Slaegt – The Wheel

Un disco ispirato e oscuro ma oltremodo pervaso da melodie classiche, con un gran lavoro chitarristico (l’anima heavy) e ritmico (quella black), The Wheel è sicuramente influenzato dalla scena ottantiana ma risulta abbastanza personale per non sprofondare nelle sabbie mobili del già sentito.

Gli Slaegt propongono un buon ibrido composto da sonorità heavy ed impatto black metal, creando un sound in cui le due anime si scontrano per la supremazia di una sull’altra senza che però ci sia realmente un vincitore.

L’idea è buona, ovviamente il sound appartiene a quel filone old school che si rifà al metal anni ottanta, anche se la band danese lascia ad altri il thrash alla Slayer di tanti colleghi e ci investe con il suo black metal valorizzato da chitarre heavy classiche.
Gli Slaegt sono attivi dal 2011 e questo The Wheel è il terzo lavoro sulla lunga distanza, successore di Domus Mysterium, licenziato lo scorso anno, quindi la band è in una buona fase creativa confermata da questi sette lunghi brani.
Ritmiche black, scream cattivo e chitarre disegnano solos metallici di buona fattura, tracce medio lunghe si rivelano cavalcate epiche come da tradizione hard & heavy, ispirate alla new wave of british heavy metal, mentre il demone black si impossessa dell’anima travagliata del sound di brani come Masician, Citrina e la conclusiva title track.
Un disco ispirato e oscuro ma oltremodo pervaso da melodie classiche, con un gran lavoro chitarristico (l’anima heavy) e ritmico (quella black), The Wheel è sicuramente influenzato dalla scena ottantiana ma risulta abbastanza personale per non sprofondare nelle sabbie mobili del già sentito.

Tracklist
1. Being Born (Is Going Blind)
2. Masician
3. Perfume and Steel
4. Citrinitas
5. V.W.A.
6. Gauntlet of Lovers
7. The Wheel

Line-up
Oskar J. Frederiksen: Lead vocals and rhythm guitar
Anders M. Jørgensen: Lead guitar
Olle Bergholz: Bass guitar and backing vocals
Adam ‘CC’ Nielsen: Drums

SLAEGT – Facebook

Red Riot – Seek! Kill! Burn!

Seek! Kill! Burn! è una raccolta di brani travolgenti, grazie ad una forza senza pari in un genere che nell’underground trova in questi anni nuova e potente linfa e in cui i Red Riot, assieme ai finlandesi Tornado, si dimostrano una delle più convincenti realtà.

Il primo ep Fight, uscito un paio di anni fa, la diceva lunga sull’attitudine dei Red Riot e sull’impatto del loro sound, con tre brani di esplosivo street metal dalla forte connotazione glam e dall’impatto di un thrash/punk scagliato sulla scena metal underground.

Il tutto viene confermato da Seek! Kill! Burn!, debutto sulla lunga distanza che miete vittime come un mitragliatore sul campo di battaglia, una raccolta di brani senza respiro, sguaiati come d’ordinanza nel genere, diretti e con quell’anima rock ‘n’ roll che è il motore di ogni band sleazy/street metal che si rispetti.
Se poi, come nel caso di J.J. Riot, Lexy Riot e compagni, aggiungiamo scariche thrash/punk a ribadire che con i Red Riot non si scherza e ci si può fare male, allora va da se che Seek! Kill! Burn! risulta un deflagrante esempio di Thrashin’ Sleaze Metal (come lo chiamano loro).
Attitude, oltre che l’opener, è una convincente dichiarazione d’intenti, una partenza che avviene sgommando sullo spartito toccando picchi di indiavolato rock ‘n’ roll che, se continua ad ispirarsi a ormai vecchi capolavori persi nella storia del genere (il primo L.A.Guns su tutti), non manca di quella attuale predisposizione al genere che lascia aperte finestre dalle quali entrano note di Beautiful Creatures e Backyard Babies, il tutto in salsa thrash/punk.
Squealers e Who We Are sono i due brani già apparsi sul primo ep e formano con tutti gli altri una raccolta di brani travolgenti, grazie ad una forza senza pari in un genere che nell’underground trova in questi anni nuova e potente linfa e in cui i Red Riot, assieme ai finlandesi Tornado, si dimostrano una delle più convincenti realtà.

Tracklist
1. Attitude
2. H.I.P.S.T.E.R.
3. Rise Or Fall
4. Rippin’ Money
5. Child Of Steel
6. Bang Your Head
7. Squealers
8. BlowTill’ You Drop
9. Sleazy Life
10. Who We Are

Line-up
Fred Riot – Vocals
Max Power – Guitars
J.J. Riot – Guitars
Lexy Riot – Bass
ScaR – Drums

RED RIOT – Facebook

E.G.O.C.I.D.E. – Cheap Existentialism And Other Rhetorical Bullshits No One Wants To Hear Anymore

L’album è un diretto in pieno volto composto da quattordici mazzate, per una mezz’ora che induce ad un headbanger selvaggio, ora sviluppato lungo brani hardcore/punk, ora potenziato da violente ripartenze thrash per un sound che trova la sua collocazione naturale in sede live.

Dopo l’ep What Price For Freedom? licenziato lo scorso anno, arrivano al traguardo del primo full length gli E.G.O.C.I.D.E., fautori di un grintoso, diretto e devastante hardcore metal.

Rabbia, sudore, sangue e passione scrive la band sulla sua biografia, e di questi elementi sul nuovo lavoro (Cheap Existentialism And Other Rhetorical Bullshits No One Wants To Hear Anymore) ne troverete a vagonate, caratteristiche di un’attitudine hardcore/punk che ricorda la scena statunitense, ma che trova le sue radici anche sul territorio nazionale.
L’album è un diretto in pieno volto composto da quattordici mazzate, per una mezz’ora che induce ad un headbanging selvaggio, ora sviluppato lungo brani hardcore/punk, ora potenziato da violente ripartenze thrash per un sound che trova la sua collocazione naturale in sede live.
Ottima l’idea di alternare brani in inglese ed altri in lingua madre e perfetto il cantato, un rabbioso urlo di guerra hardcore metal volto a sottolineare ribellione e disagio.
Una buona prova che conferma le lodi ricevute dalla band bresciana con il precedente lavoro.

Tracklist
1.N.B.M. (Naked Burnt Menace)
2.Neurose
3.Nudo (Tra Le Mine Antiuomo)
4.Grigio
5.-1 = +1 / One Less Is One More
6.Melanchony
7.Steadfast
8.Take Care Of Business
9.Niente Illusioni
10.Discordia
11.Hexed & Gone
12.The Mother Of Tears
13.Endless War
14.Vivisection (Another Kind Of…)

Line-up
Alex – Vocals/Lyrics
Gab – Guitar/Choruses
Andrea – Bass/Choruses
Nico – Drums/Choruses

E.G.O.C.I.D.E. – Facebook

Beyond Creation – Algorythm

Il quartetto dà alle stampe un lavoro molto interessante, cercando la giusta via di mezzo tra lo sfoggio tecnico ed il songwriting che, valorizzato da una parte progressiva sempre legata a quella estrema, dà vita ad un’ora di musica di ottimo livello per il genere suonato.

Se pensate di mettervi all’ascolto di questo bellissimo lavoro con la chimera di trovarvi al cospetto di qualcosa di mai sentito prima, allora lasciate perdere, ma se invece il technical death metal è una delle frange del metal estremo che più vi piace, allora i Beyond Creation ed il loro nuovo album intitolato Algorythm diventeranno uno dei vostri acsolti preferiti di questo ultimo scampolo d’anno.

La band canadese licenzia per Season Of Mist quest’opera tecnica e progressiva, assolutamente legata da un sottile quanto indistruttibile filo al death metal classico, ma valorizzato da un’ovvia tecnica sopraffina e da una forma canzone che non perde mai la strada di un’ottima fruibilità.
I Beyond Creation arrivano al terzo full length dopo i buoni riscontri ottenuti con il debutto The Aura e con il secondo album Earthborn Evolution, uscito quattro anni fa.
Il quartetto dà alle stampe un lavoro molto interessante, cercando la giusta via di mezzo tra lo sfoggio tecnico ed il songwriting che, valorizzato da una parte progressiva sempre legata a quella estrema, dà vita ad un’ora di musica di ottimo livello per il genere suonato.
Da Entre Suffrage Et Mirage in poi l’album è un susseguirsi di virtuosismi strumentali in un contesto in cui i brani hanno una loro precisa identità, tra parti ritmiche chirurgiche, accelerazioni, cambi di tempo ed atmosfere perfettamente bilanciate.
La title track risulta un brano da incorniciare: tecnica ed estrema gioca meravigliosamente con la doppia voce (growl e scream) e mantiene un mood progressivo incastonato nel furioso death metal dei Beyond Creation.
Le influenze sono quelle che troverete nella quasi totalità dei gruppi dediti al genere, ma brani come The Inversion sottolineano l’ottima vena del gruppo del Quebec, che ci tempesta di note progressive di matrice death metal.

Tracklist
1. Disenthrall
2. Entre Suffrage Et Mirage
3. Surface’s Echoes
4. Ethereal Kingdom
5. Algorythm
6. À Travers Le Temps Et L’Oubli
7. In Adversity
8. The Inversion
9. Binomial Structures
10. The Afterlife
Bonus tracks
11. Surface’s Echoes (Instr)
12. The Afterlife (Instr)

Line-up
Simon Girard – Vocals & Guitars
Kevin Chartré – Guitars & Back Vocals
Hugo Doyon-Karout – Bass
Philippe Boucher – Drums

BEYOND CREATION – Facebook

Siege of Power – Warning Blast

Il disco di crust punk dell’anno, un perfetto e feroce incrocio di hardcore anglo-americano e di death metal old school, eseguito da musicisti che sono autentici e noti maestri.

A volte da un progetto nato quasi per gioco o per semplice divertimento estemporaneo, può nascere bella musica.

Così è stato per Schmier dei Destruction con i suoi Panzer (già due dischi), così è per i Siege of Power, creati da musicisti americani (Chris Reifert degli Autopsy) ed olandesi (l’ex Asphyx Bob Bagchius), di chiara fama ed apprezzate qualità. I Siege of Power non fanno, peraltro, death – a parte le linee vocali, simili, nello stile, ai Morbid Angel di Abomination of Desolations (1986) – ma uno strepitoso crust-core con venti canzoni al fulmicotone, che si assestano più o meno tutte intorno ai due minuti, ad eccezione della più elaborata (e con qualche rallentamento doom) The Cold Room, sul finire del lavoro. E i suoni e lo stile sono pertanto molto anni Ottanta, ovviamente aggiornati dal quartetto in maniera attenta ed implacabile. Non vi è infatti un attimo di tregua nei solchi laser delle songs che vanno a comporre questo magistrale Storming Blast, quasi un omaggio alla tradizione di New York (leggasi Carnivore e SOD) e soprattutto anglo-britannica (i seminali Discharge ed anche gli indimenticati Amebix, dello storico capolavoro Arise, targato 1985), con opportuni inserti speed di classica matrice venomiana. Il disco è formidabile, tra i migliori dell’anno: non soltanto – si badi bene – un tributo al passato, ma un omaggio sincero quanto sentitissimo ad un approccio musicale e ad una visione della vita che non si estingueranno mai.

Tracklist
1- Conquest For What?
2- For the Pain
3- Bulldozing Skulls
4- Born Into Hate
5- Torture Lab
6- Uglification
7- Trapped and Blinded
8- Diatribe
9- Wraning Blast
10- Mushroom Cloud Altar
11- Lost and Insane
12- Bleeding For the Cause
13- Escalation ‘til Extermination
14- Privileged Prick
15- Short Fuse
16- Violence in the Air
17- It Will Never Happen
18- The Cold Room
19- Servant of Nothing
20- Mushroom Cloud Altar (bonus version)

Line-up
Chris Reifert – Vocals
Bob Bagchius – Drums
Paul Baayens – Guitars
Theo Van Eekelen – Bass

SIEGE OF POWER – Facebook

Malepeste/Dysylumn – Ce qui fut, ce qui est, ce qui sera

Ce qui fut, ce qui est, ce qui sera non solo mette in mostra due ottime band ma regala cinquanta minuti di materia estrema interpretata in maniera intensa e creativa, due attributi che rendono il lavoro degno della massima attenzione.

Nonostante gran parte della scena musicale metal attinga a piene mani dalla mitologia greca e romana, a mia memoria le tre Parche vennero tirate in ballo solo nella suite The Three Fates, facente parte dell’album d’esordio degli ELP.

Probabilmente nell’arco di quasi mezzo secolo qualcun altro molto meno noto dello storico trio, emblema del virtuosismo strumentale in ambito prog, avrà menzionato nei propri lavori queste inquietanti figure intente a gestire il filo dell’esistenza umana; di sicuro lo fanno, e molto bene, i Malepeste e i Dysylumn, due band francesi che uniscono le proprie forze in questo split album intitolato Ce qui fut, ce qui est, ce qui sera, sotto l’egida della Goathorned Productions.
Entrambe le band, provenienti da Lione, esibiscono un black metal inquieto ed obliquo, come da tradizione transalpina, ma molto meno sperimentale e dissonante rispetto a molti propri colleghi e connazionali.
I Malepeste conferiscono al loro sound un’aura piuttosto progressiva, tanto che l’elemento black appare molto meno accentuato a favore di un approccio atmosferico, pur se ammantato di una spessa coltre di oscurità; alla band, che si rifà sentire dopo un ottimo full length come Deliquescent Exaltation risalente al 2015, tocca il compito di descrivere Clotho, Lachesis ed Atropos, ovvero quelle che nella mitologia greca venivano definite le Moire, e in poco meno di venti minuti viene offerta un’interpretazione convincente, profonda e ricca di variazioni e sfumature, dal taglio molto evocativo (specialmente in Atropos) e pregevole anche da punto di vista tecnico, a conferma delle qualità esibite nel recente passato.
I Dysylumn sono invece freschi reduci di un full length come Occultation, molto ben accolto dalla critica, ed il perché lo si capisce dopo pochi secondi del loro primo brano Nona (che assieme a Decima e Morta erano invece le tre Parche secondo la tradizione dell’antica Roma), una dimostrazione di forza magnifica in virtù di un sound trascinante, più riconducibile al black metal rispetto ai Malepeste a livello di ritmiche ma non meno ricco di spunti memorabili; le altre due tracce dedicate alle temibili figure femminili mantengono comunque un’impronta incalzante sulla quale incombono il growl ed il notevole lavoro chitarristico di Sébastien Besson.
L’inquietante Epilogue, con il suo testo recitato al contrario, rappresenta idealmente il riavvolgimento del filo dell’esistenza, chiudendo uno split album che smentisce una volta di più chiunque ritenga che tali operazioni siano trascurabili o ancor peggio superflue.
Ce qui fut, ce qui est, ce qui sera non solo mette in mostra due ottime band ma regala cinquanta minuti di materia estrema interpretata in maniera intensa e creativa, due attributi che rendono il lavoro degno della massima attenzione.

Tracklist:
1. Malepeste – I – Prologue
2. Malepeste – II – Clotho
3. Malepeste – III – Lachésis
4. Malepeste – IV – Atropos
5. Dysylumn – V – Nona
6. Dysylumn – VI – Decima
7. Dysylumn – VII – Morta
8. Dysylumn – VIII – Épilogue

Line-up:
Malepeste
Nostradamus – Bass
Flexor – Drums
Xahaal – Guitars
Larsen – Vocals

Dysylumn
Camille Olivier Faure-Brac – Drums
Sébastien Besson – Guitars, Vocals

MALEPESTE – Facebook

DYSYLUMN – Facebook

Madder Mortem – Marrow

Marrow è l’ennesimo capolavoro di un gruppo unico, dotato di una sensibilità fuori dal comune e di un talento compositivo che rende ogni album un’opera oscura e drammaticamente di livello superiore alla media.

Il mondo della musica gioca brutti scherzi, lo sanno bene i Madder Mortem, band norvegese di un certo spessore attiva nella scena metal da oltre vent’anni, eppure poco considerata rispetto ad altri nomi dall’inferiore talento compositivo.

Ma i fratelli Kirkevaag (Agnete M. e BP M.) vanno avanti per la loro strada ed accompagnati dai fidi Richard Wikstrand, Tormod L. Moseng e Mads Solås ci regalano l’ennesima cascata di splendide note malinconiche, dal piglio dark e pregne di magnetica poesia progressiva.
Partiti nel 1997 come band gothic doom, i Madder Mortem si sono trasformati nel tempo e lungo sette album in un’entità che fagocita emozioni per rigettarle sotto forma metal/rock progressivo, nel quale di gotico non rimane nulla se non quell’aura costituita da oscure emozioni interiori che si riflettono ancora una volta in nove splendidi brani.
Marrow, settimo album di questa inarrivabile realtà scandinava, è composto da nove brani più intro ed outro, è prodotto da BP M. Kirkevaag e non lascia un solo punto di riferimento, giocando con le atmosfere di cui sopra e travolgendoci tra parti progressive tout court, groove e durissimi sfoghi estremi, per poi tornare a deliziarci con suadenti sfumature valorizzate dalla voce personale e magnetica della cantante.
I musicisti, dotati di tecnica da vendere, assecondano un songwriting sovraumano, quindi va da sé che Marrow finisca per rivelarsi l’ennesimo capolavoro di un gruppo unico, dotato di una sensibilità fuori dal comune e di un talento compositivo che rende ogni album un’opera oscura e drammaticamente di livello superiore alla media.
Il progressive di scuola nordica, che tanto ha donato in termini qualitativi in questi ultimi anni, si esalta in brani come Moonlight Over Silver White, Far From Home, White Snow Red Shadows e Waiting To Fall che vanno a comporre un’altra originale e straordinaria opera firmata Madder Mortem.

Tracklist
01.Untethered
02.Liberator
03.Moonlight Over Silver White
04.Until You Return
05.My Will Be Done
06.Far From Home
07.Marrow
08.White Snow, Red Shadows
09.Stumble On
10.Waiting To Fall
11.Tethered

Line-up
Agnete M. Kirkevaag – Vocals
BP. M. Kirkevaag – Guitar & vocals
Richard Wikstrand – Guitar
Tormod L. Moseng – Bass
Mads Solås – Drums

MADDER MORTEM – Facebook

Rain – Dad Is Dead

Accompagnato dal nuovissimo artwork creato per l’occasione da Umberto Stagni, Dad Is Dead si conferma ancora oggi un esempio fulgido del sound di una band che ha fatto la storia del metal tricolore.

I Rain sono una delle band storiche del panorama metal tricolore, essendo attivi dal 1980 con una serie di album di altissimo livello che hanno trovato il loro apice in questo lavoro, uscito originariamente nel 2008.

Dad Is Dead ancora oggi è l’album più venduto ed ascoltato del gruppo bolognese, per questo la band, di comune accordo con l’etichetta Aural Music, ha deciso di ristamparlo con una nuova veste composta da due cd: il primo vede la versione rimasterizzata dell’album, con la cover di Rain, famoso brano dei The Cult, registrata dalla band assieme a Steve Sylvester e Freddy Delirio dei Death SS e con la partecipazione di Simone Mularoni dei DGM, mentre il secondo comprende undici tracce dal vivo registrate nel 2010 che vedono la band in perfetta forma, dopo il tour americano di supporto agli W.A.S.P.
Accompagnato dal nuovissimo artwork creato per l’occasione da Umberto Stagni, Dad Is Dead si conferma ancora oggi un esempio fulgido del sound di una band che ha fatto la storia del metal tricolore.
Con l’intreccio ai massimi livelli di NWOBHM ed hard & heavy statunitense, Dad Is Dead non concede tregua: tredici brani che colpiscono al cuore dei defenders, pregni di solos scolpiti nell’acciaio e ritmiche che affondano come coltelli nell’anima metallica di chi ha cuore le sorti del metal classico.
Un album imperdibile ed un sound che alterna brani maideniani ad altri che affondano le loro radici nella Los Angeles metallica di Twisted Sister e Motley Crue, regalando grande musica metal incastonata in tracce divenute storiche come 8 Bar, Mr. 2 Words, The Party e la title track.
Il secondo cd è un’apoteosi del metal in versione live: la band, appena tornata dal tour con Lawless e soci e rodata a dovere, dà letteralmente spettacolo con una prestazione incendiaria ed esaltante facendo sì che il tutto non sia solo un bonus per accontentare il fans, ma un imperdibile esempio delle potenzialità dei Rain.
Per tutti questi motivi la ristampa di Dad Is Dead è un acquisto obbligato non solo per i fans del gruppo, ma per tutti gli amanti dell’heavy metal classico.

Tracklist
CD 1
1. 8 Bar
2. Blind Fury
3. Mr. 2 Words
4. Love In The Back
5. Rain Are Us
6. Red Kiss
7. The Party
8. Last Friday
9. Dad Is Dead
10. Swan Tears
11. The Reason
12. Bang Bus
13. Rain

CD 2
1.Love in the Back (live in Russi 2010)
2.Dad is Dead (Live in Russi 2010)
3.Mr. 2 Words (Live in Russi 2010)
4.Rain (Live in russi 2010 (the Cult cover))
5.Swan Tears (Live in Russi 2010)
6.Rain Are Us (Live in Russi 2010)
7.Red Kiss (Live in Russi 2010)
8.Bang Bus (Live in Russi 2010)
9.Introducing the Band (Live in Russi 2010)
10.Only for the Rain Crew (Live in Russi 2010)
11.Highway to Hell (Live in Russi 2010)

Line-up
Francesco “Il Biondo” Grandi – vocals
Marco “The Master” Rizzi – guitar
Alessio “Amos” Amorati – guitar
Gianni “Gino” Zenari – bass
Andrea “Mario” Baldi – drums

RAIN – Facebook

Sorrowful Land – I Remember

Un’altra opera di grande consistenza per questo ottimo musicista di Kharkiv che sembra aver momentaneamente congelato la sua precedente creatura Edenian per convogliare tutti i propri sforzi su un progetto solista, come quello dei Sorrowful Land, decisamente foriero di soddisfazioni, sicuramente almeno a livello qualitativo.

Per il suo nuovo lavoro a nome Sorrowful Land, Max Molodtsov non ha lasciato nulla di intentato, radunando diversi nomi di spicco della scena doom e assegnando loro il compito di arricchire questo secondo full length del suo progetto, intitolato I Remember.

In ogni brano troviamo voci note alla platea di appassionati del death doom come due figure carismatiche del peso di Daniel Neagoe (Clouds, Eye Of Solitude) ed Evander Sinque (Who Dies In Siberian Slush, Umercenaries) ma non solo, se pensiamo anche alla presenza di Kaivan Sarei (A Dream Of Poe), Vladislav Shahin (Mournful Gust) e Daniel Arvidsson (Draconian), oltre al prezioso contributo chitarristico di Vito Marchese dei Novembers Doom.
Quanto di buono già dimostrato dal musicista ucraino con i precedenti lavori, trova in I Remember una sua ideale finalizzazione proprio grazie alla varietà di soluzioni consentite dal diversi stili vocali degli ospiti; pertanto, se la suadente voce pulita di sarei si presta ad un brano morbidamente malinconico come And Wilt Thou Weep When I Am Low?, il growl antologico di Neagoe sposta la successiva canzone When the World’s Gone Cold su ritmi più rallentati ed atmosfere più tragiche, anche se l’intreccio tra le clean dello stesso Daniel e di Max ingentilisce il tutto senza dimenticare il limpido e melodico chitarrismo del musicista ucraino.
A Father I Never Had è una delle perle del lavoro e anche il solo brano in cui Molotsdov non si avvale di ospiti: il suo stile vocale, del resto, non sfigura certo per espressività e l’innata facilità nello sciorinare linee chitarristche magnifiche (non dissimili da un modello come quello rappresentato da Johan Ericsson) rende questa traccia davvero splendida.
In Weep On, Weep On troviamo un altro dei growl più efficaci della scena, quello di Evander Sinque, personaggio di spicco della scena moscovita del quale non avevamo più avuto il piacere di ascoltare il profondo timbro dopo la prematura scomparsa del suo storico sodale Gungrind: il brano è meno immediato nonché il più aspro e più profondo della tracklist, nonostante non venga mai meno il tocco atmosferico che è tratto comune dell’intero lavoro.
In I Am the Only Being Whose Doom tocca ad una delle icone della scena ucraina, quel Vladimir Shahin che con i suo Mournful Gust è stato uno dei primi nella sua terra ad esplorare con perizia quelle dolenti sonorità; la sua interpretazione vocale dona grande enfasi ad un brano in cui anche il tocco chitarristico di Marchese, differente da quello di Molotsdsov, conferisce una certa discontinuità rispetto alle altre tracce.
L’album si chiude con un’altra gemma imperlata di dolore come The Kingdom of Nothingness, interpretata da un ottimo Daniel Arvidsson, usualmente solo chitarrista nei Draconian, andando mettere il tassello finale ad un’altra opera di grande consistenza di questo ottimo musicista di Kharkiv che sembra aver momentaneamente congelato la sua precedente creatura Edenian per convogliare tutti i propri sforzi su un progetto solista, come quello dei Sorrowful Land, decisamente foriero di soddisfazioni, sicuramente almeno a livello qualitativo.
L’unica nota di biasimo attribuibile a Molodtsov è la scelta di una copertina che non rende giustizia alla bellezza dell’album, la di là dei significati reconditi che magari questa possa rivestire all’interno del contesto lirico: un peccato veniale che non rende affatto meno appetibile per gli appassionati del death doom melodico un lavoro come I Remember.

Tracklist:
1. And Wilt Thou Weep When I Am Low?
2. When the World’s Gone Cold
3. A Father I Never Ha
4. Weep On, Weep On
5. I Am the Only Being Whose Doom
6. The Kingdom of Nothingness

Line-up:
Max Molodtsov – Vocals, Guitars, Bass, Keyboards, Drum programming, Songwriting, Lyrics

Guests:
Kaivan Saraei – Vocals (track 1)
Daniel Neagoe – Vocals (track 2)
Evander Sinque – Vocals (track 4)
Vladislav Shahin – Vocals (track 5)
Vito Marchese – Guitars (lead) (track 5)
Daniel Arvidsson Vocals (track 6)

SORROWFUL LAND – Facebook

Revolutio – Vagrant

Le influenze del gruppo vanno dai gruppi storici del thrash metal a quelli più moderni del groove ma con una forte impronta personale, e tutto cio contribuisca fare di Vagrant un’opera riuscita.

I Revolutio sono una band bolognese attiva dal 2011, con un primo ep licenziato due anni dopo ed un lungo silenzio prima del buon ritorno intitolato Vagrant.

Ambientazioni da film d’azione in un futuro neanche troppo distante, se continueremo a maltrattare il pianeta, vengono raccontate tramite un thrash/groove power metal che ovviamente risulta pregno di input moderni e di un impatto “nucleare”.
Si corre nel deserto post atomico con questo bolide metallico che non rinuncia a potenza e a soluzioni estreme, ma neanche alla melodia che affiora, ora timida, ora a dettare l’atmosfera che si respira lungo tutto il lavoro con armonie semi acustiche capaci di creare il giusto effetto prima che il sound torni a deflagrare in uno tsunami modern metal.
Dalla loro i guerrieri bolognesi hanno un controllo perfetto del sound, che pur mantenendo un clima di tensione altissima, anche quando le scorribande metalliche si placano non perdono mai la bussola e di questo l’ascolto se ne giova non poco.
Vagrant è un’opera di moderno metallo dal clima estremo che diventa sempre più intrigante e riuscita man mano che si entra nel suo cuore, una escalation qualitativa che ha il suo epicentro tra The Oracle e le atmosfere dark della “Metallica” Silver Dawn, ma che continua a crescere in emozioni fino alla sua conclusione, lasciata alle atmosfere evocative e modern/thrash di Daydream e a The Great Silence, che conclude l’album immergendoci nei rumori del deserto nucleare.
Le influenze del gruppo vanno dai gruppi storici del thrash metal a quelli più moderni del groove ma con una forte impronta personale, e tutto ciò contribuisca fare di Vagrant un’opera riuscita.

Tracklist
1. Aftermath
2. Meek and the Bold
3. What Breaks Inside
4. The Oracle
5. Ozymandias
6. Eclipse
7. Silver Dawn
8. Requiem
9. Daydream
10. The Great Silence

Line-up
Maurizio Di Timoteo – Vocals
Luca Barbieri – Lead Guitars
Carlos Reyes Vergara – Rhythm Guitars
Francesco Querzè – Bass
Davide Pulito – Drums

REVOLUTIO – Facebook

Vitja – Mistaken

Siamo nel più classico prodotto di genere, molto melodico, contraddistinto dall’uso della doppia voce come da copione e composto da un lotto di brani accattivanti, radiofonici e perfetti per non deludere i pruriti metallici degli adolescenti votati alla dannazione eterna del rock.

Il metalcore non molla la presa sui giovani del nuovo millennio che, oltre alle moltissime proposte underground, possono avvalersi di uscite importanti anche da parte delle più importanti label mondiali, almeno per quanto riguarda il metal e i generi affini.

La Century Media, per esempio, licenzia il nuovo album dei Vitja, giovane band al terzo lavoro dopo il buon successo di Digital Love, precedente lavoro uscito lo scorso anno.
Siamo nel più classico prodotto di genere, molto melodico, contraddistinto dall’uso della doppia voce come da copione e composto da un lotto di brani accattivanti, radiofonici e perfetti per non deludere i pruriti metallici degli adolescenti votati alla dannazione eterna del rock.
Perfetto in fase di produzione, spettacolare nei suoni ed altrettanto innocuo, Mistaken è l’album che tutti si aspettavano dai ragazzi dei Vitja, i quali non deludono le aspettative e sparano i loro proiettili rigorosamente a salve, facendo tanto rumore per nulla.
E’ lontana chilometri la furia estrema del deathcore e di certo metal moderno, in Mistaken tutto è studiato per arrivare ai cuori dei giovani kids, fagocitati dal web e dalle sue diavolerie, dunque abituati al freddo emozionale di una musica che ripete all’infinito la stessa formula, recitando un copione assolutamente perfetto.
Mistaken, Down, Black And Blue, ma potrei nominarveli tutti e nessuno, sono i brani migliori di questo lavoro, perfetto per il suo compito, ma avaro di emozioni.
Se non arrivate ai vent’anni e vi piace il metalcore da classifica, troverete sicuramente ottimi motivi per fare vostro questo lavoro, altrimenti rivolgete la vostra attenzione altrove, i Vitja non fanno per voi.

Tracklist
1. Mistaken
2. Overdose (feat. Andy Dörner)
3. Friends Don’t Lie
4. Down
5. Anxiety
6. Black and Blue
7. High on You
8. To the Moon
9. Sedamine
10. Filthy
11. Kings of Nothing

Line-up
David Beule – Vocals
Mario Metzler – Bass
Vladimir Dontschenko – Guitar
Daniel Pampuch – Drums

VITJA – Facebook

BLACK FUNERAL – THE DUST AND DARKNESS

Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, The Dust And The Darkness contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità.

L’amore spassionato per occultismo, satanismo (più precisamente per il “Luciferianismo”) e vampirismo, costituisce l’anima di tutta la produzione del leader del duo di Houston.

Baron Drakkonian Abaddon (alias Michael W. Ford), voce, basso ed effetti del combo, è un appassionato delle scienze occulte e di tutto ciò che graviti intorno al Satanismo e all’Esoterismo più arcano e imperscrutabile. Un Aleister Crowley dei giorni nostri, autore di numerosi libri sull’argomento e proprietario della Luciefrian Apotheca (www.luciferianapotheca.com – negozio online adatto a chiunque si voglia sbizzarrire nell’acquistare testi esoterici, oggetti satanici, incensi, erbe misteriose e così via, ed organizzarsi un Sabba casalingo), non poteva che essere contemporaneamente il front-man di numerose famose band Black Metal americane (Darkness Enshroud, Empire Of Blood e i concittadini Valefor per citarne alcune). In tutte le sue produzioni, le tematiche sopra citate, costituiscono il leitmotiv, il motivo conduttore di tutta la sua attività da strumentista, attiva da oramai 25 anni. Tutta la sua vita risulta imperniata dal tenebroso interesse per le pratiche di magia nera che, negli anni, ne hanno influenzato anche la vita privata. Sposato inizialmente con quella che viene definita un “primeva strega” dei giorni nostri, la medium Lux Ferro (alias Elda Isela Ford), scrittrice di libri esoterici e compositrice per alcune band dedite ad arcane sonorità rituali (tra cui i dark dance Psychonaut 75), Mr. Ford dedicherà la maggior parte dei suoi sforzi e delle sue attenzioni al progetto Black Funeral, oggetto di questa recensione, di cui la moglie ne è stata – seppur per un breve periodo – anche cantante.
Coadiuvato da Mr. Azgorh Drakenhof, polistrumentista australiano già proprietario dell’etichetta Dark Adversary Productions, ma soprattutto leader incontrastato della one-man band Drowning the Light, la più famosa (e prolifica) band della terra dei canguri, Abaddon ci dona questo ep ricco di nere atmosfere, occulte ambientazioni e malvagie auree, che farà sicuramente la gioia di dei fan più legati al Black Ambient più nero e tetro, ottimamente arricchito di empi rimandi ritualistici, sprigionanti nere icore direttamente provenienti dai più oscuri antri dell’Inferno.
Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità. Dankuis Daganzipas (dalla lingua Ittita -Dark Earth) è un elogio rituale alle malvagie divinità dell’antico e misterioso popolo dell’Anatolia. Intro tribale per Alanni Goddess of the Underworld, un pezzo che si dipana su 3 minuti e mezzo circa di classico cupo Black Metal in pieno stile old school scandinavo. Versi infernali che presumibilmente gorgogliano blasfemie, annunciano l’ingresso di Chemosh of the Dust and Darkness: un elogio al Dio dei Moabiti, popolazione vissuta circa tremila anni fa sulle rive del Mar Morto, più precisamente sull’attuale altopiano del Kerak. Oscuro Dio della distruzione, a cui venivano dedicati sacrifici umani, viene qui idolatrato grazie ad un Black veloce, senza particolari fronzoli e senza nessuna tregua; un suono corvino come l’animo della divinità stessa, spesso etichettata come “abominio di Moab”, che non lascia dubbi sulla sua antica empia malvagità. Sfumature classiche in Mistress of the Pit, vero cantico consacrato ad una non ben definita nera regina dell’Abisso. Nulla a che vedere con il Black Metal nel senso stretto del termine. Cupe armonie cullate da un sapiente uso dei sinth, ne fanno un pezzo di ottimo Dark Ambient che ci strugge di malinconia e instilla nei più sensibili, desideri di abbandono all’eterno sonno, avvolti dal crepuscolo.
Un mini album di buona fattura che potrà accendere la curiosità di chi prima non si è mai accostato al sound del combo americano. Black ed Ambient in una cagliostrica miscela che appassionerà tanti, e che forse li condurrà alla scoperta della loro intera produzione (9 full-length e svariate produzioni minori).

Tracklist
1. Dankuis Daganzipas (Dark Earth)
2. Alanni Goddess of the Underworld
3. Chemosh of the Dust and Darkness
4. Mistress of the Pit

Line-up
Baron Drakkonian Abaddon (Michael Ford Nachttoter) – Vocals, Bass, Electronics
Azgorh Drakenhof – Guitars, Bass, Keyboards

BLACK FUNERAL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=5SDv0JFqqUo

Atlas – Primitive

Il disco funziona molto bene, non ha momenti di stanca e gli Atlas presentano notevoli margini di miglioramento rivelandosi una delle maggior sorprese in campo metalcore degli ultimi tempi.

Potente e melodico album di metalcore dalla Finlandia per il debutto degli Atlas, un gruppo che si inserirà molto bene nel movimento del metal moderno.

Mutuando in linguaggio sportivo, gli Atlas fanno bene entrambe le fasi, sia quella più aggressiva e legata al metal che quella più melodica che è caratteristica del metal moderno. L’album è stato in lavorazione dal 2015 al 2017 e c’è dentro tutta la prima fase della carriera della band e i suoi sforzi notevoli, soprattutto in fase di composizione che è la di sopra della media. La caratteristica migliore del gruppo è il saper incastonare pezzi più duri con ventate melodiche e con inserti di elettronica molto azzeccati e funzionali, con le tastiere che entrano sempre al momento giusto. Gli Atlas sono molto più fisici e reali della maggior parte dei gruppi metalcore che interpreta un canovaccio ormai trito e ritrito: il genere richiede maggior talento di prima, perché tante cose sono state dette e fatte e non rimane granché da aggiungere, se non la volontà di essere originali. Primitive è un disco indirizzato alla platea metalcore, ma che richiede un ascolto più attento rispetto alla maggioranza dei dischi di quel genere. La resa sonora è ottimamente orchestrata da Tuomas Yli-Jaskari alla produzione e da Buster Odeholm alla masterizzazione; il disco funziona molto bene e non ha momenti di stanca, il gruppo presenta notevoli margini di miglioramento rivelandosi, una delle maggior sorprese in campo metalcore degli ultimi tempi. Ascoltando il lavoro si possono trovare anche spunti vicini al post rock, e queste cose le fa solo una band che ha talento, inventiva e voglia di mettersi in gioco, senza fare sempre il solito disco metalcore.

Tracklist
1. Skinwalker
2. Feel
3. Kaamos
4. On Crooked Stones
5. Primitive
6. Pareidolia
7. Pendulum Swing
8. Bloodline (feat. Ben English)
9. Rust

Line-up
Patrik Nuorteva – Vocals
Leevi Luoto – Vocals & Bass
Tuomas Kurikka – Guitar
Aleksi Viinikka – Guitar
Aku Karjalainen – Drums

ATLAS – Facebook

Black Oath – Behold The Abyss

Behold The Abyss è una raccolta di brani che ci conducono verso la parte magica, oscura e rituale del metal, un lavoro fuori dal tempo dedicato a chi ascolta la musica in maniera sicuramente non frettolosa.

I Black Oath sono un’entità progressive doom nata nella nostra penisola nel 2006 in quel di Milano.

Il quartetto lombardo, capitanato dal bassista, chitarrista e cantante A.Th, arriva al quarto full length, licenziato dalla High Roller Records, di una discografia che si completa di un buon numero di ep, split e demo.
Behold The Abyss è un lavoro che si muove agevolmente nella parte oscura e mistica del metal progressivo, con un composto da atmosfere dark e doom: un’atmosfera occulta e misteriosa avvolge questo splendido album che si ispira ai classici della tradizione tricolore che, per quanto riguarda il genere, rimane una delle più importanti e rispettate a livello mondiale.
I Black Oath la lezione dei maestri (Death SS, Paul Chain e Goblin su tutti) l’hanno imparata a dovere, amalgamandola però con altre e non meno importanti ispirazioni che vanno dai Black Sabbath al metal classico dei Mercyful Fate fino al gothic dark dei Fields Of The Nephilim, creando un’atmosfera mistica ed evocativa di grande effetto.
Behold The Abyss, in virtù delle caratteristiche elencate, risulta un ottimo esempio di musica oscura: un alone magico contorna brani che tanto sanno di rituali, come la lunga ed affascinante title track, Lilith Black Moon, Once Death Sang (valorizzata dalla presenza al microfono di Elisabeth, cantante dei Riti Occulti) e la metallica e trascinante Profane Saviour.
Behold The Abyss è una raccolta di brani che ci conducono verso la parte magica, oscura e rituale del metal, un lavoro fuori dal tempo dedicato a chi ascolta la musica in maniera sicuramente non frettolosa.

Tracklist
1. Behold the Abyss
2. Chants of Aradia
3. Lilith Black Moon
4. Once Death Sang
5. Profane Saviour
6. Everlasting Darkness

Line-up
A.Th – vocals, bass, guitar
Gabriel – guitar
Bon R. – guitar
Chris Z. – drums

BLACK OATH – Facebook

Lascar – Wildlife

Il musicista sudamericano propone un black metal atmosferico, o post black, come lo si preferisce chiamare, sulla scia di Deafheaven e compagnia e lo fa in maniera competente ma senza raggiungere, almeno questa volta, particolari vertici qualitativi.

Lascar è il progetto solista del cileno Gabriel Hugo, giunto con questo Wildlife al terzo full length.

Il musicista sudamericano propone un black metal atmosferico, o post black, come lo si preferisce chiamare, sulla scia di Deafheaven e compagnia e lo fa in maniera competente ma senza raggiungere, almeno questa volta, particolari vertici qualitativi.
Questo avviene perché il sound proposto da Hugo, al netto della sua indubbia gradevolezza, soffre di una marcata uniformità che alla lunga si rivela penalizzante, aspetto già riscontrato nel precedente lavoro Saudade dove però il songwriting si rivelava ben più coinvolgente; se a tutto ciò poi si unisce inevitabilmente il fatto che l’esibizione di sonorità già ampiamente ascoltate in passato necessita di elementi compositivi in grado di fissarsi in maniera più marcata nella mente dell’ascoltatore, l’esito finale non può che risultare solo in parte soddisfacente.
Hugo esibisce un gusto melodico sufficiente a fargli reggere la scena per questi quaranta minuti, ma non abbastanza per indurre a passaggi ripetuti nel lettore; ad accentuare tale sensazione contribuiscono sia una produzione perfettibile sia un utilizzo della voce che talvolta si rivela più un elemento di disturbo che non un valore aggiunto.
Un peccato, perché per esempio una traccia come Fatigue esibisce linee davvero accattivanti e non banali, facendo intuire quel potenziale che viene ingabbiato all’interno di un’interpretazione del genere priva dei necessari guizzi.
Nonostante l’attività discografica sia già considerevole, il progetto è comunque ancora abbastanza giovane per cui restiamo in fiduciosa attesa di un auspicabile salto di qualità alla prossima occasione, anche se dopo un buona prova come Saudade era lecito immaginare che ciò potesse accadere già con Wildlife.

Tracklist:
1. The Disdain
2. Petals
3. Submission
4. The Zenith
5. Fatigue
6. The Majestic Decay

Line-up:
Gabriel Hugo – All instruments, Vocals

LASCAR – Facebook

Vanhelgd – Deimos Sanktuarium

Suoni death intinti in aromi doom per i gli svedesi Vanhelgd: quinto ottimo disco per una band che non deve dimostrare più niente ed essere ascoltata con attenzione.

Prosegue incessante il viaggio artistico del quartetto svedese, attivo dal 2009 con Cult of Lazarus e giunto con Deimos Sanktuarium al quinto full length.

La band non ha mai disperso le proprie energie compositive in formati minori, tranne un EP nel 2010, preferendo il formato sulla lunga distanza per farci apprezzare il proprio suono. Ogni due anni, corredati sempre da belle cover create da Mattias Frisk, i Vanhelgd ci regalano momenti di grande musica death, intinta nel doom; non fa eccezione anche quest’opera, sette brani di medio lunga durata, dove si rimane intrappolati in un mondo sonoro disperato, angosciante e catacombale. Nel tempo la band ha rilassato i propri ritmi, non perdendo nulla in ferocia e in tensione, anzi mortifere cadenze death doom ci fanno piombare in mondi tetri e sinistri dove le chitarre tessono atmosfere opprimenti senza aver bisogno di correre all’impazzata. L’andamento sinistro e maligno di Profaned is the blood of the covenant è raggelante e velenoso fino alla paralisi completa dei nostri sensi. La band non reinventa la ruota ma conosce molto bene la materia death e sa plasmare con assoluta ispirazione un proprio suono, dove tutto è mirato al lento disfacimento organo sensoriale; tutto è più subdolo, non troviamo violenza gratuita o ritmi forsennati ma atmosfere claustrofobiche che attanagliano le viscere con il growl mefitico di Mattias e Jimmy Johansson a condurre le danze. I brani hanno tutti delle peculiarità: in The ashes of our defeat un pesante suono di organo ci porta indietro nel tempo, regalandoci momenti maestosi e disperati, mentre in The silent observer i ritmi più propriamente death si stemperano nella coda a più voci dal forte sapore epico. Ottimo disco da parte di una band ispirata che non deve dimostrare più niente ed essere ascoltata con attenzione..

Tracklist
1. A Plea for Divine Necromancy
2. Så förgås världens härlighet
3. Vi föddes i samma grav
4. Profaned Is the Blood of the Covenant
5. The Ashes of Our Defeat
6. The Silent Observer
7. Här finns ingen nåd

Line-up
Jimmy Johansson Guitars, Vocals
Mattias Frisk Guitars, Vocals
Jonas Albrektsson Bass
Mathias Westman Drums

VANHELGD – Facebook

Dyrnwyn – Sic Transit Gloria Mundi

I Dyrnwyn suonano un viking folk metal molto epico con melodie struggenti, cantato in italiano e molto particolare.

Avevamo lasciato i Dyrnwyn con il loro ep Ad Memoriam del 2015, un disco che li aveva proiettati in alto nella scena viking folk metal, con i loro racconti molto coinvolgenti sull’Antica Roma.

Con questo nuovo lavoro in uscita per SoundAge Productions i nostri avanzano ulteriormente con un’opera molto convincente e curatissima in tutti i particolari. I Dyrnwyn fanno un viking folk metal molto epico, con melodie struggenti, cantato in italiano e molto peculiare. Traggono ispirazione dai grandi del genere, ma poi sviluppano una poetica tutta loro, già ben presente in nuce nei dischi precedenti, ma che arriva al suo culmine in questo Sic Transit Gloria Mundi. Come già scritto per il precedente disco la band ci porta sul campo di battaglia degli antichi romani, che sono stati uno dei popoli più complessi e multiformi della storia. Il fascino di questi conquistatori (anche se noi liguri non li abbiamo mai amati molto, si deve ammettere che ci hanno dato tanto) è narrato alla perfezione grazie all’uso del folk metal dalla forte connotazione epica, con un uso perfetto dei tempi e con aperture melodiche che rendono molto affascinante il tutto. Il viking folk metal annovera fortunatamente molti gruppi e molte tendenze diverse, ma ciò che ci danno i Dyrnwyn non è rintracciabile altrove. Canzone dopo canzone si viene totalmente avviluppati in un vortice che sale fino al cielo dove stanno gli dei, che possono essere sia benevoli che malevoli, comunque ben differenti dalle menzogne cristiane. Potrebbe forse essere inteso come escapismo l’andare a cercare un fortissimo punto di contatto con il mondo dell’Antica Roma come questo disco, e forse è proprio una fuga da questi tempi davvero brutti ed oscuri, ma è comunque bello perdersi in un disco come questo, che va ben oltre la musica. Il cantato in italiano è davvero un valore aggiunto alla musica dei Dyrnwyn, e la stessa musica è di alto livello, essendo una narrazione essa stessa. Sic Transit Gloria Mundi è un disco molto maturo ed appassionante, frutto del lavoro di un gruppo dalle idee molto chiare che si rivela fra le migliori realtà italiane in campo viking folk metal.

Tracklist
1. Sic Transit Gloria Mundi
2. Cerus
3. Parati Ad Impetvm
4. Si Vis Pacem…
5. …Para Bellum
6. L’Addio Del Primo Re
7. Il Sangue Dei Vinti
8. Feralia
9. Assedio Di Veio CCCXCVI

Line-up
Thierry Vaccher: vocals
Alessandro Mancini: guitars
Alberto Marinucci: guitars
Ivan Cenerini: basso
Ivan Coppola: drums
Jenifer Clementi: flute
Michelangelo Iacovella: keyboards

DYRNWYN – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=yCh01kLN6Og

Argonavis – Passing the Igneous Maw

Nel complesso l’opera si rivela interessante per il suo incedere oscuro e minaccioso, e l’integrità stilistica della band nordamericana rappresenta un elemento decisivo per approcciare con il giusto spirito una proposta sicuramente ostica, nella quale non vi sono concessioni ad una maggiore accessibilità.

Argonavis è il monicker adottato da questo duo canadese all’esordio con un full length connotato da un’interpretazione quanto mai ruvida del death doom.

I tempi rallentati di questi lavoro sono infatti solcati da alcune accelerazioni di matrice black e da un impietoso growl in stile brutal, con qualche sporadica digressione atmosferica.
Nel complesso l’opera si rivela interessante per il suo incedere oscuro e minaccioso, e l’integrità stilistica della band nordamericana rappresenta un elemento decisivo per approcciare con il giusto spirito una proposta sicuramente ostica, nella quale non vi sono concessioni ad una maggiore accessibilità, neppure a livello di notizie biografiche o quant’altro.
Agli Argonavis interessa fondamentalmente immergere l’ascoltatore in antri oscuri e malsani con il loro sound che ben si addice a tematiche storico filosofiche riconducibile ad antiche e sepolte civiltà. Passing the Igneous Maw scorre in maniera monolitica, con il suo sound ribassato che trova i momenti migliori nel maelstrom sonoro intitolato The Blazing Torrent of Nasus’ Victory: Pyrophlegethon, in cui appare qualche elemento di discontinuità in più rispetto al resto di un’opera decisamente valida, anche se rivolta ad una ristrettissima cerchia di appassionati.

Tracklist:
1.Passing the Igneous Maw
2.Carving the Wapta Gorge
3.For All Slaves: The Cold March to the Scorched Gates
4.Katabasis
5.The Blazing Torrent of Nasus’ Victory: Pyrophlegethon
6.Katharmos: Towards the Isle of the Dead

ARGONAVIS – Facebook

 

Overruled – Hybris

L’anello mancante, nell’Olanda odierna, fra il thrash e l’heavy classico: un gran bel disco di speed metal tradizionale.

Dopo un EP nel 2013 (ad un anno dalla nascita), gli olandesi Overruled esordiscono ora sulla lunga distanza per Punishment 18 Records, con le nove tracce di questo ottimo Hybris.

Il loro è un thrash, energico e brillante, che bada decisamente al sodo, molto vicino al più tradizionale heavy metal anni Ottanta, quindi diretto e con pochi fronzoli, duro e violento. Sistemata la formazione, il quartetto di Drenthe riesce ad essere diretto e melodico, stile Megadeth per capirci. Il vocalist è davvero bravo e gli assoli si segnalano positivamente per la loro tessitura, mentre la sezione ritmica pare più cupa. Il suono è comunque abbastanza moderno in termini di produzione, pulita ed incisiva. Dopo la bella e deflagrante Pawns of War, la seguente Burning Bridges è un determinato speed metal vecchia scuola nella vena degli Accept del sommo Restless and Wild. La title-track è emozionante e coinvolge non poco, con molta qualità nel lavoro di riffing. Una sfavillante doppia cassa illumina She-Devil. Assai costruita la successiva Purgatory, una vera narrazione musicale elettro-acustica, alla Running Wild, tra dark ed epic metal. Follow His Order è un omaggio alla NWOBHM, mentre i rimanenti pezzi di Hybris tornano con efficacia alla tradizione speed più classica. Veramente un bel cd.

Tracklist
1- Pawns of War
2- Burning Bridges
3- Hybris
4- She-Devil
5- Purgatory
6- Follow His Order
7- Lust For Power
8- Run For Your Life
9- Losing Sanity

Line-up
Remco Smit – Vocals / Guitars
Ronald Reinders – Guitars
Joeri Klaassens – Bass
Gerald Warta – Drums

OVERRULED – Facebook

Erasy – Under The Moonlight

Un buon lavoro minore, se così si può considerare questo 7″ che riesce a convincere più di tanti full length ascoltati di recente: quindi se amate Black Sabbath e Crowbar in egual misura, Under The Moonlight è assolutamente consigliato.

Un lento marciare prima di arrivare in una terra arsa dal sole e dalle fiamme che si propagano, mentre il magma si avvicina disintegrando qualsiasi cosa al suo passaggio.

Solo a tratti l’urgenza rabbiosa di chi prova a mettersi in salvo risveglia istinti di sopravvivenza, mentre accelerazioni e mid tempo scandiscono i passaggi di questo monolitico doom/sludge intitolato Under The Moonlight.
Loro sono i brasiliani Erasy, quartetto attivo dal 2012 con un full length alle spalle intitolato The Valley Of Dying Stars, una devastante macchina doom metal, impressionante per potenza e rabbiosa attitudine estrema, con un sound che alterna lenti movimenti che si avvolgono tra loro come enormi serpenti in una grottesca danza, per poi trasformarsi in mid tempo di una pesantezza disarmante.
Compongono questo 7″ rigorosamente in vinile due brani, la title track e The Deal, che si muovono sulle stesse imperturbabili coordinate, formando una jam compatta.
Lo scream rabbioso completa il quadro estremo del sound degli Erasy, e soltanto gli assoli lasciano filtrare dal muro sonoro innalzato dal gruppo brasiliano luci melodiche all’interno dell’oscura e malata atmosfera dell’opera.
Un buon lavoro minore, se così si può considerare questo 7″ che riesce a convincere più di tanti full length ascoltati di recente: quindi se amate Black Sabbath e Crowbar in egual misura, Under The Moonlight è assolutamente consigliato.

Tracklist
1. Under The Moonlight
2. The Deal

Line-up
Joilson Santos – Bass
Lèo Carvalho – Guitars
Vurmun – Drums
Luciano Penelu – Vocals

ERASY – Facebook