprire il precedente full length Acta Non Verba anche se non si è proprio dei fan incalliti del black metal, perché qui oggettivamente c’è molto di più.
Tracklist:
1. Hallowed Terror
2. Malaise
3. Via Dolorosa
4. Salvifici Doloris
5. Atonement
Quarta opera per la band laziale, formata dai fratelli Basili, i quali portano a compimento un percorso molto personale con il loro Black Metal sperimentale, abrasivo, disturbante e dissonante.
Fino dalla copertina della nuova opera dei gemelli Basili, Marco e Andrea, ci si immerge in un mondo non confortante, anzi assolutamente claustrofobico e soffocante.
L’evoluzione sonora degli Hornwood Fell giunge a compimento con l’ultimo nato Damno Lumina Nocte uscito per l’etichetta Third I Rex, da sempre attenta alle band che percorrono strade non usuali e spesso molto personali. Attivi dal 2014 con l’omonimo disco, i due fratelli hanno sviluppato una personale idea di black metal moderno, deviato e dalla forte identità spinta sull’esplorazione di territori selvaggi, visionari e estremamente affascinanti. Sette brani, tutti nominati Vulnera, distinti solo da numerazione romana, che indagano nel profondo le “vulnera\wounds” della società in cui noi vegetiamo. Non ci sono momenti di luce, tutto è denso, abrasivo, ogni brano ci scaglia contro dissonanze ritmiche forsennate, bagliori di un universo diverso e multidimensionale, dove ci si inabissa lentamente senza poter avere la possibilità di risalire. Opera di black metal sperimentale, fortemente visionaria e ipnotizzante fino dall’opener I, che con largo uso di synth, ci apre le porte di mondi dove tutto è sinistro e disturbante, prima di immergerci in visioni allucinatorie, in cui il riffing è distruttivo, ma capace di aprire la mente verso “dark landscapes”, dove ritroviamo un black metal mutante e gelido secondo coordinate che non sono usuali. Una coltre dissonante e spessa ricopre tutti i brani che, dopo diversi ascolti, rivelano un universo assolutamente non confortevole ma che ci attrae senza possibilità di poterne uscire. In scarsi quaranta minuti si compie il percorso abrasivo e disturbante della band laziale, che per la grande capacità compositiva e le atmosfere create potrebbe ricordare alcuni suoni dei Blut Aus Nord di Vindsval, da sempre affascinato da una visione “altra “ del black metal. Opera non destinata agli usuali fruitori del genere, perché qui ci sono stimoli e sensazioni che solo persone “open minded” possono cogliere nella sua più pura essenza.
Tracklist
1. Vulnera Pt. I
2. Vulnera Pt. II
3. Vulnera Pt. III
4. Vulnera Pt. IV
5. Vulnera Pt. V
6. Vulnera Pt. VI
7. Vulnera Pt. VII
Line-up
Andrea Basili – Drums, Percussion, Keyboards, Vocals (additional)
Marco Basili – Guitars, Vocals, Bass, Keyboards
Twin Serpent Dawn è un riuscito tentativo con il quale le due band confluiscono verso uno stesso punto d’arrivo, rappresentato da un black metal sulfureo e comunque poco ammiccante.
Ritroviamo Malauriu e Fordomth, due band siciliane delle quali avevamo già avuto modo di parlare poco tempo fa, unite in questo split album la cui pubblicazione è prevista tra qualche giorno in formato mini-cdr a cura della Masked Dead Records, mentre in seguito vedrà la luce anche in vinile 7” per mano della Black Mourning Productions.
Questo lavoro, seppure breve, si rivela quanto mai interessante poiché i due brani offerti mostrano qualche scostamento rispetto alle più recenti uscite dei due gruppi.
Per quanto riguarda i Malauriu, per esempio, trovo che il black metal qui esibito sia decisamente più corposo e ben focalizzato rispetto a quello proposto nel recente split con Vultur, Inféren e A Répit, senza che nel contempo ne venga smarrita la carica abrasiva; ciò avviene in parte grazie ad una migliore produzione ma non solo: infatti, Ancient Spirits è una canzone che gode di un certo tiro al quale vengono coniugati interessanti rallentamenti volti a stemperare l’aggressività del sound. Se questo è un indizio della strada che i Malauriu intendono perseguire in futuro non si può che esprimere una certa soddisfazione.
Se la band di Sciacca rallenta l’andatura, i catanesi Fordomth, al contrario, accelerano non poco i ritmi esibiti nel full length d’esordio I.N.D.N.S.L.E. grazie ad un brano che nella sua prima metà si dipana all’insegna di un feroce black metal, lasciando solo uno sporadico spazio al doom metal che rappresentava in toto la linea guida stilistica della band in quell’occasione; se, in effetti, in prima battuta c’era da chiedersi come avrebbero convissuto in uno split album due realtà simili per attitudine ma diverse per l’approccio alla materia estrema, ecco che una traccia come The Chanting Void fornisce la risposta, con le sue sonorità decisamente più sbilanciate verso il black metal.
Di fatto, Twin Serpent Dawnrappresenta un riuscito tentativo con il quale le due band confluiscono verso uno stesso punto d’arrivo, rappresentato da note sulfuree e comunque poco ammiccanti; vedremo se poi questo resterà un caso isolato oppure se, come probabile, sia indicativo di sviluppi futuri, quel che è certo è che questo split album offre a chi vuole sostenere tangibilmente queste due realtà provenienti dall’antica Trinacria la possibilità di godere di una decina di minuti di valido metal estremo.
Tracklist:
1. Malauriu – Ancient Spirits
2. Fordomth – The Chanting Void
Inverted Realm gioca tutto sul muro sonoro alzato dagli Appalling lungo la sua durata, cementato dalla mistura inattaccabile di death e black metal.
Un buon lavoro questo secondo album dei deathsters Appalling, realtà in arrivo dall’underground estremo statunitense e per la precisione da Richmond in Virginia.
Il gruppo licenzia il suo secondo lavoro sulla lunga distanza, dal sound macabro ed oscuro e pregno di attitudine black. Inverted Realm è composto da sette mazzate devastanti, tra potentissimi id tempo di stampo death metal e sfuriate ritmiche di matrice black/thrash.
Cinque musicisti in nero che non le mandano assolutamente e mirano ai punti più bassi e delicati degli ascoltatori, travolti dalla carica metallica che da forma ad un sound dall’impatto estremo senza compromessi. Inverted Realm gioca tutto sul muro sonoro alzato dagli Appalling lungo la sua durata, cementato dalla mistura inattaccabile di death e black metal: i Morbid Angel vengono posseduti da demoni in arrivo dall’Europa dell’est e dalle terre del nord, dunque alla band di David Vincent e Trey Azagthoth si uniscono i primi Behemoth e Satyricon a formare un sound pregno di spessa coltre estrema, nera come la pece.
Un album da prendere o lasciare, godibile nella sua interezza specialmente per i fans del metal estremo duro e puro.
Tracklist
1.Hot Coals for Branding
2.Shameful Kiss
3.Epileptic Sermon
4.Artifact and Vessel
5.A Mutilator at Large
6.Critical Thinking
7.Templar
Line-up
D. M. – Guitars
B. M. – Vocals
J.A. – Bass
B. – Drums
J. K. – Guitars
The Cold Night mostra un notevole equilibrio tra le diverse componenti del sound e, pur non brillando per la sua originalità, merita di ritagliarsi ben più di un ascolto distratto da parte di chi ama il black metal nelle sue sembianze melodico-depressive.
Yusuke Hasebe (in arte solo Yu) è uno di quei musicisti che si possono definire eufemisticamente prolifici: con il suo progetto solista No Point in Living, infatti, dal 2017 ad oggi ha pubblicato la bellezza di 18 full length senza farsi mancare anche qualche altra uscita di minore minutaggio.
A questo punto viene lecito chiedersi per quale motivo la Heathen Tribes si sia presa la briga di ripubblicare il quinto album The Cold Night, uscito originariamente nel novembre del 2017, visto che di materiale inciso dal musicista nipponico in giro ce n’è già a sufficienza.
La risposta è che, francamente, il nostro possiede un talento rimarchevole, benché costantemente a rischio d’essere annacquato dalla sua bulimia compositiva, e The Cold Nightè lì a dimostrarlo con i suoi tre quarti d’ora di depressive atmospheric black oltremodo convincente.
Ammetto di non conoscere il resto della discografia di Yu, ma se la qualità di ogni uscita fosse pari a quella di questo lavoro sarebbe un evento quasi miracoloso: dubito, infatti, che si posa pensare di mantenere alta con tale frequenza una tensione emotiva come quella esibita nella lunghissima I Hate Everything o nella poco più breve Path to the End, tanto per fare degli esempi concreti. The Cold Night mostra, peraltro, un notevole equilibrio tra le diverse componenti del sound e, pur non brillando per la sua originalità, merita di ritagliarsi ben più di un ascolto distratto da parte di chi ama il black metal nelle sue sembianze melodico-depressive.
Nel frattempo lo Stakanov di Sapporo, quando non siamo arrivati neppure a metà giugno, nel corso del 2019 ha già pubblicato tre full length ed un ep per un fatturato complessivo di circa due ore e mezza di musica: insomma, riuscire a seguirne le gesta può essere complicato anche per il fan più incallito, per cui non resta che provare ad intercettarne l’opera di tanto in tanto per verificare quale sia lo stato dell’arte.
Tracklist:
1. Intro
2. Impatience
3. I Hate Everything
4. The Cold Night
5. The Path to the End
6. Ocean of Sorrow
Hologram Temple è una prova matura e al contempo ricca degli slanci compositivi necessari per portare le sonorità estreme su un piano differente e più elevato, senza snaturarne l’abrasiva essenza
Gli Stellar Master Elite sono un band tedesca che, in questo decennio, si è messa in luce grazie ad una davvero interessante trilogia basata su un black doom di elevata qualità.
Hologram Templeè quindi il quarto full length che alza ulteriormente l’asticella qualitativa per questo gruppo che ha ben tre elementi in comune con un’altra intrigante realtà del black metal germanico come i Der Rote Milan.
Fin dalle prime note si intuisce che qui il tutto viene trattato in maniera tutt’altro che manieristica o derivativa, perché gli Stellar Master Elite riescono a creare un black doom/death nell’accezione più autentica del termine, nel senso che i generi vengono perfettamente amalgamati per un risultato finale che soddisfa il palato sia in senso melodico che per intensità.
Il gruppo di Trier (città che in Italia conosciamo meglio come Treviri) vi aggiunge poi anche un pizzico di avanguardia ed un ricorso sapiente a sampler o spunti ambient atmosferici senza far scemare mai la tensione.
L’aspetto che maggiormente colpisce è che, nonostante le premesse ed una profondità compositiva rilevante, gran parte dei brani godono di un andamento tutt’altro che ostico all’ascolto, testimonia ampiamente una traccia formidabile quale l’opener Null, senza dimenticare che i nostri sanno anche toccare corde più profonde come in Ad Infinitum oppure spingersi verso territori più avanguardistici senza perdere in incisività come in Black Hole Dementia. Hologram Temple è una prova matura e al contempo ricca degli slanci compositivi necessari per portare le sonorità estreme su un piano differente e più elevato, senza snaturarne l’abrasiva essenza; nonostante questi musicisti, per forza di cose, attingano ad un background ben definito non ci sono mai momenti in cui si palesa in maniera fragorosa ed evidente l’influenza di una specifica band. Tutto ciò depone a favore di un sound personale, ricco e in costante evoluzione senza sconfinare in un arido sperimentalismo, come neppure avviene nel quarto d’ora ambient di Tetragon, minaccioso episodio opportunamente collocato in conclusione del lavoro e sorta di appendice volta a rinsaldare ancor più il forte legame tra il concept fantascientifico ed il contenuto musicale.
Tracklist:
1. Null
2. Freewheel Decrypted
3. Apocalypsis
4. Ad Infinitum
5. The Beast We Have Created
6. Agitation – Consent – War
7. Black Hole Dementia
8. The Secret of Neverending Chaos
9. Tetragon
La riedizione di questo primo full length degli Odious ci mostra un notevole spaccato di ciò che può diventare il black/death metal quando si va ad intersecare, in maniera competente e non forzata, con le sonorità etniche di matrice mediorientale, eseguite per di più utilizzando strumenti tradizionali come l’oud e la tabla.
Anche se Mirror Of Vibrations è un album vecchio di dodici anni, essendo stato pubblicato per la prima volta dagli egiziani Odious nel 2007, vale davvero la pena di parlarne sfruttando l’occasione fornita dalla sua riedizione in vinile curata dall’etichetta canadese Shaytan Productions, che peraltro fa capo ad altri coraggiosi musicisti metal dell’area islamica come i sauditi Al-Namrood.
Infatti questo primo full length degli Odious ci mostra un notevole spaccato di ciò che può diventare il black/death metal quando si va ad intersecare, in maniera competente e non forzata, con le sonorità etniche di matrice mediorientale, eseguite per di più utilizzando strumenti tradizionali come l’oud e la tabla.
Sono innumerevoli i tentativi di far convivere sonorità che, per lo più, finiscono per entrare in collisione con il risultato di offrire in pratica momenti ben distinti, in cui prevalgono l’una o l’altra componente senza mai intrecciarsi sinuosamente come, invece, avviene magistralmente in quest’album.
L’ascolto di brani come For the Unknown Is Horrid o Smile In Vacuum Warnings fornisce più di una buona ragione per innamorarsi di questa band ed approfittare di una versione in vinile nella quale, forse, diviene un po’ meno penalizzante la produzione che è francamente l’unico aspetto rivedibile di un’opera, al contrario, inattaccabile su ogni fronte, inclusa una nuova copertina davvero dal grande fascino.
Chi ama il black sinfonico e non disdegna ascolti di matrice ethnic folk, da un album come Mirror Of Vibrationspotrà trarre enormi soddisfazioni in attesa che gli Odious, oggi ridotti a duo con il solo membro fondatore Bassem Fakhri affiancato dal batterista greco George Boulos, diano seguito al secondo album Skin Age, ultima testimonianza discografica risalente al 2015.
Tracklist:
1. Poems Hidden On Black Walls
2. Deaf and Blind Witness
3. For The Unknown Is Horrid
4. Split Punishment
5. Invitation To Chaotic Revelation
6. Smile In Vacuum Warnings
7. Upon The Broken Wings
Secondo lavoro per la one-man band di Hyvinkää (Finlandia). Uscito per la prolifica Werewolf, Reign in Supreme Darkness è un riuscito affresco di quanto di più malvagio il Black Metal scandinavo possa oggi proporci.
I Vargrav, one-man band finlandese capitanata dal misterioso V-Khaoz (all’anagrafe Ville Pallonen), è quanto di più arcano ed impenetrabile ci possa oggi capitare tra le mani.
Già il nome scelto, porta con sé enigmatici occulti significati. Secondo Mr. Pallonen, intanto, il nome deriva dalla parola svedese varg (lupo) e grav (tomba); inoltre Vargrav è un palindromo (si legga al contrario, non cambia nulla) composto da 7 lettere. Sette, come ben sappiamo è il numero – tra gli altri – più spirituale, il numero magico per eccellenza, della ricerca e dell’analisi mistica. Pensiamo solamente a quante volte il numero sette compare nell’Antico Testamento oppure nella nostra vita. Per fare alcuni esempi, ricordiamo che 7 sono i giorni della settimana, 7 i pianeti sacri, 7 le virtù e i vizi capitali, 7 i Sacramenti, 7 le braccia del candelabro ebraico, 7 gli anni di disgrazia provocati, secondo la tradizione, dalla rottura di uno specchio, 7 gli anni necessari affinché il corpo si rigeneri, 7 gli attributi fondamentali di Allah (tant’è vero che il 7 è numero della perfezione nell’Islam), e ancora, i sette colori che compongono l’arcobaleno, le sette note musicali, i sette passi del Buddha, i 7 Chakra e così via. Inoltre non dobbiamo dimenticare che 7 deriva dall’unione del 3 (il ternario divino) con il 4 (il quaternario terrestre). Guarda caso è anche il numero della Piramide, che è formata dal triangolo, 3, su quadrato, 4. Infine – come diceva Ippocrate – Il sette, per le sue virtù celate, mantiene nell’essere tutte le cose; esso è dispensatore di vita, di movimento ed è determinante nell’influenzare gli esseri celesti.
Insomma, comunque si guardi il nome Vargrav, si viene magicamente catapultati nel misticismo simbolico, non solo religioso, nell’introversa introspettiva analisi del tutto, del mondo terreno, del mondo spirituale. E la sua musica, il suo secondo sforzo discografico (dopo un buon Netherstorm del 2018), non poteva che assumersi il gravoso incarico di rappresentare ed esprimere quanto il suo stesso monicker rappresenta. Ovviamente, trattandosi di Black Metal, il tutto viene qui corredato da atmosfere profondamente maligne e malignamente profonde. Sì, perché Reign in Supreme Darkness è un epicureo dell’orrore, ma di sensismo opposto, ove il criterio del bene viene implacabilmente rimpiazzato dal piacere del male. Un album che sgorga malvagità da ogni singola nota, epicamente catapultato in epoche antiche di cavalieri neri, di castelli maledetti, di demoniache creature, e di crudeli battaglie senza fine, sovrastate da un empireo nero e viola e da una luna piena, in parte offuscata dall’immagine di una crudele magica Nera Mietitrice (si veda all’occasione, la cover dell’album). Un Black Metal imponente, maestoso, corroborato da un uso costante dei synth, che qui non vivono di vita propria, non servono per creare singoli momenti dark ambient, di scontata atmosfera black lounge; divengono invece – in brani come In Streams from Great Mysteries o The Glory of Eternal Night ad esempio – parte integrante ed inseparabile di tutta la struttura musicale, accompagnando in solido chitarre e basi ritmiche – il tutto attestato sulle stesse medesime frequenze , com’è d’altronde tipico del Black Metal – in un oscuro viaggio sonoro, immaginifico (come potrebbe dirci D’Annunzio) e pertanto abile creatore e suscitatore di immagini, nere, tetre, malevole, diaboliche, inumane. L’iniqua Arcane Stargazer che chiude l’album, è il pezzo più riuscito. Più di otto minuti glaciali, in un ossimoro di gelido calore avernale, di puro Black nordico che, ricolmo di annichilente solitudine (alone in this cold tower), conduce l’ascoltatore alla ricerca vana di risposte dagli astri (i seek for answers from the stars), avvolto dalle tenebre più totali (in the absence of light), prima di un ultimo saluto alla Nera Mietitrice (i greet the glorious death).
Da Crowned by Demonstorms: Coronati ad tenebras / de gremio, sedens super peccatum / atria morte / chorus triumphi claritate / tollens ad sidera gladio / novam periodum incipere (Circondati dalle tenebre / dal grembo, siede sopra il peccato / atrio della morte / con lo splendore di cori trionfali / colui che ascende alle stelle con la spada / per l’inizio di una nuova era), che altro aggiungere?
Tracklist
1. Intro – Et in Profundis Mysteriis Operta
2. The Glory of Eternal Night
3. Dark Space Dominion
4. In Streams from Great Mysteries
5. As the Shadows Grow Silent
6. Crowned by Demonstorms
7. Godless Pandemonium
8. Arcane Stargazer
Il sound dei Bethlehem, come sempre, abbina alla sua base black un tocco teatrale ed un’anima dark doom e il risultato appare in linea con il trend delle ultime uscite, ovvero buono ma non imprescindibile.
A circa tre anni dall’ultimo lavoro autointitolato tornano gli storici Bethlehem con il loro nono album di una carriera che ha ormai superato il quarto di secolo.
La creatura musicale da qualche tempo nelle mani del solo Bartsch gode di una meritata aura di culto che ne rende sempre molto attese le uscite anche se, francamente, le produzioni di questo decennio hanno fornito risultati validi ma non eclatanti. Lebe Dich Leer ha sicuramente il pregio di andar via liscio e diretto nei due trascinanti primi brani, Verdaut in klaffenden Mäulern e Niemals mehr leben, mentre le cose non scorrono altrettanto bene allorché il sound si fa decisamente più ricercato e avanguardistico.
In tal senso contribuisce, nel bene e nel male, lo screaming della vocalist polacca Onielar, confermata rispetto al precedente album, che a mio avviso ben si adatta a ritmiche dirette ed incalzanti, ma molto meno allorché il sound esibito richiede un’interpretazione diversa rispetto a tonalità a tratti parossistiche.
Il sound dei Bethlehem, come sempre, abbina alla sua base black un tocco teatrale ed un’anima dark doom e il risultato appare in linea con il trend delle ultime uscite, ovvero buono ma non imprescindibile.
In sintesi, oltre che nelle già citate tracce iniziali, le valide e ficcanti sfuriate propriamente black si manifestano a intermittenza confermando quello che in molti pensano ma non tutti dicono, ovvero che scelte compositive maggiormente lineari spesso producono risultati ben più apprezzabili e tangibili rispetto a digressioni e scostamenti dalla via maestra che, in mancanza di geniali scintilli, finiscono solo per diluire i contenuti: questo non vale solo per i Bethlehem, chiaramente…
Tracklist:
1. Verdaut in klaffenden Mäulern
2. Niemals mehr leben
3. Ich weiß ich bin keins
4. Wo alte Spinnen brüten
5. Dämonisch im ersten Blitz
6. An gestrandeten Sinnen
7. Ode an die obszöne Scheußlichkeit
8. Aberwitzige Infraschall-Ritualistik
9. Bartzitter Flumgerenne
L’arte pura dei Kampfar rifulge ancora una volta; più black e meno viking, ma sempre potenti, feroci e personali.
Si parla sempre poco di questa band norvegese, o meglio, si cita il suo nome solo quando ci sono nuove release, ma quando si discute o si legge di Black Metal è raro che siano ricordati, eppure non parliamo di un gruppo anonimo o di scarsa forza e personalità.
I Kampfar sono attivi dal lontano 1995, con il promo e l’omonimo EP del 1996 (uscito per Season of Mist) hanno dato inizio alle danze pagane e viking dei musicisti, capitanati da sempre dal vocalist Dolk, compiendo nell’arco di otto full length, compreso questo, un percorso sempre più personale e pervaso di grande forza interpretativa. La band ha intrapreso un cammino evolutivo lento, mantenendo sempre una propria identità, passando dai primi dischi più dediti a un suono viking feroce e cattivo, ricordiamoci dell’esordio su lunga distanza Mellom Skogkledde Aaser con la sua meravigliosa e tematica cover, senza dimenticare le fredde distese di Kvass, ma ogni disco non può non colpire direttamente il freddo cuore di ogni sostenitore della materia viking e black. Ora, dopo l’ottimo Profan del 2015, ritornano con Ofidians Manifest, un lavoro in cui si ricalca la purezza della loro ispirazione, anche se la band ora predilige più una personale visione black che viking. L’opera è molto varia nel suo incedere, è ispirata, non ricorre a nessun stratagemma manieristico, abbiamo fierezza, esaltazione con un suono energico ma allo stesso tempo dotato di una eleganza strumentale di prim’ordine. Dolk dimostra di saper colpire a fondo con il suo scream aspro ed espressivo, dove si richiamano oscurità e glacialità, mentre la capacità strumentale infiamma tutto il disco, inglobando al suo interno note pianistiche, tastieristiche e di cello che “colorano” di inedito il tutto. Un brano come Dominans colpisce per per il suo andamento ipnotico e conturbante ed è il punto di incontro tra le vocals di Dolk e di Agnete Kioslrud (singer rock norvegese, nota per vecchie collaborazioni con Dimmu Borgir) a creare un andamento maestoso. La forza evocativa di Natt, addolcita da note pianistiche, dimostra che i musicisti amano comunque sperimentare, mentre le note bathoriane di Eremitt ci ricordano quale potenza i musicisti siano in grado di sviluppare mentre il coro, in grado di far accapponare la pelle, ci inietta una grande dose di adrenalina e ci fa ulteriormente capire la grandezza dell’arte di questi musicisti. Non facciamo passare in secondo piano l’importante ritorno dei Kampfar, prestiamoci la giusta attenzione e godiamo dell’arte pura da loro espressa.
Come spesso accade nei dischi più illuminati, il black metal è un punto di partenza per qualcosa che va oltre e che abbraccia molte vie musicali, trattando di vecchie leggende europee, con una forte valenza della natura.
Dreams Of The Drowned è il progetto avantgarde black metal di Camille, musicista francese che l’ha fondato nel 2007 e che, dopo svariati demo, è approdato al debutto sulla lunga distanza.
Dreams Of The Drowned I è un disco che contiene moltissime cose, dal black metal più avanzato, allo shoegaze, alla new wave e a tanto altro.
Le coordinate sono in continuo movimento e il suono generato da Camille, che in pratica fa tutto da solo tranne l’utilizzo della voce di Aldrahn nella cover Midnattskogens Sorte Kjern dei Dodheimsgard, uno dei gruppi di riferimento del progetto. Ascoltando il disco non si sa mai cosa verrà dopo, e ciò giova enormemente alla soddisfazione dell’ascoltatore. Si potrebbe intendere il lavoro come una narrazione di un qualcosa che noi umani riusciamo a malapena a percepire, ed infatti viviamo tutto come un sogno, un riverbero della realtà. Nonostante ci siano moltissime strade diverse in questo disco, Camille riesce a dar vita a qualcosa di organico e ben strutturato, con una coerenza ed una forza invidiabili. Il progetto raggiunge vette notevoli e assai interessanti, il suono è qualcosa che crea dipendenza e non annoia mai, in una continua mutazione di suoni. La cosa che colpisce di più è questo muro sonoro, un monolite che cambia colore e calore a seconda delle accezioni che gli dà Camille, il quale oltre che essere un musicista totale è anche un notevole produttore. Come spesso accade nei dischi più illuminati, il black metal è un punto di partenza per qualcosa che va oltre e che abbraccia molte vie musicali, trattando di vecchie leggende europee, con una forte valenza della natura. Vi sono dei momenti di autentico satori, si raggiunge la luce passando per le tenebre, trascinati dalla forza superiore di questa musica, fatta con passione e grande talento. Ci è voluto molto tempo per arrivare al debutto su lunga distanza di un musicista che impressionerà più di un appassionato di musica pesante che guarda avanti e che garantisce molti ascolti, nei quali si scoprirà sempre qualcosa di nuovo.
Tracklist
01 Dream I
02 Conciliabules
03 The Revolutionary Dead
04 Real and Sound
05 Vieilles Pierres
06 Crawl of Concretes
07 Danced
08 Midnattskogens Sorte Kjerne (Dodheimsgard cover)
09 Dream III
La one man band di Ardraos ritorna dopo cinque anni, proponendoci il suo medieval black metal che ci immerge in atmosfere ancestrali, colme di furore e melancolia.
Ricompare, dopo cinque anni di silenzio, la creatura di Florian Denis, in arte Ardraos, con il terzo full length del suo progetto solistico Suhnopfer, mantenendo la stessa forza e ispirazione: attitudine black innanzitutto, con un suono che ci porta indietro nel tempo, ci astrae dalla realtà per farci immergere in un mondo estremo fatto di oscurità, ferocia e dove sono miscelati ad arte atmosfere e paesaggi medievali con la forza del black primigenio.
Ardraos conosce perfettamente la materia, vive e suona black da una vita, considerando la sua militanza come batterista in band importanti come Peste Noire, Christicide (da recuperare assolutamente i loro due album) e Aorlhac. I testi in francese antico aggiungono quel quid particolare a un opera che ripercorre con grande energia il filone del Medieval Black Metal, cripta dove si nascondono band come i francesi Darkenhold, gli svizzeri Ungfell, gli americani Obsequiae, tra gli altri. Ardraos compone e suona tutti gli strumenti e ci propone da sempre un black viscerale, sporco, basato su ritmiche forsennate e incessanti intessute con un grande lavoro di chitarra abile a ricreare atmosfere gelide e feroci, impreziosite da momenti acustici e classici di grande bellezza; break madrigaleschi disegnano atmosfere melanconiche prima che le chitarre riprendano il sopravvento. Sette brani, di durata considerevole tranne l’intro, che hanno un andamento piuttosto simile, ma possiedono un feeling e un’esaltazione considerevole: fino dall’ opener Penitences et Sorcelages con la sua atmosfera e i suoi cambi di tempo si è proiettati in un altro mondo dove rifulgono atmosfere ancestrali, nostalgiche e fiere. Lo scream di Ardraos è furore allo stato puro, è indomabile e invincibile e marchia a fuoco ogni brano; colpisce inoltre il fatto che Ardraos suoni bene ogni strumento e il risultato sembra più il frutto di una band e non di un solo musicista. Lavoro esaltante, a patto di prestarvi la dovuta attenzione e competenza.
Tracklist
1. Invito Funere (Introduction)
2. Pénitences et sorcelages
3. Hic Regnant Borbonii Manes
4. La Chasse Gayère
5. Je vivroie liement
6. Dilaceratio Corporis
7. L’Hoirie de mes ancêstres
La musica è violenta ma sì lieve che porta il nostro animo molto in alto.
Post black metal per esprimere con la giusta profondità pensieri e tormenti, là dove una volta c’era solo carta ora ci sono nere vibrazioni.
La proposta sonora dei Coil Commemorate Enslave è un post black metal con momenti atmospheric, minimale nelle forma ma molto ricca nella sostanza, con una parte molto importante di tematiche depressive metal. Il deus ex machina è Consalvo che suona tutti gli strumenti, una delle menti black metal più interessanti che abbiamo in Italia, e al quale in questo giro si è affiancato alla voce Daniele Rini degli Ghost Of Mar, il quale fa un gran lavoro e completa alla perfezione il musicista principale. Una delle maggiori peculiarità della creatura di Consalvo è la sua grande capacità di fare melodie molto belle in mezzo al caos del post black metal. Il disco è più melodico se confrontato con i precedenti, che sono tutti caldamente consigliati, anche perché c’è un ben preciso percorso musicale che è ancora in pieno compimento. Maggiore melodia significa anche un pathos più corposo e questo disco veste perfettamente chi vuole un qualcosa di sentimentale dal codice black metal, che permette di esprimere in maniera adeguata una gamma pressoché infinita di sensazioni. Nella musica dei Coil Commemorate Enslave trova dimora il gotico, come sentimento ottocentesco di sbigottimento di fronte alla nostra vita e ai suoi accadimenti, e che soprattutto interpreta il tutto rimaneggiandolo attraverso una bellezza che è debitrice consapevole della morte. Uno dei pezzi più belli del disco e canzone da fare ascoltare nelle scuole è La Voce, una messa in musica del poema omonimo di Giovanni Pascoli, che potrebbe essere considerato un nume tutelare di questo progetto. La musica è violenta ma sì lieve che porta il nostro animo molto in alto. Ci sono anche tracce di neofolk lungo questo bellissimo viaggio in musica, una delle esperienze più belle in campo black metal altro che si possa fare. Ci vuole grande talento e molto lavoro per fare un post black di questo livello: qui c’è tanto talento e concretezza, anche se il disco si fa ascoltare come se fosse un sogno.
Tracklist
1.Intro
2.Anti prophet
3.Dirt
4.Nothing else but black
5.Nemesis
6.E.F.S.D.
7.The snake and the rope
8.La voce
Dieci brani che non trovano tregua, dieci inni metallici dall’impatto old school che trovano nei vari Motorhead, Possessed ed Hellhammer le massime influenze, meritandosi un più che sufficiente giudizio per attitudine, impatto e songwriting.
Amanti del metal old school di matrice thrash/speed metal, sedetevi comodi, portate le cuffie alle orecchie e fatevi massacrare dagli Hellish Grave e dal loro secondo full length, intitolato Hell No Longer Waits.
Speed metal, thrash ed una forte attitudine black metal sono il mix esplosivo con cui la band brasiliana si impossessa delle anime dei appassionati dagli ascolti fermi tra gli anni ottanta ed i primi anni del decennio successivo, un prodotto che più underground di così non si può ma assolutamente in grado di farvi saltare i padiglioni auricolari.
Un sound senza compromessi è quello con cui la band di San Paolo ci aggredisce, con Satana che suggerisce blasfemie varie su di una potenza di fuoco non indifferente.
In Hell No Longer Waitstutto puzza di zolfo e decomposizione: gli Hellish Grave danno così un seguito al paio di ep ed al primo lavoro su lunga distanza Worship Macabre, in un clima da tregenda, un inferno che brucia di metallo estremo.
Dieci brani che non trovano tregua, dieci inni metallici dall’impatto old school che trovano nei vari Motorhead, Possessed ed Hellhammer le massime influenze, meritandosi un più che sufficiente giudizio per attitudine, impatto e songwritng.
Tracklist
1.Transilvanian Nights
2.In Nomine Draculae
3.Revenant Awakening
4.Over My Haunted Pact
5.Possessed by the Witch
6.Macabre Worship
7.Lust for Youth
8.Locomotive Blast
9.Hell No Longer Waits
10.Soldiers of Hell