Original Sin – Space Cowboy

Gli Original Sin non si discostano molto da quanto fatto nel recente passato, con un sound ispirato all’hard & heavy tradizionale e influenzato dalla scena britannica degli anni ottanta.

Vi avevamo parlato dei ravennati Original Sin diversi mesi fa, in occasione del loro debutto, il buon Story Of A Broken Heart che metteva in evidenza l’attitudine hard & heavy del quartetto con nove brani diretti dalle radici ben salde negli anni ottanta, ma con impatto e prepotenza da guerrieri del nuovo millennio.

Space Cowboy è il secondo lavoro del gruppo la cui formazione vede sempre all’opera il cantante e chitarrista Matteo Berti, il chitarrista Federico Maioli, il batterista Luca Canella ed il bassista Manuel Montanari.
L’album parte con la title track, un mid tempo che fatica a decollare, ma già dalla seconda traccia Save What Is Yours la band torna a fare metal diretto e graffiante, con Back To The Past che poi ci investe con il suo hard & heavy risultando il brano più riuscito dell’opera, mentre Into The World è una cavalcata in crescendo e The Long Travel si rivela l’altro pezzo da novanta di Space Cowboy.
Gli Original Sin non si discostano molto da quanto fatto nel recente passato, con un sound ispirato all’hard & heavy tradizionale e influenzato dalla scena britannica degli anni ottanta; come nel precedente album i pregi superano di gran lunga i difetti, rendendo questi ultimi dei dettagli che non inficiano quanto di buono offerto in questo nuovo lavoro.
Se siete amanti dell’hard & heavy old school targato Regno Unito, Space Cowboy merita la vostra attenzione.

Tracklist
1.Space Cowboy
2.Save What Is Yours
3.Back To The Past
4.Into The World
5.Streets Of Terror
6.The Long Travel
7.The Music
8.I Can’t Live

Line-up
Matteo Berti – Vocals, Guitars
Federico Maioli – Guitars
Manuel Montanari – Basso
Luca Canella – Drums

ORIGINAL SIN – Facebook

Autori Vari – Marijuanaut Vol.V

In Italia, ormai da anni, nella musica pesante ci sono delle cose notevoli, è un flusso che scorre e che si deve ascoltare con attenzione, perché nasce dalla vera indipendenza e dalla passione.

Puntuale come la morte e la buona musica, ecco arrivare al termine del 2018, come da cinque anni a questa parte, la raccolta del meglio del sotterraneo italiano negli ambiti stoner doom e sperimentale, con la compilation della webzine Doomabbestia.

Quest’ultima è una delle migliori espressioni di giornalismo musicale fatte da appassionati per amanti di questi generi. Doomabbestia è il frutto di divertimento, perché quando si trattano le cose che si amano si fanno meglio, ma anche di sacrificio, perché non essendo professionisti si deve sacrificare qualche ambito della nostra vita per poter rincorrere la musica. Da anni questo spazio di critica e di proposta musicale è quanto di meglio un amante delle sonorità heavy in quota psichedelica possa trovare e questa bellissima raccolta in download libero ne è la testimonianza più lampante. Ascoltando gli episodi precedenti si aveva una fotografia molto precisa e puntuale della scena underground italiana per quanto riguarda i sottogeneri che vanno dallo stoner al doom, passando per lo psych ed il fuzz ed andando oltre. Questo quinto episodio incarna la grande qualità di quelli precedenti, ma li supera perché qui ci sono gruppi davvero notevoli, che ci fanno ascoltare come in Italia ci sia una vibrazione che è presente in molte cantine e garage, e che dà vita a qualcosa di assolutamente originale e vibrante. Non si vuole nominare un gruppo in particolare, sia perché sono tutti eccezionali, sia perché questa raccolta può essere ascoltata come un album classico, dato che c’è un filo conduttore comune a tutte le tracce che è quello della creatività e della bravura. Si spazia tantissimo in questa raccolta che è attesa con ansia ogni fine anno dagli appassionati di musica pesante e pensante, e con ragione, poiché qui ce n’è per tutte le inclinazioni. In Italia, ormai da anni, in tale ambito emergono cose notevoli, è un flusso che scorre e che si deve ascoltare con attenzione, perché nasce dalla vera indipendenza e dalla passione. Il meglio delle uscite italiane di musica pesante secondo i ragazzi di Doomabbestia, e non finisce qui per cui, come dicono loro, alzate il volume e accendetene una.

Tracklist
1.Greenthumb – The Black Court
2.Mr Bison – Sacred Deal
3.LORØ – Last Gone
4.Sabbia – Manichini
5.Messa – Leah
6.The Turin Horse – The Light That Failed
7.Killer Boogie – Escape From Reality
8.John Malkovitch! – Nadir
9.Go!Zilla – Peeling Clouds
10.Tons – Sailin’ the Seas of Buddha Cheese
11.Suum – Black Mist
12.Haunted – Mourning Sun
13.Organ – Aidel
14.Satori Junk – The Golden Dwarf
15.Sherpa – Descent of Inanna to the Underworld

DOOMMABESTIA – Facebook

Arsis – Visitant

Un album che ha molte luci ma pure qualche ombra, comunque sicuramente riuscito dal punto di vista di chi apprezza il metal estremo tutto tecnica e velocità.

Attivi fin dall’alba del nuovo millennio gli statunitensi Arsis, tornano con un nuovo lavoro a distanza di cinque anni dal precedente Unwelcome con il sesto album della loro discografia.

Visitant, accompagnato da una copertina che fa tanto vecchia scuola (Mark Riddick), è stato registrato, mixato e masterizzato dal produttore Mark Lewis (Whitechapel, Devildriver, Cannibal Corpse), e licenziato dalla Agonia Records.
Come ormai ci ha abituato la band di Virginia Beach, il sound di questo nuovo lavoro è una death metal tecnico e melodico, molto meno moderno di quello che si potrebbe intuire dal passato del gruppo e più vicino al death metal classico, come già era successo con il precedente album.
La band del funambolico chitarrista James Malone ci regala un album altamente tecnico, improntato su ritmiche thrash/death e sui solos che a tratti sfiorano lo shredding, melodici e spettacolari, di fatto il marchio di fabbrica degli Arsis.
Visitant si specchia in queste caratteristiche, magari anche troppo, ma è indubbio che la tecnica messa in mostra dal gruppo sia di primordine, non solo quella del chitarrista e cantante ma anche dei tre musicisti che compongono il nucleo degli Arsis, Brandon Ellis alla seconda chitarra, Noah Martin al basso e Swan Priest alla batteria.
Tricking The Gods apre l’album e veniamo subito travolti da un turbinio di ritmiche forsennate, da uno scream rabbioso e dalla chitarra del leader che vomita solos indiavolati.
Il seguito segue pedissequamente queste caratteristiche, con brani che risultano ragnatele di note estreme come As Deep As Your Flesh, Funeral Might e Unto the Knife.
Gli Arsis sono una band inattaccabile per quanto riguarda la tecnica esecutiva, ma alla lunga lasciano che la loro principale virtù diventi troppo ingombrante, soffocando leggermente il songwriting.
Un album che ha molte luci ma pure qualche ombra, comunque sicuramente riuscito dal punto di vista di chi apprezza il metal estremo tutto tecnica e velocità.

Tracklist
1. Tricking The Gods
2. Hell Sworn
3. Easy Prey
4. Fathoms
5. As Deep As Your Flesh
6. A Pulse Keeping Time With The Dark
7. Funeral Might
8. Death Vow
9. Dead Is Better
10. Unto The Knife
11. His Eyes (Pseudo Echo Cover)

Line-up
James Malone – Guitar/Vocals
Brandon Ellis – Guitar
Noah Martin – Bass
Shawn Priest – Drums

ARSIS – Facebook

Riccardo Tonoli – City Of Emeralds

La grande tecnica lascia campo ad emozionanti momenti di musica in cui arrangiamenti e melodie trovano il loro spazio, alternandosi con le evoluzioni chitarristiche di Tonoli, a tratti incendiarie, in altri momenti progressivamente eleganti.

City Of Emeralds è il primo lavoro strumentale del chitarrista Riccardo Tonoli, da più di dieci anni in forza ai Tragodia, ex di Bladhe, D-Vines ed Hand of Glory e in veste di collaboratore con i norvegesi To Cast a Shadow e Gravøl e i nostrani Take Me Out e Dark Horizon.

Prodotto da Daniele Mandelli e dallo stesso Tonoli, l’album parla di Dorothy, che dopo essere stata travolta da un tornado si ritrova in un mondo fatato, nel quale incontrerà personaggi di ogni tipo, raccontato dalla chitarra del musicista lombardo, aiutato da Luca Paderno al basso ed Arin Albiero alla batteria.
Il lavoro, strumentale, mette in evidenza la tecnica sopraffina di questo chitarrista: City Of Emeralds è forse l’album più shred oriented che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi, anche se Tonoli mantiene un approccio al songwriting lineare quanto basta per permettere anche a chi non è avvezzo alle opere del genere di carpire le atmosfere regnanti sui tredici brani che compongono l’opera.
Metal progressivo di alta scuola, ricamato da evoluzioni strumentali e raffinate sfumature shred sono comunque le qualità principali dell’album che attrae e rapisce grazie alle atmosfere fantasy che disegnano luoghi meravigliosi nell’immaginario di chi ascolta.
La grande tecnica lascia campo ad emozionanti momenti di musica in cui arrangiamenti e melodie trovano il loro spazio, alternandosi con le evoluzioni chitarristiche di Tonoli, a tratti incendiarie, in altri momenti progressivamente eleganti.
Tra i bani segnalo Through The Looking Glass, Mad Hatter, The Garden Of Light Flowers, The Rabbit Hole, anche se City Of Emeralds è opera da ascoltare nella sua interezza, quindi prendetevi un’oretta, mettetevi comodi ed esplorate questo mondo fiabesco in compagnia di Dorothy, non ve ne pentirete.

Tracklist
1.Meeting The Kalidahs
2.Live Together, Die Alone
3.Through The Looking Glass
4.City Of Emeralds
5.Mad Hatter
6.There’s No Place Like Home
7.Walkabout
8. The Garden Of Light Flowers
9.The Pattern
10 A Road With Yellow Bricks
11.The Rabbit Hole
12.The Myth Of The Cave
13.There’s More Than One Of Everything

Line-up
Riccardo Tonoli – chitarre, basso, programming e arrangiamenti
Luca Paderno – basso
Arin Albiero – batteria

RICCARDO TONOLI – Facebook

Heterogeneous Andead – Deus Ex Machina

Deus Ex Machina si rivela un gradita sorpresa per gli amanti del genere: a suo modo originale la band si allontana dai soliti cliché gotici per travolgere l’ascoltatore sotto valanghe di note thrash/death, risultando una macchina da guerra metallica

Gli Heterogeneous Andead sono una extreme metal band fondata da Yusuke Kiyama cinque anni fa e arrivata ora all’esordio su lunga distanza per Wormholedeath.

Il sound che poggia le sue fondamenta su un death/thrash veloce e devastante su cui la band inserisce parti sinfoniche ed elettroniche e l’uso della doppia voce (mezzo soprano e growl) ad opera della cantante Haruka.
Deus Ex Machina si rivela un gradita sorpresa per gli amanti del genere: a suo modo originale la band si allontana dai soliti cliché gotici per travolgere l’ascoltatore sotto valanghe di note thrash/death, risultando una macchina da guerra metallica.
Il growl risulta leggermente forzato invero, mentre il tono classico si erge sopra ritmiche indiavolate, solos taglienti come katane e sinfonie progressive a nobilitare un sound che risulta un vero massacro.
Non si lasciano intimorire dal debutto gli Heterogeneous Andead, ma con personalità affrontano il metal estremo con una serie di diavolerie compositive ed un bagaglio tecnico eccellente, così che devastanti ed intricati brani come l’opener Flash Of Calamity, Tentacles o la cavalcata di quasi dieci minuti intitolata Demise Of Reign diventano per l’ascoltatore una sorta di montagne russe metalliche, tra discese a velocità folle e paraboliche musicali spettacolari.
Originale quel tanto che basta per non esibire espliciti punti di riferimento, il gruppo nipponico risulta il solito colpo gobbo di un’etichetta sempre sul pezzo quando si tratta di proporre realtà interessanti reclutate in tutto il mondo.

Tracklist
1.Flash of Calamity
2.Denied
3.Hallucination
4.Tentacles
5.Automaton
6.Unleashed
7.Tyrant
8.Obfuscation
9.Demise of Reign
10.Fleeting Dawn

Line-up
Haruka – Vocals
Yusuke Kiyama – Guitars, Synth, Programming
Masaya Kondoh – Guitars
Takashi Onitake – Bass

HETEROGENEOUS ANDEAD – Facebook

Elegiac – Pagan Storm

Se fossimo al cospetto di una band alle primissime uscite, un disco come Pagan Storm potrebbe essere considerato un’interessante tappa di consolidamento, ma per un progetto solista dalla discografia così ampia permane il dubbio che i margini di miglioramento non siano poi moltissimi, al netto degli inevitabili alti e bassi ai quali sono soggetti i musicisti estremi dalla prolificità ben al si sopra della media.

Elegiac è il monicker di questa one man band statunitense che, negli ultimi cinque anni, ha invaso il mercato con numerosi split album ed ep oltre a cinque full length, dei quali l’ultimo è questo Pagan Storm del quale andremo a parlare.

Nonostante le citate caratteristiche indirizzino verso un progetto piuttosto dispersivo, va detto che l’impatto che il buon Zane Young immette nel suo black metal è tutt’altro che trascurabile.
A parte l’incipit da sanatorio, con colpi di tosse e scatarrate assortite, la prima traccia Rituals of War si dipana in maniera ficcante, ma non abbastanza per lasciare il segno, mentre già la successiva Allegiance and Honor offre un’interpretazione del genere più cupa e non priva di una sua idea melodica, prima di inarcarsi in un tetragono finale di matrice death.
Il meglio del lavoro, in effetti, arriva quando i ritmi di attestano sul mid tempo come avviene in Somber Morning, anche se la furia ottundente di un brano come Golden Fires of Victory ha effetti piuttosto urticanti.
Il buon impatto ritmico della title track e l’interessante discontinuità stilistica, tra accenni doom e folk, che affiora a tratti nella conclusiva Ancient Spirit sono altri elementi che vanno a costruire un quadro non disprezzabile per la convinzione e la ferocia che Zane immette in ogni singola nota.
La mancanza di una certa sintesi, prevedibile in un simile soggetto, peraltro coinvolto come se non bastasse in numerose altre band, impatta comunque sulla fruizione di un album che, scremato di alcuni episodi (uno su tutti lo sconclusionato Through) avrebbe potuto incidere maggiormente.
In certi passaggi dell’album, peraltro, sembra di ascoltare una versione molto più cruda e altrettanto meno curata dei Forgotten Tomb attuali, e questo di per sé non può essere affatto un male anche se rispetto a certi livelli il solco da colmare appare ancora molto profondo.
Se fossimo al cospetto di una band alle primissime uscite, un disco come Pagan Storm potrebbe essere considerato un’interessante tappa di consolidamento, ma per un progetto solista dalla discografia così ampia permane il dubbio che i margini di miglioramento non siano poi moltissimi, al netto degli inevitabili alti e bassi ai quali sono soggetti i musicisti estremi dalla prolificità ben al si sopra della media.

Tracklist:
1. Rituals of War
2. Allegiance and Honor
3. Somber Morning
4. Through Ancient Eyes
5. Purity of Winter
6. Golden Fires of Victory
7. Pagan Storm
8. Ancient Spirit

Line-up:
Zane Young – Everything

ELEGIAC – Facebook

Symptoms Of The Universe – Demo

Non è facile né consueto trovare un gruppo che ha una vastità tale al suo interno, partendo da una certa tradizione underground italiana per spaziare in territori che non sono consueti per le nostre latitudini, il tutto in maniera personale, urgente ed impetuosa.

I Symptoms of the Universe sono un quartetto barese che ha pubblicato online il primo demo il, disponibile in download libero nel loro bandcamp.

Ciò che stupisce di più in questo do è solo l’inizio. Il loro suono si compone di moltissime cose, tra cui il black metal più etereo e meno convenzionale, infatti una loro canzone si intitola A Forest Of Stars, chiaro riferimento al magnifico gruppo inglese. Come definizione del loro genere si potrebbe parlare di post black metal, ma è davvero riduttivo. Ci sono momenti di grande creatività, invenzioni sonore di grande spessore, e grazie alla musica acquista valore anche il non detto, silenzi che fanno scaturire poi note bellissime. I quattro respirano allo stesso modo, l’affiatamento è notevole, le canzoni sono quasi tutte di lunga durata e dimostrano notevole capacità compositiva, così come quella di cambiare registro più volte nel corso della stessa canzone che è propria solo di chi volge lo sguardo al cielo che sta sopra di noi. La produzione è ancora da saletta prove, ma ciò non è assolutamente un problema, fa anzi parte del fascino di questo gruppo. Non è facile né consueto trovare una band che abbia una vastità tale al suo interno, partendo da una certa tradizione underground italiana per spaziare in territori che non sono consueti per le nostre latitudini, il tutto in maniera personale, urgente ed impetuosa. Anche gli errori aggiungono bellezza al tutto. Un fuoco che arde con passione, un demo molto prezioso e che potrebbe essere l’inizio di qualcosa di grande, perché qui c’è davvero moltissimo.

Tracklist
1.Intro
2.The Dead
3.Tears of a Careful Graverobber
4.Letters
5.Interlude
6.A Forest of Stars (pt.1 – The Rise; pt. 2 – The Fall)
7.Per Anna
8.The Knight That is Not
9.Outro

Line-up
Antonio – Rythm Guitars
Francesco – Bass
Wizard – Harsh Vocals
Giovanni – Clean and Harsh Vocals
Ermanno – Drums
Michele – Lead Guitar

SYMPTOMS OF THE UNIVERSE – Facebook

Slugdge – Esoteric Malacology

Cover straniante e titolo misterioso ci fanno scoprire un duo albionico,capace di sfregiare la materia death con mille influenze,per un risultato vibrante e multiforme.

Il circuito underground, lo sappiamo, è infinito e inarrestabile nelle sue uscite e chiaramente è impossibile riuscire a dragarlo sempre con efficacia e piacere; fino a qualche tempo fa non sapevo neanche dell’ esistenza di questo gruppo, ora un duo, che ci propone con il suo quarto album un incendiario death miscelato con sludge, qualcosa di black e mille altre influenze.

Poco più che trentenni, i due musicisti dimostrano una notevole preparazione tecnica e una ispirazione di livello superiore che copre interamente gli abbondanti cinquanta minuti del nuovo Esoteric Malacology dedito alla celebrazione della malacologia (ramo della zoologia che studia la vita dei molluschi); un lato ironico e divertente è presente anche nei titoli del platter, ma la musica che ne fuoriesce dimostra invece una potenza e fluidità invidiabile. L’attacco killer di War Squids è vibrante, dimostra una notevole tecnica sempre al servizio di un suono che fuoriesce fluido ed entusiasmante, per un brano che rappresenta nel suo sviluppo cangiante un perfetto opener per un disco che svelerà nel corso dei brani di essere abbastanza imprevedibile. Un gusto melodico particolare caratterizza ogni brano, mantenendo sempre alta la tensione, gli intrecci chitarristici sono martellanti e complessi, il “core” è sempre death ma circondato e ampliato da molteplici influenze che si amalgamano senza forzature. Le note di basso insinuanti e ipnotiche di Crop Killer ci ricordano a quanto fatto da Les Claypool con i suoi Primus, le vocals in alternanza con il growl danno un fascino misterioso al brano che si dimostra avventuroso e dal grande impatto. Veramente non si sa cosa aspettarsi di brano in brano, gli ingredienti sono noti ma la grande fluidità con cui sono usati è sempre al servizio di songs compatte, inarrestabili e coinvolgenti. Tecnica ai massimi livelli, riff ora cerebrali ora più viscerali costruiscono brani di tech prog death impattanti come The Spectral Burrows. Fiumi in piena come Slave Goo World ci trascinano in gorghi caotici, dove non si riesce a respirare, mentre la ritmica martellante e precisa si conficca nei nostri gangli neuronali fino a sfibrarli. Otto brani lunghi nei quali la band, di origine albionica, non teme cali di ispirazione e riesce con veemenza e precisione a definire il proprio suono; la splendida e misteriosa Salt Thrower con il suo andamento appena più pacato sublima l’essenza del loro suono, immergendosi in territori sognanti prima di esplodere in intricati passaggi strumentali. Opera notevole e meritevole di attenzione anche recuperando The Cosmic Cornucopia, box contenente le tre precedenti opere.

Tracklist
1. War Squids
2. Crop Killer
3. The Spectral Burrows
4. Slave Goo World
5. Transilvanian Fungus
6. Putrid Fairytale
7. Salt Thrower
8. Limo Vincit Omnia

Line-up
Kev Pearson – Guitars
Matt Moss – Vocals

SLUGDGE – Facebook

Grimaze – Planet Grimaze

Planet Grimaze è un debordante e monolitico lavoro che non lascia spazio a scorciatoie per facilitare l’ascolto, ma che come un carro armato avanza senza fermarsi davanti a nulla travolgendo e triturando ogni cosa senza pietà.

Picchiano come se non ci fosse un domani i Grimaze, band proveniente da Sofia ed attiva da una manciata d’anni, con un ep omonimo alle spalle licenziato nel 2016.

Interessante e pesantissima, la proposta dei bulgari unisce impatto groove e attitudine brutal risultando un monolitico esempio di metal estremo moderno ma legato indissolubilmente alla tradizione.
In poche parole la band ci travolge con pesantissime porzioni di groove metal rese ancora più violente ed estreme da iniezioni di death/thrash spaventosamente brutali.
Un suono magmatico ed impastato fa il resto e Planet Grimaze risulta così un lavoro non facile da digerire se non si è in sintonia con queste sonorità.
Atmosfera che rimane di estrema tensione, riff debordanti e ritmiche pregne di groove del più possente, nonché un growl al limite del brutal sono le caratteristiche che allontanano il sound di Planet Grimaze dalle solite band groove metal da classifica, risultando figlio di un’attitudine brutalmente estrema.
Facendo pensare a Pantera e Gojira alle prese in una jam violentissima con Asphyx e Gorguts, Planet Grimaze è un debordante e monolitico lavoro che non lascia spazio a scorciatoie per facilitare l’ascolto, ma che come un carro armato avanza senza fermarsi davanti a nulla travolgendo e triturando ogni cosa senza pietà.

Tracklist
1.Endless Life Force
2.Inner Engineering
3.Survival of the Fittest
4.Scars
5.Disobey the Primitive
6.Face of the North
7.8000 Meters
8.Bleeding Earth
9.My Vow

Line-up
Nedislav Miladinov – Drums
Melina Krumova – Guitar
Pavel Krumov – Vocals
Anton Dimitrov – Bass

GRIMAZE – Facebook

S.R.L. – Hic Sunt Leones

Hic Sunt Leones si rivela un album pesantissimo ma valorizzato da passaggi strumentali che entrano nell’ascoltatore come lame affilatissime: premere nuovamente il tasto play alla fine dell’outro Omne Ignotum Pro Magnifico diventerà una consolidata abitudine.

Dopo la firma con Rockshots Records è giunto il momento per gli ormai storici thrashers S.R.L. di licenziare un nuovo lavoro, intitolato Hic Sunt Leones (motto usato nell’antica Roma e che indicava i luoghi inesplorati e non ancora conquistati).

Il gruppo umbro arriva così al quarto full length di una discografia iniziata nel 1995 con il primo demo e completata da una manciata di ep, sempre nel segno di un roccioso death/thrash cantato in lingua madre.
Anche per questo nuovo lavoro, la Società a Responsabilità Limitata (monicker che si rifà alle grandi prog rock band italiane degli anni ’70) ci va giù pesante con undici nuove scariche adrenaliniche di metal estremo ben prodotto, attraversato da un’attitudine heavy che permette al gruppo di ricamare le proprie cavalcate con grandi melodie che vivono in simbiosi con la parte più violenta del sound.
Ne esce una raccolta di brani interessanti, decifrabili nel loro impatto estremo grazie ad un lavoro chitarristico di prim’ordine, una sezione ritmica rocciosa e un ottimo uso delle linee vocali, dal growl più profondo allo scream.
Il Museo delle Cere, Rimarremo Da Soli, la tempesta thrash di Demoni, il riff del mid tempo Di Luna e Deserto, brano di stampo melodic death e il terremoto creato dalla devastante Vertigine sono i momenti topici di quest’opera che non ha un momento di pausa, investendoci con una serie micidiale di diretti, puntando a fare male pur mantenendo le redini di questo purosangue metallico ben salde.
Hic Sunt Leones si rivela così un album pesantissimo ma valorizzato da passaggi strumentali che entrano nell’ascoltatore come lame affilatissime: premere nuovamente il tasto play alla fine dell’outro Omne Ignotum Pro Magnifico diventerà una consolidata abitudine.

Tracklist
01. Il Culto
02. Il Museo delle Cere
03. Tenebre
04. Rimarremo da Soli
05. Demoni
06. Un Sasso nel Vuoto
07. Di Luna e Deserto
08. Vertigine
09. L’uomo Senza Volto
10. Mezzanotte
11. Omne Ignotum Pro Magnifico

Line-up
Jerico Biagiotti – Bass
Rodolfo “RawDeath” Ridolfi – Drums
Cristiano “Alcio” Alcini – Guitars
Stefano Clementini – Guitars
Francesco “Khaynn” Bacaro – Vocals

S.R.L. – Facebook

Season Of Ghosts – A Leap Of Faith

I Season Of Ghost fanno un disco che potrebbe essere la colonna sonora di un anime, ma è anche molto di più. A Leap Of Faith è energia e voglia di confrontarsi con tutto ciò che sta là fuori, sapendo che non è per nulla facile.

I Season Of Ghosts sono un gruppo diviso fra Giappone ed Inghilterra, fautori di un modern metal molto melodico e con innesti di elettronica, il tutto con la bella impronta della voce di Sophia Aslanides, calda e potente.

Il suono del gruppo è fortemente improntato alla modernità e spazza via i vecchi schemi, dato che è una fusione tra metal ed elettronica, con una grande attenzione per la melodia. Il risultato è un qualcosa di molto accattivante e trasversale che potrà piacere a chi ama le sonorità più dure e anche a chi ama la melodia di qualità. Come secondo disco sulla lunga distanza A Leap Of Faith ha un’evoluzione costante e continua, aiutato da una capacità tecnica al di sopra della media e dalla voce di una cantante molto brava. Come dicono loro stessi ci sono moltissime cose qui dentro, dal visual kei giapponese, ovvero anime e velocità, al metal europeo e a quello americano più orecchiabile. I ragazzi non si pongono limiti, hanno capacità compositive e di esecuzione e le mettono in campo, producendo un disco piacevole e vario, pieno di azione ma anche di sentimenti. Dentro questo lavoro ci sono molte cose, dalle percezioni più comuni a quelle che solo i giovani di queste generazioni riescono a cogliere in maniera molto più adeguata rispetto a noi. Molto importante è il ruolo rivestito dall’elettronica, che è una delle colonne portanti del disco, così come l’immaginario giapponese: in quella terra gruppi come questo destano sempre molta attenzione, sia perché intercettano i gusti dei giovani, sia perché sono profondamente infusi della filosofia nipponica riguardo il suono e l’immagine. I Season Of Ghosts fanno un disco che potrebbe essere la colonna sonora di un anime, ma è anche molto di più. A Leap Of Faith è energia e voglia di confrontarsi con tutto ciò che sta là fuori, sapendo che non è per nulla facile. Freschezza ed un suono di vero metal moderno.

Tracklist
1. The Road so Far
2. A Place to Call Home
3. Astero (Id)
4. Listen
5. A Leap of Faith
6. How the Story Ends
7. Almost Human
8. What a Time to Be Alive
9. You Are Not Your Pain
10. Listen (To This) [Fatal Fe Remix]

Line-up
Sophia Aslanides – vocals, songwriting, total production
Zombie Sam – guitar
Paul Dark Brown – bass
Max Buell – drums

SEASON OF GHOSTS – Facebook

Piah Mater – The Wandering Daughter

The Wandering Daughter si specchia nelle marcate influenze del gruppo che però sa come emozionare l’ascoltatore, con cascate di note progressive che passano dal metal estremo di marca death/black a lunghe parti atmosferiche, colorate di quelle oscure sfumature dark che i Piah Mater sanno ricamare.

I progsters brasiliani Piah Mater licenziano il loro secondo lavoro, altro splendido esempio di metal estremo progressivo sulla scia di quanto hanno fatto a suo tempo gli Opeth, specialmente nella prima fase della loro carriera.

Un’influenza scomoda quella della band di Mikael Akerfeldt, anche perché il terzetto verdeoro non fa nulla per nascondere la sua totale devozione per il gruppo svedese, dettaglio che per molti sarà sicuramente un limite, superato comunque dalla bellezza di questi sei brani che compongono The Wandering Daughter.
Il gruppo capitanato dal cantante, bassista e chitarrista Liuz Felipe Netto, con Igor Meira alla chitarra e Kalki Avatara alla batteria, regala un successore a Memories Of Inexistence uscito quattro anni fa, un altro lavoro di death/black metal progressivo e dalle atmosfere post rock, intrise di melanconiche sfumature dark, magari fin troppo dipendente dal sound della storica band scandinava, ma in grado di risvegliare emozioni sopite agli amanti del genere.
L’album nel suo piccolo farà discutere, specialmente chi deciderà di non premiare l’alta qualità delle composizioni a causa di una scarsa originalità che a mio parere non inficia la bellezza dell’opera nel suo insieme.
The Wandering Daughter si specchia nelle marcate influenze del gruppo che però sa come emozionare l’ascoltatore, con cascate di note progressive che passano dal metal estremo di marca death/black a lunghe parti atmosferiche, colorate di quelle oscure sfumature dark che i Piah Mater sanno ricamare.
Sei lunghi brani per quasi un’ora di musica, un ottimo uso della voce pulita (dettaglio non così scontato) e almeno tre brani che risultano delle jam prog/death di assoluto valore (Solace In Oblivion, Earthbound Ruins e la conclusiva The Meek’s Inheritance), fanno di The Wandering Daughter un album imperdibile per i fans degli Opeth e per chi non si ferma davanti al superabilissimo ostacolo della poca originalità.

Tracklist
1.Hyster
2.Solace in Oblivion
3.Sprung From Weakness
4.The Sky is Our Shelter
5.Earthbound Ruins
6.The Meek’s Inheritance

Line-up
Igor Meira – Guitars
Luiz Felipe Netto – Vocals, Guitars, Bass, Programming
Kalki Avatara – Drums

PIAH MATER – Facebook

Autori Vari – Mister Folk Compilation Vol. VI

Un viaggio che vi regalerà immense sorprese, una meravigliosa porta per entrate in un reame fantastico e tutto da esplorare con ripetuti e compulsivi ascolti, guidati dalle ottime scelte di un ragazzo come Fabrizo che con passione e competenza ama l’underground e lo fa conoscere attraverso la sua webzine e con queste magnifiche raccolte in download libero.

Come ogni anno torna la raccolta del miglior sito italiano di folk e viking metal in Italia, misterfolk.com, gestito dall’infaticabile Fabrizio Giosuè, autore anche dei fondamentali testi Folk Metal e Tolkien Rocks.

Siamo arrivati al sesto episodio, e i precedenti cinque erano davvero validi, oltre che essere in download libero allo scopo di valorizzare e far conoscere il validissimo sommerso di questi due sottogeneri del metal. In questa raccolta si possono ascoltare brani di gruppi di elevata qualità e sarebbe ingiusto citarne uno in particolare; allora ecco qui la lista completa con le loro nazionalità: Heidra (DK), Dyrnwyn (ITA), Bucovina (RO), Kanseil (ITA), Nebelhorn (D), Calico Jack (ITA), Alvenrad (NL), Storm Kvlt (D), Sechem (SPA), Bloodshed Walhalla (ITA), Ash Of Ash (D), Draugul (M), Evendim (ITA), Duir (ITA), Aexylium (ITA), Kaatarakt (CH), Balt Huttar (ITA), Moksh (IND).
Fra questi nomi ci sono formazioni che abbiamo già ascoltato e recensito su queste pagine, e altre che saranno ottime e gradite scoperte. La compilation racchiude in sé lo spirito della webzine, ovvero ricercare le perle nascoste di folk e viking metal, descrivendo l’ottimo momento che stanno attraversando. In molti luoghi, e forse anche vicino a voi, ci sono giovani e meno giovani che stanno compiendo un viaggio molto interessante attraverso sonorità e tematiche che si rifanno al passato, che non sono mero escapismo ma la ricerca di un qualcosa che si possa narrare con il metal come punto cardinale. Questi suoni sono caldi, coinvolgenti, belli e colpiscono al cuore, distogliendoci dalla modernità e riportandoci in un luogo che la nostra anima già conosce, senza negare le asperità di un passato che è comune. Musicalmente la compilation presenta una ricchezza non scontata e come i cinque episodi precedenti è di alto livello, ma questo sesto episodio rende chiaro che la maturità di questi sottogeneri sta producendo autentici capolavori, sia dal punto di vista della composizione e dell’esecuzione sia del pathos. Con questo regalo di Mister Folk si può spaziare da covi di pirati all’Antico Egitto, da villaggi delle valli del Nord Italia all’Isola di Smeraldo, da campi di battaglia dove svetta l’aquila romana fino alla remota India. Un viaggio che vi regalerà immense sorprese, una meravigliosa porta per entrate in un reame fantastico e tutto da esplorare con ripetuti e compulsivi ascolti, guidati dalle ottime scelte di un ragazzo come Fabrizio che, con passione e competenza, ama l’underground e lo fa conoscere attraverso la sua webzine e con queste magnifiche raccolte in download libero. Una menzione speciale per il bellissimo e consueto artwork di Elisa Urbinati, sempre molto elegante ed minimalmente affascinante.

MISTER FOLK – Facebook

MISTER FOLK COMPILATION Vol. VI

Ichor – Hadal Ascending

Gli Ichor danno vita ad un lavoro più che sufficiente per solleticare i palati dei deathsters sempre a caccia di mostruose entità nell’underground metallico mondiale.

Nel profondo degli abissi si aggira una creatura mostruosa, terrificante sovrana del buio e del silenzio, temibile e temuta da chi si avventura in un mondo sconosciuto come quello delle profondità marine.

Ichor è la bestia death metal che stazionerà nei vostri incubi, animata da una band attiva da una decina d’anni e arrivata al quarto full length.
Il mare ed il suo lato più misterioso fanno da ispirazione al gruppo tedesco per quello che è un buon esempio di metal estremo, tra sonorità classiche e potenza deathcore confluite in una quarantina di minuti in cui veniamo soffocati da una coltre di lava doom, come se un vulcano sommerso cominciasse ad eruttare l’inferno.
Potentissimo e a tratti monolitico, Hadal Ascending alterna mitragliate velocissime a rallentamenti atmosferici e marziali mid tempo, lasciando comunque che l’ascoltatore mantenga l’attenzione, sballottato come in una burrasca prima che affondi e l’abisso lo inghiotta.
La band dà il meglio di sé quando usa le carte atmosferiche a sua disposizione e i brani si susseguono permeati di un’opprimente aura epica e terrorizzante, ben evidenziata tra le note di In Ecstasy, Black Dragons e le due tracce che concludono l’opera, Children Of The Sea e Conquering The Stars.
Promossi e consigliati agli amanti del metal estremo di stampo death, gli Ichor danno vita ad un lavoro più che sufficiente per solleticare i palati dei deathsters sempre a caccia di mostruose entità nell’underground metallico mondiale.

Tracklist
1.Paradise Or Perdition
2.Tales From The Depths
3.Black Incantation
4.In Ecstasy
5.A Glowing In The dark
6.Black Dragons
7.Architect Of The Pportal
8.The march
9.Children Of The Sea
10.Conquering The Stars

Line-up
Norb – Bass
Dirk – Drums
Daniel – Guitars
Jo – Guitars
Eric – Vocals

ICHOR – Facebook

Dødsferd – Diseased Remnants of a Dying World

Diseased Remnants of a Dying World finisce per risultare in lavoro decisamente gradevole, tra momenti di grande spessore, con intuizioni melodiche non banali, ed altri non disprezzabili ma molto meno incisivi.

I Dødsferd sono una band tra le più esperte nonché prolifiche della scena black ellenica.

Nel corso di una carriera iniziata nei primi anni del secolo, il gruppo, sempre guidato dal fondatore Wrath, ha cercato di esplorare le diverse sfaccettature del genere con risultati alterni e in fondo questi decimo full length è a suo modo l’emblema dell’attuale status dei Dødsferd, in costante bilico tra i canoni del genere e pulsioni post rock e post metal:
la varietà stilistica non sempre paga gli stessi dividendi perché spesso, a fronte di una gradita imprevedibilità, finisce per emergere a tratti un senso di frammentarietà.
Al riguardo, un ottimo brano come la title track sembra quasi essere un episodio a sé stante, pur ricollegabile comunque alla sognante opener My Father, My Wrath! più che al diretto black di An Existence Without Purpose  e agli spunti depressive di Loyal to the Black Oath, per non parlare della disturbante ambient della conclusiva Back to My Homeland… My Last Breath.
Alla luce di tutto questo, Diseased Remnants of a Dying World finisce per risultare in lavoro decisamente gradevole, tra momenti di grande spessore, con intuizioni melodiche non banali, ed altri non disprezzabili ma molto meno incisivi.
Non ci sarebbe niente di male se tutto ciò fosse offerto da una band di conio più recente, ma il fatto che un un gruppo di tale esperienza dia la sensazione d’essere ancora alla ricerca di una fisionomia più definita qualche perplessità finisce per lasciarla.

Tracklist:
1. My Father, My Wrath!
2. An Existence Without Purpose
3. Diseased Remnants of a Dying World
4. Loyal to the Black Oath
5. Back to My Homeland… My Last Breath

Line-up:
Wrath – All vocals, rhythm and lead guitars
Neptunus – Bass
Setesh – Rhythm and lead guitars, solos, acoustic guitar

DODSFERD – Facebook

Give Up The Ghost – Before Heading Home

Un ep convincente, con sei brani che ci presentano un gruppo da tenere d’occhio, visti i margini di miglioramento e le strade non così scontate che potrebbero essere percorse in futuro.

Melodic death o metalcore?’

Per quanto riguarda il primo lavoro dei riminesi Give Up The Ghost la verità sta nel mezzo, nel senso che il loro sound risulta personale e meritevole di attenzione, amalgamando sagacemente death melodico, gothic e metalcore.
Before Heading Home è il loro primo ep, uscito sul finire dello scorso anno e composto da sei brani, con l’apertura lasciata ad Archetype, canzone scelta come singolo e che è il sunto di quello che si ascolterà nel proseguo.
Licenziato dalla Volcano Records, l’album è stato realizzato nell’arco di due anni e si sofferma a livello lirico sul periodo che intercorre tra la fine di un viaggio ed il ritorno a casa.
Una voce femminile duetta con il growl, che conferisce un’anima gothic ai brani, mentre la band passa agevolmente tra ritmiche più tirate e di matrice death a mid tempo che si rifanno al metal più moderno: le orchestrazioni hanno la loro importanza, ma non sono invadenti così come le divagazioni folk delle splendide Zwbriwska e Voluspa, tracce che concludono ottimamente il lavoro.
Un ep convincente, con sei brani che ci presentano un gruppo da tenere d’occhio, visti i margini di miglioramento e le strade non così scontate che potrebbero essere percorse in futuro.

Tracklist
1. Archetype
2. The Longest Dive
3. The Barbaric Way
4. Ding Dong Song
5. Zwbriwska
6. Voluspa

Line-up
Christopher Mondaini – Vocals
Thomas Gualtieri – Keyboards
Michele Vasi – Guitar
William Imola – Guitar
Lodovico Venturelli – Bass
Yann Gualtieri – Drums

Rolando Ferro – Drums

GIVE UP THE GHOST – Facebook/

Vetrarnott – Scion

Scion è una prova molto convincente per una band che ha operato una scelta importante in maniera consapevole e ci riserverà ancora black metal di ottima fattura sui miti italici, per cui speriamo presto di avere un nuovo disco sulla lunga distanza dei Vetrarnott.

Black metal classico e molto ben suonato per gli italiani Vetrarnott.

Questo ep è stato concepito come omaggio alla scena black metal del nord Europa, sia della prima che della seconda ondata. Inoltre il disco è anche una descrizione musicale della storia mitica dei tre figli di Loki e Angrboða. Quest’ultima era una gigantessa, il cui nome significa colei che porta tristezza, che si unì con Loki, nato dall’unione di un gigante e di una gigantessa: dalla loro unione nacque il lupo Fenrir, che avrà un ruolo importante nel Ragnarok, il dies irae nordico. Scion, tra le altre cose, significa anche discendente di una nobile stirpe. Infatti i Vetrarnott sono tre musicisti che hanno inciso tre canzoni di black metal come altrettanti omaggi al black metal e alla cultura nordica perché, come dice il fondatore Gar Ulfr, questo ep segna un passaggio molto importante nella storia del gruppo in quanto segna il distacco dai temi nordici per arrivare a cantare dei miti italici, come nella quarta canzone, la bonus track La Voce Degli Dei. Questa canzone è è un ottimo inizio per la nuova fase del gruppo e il cantato nella nostra lingua valorizza ulteriormente il valido black metal del gruppo pugliese. L’ep Scion è un’ottima prova per una band che ci propone musica di ottima fattura, con dichiarata preferenza per il black scandinavo, specialmente quello della seconda ondata. Tutto è molto intelligibile e fatto con ottime scelte, troviamo anche momenti meno veloci che sono utili per rafforzare ulteriormente una struttura già buona. I Vetrarnott sono uno di quei non comunissimi gruppi che hanno compenetrato alla perfezione la materia, ovvero sono riusciti a cogliere il lato più musicale e creativo del black, e ne hanno tratto una versione tutta loro e molto originale, che qui giunge al massimo compimento. Anche con l’uso dell’inglese il risultato è ovviamente molto buono. Una delle peculiarità del gruppo è un incedere sì violento e deciso, che è però al contempo anche sognante ed arioso. Scion è una prova molto convincente per una band che ha operato una scelta importante in maniera consapevole e ci riserverà ancora black metal di ottima fattura sui miti italici, per cui speriamo presto di avere un nuovo disco sulla lunga distanza dei Vetrarnott.

Tracklist
1.The Tide
2.Unbound
3.Helvegr
4. La Voce Degli Dei (bonus track)

Line-up
Gar Ulf – Vocals, Bass, Keys, Programming
Valar – Lead & Solo Guitars
Osculum – Rhythm & Acoustic Guitars
Ambrogio L – Live Drums

VETRARNOTT – Facebook

Ferum – Vergence

Per i Ferum, Vergence rappresenta un primo passo ineccepibile e quindi una base ideale per costruire qualcosa di ancora più interessante e consistente in futuro.

L’esibizione in musica del dolore e del disagio può avvenire in maniere diverse, certo è che che il metal offre in tal senso diverse ed efficaci gamme: quella scelta dagli esordienti Ferum è un death doom corrosivo e decisamente avaro di slanci melodici.

La band ha la sua base a Bologna ed e stata fondata da Samantha, la quale si disimpegna alla voce e alla chitarra, oltre ad essere autrice di tutte le musiche, e da Angelica (batteria), raggiunte in seguito da Matteo al basso.
Il growl è aspro ed efferato più che profondo, come è sovente quello femminile, e si adegua ottimamente ad un sound volto ad esprimere la giusta dose di rabbia e disgusto; la componente death è prevalente nel suo rappresentare la frangia più morbosa e putrida del genere, con i rallentamenti di matrice doom che giungono puntuali a conferire quel pizzico di varietà sotto forma di cambi di tempo.
Così quest’opera prima dei Ferum lascia buone impressioni, in virtù di una convinzione ed una chiarezza d’intenti che non sono sempre facilmente riscontrabili: dei cinque brani offerti, i primi tre si snodano in maniera uniforme, mentre il quarto, decisamente più cadenzato, è l’efficace cover di Funeral, traccia che segnò l’esordio nel 1990 degli storici statunitensi Cianide.
Chiude l’ep Ed È Subito Sera, brano che riprende liricamente la breve poesia di Quasimodo: anche in questo caso il trio brilla per il suo sound essenziale e coinvolgente che si apre a tratti, questa volta. anche melodicamente andando a lambire lidi black metal.
Per i Ferum, Vergence rappresenta un primo passo ineccepibile e quindi una base ideale per costruire qualcosa di ancora più interessante e consistente in futuro.

Tracklist:
1. Siege Of Carnality
2. Perpetual Distrust
3. Subcoscious Annihilation
4. Funeral (Cianide cover)
5. Ed È Subito Sera (Outro)

Line-up:
Angelica: drums
Samantha: guitars, vocals
Matteo: bass

FERUM – Facebook

Soilwork – Verkligheten

I Soilwork odierni sono un gruppo che si è saputo ricostruire un’identità artistica album dopo album, pagando qualcosa sotto forma di un paio di passaggi a vuoto, ma ora libero di esprimersi nel modo più congeniale.

Nati con qualche anno di ritardo rispetto ad In Flames, Dark Tranquillity e altre icone del death metal melodico nord europeo, i Soilwork si sono ritrovati a regnare sul genere, dopo qualche piccolo passo falso ma con una costanza che li ha portati all’undicesimo lavoro sulla lunga distanza ed una discografia che si completa con live, compilation ed ep a getto continuo.

I Soilwork targati 2019 non sono più quelli dei primi quattro album, tra il 1998 ed il 2002 artefici di un’immissione di aria fresca nel genere, restando fedeli ad una formula da cui si errano ormai allontanati i loro colleghi.
Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, nel frattempo il leader maximum Speed Strid, ha avuto il tempo di sperimentare nuove soluzioni melodiche con gli imperdibili The Night Flight Orchestra, nuove ovviamente per chi si è sempre nutrito solo di metal estremo, ma famigliari per i reduci del pop rock settanta/ottanta.
Da qui si parte inevitabilmente per descrivere questo nuovo album intitolato Verkligheten, un’opera che farà sicuramente discutere per la sua accentuata impronta melodica che molto deve appunto al sound dei The Night Flight Orchestra, ma che rimane legato comunque ed indissolubilmente all’ormai storico genere creato nei primi anni novanta nella penisola scandinava.
Non manca la novità in sede di line up, con Bastian Thusgaard che si siede dietro al drumkit al posto dello storico Dirk Verbeuren, passato alla corte di Dave Mustaine.
Verkligheten, come avrete capito, è un album in cui le melodie di stampo hard rock diventano le assolute protagoniste, prendendo il sopravvento sull’anima death metal del gruppo; Strid, sempre più leader incontrastato, è protagonista di una prova eccezionale e questo la dice lunga su quello che troverete in queste dodici tracce, visto che il canto pulito domina sullo scream in tutto l’album.
Musicalmente la band picchia come sa, ma solo a tratti, il resto è costruito sulla dote che il cantante si porta dietro dai The Night Flight Orchestra, una virtù che porta il nuovo lavoro a risultare fresco, straordinario per quanto riguarda refrain, chorus ed arrangiamenti ed assolutamente irresistibile.
Un album che ovviamente non piacerà ai fans del sound che come una tempesta attraversa gli anni a cavallo del nuovo millennio, ma è indubbio che When The Universe Spoke, Stålfågel, Witan e The Ageless Whisper risultino tracce dal tiro micidiale e dall’appeal davvero micidiale.
I Soilwork odierni sono un gruppo che si è saputo ricostruire un’identità artistica album dopo album, pagando qualcosa sotto forma di un paio di passaggi a vuoto, ma ora libero di esprimersi nel modo più congeniale.

Tracklist
1.Verkligheten
2.Arrival
3.Bleeder Despoiler
4.Full Moon Shoals
5.The Nurturing Glance
6.When the Universe Spoke
7.Stålfågel
8.The Wolves Are Back in Town
9.Witan
10.The Ageless Whisper
11.Needles and Kin
12.You Aquiver

Line-up
Björn “Speed” Strid – Vocals
Sven Karlsson – Keyboards
Sylvain Coudret – Guitars
David Andersson – Guitars
Bastian Thusgaard – Drums

SOILWORK – Facebook