Hornwood Fell – Hornwood Fell

Per gli Hornwood Fell un esordio positivo, all’insegna di un black dal sapore antico ma non per questo necessariamente anacronistico.

In una nazione come la nostra nella quale la decadenza morale appare inarrestabile, non si può fare a meno di apprezzare chi esibisce una dote in via d’estinzione quale è la coerenza.

Rispetto dei canoni stilistici tradizionali e recupero dello spirito primevo del black metal, questo è ciò che propongono i laziali Hornwood Fell con questo loro esordio auto intitolato; anche se, molto spesso, tali dichiarazioni di intenti servono a nascondere evidenti limiti tecnico- compositivi, questo non è certo il caso dei nostri, capaci invece di proporre una quarantina di minuti di musica avvolgente e disturbante, che riporta le lancette dell’orologio indietro di una ventina d’anni, senza che per questo si avverta nell’aria un odore stantio. Tenendosi alla larga da qualsiasi deriva di tipo melodico o avanguardistico, il trio tira dritto per la propria strada, lastricata di integrità e genuina passione: questo disco esibisce le caratteristiche salienti del genere nella sua versione più verace, quali vocals aspre, blast beat furiosi, chitarre ronzanti e una produzione priva di fronzoli; una serie di elementi che costituiscono sia il maggiore pregio sia il peggiore difetto, a seconda del punto di osservazione. Se il risultato è quello di offrire tracce intense quanto lineari, come ad esempio Meca e Mutavento, ben venga allora la manifesta rinuncia a qualsivoglia intento innovativo e, paradossalmente, tutto ciò appare come una boccata d’aria fresca se paragonato alle molte uscite plastificate e originali solo in apparenza, in quanto di fatto semplici copia e incolla di generi diversi tenuti insieme da una colla scadente. Per gli Hornwood Fell un esordio positivo, all’insegna di un black dal sapore antico ma non per questo necessariamente anacronistico.

Tracklist:
1. Cerqua
2. Tempesta
3. Meca
4. L’ira
5. Mutavento
6. VinterFresa part 1
7. VinterFresa part 2

Line-up :
Andrea Vacca – Bass
Andrea Basili – Drums
Marco Basili – Guitars, Vocals

HORNWOOD FELL – Facebook

Fäulnis – Snuff // Hiroshima

Snuff // Hiroshima convince pienamente mostrando una band capace di proporre un lavoro piuttosto scorrevole, nonostante un genere musicale ed un contenuto lirico ben lungi dal potersi considerare “leggeri”.

I tedeschi Fäulnis sono attivi da circa un decennio, nel corso del quale hanno ottenuto una discreta notorietà in patria e, con Snuff // Hiroshima, giungono al loro terzo full-length.

Nata come one-man band, la creatura del musicista amburghese Seuche con il passare del tempo ha visto sempre più aumentare il numero dei musicisti coinvolti fino ad assumere le attuali sembianze di gruppo a tutti gli effetti. I Fäulnis propongono un black metal che sicuramente non possiede le caratteristiche più integraliste del genere, spaziando tra umori depressive e partiture più propriamente dark sino a sconfinare spesso e volentieri in spunti di matrice punk. Proprio questo, se vogliamo, è il maggior motivo d’interesse visto che il connubio, pur non essendo in assoluto una primizia, non è neppure così comune. Snuff // Hiroshima non è comunque un lavoro particolarmente ostico dal punto di vista musicale, dato che i Fäulnis si tengono alla larga da tentazioni avanguardiste puntando maggiormente ad un impatto diretto e comunque sempre contraddistinto da una spiccata impronta melodica. Purtroppo l’utilizzo della lingua madre da parte di Seuche ci impedisce di apprezzare pienamente e conferire il giusto peso ad una parte lirica che affronta argomenti scomodi e tutt’altro che rassicuranti (ne è esempio eloquente il tema dell’automutilazione nell’opener Grauen) e, in generale, tesa ad evocare immagini per lo più sgradevoli di miserie umane e di totale incomunicabilità; tutto sommato questo è il classico corredo misantropico che accompagna di norma gli album di DSBM, ma in questo caso Seuche preferisce veicolarlo tramite un sound molto più dinamico che, per lo più, sembra evocare una rabbia sorda e irragionevole piuttosto che cupa rassegnazione. Per mia indole prediligo i Fäulnis quando rallentano un pò l’andatura, mostrando un lato vagamente più malinconico come in Abgrundtief e Durch die Nacht mit… e, soprattutto, nella a tratti doomeggiante Atomkinder und Vogelmenschen, ma è nel suo complesso che il lavoro riesce a scongiurare la noia grazie a brani sempre capaci di destare l’attenzione dell’ascoltatore. Snuff // Hiroshima quindi convince pienamente mostrando una band capace di proporre un lavoro piuttosto scorrevole, nonostante un genere musicale ed un contenuto lirico ben lungi dal potersi considerare “leggeri”.

Tracklist:
1. Grauen
2. Weil wegen Verachtung
3. Distanzmensch, verdammter!
4. Abgrundtief
5. Paranoia
6. Durch die Nacht mit…
7. In Ohnmacht
8. Atomkinder und Vogelmenschen
9. Hiroshima

Line-up :
Seuche – Vocals
N.G. – Drums
P.K. – Bass
N.N – Guitars
M.R.M – Guitars

FAULNIS – Facebook

Dunkelnacht – Revelatio

Chi volesse ascoltare ancora del black capace di unire melodia, ferocia e tecnica sopraffina, provi a distogliere lo sguardo dai soliti nomi, invero piuttosto imbolsiti, dando una possibilità ai Dunkelnacht.

Quello tra black metal e Francia è ormai da tempo un connubio che produce frutti decisamente poco convenzionali e molto spesso prelibati.

A tale dato di fatto non si sottraggono neppure i Dunkelnacht, accasatisi presso la WormHoleDeath ed autori di una prova convincente oltre ogni rosea aspettativa. Dimentichiamo però le sonorità sperimentali di Blut Aus Nord e Deathspell Omega, l’anomalia del quartetto di Lille risiede soprattutto in una versatilità compositiva che consente di imbastardire il black con un po’ tutti i generi metal più noti : fughe chitarristiche di matrice classica si alternano a passaggi di stampo industrial con frequenti sconfinamenti nel deathcore, mentre in altri frangenti l’attitudine melodica dei migliori Cradle Of Filth e Dimmu Borgir intercetta il sound degli attuali In Flames. Insomma, un pout-pourri al quale i nostri riescono a sopravvivere grazie a capacità tecniche sopra la media, in caso contrario Revelatio sarebbe potuto divenire un minestrone indigeribile. A voler essere severi, benché sia apprezzabile l’accostamento tra due diversi toni vocali, lo screaming più acido, piuttosto filtrato, talvolta è un pò fastidioso, molto meglio allora il semi-growl che irrobustisce ulteriormente i brani. Così una chitarra al fulmicotone poggiata su un blast-beat furioso apre nel migliore dei modi l’album dopo la doverosa intro, rendendo Emergent Primitive Constellations un ottimo brano capace di fotografare in maniera esauriente il sound dei transalpini, tra cambi di tempo, alternanze e vocali e la sensazione che possa in ogni momento accadere qualcosa di imprevisto; Ashes from Stellar Oracles è ancora più bizzarra, con la chitarra a riversare suoni particolari mentre la successiva Dissolveld Fractal Esoterism si muove inizialmente su tempi meno parossistici, ma è solo un illusione prima che la girandola di atmosfere rischi di farci perdere definitivamente la bussola: in quest’occasione si rivela azzeccato il ricorso anche ad una voce pulita all’altezza della situazione. Di stampo più alternativo è invece Through the Reign of Lunacy , mentre la terremotante Le Serment des Hypocrites, con un appropriato utilizzo della lingua madre, finisce per spingersi decisamente su coordinate deathcore. La title-track è un breve quanto piacevole strumentale pianistico che introduce le altre sfuriate Where Livid Lights Emblaze ed Enthroned in the Light, fino ad arrivare all’ottima Rebirth of the Black Procession, con la chitarra solista nuovamente in evidenza, prima che il breve rumorismo di Post Prophetic Rebellion chiuda il lavoro dopo tre quarti d’ora decisamente intensi, caleidoscopici, ma capaci di non annoiare mai, nonostante in certi momenti sia tutt’altro che semplice non farsi disorientare dalle costanti evoluzioni del quartetto. Revelatio è un ottimo disco che probabilmente farà fatica a farsi largo tra la marea di uscite che congestionano il settore ma, chi volesse ascoltare ancora del black capace di unire melodia, ferocia e tecnica sopraffina, provi a distogliere lo sguardo dai soliti nomi, invero piuttosto imbolsiti, dando una possibilità ai Dunkelnacht.

Tracklist:
1. The Fall of Entropy
2. Emergent Primitive Constellations
3. Ashes from Stellar Oracles
4. Dissolved Fractal Esoterism
5. Through the Reign of Lunacy
6. Le Serment des Hypocrites
7. Revelatio
8. Where Livid Lights Emblaze
9. Enthroned in the Light
10. Rebirth of the Black Procession
11. Post Prophetic Rebellion

Line-up :
Heimdall – Guitars
Alkhemohr – Bass
Max Goemaere – Drums
Frost – Vocals

DUNKELNACHT – Facebook

Hiss From The Moat – Misanthropy

Puntano al bersaglio grosso gli Hiss From The Moat, con questo loro primo album, sicuri di avere le carte in regola per far breccia nei cuori neri dei fans estremi europei e, vista la qualità del lavoro, condividiamo con loro questa certezza.

Un assalto sonoro di matrice death/black metal è quello che offrono i lombardi Hiss From The Moat, band che farà parecchio parlare di sè, vuoi per i musicisti coinvolti, vuoi per la qualità del prodotto, di livello alto, pronto per fare sfracelli anche fuori dai patri confini.

Siamo all’esordio sulla lunga distanza, che arriva dopo un EP di un paio di anni fa dal titolo “The Carved Flesh Message” dai rimandi metalcore, con il quale i nostri virano in questo album verso sonorità death metal dal forte impatto black, oscuro e devastante. I musicisti sono di primissimo piano e oltre a James Payne (House Of Penance) e Carlo Cremascoli (Tasters), troviamo Giacomo Poli (ex-Stigma) alla sei corde e, a vomitare puro odio nel microfono, quel Paolo Pieri già con House Of Penance e Aborym. Anche gli ospiti non sono da meno, infatti fanno la loro apparizione in due brani Tommaso Riccardi, voce e chitarra dei romani Fleshgod Apocalypse, e Ryan Knight, chitarrista degli americani The Black Dahlia Murder. Stampato dalla Lacerated Enemy Records, il disco ha avuto una prima pubblicazione digitale da parte addirittura della Nuclear Blast, confermando le buone prospettive della band, che convince con trenta minuti di distruzione in puro Behemoth style, assecondato da musicisti capaci, che formano un combo compatto e sicuro nei propri mezzi. Le song, tutte dirette, puntano al sodo, senza inutili orpelli, risultando nella loro natura estrema assimilabili, grazie anche ad un songwriting ispirato, così brani come Honor To The Mother Of Death, Misanthropy, The Descent from the Throne e Caduceus raccolgono l’eredità della band polacca, risultando comunque freschi e suonati da musicisti dalla grande personalità. Puntano al bersaglio grosso gli Hiss From The Moat, con questo loro primo album, sicuri di avere le carte in regola per far breccia nei cuori neri dei fans estremi europei e, vista la qualità del lavoro, condividiamo con loro questa certezza.

Tracklist:
1. Intro
2. Conquering Christianity
3. Honor to the Mother of Death
4. Moralism as Anesthetic
5. Misanthropy
6. The Path of the Pilgrims
7. The Descent from the Throne
8. Ave Regina Caelorum
9. Caduceus
10. Outro

Line-up:
Giacomo “Jack” Poli – Guitars
James Payne – Drums
Carlo Cremascoli – Bass

HISS FROM THE MOAT – Facebook

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Hecate Enthroned – Virulent Rapture

Alla fine dell’ascolto rimane comunque la sensazione che la band di Cruelty And The Beast sia ancora fonte di ispirazione per il gruppo, ma il mio dubbio semmai è un altro: siamo proprio sicuri che oggi i Cradle Of Filth riuscirebbero a fare di meglio?

Gli Hecate Enthroned possono essere considerati ormai dei veterani della scena estrema europea: infatti, il loro esordio risale a un ventina di anni fa.

Era il lontano 1995 quando uscì sul mercato il loro mini cd seguito, nel 1997, dal full-length “In Slaughter Of Innocence: A Requiem For The Mighty”; all’epoca vennero tacciati come cloni dei più famosi Cradle Of Filth e pure il successivo lavoro, l’anno seguente, non fu ben accolto dalla critica metallara. All’inizio del nuovo millennio i sei ragazzi inglesi aggiustarono il tiro, portando il loro sound verso lidi più death oriented ma, tant’è, neanche così riuscirono a portarsi dalla loro parte i favori della stampa di settore. Dopo la compilation del 2005 “The Blackened Collection” tornano dopo un silenzio di otto anni con un album nuovo e nuove speranze; mettiamo subito le cose in chiaro: a me piacciono e, sinceramente, non ho mai condiviso le critiche, a volte feroci, con le quali venivano descritti i loro album, quasi che la band fosse l’unica colpevole, nel mondo Metal, di uno stile ed un gruppo a cui fare riferimento per il proprio sound. In particolare quest’ultimo album l’ho trovato ispirato e maturo; certo, qui di black metal non ce n’è neppure l’ombra, a meno che non si consideri in maniera semplicistica come black un album dove appare la voce in screaming. Virulent Rapture è invece un buon esempio di metal estremo, nel quale anche l’etichetta death metal viene usata giusto per affibbiare un marchio, suonato bene, prodotto anche meglio, e fila via tra brani tiratissimi, mai noiosi, infarciti di tastieroni gothic, ritmiche assatanate e una voce come quella di Elliot Beaver efficace sia nello scream (ebbene sì, simile a quello di Dani Filth) sia nel growl. L’uso delle tastiere è molto migliorato rispetto agli album precedenti, collocandosi sempre al posto giusto e al momento giusto, e non venendo relegate al solo ruolo di accompagnamento, ma ergendosi a protagoniste di momenti solistici dal forte impatto. Ho trovato notevole almeno una manciata di brani: Abyssal March, Plagued by Black Death accarezzata da un bellissimo giro di piano, la title-track, Life e la conclusiva Paths Of Silence. Alla fine dell’ascolto rimane comunque la sensazione che la band di “Cruelty And The Beast” sia ancora fonte di ispirazione per il gruppo, ma il mio dubbio semmai è un altro: siamo proprio sicuri che oggi i C.O.F. riuscirebbero a fare di meglio?

Tracklist:
1. Thrones of Shadow
2. Unchained
3. Abyssal March
4. Plagued by Black Death
5. Euphoria
6. Virulent Rapture
7. Life
8. To Wield the Hand of Perdition
9. Of Witchery and the Blood Moon
10. Immateria
11. Paths of Silence

Line-up:
Nigel – Guitars
Dylan Hughes – Bass
Andy – Guitars
Pete – Keyboards
Gareth Hardy – Drums
Elliot Beaver – Vocals

HECATE ENTHRONED – Facebook

Xanthochroid – Blessed He With Boils

”Blessed He With Boils” è un lavoro che racchiude talento, ambizione, visionarietà e la capacità di assimilare le influenze più disparate per creare un qualcosa che francamente non capita di ascoltare con grande frequenza.

Per una volta faccio un passo indietro di circa un anno andandomi ad occupare di un disco uscito nel dicembre 2012 e al quale solo alcuni, meritoriamente, hanno dato visibilità evidenziandone le indubbie qualità.

Per fortuna la musica ha il pregio di non essere un prodotto soggetto a scadenza dopo un certo periodo di tempo, quindi la riscoperta di questo splendido lavoro degli statunitensi Xanthochroid è doverosa, nella speranza che ciò possa indurre altre persone ad inserirlo con regolarità tra i propri ascolti. Giunti all’esordio dopo due anni di attività, contrassegnati da un demo e da un Ep, i ragazzi di Lake Forest non entrano in scena certo in maniera timida, ma ci regalano un disco talmente vario ed originale che si fatica a catalogarlo in maniera adeguata: anche se loro stessi si autodefiniscono cinematic black metal, una tale etichetta potrebbe ingenerare sicuramente equivoci. I Xanthochroid partono da una base black ma con una forte componente progressive, e non solo a livello di attitudine visto che certi passaggi riportano addirittura alle gradi band degli anni ’70; a tutto ciò si può certamente aggiungere una vena folk intimista che prende corpo per interi brani e, a tenere fede a quanto promesso, la capacità innata di creare atmosfere solenni, queste sì, degne di potere essere considerate alla stregua di una particolare colonna sonora, sulla scia dei migliori Moonsorrow . Tramite un concept incentrato sulla lotta tra due fratelli per la successione al regno del padre, la band californiana si permette di annichilire al confronto chiunque abbia tentato in questi ultimi anni una simile la commistione di generi: ascoltate la spettacolare title-track, brano nel quale la matrice black iniziale finisce per stemperarsi in una melodia che non sembra poi così lontana da una certa “The Court Of The Crimson King” (King Crimson e black metal ? Perché no). Winter’s End riprende l’anima folk degli Agalloch riuscendo a superare i maestri, in particolare per l’uso delle voci, mentre Long Live Our Lifeless King è un’autentica centrifuga nella quale viene immesso qualsiasi ingrediente passi per la testa a questi straordinari musicisti, per essere poi rimesso in circolazione con un formato non solo commestibile ma dal sapore esaltante. Le due parti di Deus Absconditus fungono da spartiacque in un lavoro nel quale, si stenta a crederlo, il meglio deve ancora venire: The Leper’s Prospect è un delirante brano black sinfonico che possiede una linea melodica indimenticabile, e il suo mood drammatico induce sovente alla commozione, sentimento che non abbandonerà più l’ascoltatore fino all’ultima nota dell’album, e che non viene certo sopito nella successiva In Putris Stagnum, dove il climax tragico viene raggiunto grazie all’alternanza di diverse gamme vocali che rendono perfettamente l’idea di una dolorosa e lancinante resa dei conti tra i protagonisti. “Here I’ll Stay” è uno strumentale pianistico che sembra uscito dalla penna di Vittorio Nocenzi ed introduce il capolavoro del disco che i Xanthochroid hanno giustamente posto al suo termine: Rebirth of an Old Nation è traccia di una bellezza a tratti insostenibile, nella quale si compie il miracoloso connubio tra tutti gli elementi innovativi che hanno contraddistinto band come Pain Of Salvation, Opeth e Moonsorrow, solo per citare quelle più facilmente rinvenibili, lasciandone per strada sicuramente molte altre. L’ascolto di questo lavoro (per il quale non posso che ringraziare chi me l’ha segnalato) è stata una folgorazione, che non fa altro che rendere ancora più compulsiva la mia personale ricerca di nuove band capaci di accompagnarmi negli ennesimi, indimenticabili viaggi musicali. Blessed He With Boils è un lavoro che racchiude talento, ambizione, visionarietà e la capacità di assimilare le influenze più disparate per creare un qualcosa che francamente non capita di ascoltare con grande frequenza. Questa non è il classico disco dai tratti sperimentali, che piace tanto, a parole, agli amanti del “famolo strano”, salvo essere successivamente relegato nelle retrovie di polverosi scaffali; qui vengono scaricate tonnellate di pathos che, unito a una dose altrettanto massiccia di follia, danno vita a un lavoro che, se fosse uscito quest’anno, troverebbe comodamente posto nella mia top five del 2013. Ma, come scritto all’inizio, almeno nella musica non esiste la prescrizione, pertanto godetevi questo luccicante gioiello firmato dai Xanthochroid, siete sempre in tempo.

Tracklist:
1. Aquatic Deathgate Existence
2. Blessed He with Boils
3. Winter’s End
4. Long Live Our Lifeless Kin
5. Deus Absconditus: Part I
6. Deus Absconditus: Part II
7. The Leper’s Prospect
8. In Putris Stagnum
9. “Here I’ll Stay”
10. Rebirth of an Old Nation

Line-up :
Matthew Earl – Flute, Drums, Vocals
David Bodenhoefer – Guitars, Vocals
Brent Vallefuoco – Guitars, Vocals
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Bryan Huizenga – Bass Guitar

XANTHOCHROID

Finnr’s Cane – A Portrait Painted By The Sun

“A Portrait Painted By The Sun” è un lavoro destinato a crescere in maniera esponenziale ad ogni passaggio nel lettore

Potrà apparire come la classica scoperta dell’acqua calda, ma è sempre utile rimarcare quanto lo status acquisito da una label derivi essenzialmente dal rapporto tra la qualità e quantità delle uscite.

C’è, invero, chi punta tutto o quasi sul secondo aspetto, rischiando così di perdere in credibilità e inficiando indirettamente anche uscite di ottimo livello; non è certo questo il caso della Prophecy Productions (e delle sue affiliate Lupus Lounge e Auerbach) che, in un lasso di tempo relativamente breve come gli ultimi due anni, ha dato alle stampe alcuni capolavori (Dordeduh, Vali, Falkenbach), un elevato numero di grandi album (tra i quali Alcest, Antimatter, The Vision Bleak, Secrets Of The Moon, Empyrium) e una serie di ulteriori uscite all’insegna della diversificazione stilistica, spaziando dal black metal al neofolk. Tutto questo panegirico nei confronti della label tedesca serve per introdurre un’altra piccola perla appena pubblicata con quel marchio, ovvero il secondo full-length dei canadesi Finnr’s Cane, A Portrait Painted By The Sun. Il trio nordamericano propone un affascinante mix tra sonorità black, post-metal, oltre a un pizzico di folk e ambient che, volendo esemplificare al massimo, si va a collocare su lidi piuttosto contigui agli Agalloch, anche se rispetto alla fenomenale band di John Haughm la componente black appare decisamente più sfumata. Il brano d’apertura This Old Oak costituisce un perfetto manifesto del songwriting dei Finnr’s Cane, con il suo incipit acustico che man mano si irrobustisce fino a raggiungere l’apice nel suo finale, quando una dolente melodia chitarristica si fa largo tra il cupo substrato creato dagli altri strumenti, conducendo l’ascoltatore a una chiusura incantevole quanto inattesa. Il disco vive, per i suoi quaranta minuti, di sensazioni del tutto analoghe, con brani che spesso partono in maniera soffusa per poi gonfiarsi come una nube prima del temporale, raggiungendo il pathos nella parte conclusiva; i tre musicisti si districano con grande sensibilità tra suoni sicuramente non fruibilissimi ai primi ascolti. A Portrait Painted By The Sun è, infatti, un lavoro destinato a crescere in maniera esponenziale ad ogni passaggio nel lettore e la magia di brani splendidi come la già citata opener, Time Is A Face In The Sky e Tao ripagherà con gli interessi per l’impegno profuso per potersi immergere idealmente nelle tenebrose foreste dell’Ontario. Per chi apprezza Alcest, Agalloch e Wolves In The Throne Room.

Tracklist:
1. This Old Oak
2. Gallery of Sun and Stars
3. A Promise in Bare Branches
4. The Wind in the Wells
5. A Great Storm
6. Time Is a Face in the Sky
7. Tao

Line-up:
The Slave – Cello, Keyboards
The Peasant – Drums
The Bard – Vocals, Guitars

FINNR’S CANE – Facebook

Ctulu – Seelenspiegelsplitter

Seelenspiegelsplitter si rivela un lavoro riuscito, a conferma delle buone doti già evidenziate dai nostri con il precedente “Sarkomand”

I tedeschi Ctulu, con il loro terzo disco Seelenspiegelsplitter pongono un altro tassello ad una carriera di buon livello, del tutto in linea con quello delle migliori black metal band del loro paese.

Il sound del combo teutonico è intriso di una certa epicità e possiede un carattere melodico ben delineato, in grado di conferire ad ogni brano una sua riconoscibilità; al riguardo Amokkoma, che segue la pur buona apertura affidata a Seelenbrand, si rivela una traccia emblematica e spicca sicuramente come uno degli episodi più riusciti del disco.
Il black dei Ctulu non si spinge quasi mai a velocità parossistiche, ma predilige affidarsi a mid-tempo che ben si adattano ad atmosfere ammantate da uno sfondo malinconico (Insignia Dagonis), ma anche quando i ritmi si fanno più sostenuti intervengono repentini cambi di ritmo, con le chitarre a tessere trame mai scontate.
Tomasuk, che si apre con l’invocazione alla nota divinità lovecraftiana che presta il suo monicker alla band, reca in maniera piuttosto marcata l’impronta degli Immortal più epici, e tutto sommato questo aspetto si ripresenta più volte all’interno del lavoro senza che ciò renda eccessivamente derivativo il risultato complessivo.
L’utilizzo della lingua madre , consuetudine diffusa nell’ambito del black tedesco, come sempre si dimostra azzeccata e chi ne conosce il lessico non farà neppure troppa fatica a comprendere i testi ottimamente scanditi tramite uno scream non troppo acuto.
Da segnalare lo sconfinamento in territori dark di Tiara Aus 10 Phobien, che spinge i Ctulu sulle tracce dei Nocte Obducta, aprendo un ulteriore e interessante sbocco compositivo.
Seelenspiegelsplitter si rivela pertanto un lavoro riuscito, a conferma delle buone doti già evidenziate dai nostri con il precedente “Sarkomand” e che ci “costringe” piacevolmente, ancora una volta, ad omaggiare la scena black metal tedesca.

Tracklist:
1. Seelenbrand
2. Amokkoma
3. Im Widerlicht…
4. Durch Sturmbruch Corridore
5. Insignia Dagonis
6. Bleichenblass
7. Tornasuk
8. Flammengesterin
9. Tränenfinsternis
10. Tiara aus 10 Phobien
11. Serenadenhallen

Line-up:
Mathias Junge – Guitars / Vocals
Arne Uekert – Guitars / Vocals
Lasse Bodenstein – Bass
Roman Szymura – Drums

CTULU – Facebook

Root – Viginti Quinque Annis In Scaena

“Viginti Quinque Annis In Scaena” contiene un’ora di musica ruspante , messa su cd così come è stata suonata senza ricorrere a trucchi da studio.

Il nome di Jiri Valter dalle nostre parti dice poco o nulla e, probabilmente, lo stesso vale per il nome d’arte con il quale è conosciuto in ambitoo musicale, Big Boss.

In realtà il personagio del quale stiamo parlando è una sorta di istituzione del metal nell’est europeo, in particolare in Repubblica Ceca dove è nato e svolge la propria attività. Superati da poco i 60 anni , etò sempre inusuale per chi si dedica al metal estremo, il nostro è stato anche il fondatore del ramo della Church Of Satan in Cecoslovacchia, poco prima che la nazione sparisse per dar vita ai due paesi indipendenti che conosciamo oggi. Dopo aver preso le distanze in un secondo tempo dall’organizzazione di Anton LaVey, Big Boss non ha certo rinnegato il satanismo, continuando coerentemente a condurre una vita, artistica e non, all’insegna del “do what thou wilt”
Questa introduzione si rende necessaria dato che nella recensione si parlerà del live celebrativo della band fondata proprio da Big Boss, i Root, che mossero i primi passi ben venticinque anni fa: il combo ceco viene immortalato (oltre alla versione audio esiste anche un dvd con altre immagini live e diversi contenuti extra) nel corso di un concerto tenuto nel 2011 a Brno, fornendo la possibilità di ascoltare i brani migliori di una carriera lunga e prolifica, con ben nove album incisi oltre a demo, split, compilation, live e quant’altro .
La collocazione teorica dei Root all’interno del black metal non deve trarre in inganno: qui non si ascolta nulla di avvicinabile al sound delle band nordiche bensì un heavy metal che prende le mosse da quanto fatto qualche anno prima dai Venom, anche se , con il senno di poi, il satanismo che ne permea i testi appare decisamente più sincero e meno di facciata rispetto a quello di Cronos e soci.
Viginti Quinque Annis In Scaena contiene un’ora di musica ruspante , messa su cd così come è stata suonata senza ricorrere a trucchi da studio, mantenendo intatti gli effetti dell’interazione di Big Boss con i fan, anche se purtroppo, il ricorso alla lingua madre ci impedisce di capire ciò che dice, con ogni probabilità piuttosto divertente a giudicare dalle reazioni del pubblico …
Hrbitov, In Nomine Satanas, Lucifer sono alcuni degli anthem eseguiti dai Root nel corso di un’esibizione di circa un’ora, che sicuramente non annoia pur senza rappresentare qualcosa di epocale.
Piuttosto, quello che abbiamo tra le mani è un documento interessante, che fotografa un evento al quale, chi avesse avuto l’opportunità di parteciparvi si sarebbe divertito un mondo ma che, ridotto ad un semplice supporto sonoro, perde gran parte del suo potenziale fascino; il metal dei Root infatti si rivela alquanto essenziale e l’impressione è che trovi proprio nella già citata interazione tra pubblico e musicisti la propria sublimazione. Meglio quindi, per chi volesse approfondire la conoscenza della storica band ceca, optare per la versione in dvd.

Tracklist:
1. Talking Bones
2. Sonata of the Choosen Ones
3. Hrbitov
4. The Endowment
5. In Nomine Satanas
6. The Festival of Destruction
7. And They Are Silent
8. Lucifer
9. The Aposiopesis
10. The Old Ones
11. Písen Pro Satana
12. 666

Line-up :
Big Boss – Vocals
Ashok – Guitars
Igor Hubík – Bass
Pavel Kubát – Drums
Jan Konečný – Guitars

ROOT – Facebook

Vàli – Skogslandskap

Musica senza tempo, capace di ricondurci al nostro naturale status di ospiti del pianeta, che più ci si addice rispetto a quello di usurpatori di un regno che non ci appartiene.

Dimenticate l’inconcludente ripetitività di certo ambient o la spiritualità a buon mercato di gran parte della musica new age; se volete provare ad ascoltare composizioni strumentali in grado di accarezzare il vostro udito facendovi riappacificare con l’universo intero, anche se farete un pò di fatica nel pronunciarlo, Skogslandskap fa al caso vostro.

Risulta senza dubbio più semplice memorizzare il nome dell’artista che si cela dietro l’omonimo progetto, il norvegese Vàli che, con la sua chitarra acustica supportata di volta in volta da altri quattro magnifici musicisti, ci regala tre quarti d’ora di musica delicata quanto emozionante. Skogslandskap è suddiviso in quindici brevi tracce che si susseguono senza che affiori nemmeno per un attimo il senso di noia o di assuefazione ad un tipo di sound normalmente a rischio da questo punto di vista; basta ascoltare l’opener Nordavindens Klagesang , un gioiello che dà il via a questo viaggio all’interno delle foreste norvegesi nell’arco di tempo compreso tra il tramonto e l’alba successiva, per percepire quanto la musica prodotta da Vàli rifugga stucchevoli tecnicismi rivelandosi, invece, una magica successione di suoni capaci di muoversi all’unisono con la natura circostante. Il cammino per il quale Vàli ci conduce, si snoda armonioso tra i mormorii delle piante, lo zampettare frenetico degli animali notturni, l’effluvio inebriante della terra bagnata dall’umidità notturna per concludersi con i quattro minuti finali di Morgenry, un concentrato di pura magnificenza e di commovente poesia che rende ineluttabile la necessità di riascoltare dalla prima traccia questo capolavoro. Skogslandskap riprende il discorso laddove si era interrotto ben nove anni fa con “Forlatt”, facendo apparire breve come un soffio di vento un lasso di tempo oggettivamente piuttosto lungo. Riscoprire quel disco è pertanto doveroso, come pure lo è ascoltare questa musica senza tempo, capace di ricondurci al nostro naturale status di ospiti del pianeta, che più ci si addice rispetto a quello di usurpatori di un regno che non ci appartiene.

Tracklist:
1 Nordavindens Klagesang
2 I Skumringstimen
3 Gjemt Under Grener
4 Langt I Det Fjerne
5 Mellom Grantraer
6 Himmelens Groenne Arr
7 Et Teppe Av Mose
8 Sevjedraaper
9 Dystre Naturbilder
10 Flytende Vann
11 Stein Og Bark
12 Lokkende Lyder
13 Skyggespill
14 Roede Blader
15 Morgengry

Line-up : Vàli – All Instruments

Guests:
Rosamund Brown – Cello
Marit Charlotte Steinum – Flute
Kjetil Ottersen – Piano
Mira Ursic – Violin

VALI – Facebook

Helrunar / Árstíðir Lífsins – Fragments: A Mythological Excavation

“Fragments: A Mythological Excavation” è uno split album, nato dalla collaborazione tra le due label tedesche Prophecy Productions e Vàn Records, che vede impegnate due band forse non troppo conosciute dalle nostre parti ma sicuramente di grande spessore artistico.

Fragments: A Mythological Excavation è uno split album, nato dalla collaborazione tra le due label tedesche Prophecy Productions e Vàn Records, che vede impegnate due band forse non troppo conosciute dalle nostre parti ma sicuramente di grande spessore artistico.

Parliamo degli Helrunar, senz’altro più noti anche perché attivi da ben oltre un decennio, anch’essi tedeschi, e degli Árstíðir Lífsins, combo dalla formazione recente che racchiude musicisti provenienti da diverse nazioni del nord Europa: li accomuna, oltre il genere suonato, anche una passione e una conoscenza tutt’altro che superficiale della mitologia nordica (e non solo, come vedremo).
Entrambe dedite a una forma di black epico, atmosferico e dalla forte componente etnica, le due band colgono questo occasione per presentare ognuna un lungo brano che ne ribadisce una volta di più le capacità già espresse in passato.
Lo split si apre con Wein Fur Polyphem degli Helrunar, i quali , attraverso il proprio leader Skald Draugir, spostano la loro attenzione verso la mitologia mediterranea, affrontando quello che probabilmente ne è il poema più conosciuto, l’Odissea. Il brano è un perfetto esempio di musica colta ed evocativa a 360 gradi: nel suo quarto d’ora si alternano parti corali, passaggi di enorme impatto caratterizzati da riff, ora chirurgici, ora capaci di evocare il fascino mai sopito delle gesta di Ulisse e dei suoi compagni di avventura.
Gli Árstíðir Lífsins, se come già detto si possono considerare in qualche maniera appartenenti allo stesso filone dei propri compagni di split, in realtà spostano ancora più l’asticella verso il lato maggiormente malinconico e sinfonico del genere; intendiamoci, qui non abbiamo a che fare con tastiere bombastiche bensì con strumenti classici che si integrano alla perfezione con le sfuriate di matrice black. Ammetto colpevolmente di non conoscere quanto composto in passato da questa magnifica band, ma il livello compositivo di Vindsvalarmál è tale da indurmi a pensare d’essermi perso qualcosa di importante.
In questi venti minuti la band condotta dal polistrumentista Stefan ci conduce per mano nel mondo dei miti norreni e il tutto avviene con la competenza e la cognizione di causa che proviene solo da uno studio approfondito della materia (lo stesso vale anche per Skald Draugir): tutto ciò trova nella musica il suo naturale sbocco rendendo questo brano una vera e propria perla, superiore al già di per sé notevole contributo degli Helrunar.
Devo dire che ho sempre considerato gli split album alla stregua di opere minori e dal carattere un po’ dispersivo, ma non posso che approvare al 100% quest’operazione, che ci consegna mezz’ora abbondante di ottima musica, oltre ad aumentare l’attesa per le prossime uscite su lunga distanza delle due band.

Tracklist :
1. Helrunar – Wein für Polyphem
2. Árstíðir Lífsins – Vindsvalarmál

Line-up :
Helrunar:
Skald Draugir – Vocals
Alsvartr – Drums, Bass
Discordius – Guitars, Vocals

Árstíðir Lífsins:
Stefán – Guitars, bass, vocals & choirs
Árni – Drums, viola, double bass, vocals & choirs
Georg – Vocals & choirs
Marsél – Vocals & choirs
Sveinn – Piano, keyboards & effects
Kristófr – Percussions & choirs
Tómas – Choirs
Teresa – Vocals
Kristín – Organ

HELRUNAR – Facebook

ARSTIDIR LIFSINS – Facebook

Svartsyn – Black Testament

Le variazioni sul tema sono pressoché inesistenti, Ornias conduce la sua macchina infernale verso un’apocalisse ineluttabile, senza sorprendere né deludere, semplicemente continuando a proporre con coerenza e competenza la propria musica e senza svendere malignità in versione plastificata.

Spiace davvero che certi dischi talvolta vengano giudicati negativamente a causa di una presunta immobilità stilistica, mente altri, aventi analoghe caratteristiche di fedeltà al genere proposto, vengano portati ad esempio di integrità artistica.

Probabile che un tale equivoco possa coinvolgere anche questo settimo full-length, in quasi vent’anni di onorata carriera, degli Svartsyn, ovvero del musicista svedese Ornias, che di fatto ha sempre gestito la band come un suo personale progetto. Black Testament è, essenzialmente, ciò che ogni appassionato del black più ortodosso vorrebbe ascoltare: atmosfere maligne condotte da una screaming feroce, nessuno svolazzo tastieristico o compiacimento melodico, solo dosi massicce di misantropia riversate in un songrwriting statico quanto si vuole, ma ugualmente dotato di grande fascino. Le variazioni sul tema sono pressoché inesistenti, Ornias conduce la sua macchina infernale verso un’apocalisse ineluttabile, senza sorprendere né deludere, semplicemente continuando a proporre con coerenza e competenza la propria musica e senza svendere malignità in versione plastificata (brani come Carving A Temple e Rising Beast son lì a dimostrarlo). Se tutto ciò sia sufficiente per poter considerare Black Testament un disco riuscito, pur se lontano dai capolavori del genere, dipende dalle aspettative di ciascuno: per quanto mi riguarda la quarantina di minuti da dedicare all’ascolto di questo lavoro sono senz’altro ben spesi.

Tracklist :
1. Intro
2. Revelation in the Waters
3. Venom of the Underworld
4. Demoness with Seven Names
5. Carving a Temple
6. Eyes of the Earth
7. Rising Beast
8. Black Testament

Line-up : Ornias – All Instruments, Vocals

SVARTSYN – Facebook

Crest Of Darkness – In The Presence Of Death

“In the Presence of Death” si rivela un esempio di black-death credibile e da ascoltare con senza alcuna remora.

Ingar Amlien è quasi mio coetaneo ed è anche per questo che, oltre a rispettarlo incondizionatamente, lo ricordo perfettamente negli anni novanta come bassista della power prog band Conception, in grado di riscuotere un certo successo in quegli anni.

Poco prima della registrazione di “Flow”, il disco che sancì la fine di quell’esperienza, Ingar aveva già gettato le basi del suo progetto estremo Crest Of Darkness con la pubblicazione dell’Ep “Quench My Thirst”. Da allora sono passati diciassette anni e altri cinque album ma l’indomito musicista norvegese non ha ancora perso la voglia di proporre la propria musica mantenendosi, come sempre, su buoni standard.
In the Presence of Death arriva dopo ben sei anni di silenzio e ci mostra una band in forma soddisfacente e capace sovente di svincolarsi da formule compositive trite e ritrite: basti ascoltare la parte finale di Demon Child, con una chitarra liquida poggiata su una magnifica base ritmica, per rendersene conto.
E’ innegabile, comunque, che il black dalle venature death dei Crest Of Darkness resti ancorato alla tradizione ma, il fatto che Amlien abbia trascorso gli anni migliori della propria carriera in una band piuttosto lontana da queste sonorità si sente eccome; non è certo un caso, quindi, che il basso sia molto più percepibile rispetto ad altre uscite del genere e che il disco si faccia apprezzare anche per una, pur sempre relativa, pulizia del suono volta a valorizzare le ottime doti dei musicisti.
Va da sé che i brani migliori siano proprio i mid-tempo, come la già citata Demon Child e le corrosive Welcome to My Funeral e From the Dead, anche se il disco è apprezzabile nel suo insieme, favorito da una durata non eccessiva e da una discreta fruibilità dei brani, nonostante la musica dei Crest Of Darkness non si possa certo considerare melodica.
Se alla carriera della band norvegese è forse mancato il disco in grado di consentire il salto di qualità, non si può certo sottovalutare la coerenza e l’onestà della sua proposta; In the Presence of Death ne è l’ulteriore riprova, rivelandosi un esempio di black-death credibile e da ascoltare con senza alcuna remora.

Tracklist :
1. Intro
2. In the Presence of Darkness
3. Demon Child
4. Redemption
5. The Priest from Hell
6. Welcome to My Funeral
7. Womb of the Wolf
8. Vampire Dreams
9. From the Dead
10. The Day Before She Died

Line-up :
Ingar Amlien – Vocals, Bass, Guitars
Kjetil Hektoen – Drums
Rebo – Guitars (lead)
Jan Fredrik Solheim – Guitars (rhythm)

CREST OF DARKNESS – Facebook

Nocte Obducta – Umbriel (Das Schweigen Zwischen Den Sternen)

I Nocte Obducta del 2013 hanno poco a che vedere con quelli dello scorso decennio ma la loro trasformazione in una band dalle sonorità più intimistiche ed eleganti, non significa necessariamente un sensibile abbassamento del livello qualitativo della proposta

Nella scorsa decade i Nocte Obducta sono stati tra i massimi rappresentanti di quel black metal avanguardistico e atmosferico che, in Germania, ha sempre trovato terreno fertile.

Dopo il presunto scioglimento del 2006, successivamente alla registrazione di “Sequenzen Einer Wanderung” (pubblicato poi nel 2008), parte della band diede vita ad un nuovo progetto denominato Dinner Auf Uranos e il risultato fu un ottimo lavoro come “50 Sommer – 50 Winter”, nel quale la componente estrema del sound presente nella band madre veniva messa del tutto da pate.
Quella che pareva essere la fine della storia per il combo di Mainz, come sovente accade, si è trasformato invece in un periodo di stand-by interrotto nel 2011 dall’uscita di “Verderbnis – Der Schnitter Kratzt An Jeder Tür”, seguito infine dal recente Umbriel (Das Schweigen Zwischen Den Sternen), oggetto di questa recensione.
Dopo diversi ascolti si può affermare con certezza che l’unica cosa sbagliata in questa operazione è stato l’utilizzo della vecchia identità: infatti, Umbriel ha pochi tratti comuni sia con il primo lavoro post-reunion sia con i vecchi capolavori, apparendo piuttosto come il logico successore proprio di “50 Sommer – 50 Winter” (collegamento suffragato anche dalla presenza, non casuale, di una lunga traccia intitolata proprio Dinner Auf Uranos).
Ovviamente il confronto con i due “Teil …” e con lo stesso “Sequenzen …” sarebbe poco corretto e persino impietoso: qui stiamo parlando, in sostanza, di una band differente per scelte stilistiche e, in parte, anche per attitudine; pertanto, l’unico modo per effettuare una disamina obiettiva di Umbriel è quello di dimenticarsi del monicker stampato sulla copertina.
Gli elementi black, che tutto sommato appaiono come un effimero collegamento al passato della band, sono confinati fondamentalmente alla sola Mehr Hass, ma è nel resto del disco che i Nocte Obducta mostrano il loro (nuovo) volto migliore, all’insegna di un dark ombroso ed evocativo, che spesso va a intrecciarsi con passaggi di stampo post-metal
Piaccia o meno tale svolta, un brano come Leere è indiscutibilmente un autentico gioiello intriso di un lirismo decadente che non può lasciare indifferenti; anche l’opener Kerkerwelten – Teil I, lo strumentale 01-86 Umbriel e Ein Nachmittag Mit Edgar seguono, sia pure con qualche variazione sul tema, questo andamento malinconico e decisamente introspettivo .
Piuttosto contraddittorie, invece, la già citata Dinner Auf Uranos e la relativa “reprise” strumentale, che si perdono in qualche superfluo passaggio ambient , con il solo risultato di appesantire un disco che, sia per la lunghezza sia per i contenuti, proprio scorrevolissimo non è.
Nulla da eccepire, invece, sulla bella chiusura affidata a Kerkerwelten – Teil II , che si lascia andare nei suo ultimi minuti a dolenti melodie di matrice doom.
I Nocte Obducta del 2013, quindi, hanno poco a che vedere con quelli dello scorso decennio ma la loro trasformazione in una band dalle sonorità più intimistiche ed eleganti, non significa necessariamente un sensibile abbassamento del livello qualitativo della proposta e, al tirare delle somme, gli aspetti positivi superano di gran lunga quelli negativi; si tratta, semplicemente, di recepirne i contenuti musicali con un differente approccio mentale: solo così sarà possibile apprezzare senza porre alcuna pregiudiziale l’operato di quella che resta, sempre e comunque, una band di grande valore.

Tracklist :
1. Kerkerwelten – Teil I
2. Gottverreckte Finsternis
3. 01-86 Umbriel
4. Dinner auf Uranos
5. Mehr Hass
6. Leere
7. Ein Nachmittag mit Edgar
8. Reprise Dinner auf Uranos
9. Kerkerwelten – Teil II

Line-up :
Heidig
Marcel
Matze
Stefan
Flange
Torsten

NOCTE OBDUCTA – pagina Facebook

Aosoth – IV : An Arrow In Heart

Gli Aosoth hanno raggiunto uno status invidiabile grazie a una discografia costellata di album convincenti all’insegna di un black avanguardistico di non facile fruizione ma di grande profondità e consistenza.

E’ difficile, nel parlare di questo lavoro, potersi sottrarre all’obbligo di fare un cenno alla scena black francese, che di certo è, tra tutte, quella che nel complesso appare maggiormente proiettata verso il lato avanguardistico del genere.

Bastino nomi come Blut Aus Nord (anche se negli ultimi lavori la componente estrema è stata sensibilmente ridotta), Deathspell Omega, Merrimack, senza dimenticare Decline Of The I e Spektr, per intuire quali siano i contenuti all’interno di questo quarto full-length effettivo degli Aosoth. Rispetto ad alcune delle band citate, sicuramente la componente black appare predominante (la sperimentazione a pieno regime si trova solo nei due Broken Dialogue) ma è evidente, fin dalla notevole title-track posta in apertura, che di melodia nell’ora di musica proposta dai parigini se ne troverà poca ed spesso sopraffatta da un involucro sonoro non convenzionale. Il brano in questione mostra una band oggettivamente dalle grandi capacità e dalle idee molto chiare, nonostante un songwriting che tende più ad alienare l’ascoltatore che non a scuoterlo o a cullarlo; la difficoltà per chi si approccia a questa particolare variante del black è quella di mantenere alto il livello di attenzione perché i nostri, quando rallentano ingannevolmente l’andatura, lo fanno tramite partiture ossessive che paiono essere il preludio della fine salvo poi riesplodere repentinamente. Confesso che questo tipo di proposte inizialmente tendono a respingermi e, dopo qualche ascolto, parto deciso con l’idea di evidenziarne più i difetti che i pregi, ma qualcosa mi spinge a perpetuarne l’ascolto finché, alla fine, di aspetti realmente negativi da riportare ne restano ben pochi, mentre l’aura maligna che pervade ogni nota finisce per penetrare definitivamente sottopelle. Il disco si chiede così com’era iniziato, ovvero con un altro lungo e ipnotico brano, Ritual Marks Of Penitence in grado di lasciare definitivamente il segno, anche grazie a un bellissimo video che chiarisce, qualora ci fossero stati dubbi, quale sia il rapporto degli Aosoth con la religione tradizionale. IV – An Arrow In Heart è un’opera di sicuro valore per una band che, dopo un decennio di carriera, ha raggiunto uno status invidiabile grazie a una discografia costellata di album convincenti all’insegna di un black avanguardistico di non facile fruizione ma di grande profondità e consistenza.

Tracklist:
1. An Arrow in Heart
2. One With the Prince with a Thousand Enemies
3. Temple of Knowledge
4. Under the Nails and Fingertips
5. Broken Dialogue 1
6. Broken Dialogue 2
7. Ritual Marks of Penitence

Line-up :
MkM – Vocals
BST – All instruments
INRVI – Guitars

AOSOTH – Facebook

The Howling Void – Runa

Dopo tre dischi nel segno di un funeral doom dai tratti atmosferici, i The Howling Void decidono di esplorare nuove strade con il chiaro intento di ritrovare un ulteriore impulso dopo il poco convincente full-length risalente allo scorso autunno.

Nell’esaminare The Womb Beyond the World, infatti, non si poteva fare a meno di notare che la creatività di Ryan (unico titolare del progetto) sembrava essersi progressivamente affievolita e, per assurdo, l’aver pubblicato un esordio di indiscutibile valore come “Megaliths Of The Abyss” pareva aver provocato nel musicista statunitense l’ansia di non riuscire più ad esprimersi a quei livelli. Il recente disco uscito per la Solitude era formalmente impeccabile, ma incapace di trasmettere emozioni all’ascoltatore, difetto tutt’altro che marginale per un genere fondato sul pathos come il funeral doom. Per fortuna, però, quella che era apparsa come un’irreversibile stasi creativa è stata smentita dal contenuto di questo breve Ep, fatto di due sole tracce per poco più di un quarto d’ora di durata, sufficienti però per mostrare la ritrovata vena di Ryan, nonché la sua ammirevole onestà nel rifiutare l’appiattimento su standard compositivi confortevoli ma privi di alcun tipo di sbocco. Certo, il cambio di rotta è netto quanto sorprendente, se pensiamo che, ascoltando Irminsûl e Nine Nights, il primo accostamento che viene in mente è quello con i Moonsorrow: è pacifico, però, che il retaggio doom dei The Howling Void non viene meno e che l’elemento folk inserito in tale contesto possiede, comunque, uno sviluppo diverso rispetto a quello dei maestri finnici, nei quali la base estrema è invece riconducibile al black metal. La scelta di Ryan implica, dunque, la rinuncia totale al growl, rimpiazzato da clean vocals sufficientemente evocative, ma soprattutto il recupero di una vena melodica sacrificata nell’ultima uscita a scapito di interlocutori passaggi di stampo ambient. Tutto questo non può che essere salutato con favore da chi, solo quattro anni fa, aveva individuato The Howling Void come uno dei nomi emergenti della scena doom; infatti, è tutto sommato lecito pensare che questo cambio di rotta non verrà considerato come un’abiura delle proprie radici, visto che le caratteristiche peculiari del sound non vengono del tutto meno, pur se veicolate in maniera differente. Bene così, dunque, per il bravo Ryan; con queste premesse il prossimo full-length potrebbe rilanciare in maniera definitiva le quotazioni del suo progetto.

Tracklist :
1. Irminsûl
2. Nine Nights

Line-up : Ryan – All Instruments, Vocals

THE HOWLING VOID – Facebook

Zgard – Astral Glow

Zgard è un progetto pagan black metal del prolifico musicista ucraino Yaromisl, che con Astral Glow giunge al terzo disco in poco più di un anno.

Ammetto subito di non essere in possesso di elementi sufficienti per poter fare un raffronto attendibile con le opere precedenti, di certo però, Astral Glow si rivela un lavoro sorprendente per maturità compositiva e per la carica evocativa che sprigiona da ogni nota.

La musica degli Zgard si muove su un’ideale di linea di contatto tra i Moonsorrow ed i Negura Bunget/Dordeduh: con questi ultimi il polistrumentista ucraino condivide non solo l’amore per sonorità folk affidate ad un uso particolare del flauto, ma anche per la natura incontaminata dei Carpazi (in un’epoca che disdegna l’insegnamento della geografia, è bene ricordare come, nel suo sviluppo, la catena montuosa attraversi sia l’Ucraina sia la Romania). I ritmi proposti sono impostati su dei mid-tempo nei quali la chitarra ricerca sovente linee malinconiche, talvolta accompagnate da solenni momenti corali (Stars in the Night Sky), ma anche quando la velocità aumenta non viene mai meno la componente bucolica, ottimamente rappresentata, come detto, dal flauto suonato da Hutsul. Il disco offre il suo meglio probabilmente nella parte iniziale, nella quale spiccano due gioielli come l’opener Balance In Universe e l’altrettanto lunga ed emozionante Letargy Dream, ma va detto che una lieve perdita di intensità nel complesso di un lavoro della durata di circa settanta minuti si può considerare un peccato veniale. Intendiamoci, gli Zgard non raggiungono le vette compositive pressoché inarrivabili dei maestri finnici e la loro musica appare meno intrisa dell’alone di spiritualità che contraddistingue le band di Hupogrammos e Sol Faur, ma proprio la sua maggiore immediatezza rende Astral Glow un lavoro piacevole da ascoltare, anche ripetutamente. Promozione a pieni voti, quindi, per la creatura di Yaromisl e, considerando il suo ritmo di un full-length ogni sei mesi, è lecito attendersi in tempi brevi ulteriori e stimolanti novità.

Tracklist :
1. Balance in Universe
2. When Breakin Down All the Ideals
3. Letargy Dream
4. Stars in the Night Sky
5. Old Woods
6. Astral Glow
7. Return to the Void
8. When Time Comes to Go Away

Line-up : Yaromisl – Guitars, Vocals, Keyboards, Mouth Harp, Programming, Lyrics

Hutsul – Flute

ZGARD – pagina Facebook

Aylwin / Zinvmm – Aylwin / Zinvmm

Curioso split album che vede impegnate due band piuttosto lontane tra loro per estrazione geografica e musicale.

Curioso split album che vede impegnate due band piuttosto lontane tra loro per estrazione geografica e musicale.

Gli Aylwin sono un duo californiano dedito ad un post-black atmosferico che si colloca sulla scia degli Wolves in The Throne Room: dopo un intro ambientale, Hymns mostra subito sonorità interessanti e avvolgenti, con un bel tema melodico violentato dalla doppia cassa e dal consueto screaming sgraziato ma efficace, mentre Hymns II esordisce sconfinando in territori depressive per poi riacquistare un ritmo parossistico nella sua fase centrale e sfumare in un finale di stampo ambientale. Hymns III non modifica in maniera sensibile le coordinate sonore e chiude in maniera positiva la parte dedicata alla band statunitense che, seppure parzialmente penalizzata da una registrazione rivedibile, mostra potenzialità assolutamente da non sottovalutare.
La one-man band spagnola Zinvmm occupa gli ultimi tredici minuti dello split album con una sola traccia, Beith, che ci trasporta verso sonorità di tipo ambient folk dal sapore ancestrale. Nonostante venga naturale il riferimento a realtà quali Burzum et similia, la componente mediterranea del sound prende piacevolmente il sopravvento anche grazie all’uso di una strumentazione non convenzionale ma sempre appropriata.
Split interessante, dunque, e due nomi da tenere senz’altro sotto osservazione.

Tracklist:
1. Aylwin – The imaged engraved (intro)
2. Aylwin – Hymns
3. Aylwin – Hymns II
4. Aylwin – Remain in trance (Evening Ritual)
5. Aylwin – Hymns III
6. Zinvmm – Beith

AYLWIN – Facebook
ZINVUMM – Facebook

Dreariness – My Mind Is Too Weak To Forget

Il “depressive-blackgaze” proposto dai Dreariness si dipana in maniera naturale mantenendo sempre viva la tensione emotiva.

A pochi mesi dall’uscita dell’ottimo “Fade Away Gradually, My Hope …” dei Misere Nobis, ritroviamo Gris e Torpr alle prese con un nuovo progetto denominato Dreariness.

I nostri non si appiattiscono sulle posizioni della band madre ma presentano, con Mind Is Too Weak To Forget, un intrigante mix tra sonorità depressive, post-rock e shoegaze; provate a sottrarre agli Alcest le loro atmosfere più sognanti facendoli piombare in una sorta di incubo senza possibilità di risveglio, sostituendo la voce cantilenante di Neige con lo screaming disperato e lancinante della vocalist Tenebra: questa, approssimativamente, è la descrizione di ciò che ci si deve attendere da questo lavoro dei Dreariness.
Sicuramente l’uso della voce in questo disco costituirà per alcuni una sorta di linea di confine: ci sarà chi apprezzerà il contenuto musicale ma non riuscirà probabilmente ad accettare un’interpretazione dello screaming di matrice depressive ancor più estremo del solito; al contrario, chi proverà a superare questa barriera troverà come meritato premio la possibilità di assaporare pienamente le atmosfere emozionanti di Mind Is Too Weak To Forget.
Essendo quest’ultimo il mio caso, posso confermare che la prestazione di Tenebra è davvero eccellente per la sua efficacia nel veicolare in maniera adeguata il dolore e il senso di disagio esistenziale racchiuso nei testi e nei suoni condivisi con i propri compagni d’avventura.
Come detto il connubio di atmosfere, al quale si può attribuire l’etichetta di “depressive-blackgaze”, avviene in maniera naturale, tanto che l’intero lavoro pare non risentire neppure di una durata considerevole (oltre un’ora), mantenendo sempre viva la tensione emotiva che trova, peraltro, una delle sue massime espressioni proprio nella lunga title-track posta in chiusura.
Insomma, benché l’ascolto di Mind Is Too Weak To Forget si riveli tutt’altro che una passeggiata, con l’esaurirsi delle sue ultime note, il primo impulso che giunge è quello di immergersi nuovamente in queste atmosfere affascinanti e disturbanti allo stesso tempo, dimostrando l’indubbio valore di questo ottimo album.

Track-list :
1. Reminiscences
2. Coming Home
3. My Last Goodbye
4. Madness
5. Dysmorphophobia
6. Lost
7. One Last Wish
8. My Mind Is Too Weak To Forget

Line-up :
Tenebra – Vocals
Gris – Guitars, Bass, Keys
Torpor – Drums

DREARINESS – Facebook