La potenza degli A Taste Of Fear cammina di pari passo con la loro tecnica musicale, che non è affatto mera ostentazione di un saper fare, ma è sicura esposizione di un saper creare musica, esprimendo se stessi e ciò che si portano dentro.
Gli A Taste Of Fear vengono da Roma e confezionano un buon assalto sonoro, in bilico fra thrash metal e death metal.
Innanzitutto sono molto immediati e hanno una tecnica notevole, cose assai difficili da coniugare e riescono a creare un impasto sonoro incandescente. I riferimenti sono i grandi nomi dei generi suddetti, ma il risultato è assolutamente personale. Le canzoni sono tutte sviluppate in maniera strutturata, con impalcature sonore molto forti che hanno alla base una notevole dose di melodia, alla lunga destinata ad uscire fuori dando un notevole valore aggiunto al disco. Il gruppo è al suo debutto discografico, ma è nato nel 2014 da un’idea del bassista Michele Attolino, che voleva suonare in maniera potente i suoi due generi preferiti, ovvero il thrash metal ed il death metal, riuscendo ad attingere il meglio dai due sottogeneri. La prima prova di questo gruppo ne mostre le buone doti e la capacità di trovare sempre la soluzione musicale adatta al passaggio ed al momento. La potenza degli A Taste Of Fear cammina di pari passo con la loro tecnica musicale, che non è affatto mera ostentazione di un saper fare, ma è sicura esposizione di un saper creare musica, esprimendo se stessi e ciò che si portano dentro. God’s Design è un disco mai scontato e che galoppa forte verso un’orizzonte che ci riserverà molte gioie, visto il buon inizio.
1.God’s Design
2.Into Hell
3.Out Of Place
4.A Feared Secret
5.Make Suffer
6.Ripped Soul’s Gift
7.The Passage
8.A Taste Of Fear
Le Vergini Folli è rivolto ad un pubblico selezionato, il quale deve porsi come obiettivo primario quello di godere della purezza stilistica e poetica di un lavoro che ferma lo scorrere del tempo, obbligando ad ascoltare musica spogliata delle convenzioni strumentali e compositive della nostra epoca.
Da oltre vent’anni la Camerata Mediolanense costituisce una delle più piacevoli anomalie musicali del nostro paese.
Anomalia in quanto, nonostante uno stile che rifugge ogni accenno di rumorosità o modernità, l’ensemble è sempre gravitato anche nella sfera di gradimento della fascia di ascoltatori di rock e metal dotati di una naturale propensione verso sonorità impattanti dal punto di vita emotivo.
A tutto questo, poi, contribuisce poi l’ingresso nel nuovo decennio della Camerata Mediolanense nel roster della Prophecy Productions, etichetta tedesca che propone ogni volta dischi di straordinaria qualità afferenti a generi che vanno dal black metal sino al neofolk o appunto, alla derivazione neoclassica che troviamo elevata alla sua massima espressione in questo Le Vergini Folli.
Come sostiene Elena Previdi, fondatrice del collettivo, l’album può apparire datato per sonorità ed approccio perché lo è a tutti gli effetti, collocandosi ben al di fuori di ogni tentazione modaiola: proprio per questo Le Vergini Folli è rivolto ad un pubblico selezionato, il quale deve porsi come obiettivo primario quello di godere della purezza stilistica e poetica di un lavoro che ferma lo scorrere del tempo, obbligando ad ascoltare musica spogliata delle convenzioni strumentali e compositive della nostra epoca, ancor più in questa occasione che non prevede alcun intervento delle percussioni, molto importanti invece nell’economia degli album precedenti.
A dominare la scena sono quindi il pianoforte della Previdi e l’intreccio delle voci femminili di Desirée Corapi, Carmen D’Onofrio e Chiara Rolando che, assieme a quella maschile di 3vor, interpretano i sei componimenti poetici scritti da altrettante ed anonime autrici femminili d’altri tempi, oltre a due sonetti del Petrarca che si rivelano, peraltro, una gradita appendice a Vertute, Honor, Bellezza, uscito nel 2013 e del tutto basato a livello lirico sull’opera del poeta aretino.
A colpire, nell’operato della Camerata Mediolanense, è l’esibizione di una limpidezza compositiva che non può lasciare indifferenti, con le cristalline voci delle splendide interpreti che declamano versi scritti in un italiano pregno di una ricchezza espressiva destinata, irrimediabilmente, a scemare di pari passo con l’abbrutimento etico e sociale.
Gli otto brani riconciliano con l’arte, in virtù di una proposta che non ha nulla dello snobismo intellettuale di certe proposte elitarie, ma riporta direttamente all’essenza della musica, quella che riluce in particolare nella conclusiva Quando ‘l sol, dove la poetica petrarchesca viene sublimata in una trasposizione di abbagliante bellezza, grazie all’interpretazione vocale di Desirée Corapi ed al talento pianistico di Elena Previdi.
E’ magnifica anche Mi Vuoi, dal beffardo e trascinante finale, mentre l’altra traccia ispirata dal poeta toscano è Pace Non Trovo, perfetta nel suo duetto tra voce femminile e maschile: anche per questi due brani, oltre al già citato Quando ‘l sol, sono stai girati altrettanti video, meritevoli di visione anche per la cura dei particolari che li contraddistingue. Le Vergini Folli è un album da non perdere, è un lampo di struggente poesia che si fa musica (nel senso più letterale) ed essendo in qualche modo collocabile artisticamente nel passato, per un ascolto ideale necessita dell’astrazione da un presente che non contempla soverchie pause di riflessione.
Tracklist:
1.Lacrime di gioia
2.Scrissi con stile amaro
3.Notte di novelli sogni
4.Mi vuoi
5.Notte ancora
6.Pace non trovo
7.Dolce salire
8.Quando ‘l sol
Line up:
Elena Previdi – composizione, tastiere, clavicembalo, organo, fisarmonica e percussioni
Giancarlo Vighi – tastiere, percussioni, voce (coro)
3vor – voce (baritono), percussioni, tastiere e campionamenti
Manuel Aroldi – percussioni
Marco Colombo – percussioni
Desirée Corapi – voce
Carmen D’Onofrio – voce (soprano lirico)
Chiara Rolando – voce
Un album potentissimo e dall’impatto devastante, assolutamente in grado di tenere legati allo stereo prima che le cuffie si trasformino in un ammasso di plastica e fili, fusi dall’inferno di lava bollente che improvvisamente scende tra le note dall’album.
Continua senza sosta l’ottima forma della scena alternativa made in Italy, da un po’ di anni ben assestata nei piani alti dell’underground nazionale ed internazionale e che ci fa partecipi di ottime realtà e tanta buona musica.
L’alternative metal dai rimandi stoner e soprattutto doom è il sound offerto dai Blowout, band trentina con nel sangue la sabbia del deserto e non la neve delle loro bellissime montagne.
I Blowout hanno dato inizio al loro viaggio tra pianure assolate e vulcani addormentati nel 2013, hanno trovato rimedio a diverse defezioni nella line up e un paio di anni fa hanno licenziato il loro primo ep.
E’ giunto il momento per la band del meritato esordio sulla lunga distanza che arriva quest’anno con Buried Strength, album di otto brani che vede la partecipazione in veste di ospite dello storico chitarrista Dario Cappanera (Strana Officina, Rebeldevil) sul brano Stomp On Fire. Buried Strength è un vulcano in eruzione, un potentissimo calcio nei denti che farà tremare le pareti di casa vostra come il terremoto che precede l’esplosione di lava, un pesante album di metallo alternativo che amalgama impatto ed attitudine stoner metal a più tradizionali bordate di doom, il tutto perfettamente legato da sfumature southern e grunge che modernizzano e rendono molto americano il tutto.
Ed è proprio la traccia che vede come ospite il Kappa, l’esempio perfetto del sound lavico del gruppo, dove i Cathedral di Lee Dorian jammano con i Kyuss, i Black Sabbath e i Down, in un’atmosfera catacombale.
Ma non ci si ferma qui e i Blowout hanno diverse frecce da scagliare, e l’atmosfera settantiana ritual e cadenzata (ancora la bellissima title track) è alternata a passeggiate nella Sky Valley (l’opener Cheers In Hell e Slum) prima che tutto si tramuti in cenere che lenta cade sul nostro stereo al ritmo della sabbathiana Scars On The Road.
Un album potentissimo e dall’impatto devastante, assolutamente in grado di tenere legati allo stereo prima che le cuffie si trasformino in un ammasso di plastica e fili, fusi dall’inferno di lava bollente che improvvisamente scende tra le note dall’album.
Tracklist
1. Cheers in hell
2. Slum
3. Feel The Phantom Pain
4. Be Divided Be Ruled
5. Stomp On Fire
6. Ghost Shadow
7. Buried Strength
8. Scars of the Road
Line-up
Lorenzo Helfer – Bass
Giuseppe Fontanari – Guitars
Igor Rossi – Vocals
Michele Matuella – Drums
Andrea Avancini – Guitars
E’ giunta l’ora in cui la seconda apocalisse targata Worstenemy si abbatta su di voi senza lasciarvi scampo.
E’ giunta l’ora in cui la seconda apocalisse targata Worstenemy si abbatta su di voi senza lasciarvi scampo.
Il gruppo sardo torna con un nuovo lavoro, il devastante parto estremo intitolato Deception, a quattro anni di distanza dal notevole Revelation, album che lo aveva fatto conoscere ad una più ampia fetta di amanti del death metal tramite la Wormholedeath.
I nuovi Worstenemy sono formati dall’ormai storico chitarrista e cantante Mario Pulisci, accompagnato questa volta dall’ex Hour Of Penance Simone “Arconda” Piras alla batteria e Luigi Cara (Deathcrush / Malignant Defecation) alle prese con basso e voce.
Di death metal si tratta, chiamatelo old school o come volete, rimane il fatto che Deception è un martello pneumatico che penetra inesorabile sulla vostra testa, seminando materia cerebrale nella stanza dove senza cautela alcuna avrete schiacciato il tasto play.
Una sezione ritmica devastante, un sound pieno, mastodontico e pesantissimo, una prova notevole a livello tecnico al servizio di un lotto di brani debordanti, fanno di Deception uno degli album più riusciti degli ultimi tempi, ovviamente parlando di death metal.
La title track è un inizio fulminante e i brani da macello metallico alternano a tratti rallentamenti doom/death da copione per poi ripartire più minacciosi e cattivi di prima; le band storiche del panorama estremo statunitense sono ancora ben presenti nel sound degli Worstenemy i quali, dalla loro, possono vantare un songwriting ispirato e tanta personalità. Conquer The Illusion, Blood And Dust, Seasons Of War, in odore di Bolt Thrower ed unica concessione “europea” al sound di Deception, e la magnifica cover di Grind (brano degli Alice In Chains dall’omonimo terzo lavoro), prendono per mano l’intera tracklist formando un muro sonoro invalicabile; mastodontico e penetrante, l’album non concede tregua, e le macerie su cui passeggiano i tre musicisti nostrani dopo il micidiale passaggio di questi inesorabili undici schiacciasassi estremi confermano il tiro di un’altra categoria del combo sardo.
Tracklist
1.Deception
2.Solis
3.Conquer the Illusions
4.Fog or Shine
5.Blood and Dust
6.A Mortal God
7.5th Level of Suffering
8.Seasons of War
9.New Era of Terror
10.Grind (Alice in Chains cover)
11.I
Line-up
Mario Pulisci – Vocals, Guitars
Luigi Cara – Bass, Vocals
Simone “Arconda” Piras – Drums
Un ottimo lavoro tutto italiano per un ascolto doom che vale la pena di fare. Sporco quanto basta, estroverso ma controllato, il disco è un salutare tuffo in immaginari non scontati.
Pronti? Anche qualora non lo foste, i BlackCapricorn hanno le idee più chiare che mai sul loro intento in questo nuovo disco, Omega.
La band sarda ha già degli ottimi trascorsi alle spalle, e non si lascia intimidire dalla sperimentazione, essendo cosciente dei propri mezzi.
È un doom sempre di ottimo livello il loro, e con questo ultimo album decidono di guardare verso una direzione più rituale e mistica rispetto, per esempio, ad un disco molto deciso e dirompente come Cult of Black Friars (2014).
C’è un sentore di solennità già dalle prime note, ovvero l’intro, che ci accompagna dentro il loro mondo inesplorato con tanta curiosità ma anche con un leggero timore. Il cantato risulta sempre evocativo e pregnante con il contesto per tutta la durata dell’ascolto, e su questo certamente non avevamo dubbi da parte di una band con parecchia esperienza e consapevolezza.
La loro scelta stilistica per questo album non abbandona però le classiche e immancabili schitarrate senza pietà che caratterizzano questo supremo genere. I Black Capricorn cercano un equilibrio tra queste due componenti, forse tenendo ben presente in testa l’immagine dei colossi Candlemass. Il brano Antartide, il più lungo di tutto l’album, intrappola un minaccioso torpore tra due estremi, all’inizio e alla fine della canzone, in cui invece sembra venirci concessa una pausa di riflessione, la quale, ovviamente, non si realizza mai del tutto.
Questa band italiana fa esattamente il proprio dovere, il che forse è uno dei limiti di questo disco, dal sound molto diretto anche se non molto elaborato. Se questo è un ottimo pregio è anche vero che, a tratti, l’impatto sonoro sembra accontentarsi e adagiarsi su alcuni standard musicali.
Tuttavia questa band conferma tutta la sua esperienza, competenza e conoscenza dei propri mezzi. Non c’è alcun dubbio che ne vedremo ancora delle belle.
Tracklist
1. Alpha
2. Evil Horde of Lucifer
3. Accabadora
4. Flower of Revelation
5. Antartide
6. Black Capricorn’ seal
7. Devil and the Death
8. The man who dared
9. Stars of Orion
10. Quest for Agartha
11. Omega
Il ritorno della Premiata Forneria Marconi è il trionfo della classe, del talento e della passione, è il veicolo ideale di quelle emozioni che solo la musica sa regalare, imprimendole virtualmente sulla nostra pelle affinché si trasformino in nutrimento per l’anima.
E’ sempre difficile raccontare ciò che contiene e restituisce in termini di sensazioni un disco qualsiasi, figuriamoci se questo corrisponde al ritorno ad un album di inediti dopo oltre un decennio da parte di musicisti che hanno fatto la storia del rock progressivo, non solo in Italia.
Stiamo parlando della Premiata Forneria Marconi, band che è stata una delle tre punte del movimento tricolore negli anni settanta assieme a Banco ed Orme ma che, magari, quelli un po’ meno vetusti del sottoscritto assoceranno più naturalmente al gruppo che diede una nuova veste alle canzoni di Fabrizio De Andrè, accompagnandolo a lungo in tour ed ottenendo un enorme successo.
Il tempo passa inesorabile (sono quarantacinque gli anni che ci dividono da Storia di Un Minuto), ma i due brillanti settantenni che rispondono ai nomi di Franz Di Cioccio e e Patrick Djivas hanno ancora voglia di mostrare a tutti quanto abbiano da dire; e proprio il tempo, con il suo inesorabile trascorrere, connesso alla necessità di cogliere l’attimo e sfruttare ogni occasione senza porsi alcun limite, men che meno anagrafico, è un po’ il filo conduttore di un lavoro che non è solo splendido da un punto di vista strettamente musicale ma, appunto, da quello concettuale.
Giusto per essere chiari fin da subito, Emotional Tattoos, è quanto più lontano si possa immaginare dal fiacco ritorno di un gruppo di reduci: Di Cioccio e Djivas, assieme al loro storico sodale Lucio Fabbri, hanno radunato attorno a loro una band che è uno spettacolare mix tra esperienza e talento; così, alle tastiere troviamo due giovani come Alessandro Scaglione e Alberto Bravin (quest’ultimo si occupa anche della backing vocals), mentre alla batteria, ad alternarsi allo storico Franz, troviamo uno dei più richiesti professionisti dello strumento come Roberto Gualdi e, infine, alla chitarra, il non facile compito di sostituire per la prima volta su un album di inediti Franco Mussida è stato affidato al napoletano Marco Sfogli, uno degli astri nascenti delle sei corde, già ampiamente apprezzato anche fuori dai nostri confini in quanto titolare del ruolo nella band che accompagna James LaBrie in veste solista.
Con queste premesse, gli scettici potrebbero continuare a ritenere che, in fondo, dal punto di vista tecnico non ci sarebbe stato nulla da eccepire a prescindere, ma riguardo ai contenuti? Ecco, qui sta il bello: i tatuaggi emotivi evocati dal titolo si stampano adornando senza soluzione di continuità la pelle dell’ascoltatore, ed ogni immagine corrisponde ad un brano che mostra una ricchezza ed una qualità che, nonostante tutto, riesce ugualmente a stupire.
Gli undici brani rappresentano un viaggio nella memoria per i più anziani e l’eccitante scoperta per i più giovani di un epopea che magari si è persa in tempo reale, ma che nulla vieta di recuperare facendola propria a posteriori: Emotional Tattoos, però, è bene ribadirlo, non ha nulla di nostalgico a livello di sonorità, bensì appare in tutto e per tutto un album assolutamente al passo con i tempi, e se l’impronta della vecchia PFM è sempre lì, ben presente nel ricordarci chi siano gli autori di Celebration (Freedom Square), sono brani dal tocco più moderno come il favoloso singolo La Lezione o caleidoscopici come La danza degli specchi, con la quale i nostri portano a scuola diverse generazioni di musicisti, a risplendere con tratti quasi accecanti all’interno di una tracklist tutta da godersi e della quale appare quanto mai superfluo, se non irrispettoso, stare a raccontarne ogni singolo episodio per filo e per segno, facendo le pulci all’operato di musicisti ai quali andrebbero piuttosto intitolate vie e piazze in segno di imperitura gratitudine.
Come ciliegina sulla torta la PFM ha pubblicato Emotional Tattoos nel formato in doppio cd offrendo agli appassionati la possibilità di ascoltare l’album sia in lingua madre che in inglese: il mio consiglio è quello di godere di entrambe le versioni, in quanto alcuni brani si esaltano nella versione anglofona (The Lesson è molto più efficace rispetto a La Lezione), mentre in altri casi l’afflato poetico che l’italiano emana a prescindere fa la differenza nel confronto tra Il Regno e We’re Not An Island e tra La Danza degli Specchi e A Day We Share.
Il ritorno della Premiata Forneria Marconi è il trionfo della classe, del talento e della passione, è il veicolo ideale di quelle emozioni che solo la musica sa regalare, imprimendole virtualmente sulla nostra pelle affinché si trasformino in nutrimento per l’anima.
Tracklist:
CD 1 – English version
1. We’re Not An Island
2. Morning Freedom
3. The Lesson
4. So Long
5. A Day We Share
6. There’s A Fire In Me
7. Central District
8. Freedom Square
9. I’m Just A Sound
10. Hannah
11. It’s My Road
CD 2 – Italian version
1. Il Regno
2. Oniro
3. La lezione
4. Mayday
5. La danza degli specchi
6. Il cielo che c’è
7. Quartiere generale
8. Freedom Square
9. Dalla Terra alla Luna
10. Le cose belle
11. Big Bang
Line-up:
Franz Di Cioccio: lead vocals, drums
Patrick Djivas: bass
Alessandro Scaglione: keyboards, Hammond, Moog
Lucio Fabbri: violin
Marco Sfogli: guitars
Roberto Gualdi: drums
Alberto Bravin: keyboards, backing vocals
Melodic death metal e metalcore si uniscono nel sound dei D With Us dando vita così ad un ottimo lavoro, potente e melodico, scandito da ritmiche moderne, ma valorizzato da solos e soluzioni di stampo death e più orientate alla tradizione estrema di stampo classico.
Arrivano all’esordio tramite l’attivissima label napoletana Volcano Records & Promotion i D With Us, quartetto piemontese protagonista di un ottimo melodic death metal unito alla forza ritmica del metalcore.
La band è attiva dal 2013, voluta da Maurizio Molonato in memoria del figlio Davor, chitarrista e pianista scomparso all’età di quindici anni, ma i non pochi cambi di line up hanno portato il gruppo alla formazione attuale che vede impegnati Daniele Salomone (chitarra e voce), Matteo De Faveri (chitarra), Gioele Sechi (basso), Lorenzo Bonak Bonaccorso (batteria); l ‘ep di debutto si intitola Searching For The Light ed è stato registrato nei DDstudiorecords dallo stesso Maurizio Molonato.
Melodic death metal e metalcore si uniscono nel sound dei D With Us dando vita così ad un ottimo lavoro, potente e melodico, scandito da ritmiche moderne, ma valorizzato da solos e soluzioni di stampo death e più orientate alla tradizione estrema di stampo classico; l’ep possiede un tiro sufficiente per destare l’attenzione degli amanti del genere, dall’opener Warrior’s Heart, preceduta dall’intro, passando per l’ottima struttura della title track, scelta come singolo e brano perfetto tra riff di stampo swedish death, ritmi moderni e refrain melodico quanto basta per non uscire più dalla testa.
I quattro giovani musicisti non si fanno pregare e picchiano quando serve oppure valorizzano l’atmosfera dei brani con accordi melodici ed intimisti (The Passage), prima che la tempesta metallica torni ad abbattersi sull’ascoltatore.
Echi elettronici ed atmosfere industrial fanno da preludio alla conclusiva Threat Presence, mentre precedentemente Never Stop Until The End si era rivelato come il brano più diretto di Searching For The Light; un buon inizio per i DWithUs che, sommato alle ottime impressioni suscitate nel corso delle esibizioni dal vivo, ne fanno una realtà da seguire con attenzione.
Tracklist
1. Intro
2. Warrior’s Heart
3. Searching For The Light
4. The Passage
5. Never Stop Until The End
6. Threat Presence
Line-up
Daniele Salomone – Vocals, Guitar
Matteo De Faveri – Guitars
Gioele Sechi – Bass)
Lorenzo Bonak Bonaccorso – Drums
Il black metal è un genere molto difficile al quale approcciarsi e con il quale stringere amicizia. Una band con potenzialità e voglia di fare, ma che ancora non ha trovato la sua quadratura del cerchio.
Eccoci al terzo album degli Hornwood Fell, My Body My Time. Un duo tutto italiano e molto volenteroso, in continua evoluzione e ricerca della propria identità. È evidente questo percorso nel nuovo lavoro della band, che presenta davvero tutte le caratteristiche della ricerca e del cambiamento.
Se da una parte, dunque, c’è sempre una scintilla di curiosità e novità nell’ascoltare le loro produzioni, si possono trovare anche diversi lati negativi, che inevitabilmente qui non mancano.
Ripartendo da quello che probabilmente, fino ad adesso, è il loro album più riuscito, ovvero Yheri, dove già abbiamo trovato l’alternanza tra growl/scream e clean vocals, qui la band decide di concentrarsi al 100% sulla voce pulita. Scelta sempre azzardata e che richiede molto coraggio all’interno di un genere necessariamente (a volte troppo) elitario e chiuso come il black metal.
Grandi band si erano già cimentate in questo esperimento, su tutti Agalloch o Urfaust, senza dimenticare ovviamente gli immensi Ulver. C’erano riuscite in maniera sopraffina, sapendo portare anche della tiepida brezza in mezzo ai boschi folti, scuri e innevati dello scenario black.
Ascoltando questo album si ha, ahimè, l’idea che questo grintoso duo non sia ancora pronto per una sfida così delicata, infatti la parte vocale dà spesso la sensazione che ci sia un’altra traccia sovrapposta a quella che stiamo ascoltando, come una voce fuori campo. Non si viene a creare, anche per questo importante motivo, quell’atmosfera di agghiacciante solitudine mista ad un elegante e fiero odio che caratterizza il genere.
La parte strumentale ha ottime potenzialità, e lo vediamo per esempio in un pezzo come Passage: anche quella però, manca di un po’ di inventiva, elemento che però questi ragazzi hanno nelle loro corde, come ci hanno mostrato nei loro album precedenti, rispetto ai quali quest’ultimo rappresenta forse una regressione. Ma il cambiamento implica sempre lo smarrimento.
Tracklist
1. The Returned
2. Her Name
3. Dark Cloak
4. Passage
5. Run Through
6. The Livid Body
7. Hidden Land
Line-up
Marco Basili: Vocals, Guitars, bass and Synth
Andrea Basili: Batteria, Backing Vocals and Synth
One Light Year è tutt’altro che un lavoro superfluo o anacronistico e, di conseguenza, le band come i Marygold vanno solo supportate e ringraziate per la loro impagabile passione ed i brividi che riescono a trasmettere.
La storia dei Marygold parte piuttosto da lontano, dovendo risalire alla metà degli anni novanta per trovarne la prime tracce nelle vesti di cover band dei Marillion eraFish e dei Genesis.
Dopo aver intrapreso la lodevole strada della composizione di brani originali ed aver ottenuto buoni riscontri all’epoca della loro unica uscita su lunga distanza, The Guns of Marygold, datato 2006, la band veronese ha dovuto far fronte agli intralci tipici di chi dalla musica trae gratificazioni di tutti i generi fuorché quelle economiche.
Il ritorno, concretizzatosi un paio d’anni fa e che ha dato quale frutto l’uscita di One Light Year sotto l’egida della Andromeda Relix, si può a buona ragione definire tra l’affascinante e l’anacronistico: infatti, chi ha apprezzato nello scorso secolo tali sonorità dovrebbe trovare di che compiacersi per una loro riproposizione così ortodossa ed efficace ma, d’altro canto, lecitamente molti potrebbero chiedersi se oggi abbia ancora un senso proporre qualcosa che appare così marcatamente legato ad un epopea ben definita temporalmente.
La risposta ovvia a quest’ultima domanda è che comunque la buona musica un suo senso ce l’ha sempre, sia che possa sembrare obsoleta sia che pecchi manifestamente in originalità; a tale proposito ribalto le perplessità sui molti che accorrono a frotte ad ascoltare quella stessa musica riproposta da pur ottime cover band ignorando del tutto, nel contempo, chi invece prova a rinverdirne le gesta con brani di proprio conio.
I Marygold appartengono appunto a quest’ultima categoria e non fanno nulla per nascondere la devozione per i Marillion dei capolavori corrispondenti ai primi tre full length della loro discografia e, conseguentemente, anche quella per i primi Genesis, oltre a riferimenti ad altre importanti band della seconda ondata del prog inglese come gli IQ e i Pendragon.
Le composizioni che fanno parte di One Light Year sono facilmente riconoscibili per le loro trame grazie a un tocco tastieristico e chitarristico inconfondibile e un cantato che si ispira all’accoppiata Gabriel/Fish, con risultati apprezzabili per intensità anche se brillando un po’ meno rispetto alla sezione strumentale.
Il progressive dei Marygold è competente, elegante ed ispirato il giusto per rispedire al mittente qualsiasi obiezione: i sette lunghi brani non cambieranno la storia del genere ma sicuramente sono funzionali a rinsaldarne il peso all’interno della musica contemporanea: perché, diciamolo forte e chiaro, ascoltare queste canzoni nelle quali una chitarra rotheryana regala più di un passaggio da ricordare è un qualcosa che fa bene all’animo e allo spirito di chi quei bei tempi un po’ li rimpiange, non solo per motivi strettamente musicali. One Light Year si trasforma così in un sempre gradito e ben poco disagevole viaggio a ritroso nel tempo: per quanto mi riguarda, l’ascolto di brani splendidi come Spherax H2O e Without Stalagmite (ne cito due quali esempi ma il discorso lo si può fare indistintamente anche per le altre cinque tracce) si rivela come una sorta di ritorno a casa, dove ad attendermi ci sono i dischi e le musicassette del genere che mi hanno sempre accompagnato fin dall’adolescenza, facendomi scoprire quanto siano irrinunciabili le emozioni che le sette note possono donare.
Ecco elencati i motivi per cui One Light Year non è affatto un lavoro superfluo e perché, piuttosto, le band come i Marygold vadano solo supportate e ringraziate per la loro impagabile passione ed i brividi che riescono a trasmettere.
Tracklist:
Ants in the Sand
2.15 Years
3.Spherax H2O
4.Travel Notes on Bretagne
5.Without Stalagmite
6.Pain
7.Lord of Time
Bellissima e fondamentale riedizione del secondo full length dei Cadaveria, edita dalla Sleaszy Rider con una nuova veste grafica, rimasterizzato e remixato: Far Away From Conformity ne esce rivitalizzato, confermando la band come una delle più importanti realtà estreme del nostro paese e l’album come un passo importante nello sviluppo del suo sound.
Era l’ormai lontano 2004 quando i Cadaveria diedero alle stampe Far Away From Conformity, secondo full length dopo l’ uscita della vocalist Cadaveria e di Flegias dagli Opera IX.
La band, capitanata dalla storica signora del metal estremo tricolore, ha deciso di riprendere in mano questo bellissimo lavoro per rivestirlo, grazie alla Sleaszy Rider, di una nuova veste grafica, con un booklet di dodici pagine nella versione digipack, e l’uscita di un vinile colorato limitato a 300 copie che vedrà la luce a quattordici anni esatti dalla prima versione (il 18 Gennaio 2018).
Ma le novità non si fermano qui, infatti la band ha completamente remixato e rimasterizzato i brani e, a causa di un contrattempo tecnico, Cadaveria ha inciso ex novo la voce per Blood And Confusion e The Divine Rapture, due delle nove tracce presenti più la cover di Call Me dei Blondie. Far Away From Conformity esce rivitalizzato dall’operazione, confermando la band come una delle più importanti realtà estreme del nostro paese e l’album come un passo importante nello sviluppo del suo sound.
Molto più thrash oriented rispetto agli ultimi lavori, incentrati su un black metal teatrale e gotico, e più vicino, a mio parere, al sound dei Necrodeath (compagni d’avventura nel recente ottimo split/ep Mondoscuro), l’album meritava una seconda chance, ora che il metal italiano è tenuto in maggiore considerazione rispetto agli anni passati.
E i Cadaveria fanno parte a pieno titolo della storia del metal tricolore e la qualità di questi brani lo confermano in toto: un thrash metal ricamato di un drappo oscuro e maligno, una sfumatura heavy doom che, a tratti, prende in mano il sound trasformando i brani in lunghe e cadenzate marce funebri (Omen Of Delirium e la cover di Call Me lasciano senza fiato) mentre la vocalist è protagonista di una grande prestazione, perfetta sia nelle parti estreme che nelle sofferte parti pulite. Far Away From Conformitynella sua nuova veste non appare mai datato, anche se negli anni seguire il gruppo ha abbandonato in parte il sound diretto che caratterizza molti dei brani presenti, ma tracce di categoria superiore come Blood And Confusion, Irreverent Elegy o Out Body Experience valgono da soli il prezzo di questa bellissima riedizione.
Tracklist
01 – Blood And Confusion
02 – Eleven Three O Three
03 – Irreverent Elegy
04 – The Divine Rapture
05 – Omen Of Delirium
06 – A Different Way
07 – Call Me
08 – Out Body Experience
09 – Prayer Of Sorrow
10 – Vox Of Anti-Time
Necronaut è un susseguirsi di assalti sonori, di canzoni sempre interessanti per tutta la loro durata, di buone intuizioni sonore e di grande affiatamento, che si esprime in un disco di notevole cattiveria metallica e di ottime melodie.
Gli Ozaena sono un gruppo che va subito al sodo e, dopo un brano di introduzione, il gruppo romano ci mostra subito quali siano le sue intenzioni, proponendo un groove metal da primi anni duemila, potente e preciso, con belle linee sonore.
Gli Ozaena sono stati fondati nel 2015 dal chitarrista Stefano Bussadori, e dopo qualche cambio si sono assestati nella loro attuale formazione. Dopo un’intensa attività dal vivo hanno pubblicato per la L.A. Riot Survival Records il loro debutto sulla lunga distanza intitolato Beneath The Ocean. Questo secondo disco migliora ulteriormente il loro percorso musicale la cui colonna vertebrale è formata da un suono che ci riporta al primi anni del secolo se non addirittura più indietro, perché oltre al groove metal qui si possono trovare alcune reminiscenze di un tipo di nu metal che si è perso, ovvero quello più pesante e legato al metal, con timbriche vocali che godono comunque della giusta libertà, anche perché il nuovo cantante Valerio Cascone è molto valido. Il disco è di buona qualità e regala momenti eccellenti, di puro godimento metallico, tra cavalcate e saturazioni atmosferiche, perché gli Ozaena sono un gruppo che compone e suona cose al di sopra della media, soprattutto per la personalità che pervade la loro musica e li rende riconoscibili, con questo tiro un po’ vecchia scuola che non ha quasi nessuno al giorno d’oggi. Necronaut è un susseguirsi di assalti sonori, di canzoni sempre interessanti per tutta la loro durata, di buone intuizioni sonore e di grande affiatamento, che si esprime in un disco di notevole cattiveria metallica e di ottime melodie.
Tracklist
01. Phase One
02. From The Hollow
03. Ghost Inside
04. Pale Light
05. Necronaut
06. Second Sight
07. Highest Wall
08. Kneel Down
09. We Are One
Tanta melodia fino a sfiorare l’aor, cavalcate power metal pregne di un’epicità insita negli argomenti trattati e progressive metal dal piglio neoclassico, con le tastiere capaci di impressionare positivamente l’ascoltatore: questo è Eucharismetal, bellissimo terzo lavoro dei Metatrone.
Vale la pena tornare indietro nel tempo quel tanto che basta per presentarvi il terzo album dei Metatrone, impressionante band power/progressive metal siciliana, dal concept fortemente religioso tanto da essere annoverata all’interno del christian metal.
Si tratta di una sorta di super gruppo che vede, oltre al tastierista e ideatore del progetto Metatrone, padre Davide Bruno, il cantante degli Ancestral, Jo Lombardo, Dino Fiorenza al basso, Salvo Grasso alla batteria e Stefano Calcagno alla chitarra.
Al terzo album di una discografia iniziata con La Mano Potente nel 2006, seguito da Paradigma nel 2010, i Metatrone presentano un piccolo gioiello metallico, che non deve insospettire per i temi trattati, perché la band, con una tecnica spaventosa e grinta da vendere, attacca al muro con una serie di brani sorprendenti per intensità e livello del songwriting: troviamo così spettacolari melodie, un perfetto uso della doppia voce e un lavoro tastieristico dalle scale neoclassiche degne del miglior Andrè Andersen.
La citazione dei Royal Hunt non è casuale, e partiamo proprio dalla band danese per introdurvi alle trame musicali di Eucharismetal, titolo che ben evidenzia la volontà dei Metatrone di nobilitare il cristianesimo attraverso la musica metal, cosa che a Davide Bruno e compagni riesce alla perfezione, con un sound intriso di melodia tanto da sfiorare a tratti l’aor, e cavalcate power metal pregne della solennità insita negli argomenti trattati; del resto i musicisti impegnati sono vecchie conoscenze del metal tricolore, quindi l’esperienza è assicurata, e anche grazie ad una produzione vincente l’album entusiasma tanto da far invidia a molte realtà straniere.
Con tutta questa carne al fuoco l’ascolto non lascia scampo e si viene travolti dal piglio aggressivo di brani come Molokai, dalla seguente Beware The Sailor, Latest News From Light, song magnifica con l’intera band sugli scudi, dal gioiellino strumentale Mozart Nightmare, che introduce la seconda parte del cd dove la lingua italiana prende il sopravvento senza far perdere intensità e grinta a tracce melodic/prog/power come Salva L’anima, Una Parte Di Me, Regina Coeli e la conclusiva Lascia Che Sia. Eucharismetal regala quasi settanta minuti di metal sopra le righe, rivelandosi uno splendido esempio di come nel nostro paese abbondino straordinari talenti.
Tracklist
01. Alef Dalet Mem
02. Molokai
03. Beware the Sailor
04. Wheat and Weeds
05. Latest News from Light
06. In Spirit and Truth
07. Mozart’s Nightmare
08. Keep Running
09. Salva l’Anima
10. Una parte di me
11. Regina Coeli
12. Alef Dalet Mem (Italian Version)
13. Lascia che sia
Gli Ubiquity convincono grazie ad un sound che mantiene sempre alto il suo carico tensione, tra sfuriate post hardcore, black metal, pesantezze sludge e limitate pause di interlocutoria riflessione.
I sardi Ubiquity esordiscono sotto l’egida della Third I Rex con questo ottimo Forever Denied.
Muoversi oggi all’interno del post metal sludge è un po’ come camminare su un campo minato, perché è facile restare intrappolati da un certo manierismo che talvolta affligge il genere, laddove si predilige soprattutto l’impatto perdendone di vista l’intensità e quindi l’aspetto emotivo
A questo pericolo sfuggono abilmente gli Ubiquity, partendo subito con l’evocativa ripresa della poesia di Tiziano Sclavi, La Ballata della Morte, tratta dal suo romanzo (e poi film) Dellamorte Dellamore, e portando il tutto su un piano comunicativo ben preciso, grazie ad un sound che mantiene sempre alto il suo carico tensione, tra sfuriate post hardcore, black metal, pesantezze sludge e limitate pause di interlocutoria riflessione.
Il vocalist Davide si sgola seguendo i canoni del genere, mentre i suoi compagni compongono con disinvoltura un puzzle sonoro che è per lo più aspro senza disdegnare però qualche apertura melodica, con la chitarra di Leonardo capace di disegnare trame di buona intensità, specialmente nella splendida Lost Pt.2, ma l’attenzione dell’ascoltatore viene tenuta ben desta fino all’ultima nota della conclusiva Form, altra traccia davvero rimarchevole
Dall’antica Ichnusa stanno emergendo con continuità realtà metalliche di grande spessore, specialmente nell’ambito dei generi più estremi, tutte accomunate da un’invidiabile chiarezza di intenti ed una selvaggia spontaneità che ne eleva in maniera esponenziale la freschezza e conseguentemente l’impatto: gli Ubiquity si vanno a collocare da subito tra le migliori, in virtù di un album come Forever/Deniedche non ha davvero nulla da invidiare alle più celebrate band continentali.
Tracklist:
1. Forever, Denied
2. Hopes
3. Lost Pt. I
4. Lost Pt. II
5. Form
I Vinnie Jonez sono un gruppo fuori dal comune, hanno molti pregi ma uno su tutti è quello di raccontare storie in maniera mirabile ed introspettiva, con una sostanza musicale che è una ottima mistura di rock pesante, stoner e tanto, tanto grunge, sia nel dna che nell’espressione sonora.
Il nome Vinnie Jonez Band già dovrebbe risvegliare qualcosa in chi ama improbabili centrocampisti gallesi, molto più a loro agio a sudare nell’ombra e a mangiare polvere, ma sono questi i nostri eroi preferiti, e questo gruppo musicale di Palestrina lo ha capito perfettamente.
In questo album d’esordio troverete una rara maniera di elaborare rock pesante in lingua italiana, come non si sentiva da tempo. Le coordinate sono da ricercarsi oltreoceano per le modalità, ma come stile è tutto italiano, proveniente da quella scuola che arriva da molto lontano, ma è passata per gruppi come i Ritmo Tribale, i Timoria nella loro età di mezzo e tanti altri, magari misconosciuti. I Vinnie Jonez sono un gruppo fuori dal comune, hanno molti pregi ma uno su tutti è quello di raccontare storie in maniera mirabile ed introspettiva, con una sostanza musicale che è una ottima mistura di rock pesante, stoner e tanto, tanto grunge, sia nel dna che nell’espressione sonora. Non ci stancheremo mai di dire quanto il grunge abbia e stia influenzando un certo tipo di musica e di gruppi, e si potrebbe addirittura affermare che non sia stato mai vivo come ora. La dimostrazione è questo album, Nessuna Cortesia All’Uscita, un piccolo capolavoro di come si possa coniugare musica interessante e grandi testi in italiano. Non c’è nulla di scontato in questo disco, ma una materia che viene fuori a poco a poco, che proviene dalle nostre interiora, e cresce solo se scaviamo dentro. Il rock pesante dei Vinnie Jonez Band è una proposta che mancava nel novero dei gruppi underground italiani, ed è assolutamente da sentire, sia per chi ha amato alla follia gli anni novanta sia per chi ama il rock pesante fatto con classe, e qui ne trovate molta, assieme ad altrettante idee.
Gemini è un lavoro suggestivo, la tipica opera che va assaporata proprio come una composizione classica, e la durata tutt’altro che breve non inficia la fluidità dell’ascolto, tra scale neoclassiche, brani dal piglio power sinfonico e progressivo ed altri che lasciano le luci della ribalta ai tasti d’avorio del musicista italiano.
Quello tra metal e musica classica è un connubio che dura ormai da quasi mezzo secolo, almeno da quando i Deep Purple nel 1969 si unirono alla Royal Philarmonic Orchestra, condotta da Malcolm Arnold, per uno storico live show;
nel corso degli anni l’incontro si è verificato sempre più spesso dando vita a diversi lavori divenuti poi dei classici.
Dal metal tradizionale a quello estremo, con l’importante aiuto di molte soluzioni progressive, questa per molti sacrilega alleanza è divenuta uno splendido modo per portare la musica classica all’attenzione dei fans del metal, e viceversa. Mistheria è un compositore e produttore italiano la cui lunga esperienza e la moltitudine di collaborazioni lo hanno portato a scrivere il suo nome su una settantina di opere, affiancando musicisti storici, autentiche leggende e nomi comunque importanti del rock/metal mondiale.
Finita la sua collaborazione con il mastodontico Vivaldi Metal Project – The Four Season, progetto che vede impegnati più di un centinaio di artisti metal e classici, si è dedicato alla stesura e composizione di Gemini, opera licenziata dall’attivissima Rockshots Records, aiutato da una manciata di musicisti della scena internazionale.
La Trans Siberian Orchestra, il nuovo volto sinfonico e classico dei Savatage, fa capolino da questa raccolta di composizioni che, come negli album del supergruppo statunitense, propone brani originali alternati a cover di brani classici, ma nel caso di Gemini in versione strumentale e più orientati ad un più accentuato neoclassicismo.
Non a caso tra gli ospiti spicca la presenza di Chris Caffery, alla chitarra insieme a Roy Z, Roger Staffelbach, Leonardo Porcheddu e Ivan Mihaljevic , di Steve Di Giorgio al basso, con Dino Fiorenza, e John Macaluso alla batteria, il tutto orchestrato da Mistheria che, oltre alle tastiere, si è occupato degli arrangiamenti. Gemini è un lavoro suggestivo, la tipica opera che va assaporata proprio come una composizione classica, e la durata tutt’altro che breve non inficia la fluidità dell’ascolto, tra scale neoclassiche, brani dal piglio power sinfonico e progressivo ed altri che lasciano le luci della ribalta ai tasti d’avorio del musicista italiano.
Diviso in tredici brani che si possono considerare come veri e propri movimenti, Gemini troverà ottimi riscontri in chi ama tali sonorità, mentre lascerà indifferenti tutti gli altri, ma è indubbia la capacità di Mistheria nel saper far convivere le due anime principali del sound in modo fluido e armonico, regalando emozioni a più riprese.
Un lavoro impressionate che non può mancare nella discografia degli amanti del metal classico e di quello orchestrale.
Tracklist
01 – Hands Of Fire
02 – Angels In The Shadow
03 – Fight Of The Bumblebee
04 – Moonlight Sonata
05 – Air “The Day After”
06 – Devil’s Step
07 – Prayer To God
08 – Prog Fantasy
09 – Falling Stars
10 – My Dear Chopin
11 – Asturias
12 – Adagio in G minor
13 – Metal Piano Sonata op.13
Line-up
Mistheria – music, arrangements, keyboards
Roger Staffelbach – guitar
Leonardo Porcheddu – guitar
Ivan Mihaljevic – guitar
Steve Di Giorgio – bass
Dino Fiorenza – bass
John Macaluso – drums
Evil In The Dark è un album che va lavorato non poco per apprezzarne il sound fuori dai consueti schemi: un’opera di un’originalità unica, oscura e a tratti opprimente, destinata a lasciare il segno.
I veronesi Black Hole fanno parte di quella eletta schiera di band provenienti dagli anni ottanta che si possono sicuramente considerare di culto.
Il leggendario primo album, uscito nel 1985, è ancora oggi considerato uno dei lavori più oscuri mai usciti, non solo nella nostra penisola, così come un’aura misteriosa ha sempre accompagnato il leader Robert Measles, polistrumentista, personaggio schivo e fuori dai consueti circuiti che accomunano gran parte dei musicisti.
Il loro ultimo lavoro targato 2000 non era altro che una raccolta di registrazioni datate 1988/89, poi ancora silenzio prima che l’Andromeda Relix arrivasse a licenziare Evil In The Dark, opera che raccoglie vecchie sessioni dei primi anni novanta e nuove tracce.
Detto che la formazione dei Black Hole comprende Robert Measles, alle prese con voce, tastiere e drum machine, il chitarrista Michael Sinnicus ed il batterista Robin Hell, che compare su tre tracce, ci inoltriamo tra le trame occulte ed esoteriche di questa mastodontica opera oscura intitolata Evil In The Darke nella sua alternanza di parti doom metal, dark e new wave anni ottanta, unite a sprazzi di progressive dark rock.
Un album di difficile catalogazione, un ascolto assolutamente affascinante ma dannatamente ostico, almeno per i canoni odierni; la musica dei Black Hole, infatti, è fortemente legata ad un concetto apocalittico, a tratti da colonna sonora, in altri momenti legata da un filo di spine alla musica elettronica e alla dark wave meno commerciale, cosa che si evince specialmente nelle due parti di X Files, cuore di questo lungo viaggio in quello che è, nella sua interezza, un peregrinare tra la parte più oscura di questo drammatico nuovo millennio.
Non fatevi ingannare dall’artwork : il cimitero sconsacrato, le croci rovesciate sulle tombe, i tre loschi figuri incappucciati con le asce sporche di sangue e l’oscura fortezza sul retro non vi porteranno tra facili storielle fantasy, ma toccherete con mano la terribile paura dell’occulto e della morte, del mistero e di un futuro incerto con le fredde tastiere dal suono che si insinuerà nella vostra testa come un diabolico serpente. Evil In The Dark è un album che va lavorato non poco per apprezzarne il sound fuori dai consueti schemi: un’opera di un’originalità unica, oscura e a tratti opprimente, destinata a lasciare il segno.
Tracklist
1.Evil in the Dark
2.Alien Woman
3.Holy Grail
4.Octopus Tenebricus
5.The Way of Unwitting
6.Astral World
7.X Files
8.X Files Part II
9.Inferi Domine
10.Dangerous Beings
11.Nightmare
12.The Final death
Line-up
Robert Measles – All instruments
Michael Sinnicus – Guitars
Robin Hell – Drums
Ciò che viene offerto dalla coppia di musicisti è un black atmosferico e depressivo dalla notevole intensità, cantato in italiano, e con un senso melodico sempre ben presente anche quando i ritmi si fanno più incalzanti.
L’Infinito Abisso Dell’Anima è un duo bergamasco formato da Ivan Bonomi e Vito Burini, al passo d’esordio con questo ottimo In Viva Morte Morta Vita Vivo.
Ciò che viene offerto dalla coppia di musicisti è un black atmosferico e depressivo dalla notevole intensità, cantato in italiano e quindi dai testi più facilmente comprensibili nonostante siano declamati per lo più tramite uno screaming in linea con il genere, alternato sovente ad un declamatoria voce pulita.
Se a livello lirico il lavoro talvolta tende ad eccedere in enfasi, nel tentativo di descrivere in maniera quanto mai esplicita un male di vivere che sfocia infine in una morte dai connotati liberatori, l’aspetto musicale è oltremodo convincente perché vengono superati brillantemente certi minimalismi del depressive black, pur mantenendone le linee guida essenziali.
E’ appunto grazie a questo che l’operato dei due spicca sulla concorrenza, proprio perché la tensione nel lavoro è costantemente alta, grazie al contributo di un senso melodico sempre ben presente anche quando i ritmi si fanno più incalzanti.
L’aforisma di Giordano Bruno che dà il titolo all’album ben inquadra gli intenti ed il sentire che vengono riversati senza pausa nel lavoro e, alla fine, i cinque brani attestati su nove minuti medi di durata coinvolgono adeguatamente, restituendo tutto il disagio che viene espresso tramite il suo genere musicale d’elezione, del quale vengono esaltate, come detto, le caratteristiche salienti, incluso il ricorso ad una produzione non limpidissima.
A livello personale ritengo che il lavoro offra il meglio all’inizio ed alla fine, con l’apertura di grande impatto affidata a Condannato All’Oblio e la chiusura improntata sul cupo e più rallentato incedere di Vertigini, dove l’intensità creata dal connubio tra le due voci raggiunge picchi notevoli, ma gli episodi centrali si rivelano tutt’altro che marginali od inferiori, essendo ovviamente fondamentali per comprensione e la condivisone della poetica che pervade l’intero album.
Chi ama questo tipo di approccio e di sonorità si può avvicinare, quindi, senza indugi a questa prima opera firmata L’Infinito Abisso Dell’Anima.
Tracklist:
1. Condannato All’Oblio
2. Spiragli D’Ombra
3. Quello Che Resta
4. Nenia
5. Vertigini
Line-up:
Ivan Bonomi: vocals, desperation, keyboards and lyrics
Vito Burini: guitars, bass, vocals and lyrics
La giusta durata che non lascia spazio alla prolissità è un valore aggiunto alla fruibilità dell’opera, così che Helios si possa apprezzare nella sua interezza, mentre le onde si placano ed il nostro mare torna placido sulle ultime note di Time To Destroy My Life Capsule.
La musica di Misto è come il mare su cui si affaccia la sua città, Genova.
Da calma e tranquilla si increspa irrequieta o diventa impetuosa come le lunghe onde quando i venti soffiano forti , per poi tornare a dormire e, sonnecchiando, cullare la mente e il fisico di noi che da essa ci nutriamo, avidi di note. Misto è il progetto solista del polistrumentista Mirko Viscuso, al secondo lavoro dopo l’ep Infinite Mirrors, licenziato lo scorso anno.
Parliamo di post rock strumentale, dall’anima progressiva e a tratti introspettivo, poetico ed incline ad un leggero mood psichedelico che lo rende misterioso, liquido e molto affascinante, proprio come il mare e come tale soggetto a repentini cambi di umore, in un vortice di tempi che non danno una precisa identità al sound, ma variano e si alternano, tra rock ed elettronica con le burrasche elettriche che agitano lo spartito avvicinandosi al post metal (Set Your Farearms Against The Sun).
Ma come per il mare, passata la tempesta si torna in armonia prima che attimi di musica dalle reminiscenze pinkfloydiane valorizzino la bellissima title track. Helios è un lavoro strumentale che, come ci hanno abituato le giovani generazioni di musicisti, lascia da parte ogni forma di autocompiacimento tecnico a favore di un approccio emotivo altissimo: la giusta durata che non lascia spazio alla prolissità è un valore aggiunto alla fruibilità dell’opera, così che Helios si possa apprezzare nella sua interezza, mentre le onde si placano ed il nostro mare torna placido sulle ultime note di Time To Destroy My Life Capsule.
Tracklist
1.Buried Under Remote Lands
2.Polemic Guy Wants To Fight
3.Daffodils Crashing Into The Water
4.Set Your Firearms Against The Sun
5.Helios
6.Time To Destroy My Life Capsule
Silenzio Profondo è un album riuscito, perfetto nell’uso del cantato italiano, potente e melodico il giusto per fare breccia nei nuovi e vecchi fans dell’heavy metal.
Giungono al debutto sulla lunga distanza i lombardi Silenzio Profondo, tramite l’attivissima Andromeda Relix che, come dal cilindro di un mago, estrae sempre ottime realtà dalla scena metal/rock nazionale.
Questa volta si parla di heavy metal potenziato da scudisciate thrash e cantato in lingua madre: la band ha da poco festeggiato i dieci anni di attività tra vari problemi di line up ed un terzetto di lavori costituiti dall’ep del 2007 Iniziando a Sperare, Alias uscito due anni dopo, ed Heartquake licenziato nel 2011.
Sei lunghi anni e finalmente, dopo ancora vari avvicendamenti in formazione, Silenzio Profondo arriva a confermare che le fatiche del gruppo non sono state vane, con otto brani di metal tra tradizione e modernità che l’idioma italiano avvicina a band storiche come gli IN.SI.DIA, anche se musicalmente parlando i nostri seguono la strada dell’heavy classico, lasciando al thrash metal solo qualche accelerazione e qualche ritmica di stampo groove che rappresenta la parte moderna del sound.
Prodotto e registrato professionalmente, Silenzio Profondo non lascia dubbi sulla buona tecnica del quintetto e sul sound che, pur cantato in italiano. riesce a mantenere un’ottima coesione con la musica, grazie a ritornelli melodici ed un impatto che rimane alto per tutta la durata di un album composto da brani medio lunghi.
Il tempo trascorso ha fatto crescere il gruppo mantovano che, oltre ad una notevole grinta, mette sul piatto l’esperienza e l’attitudine giusta per dare a brani di classico metallo pesante come l’opener Senz’anima, la maideniana A Stretto Contatto, la cavalcata Terzo Millennio e la metallica Donna Senza Testa la giusta atmosfera per non considerare Silenzio Profondo un album old school, bensì un lavoro di metal ben saldo nel nuovo secolo.
La title track è un crescendo che torna a far parlare di Maiden e che chiude un disco riuscito, perfetto nell’uso del cantato italiano, potente e melodico il giusto per fare breccia nei nuovi e vecchi fans dell’heavy metal.
Tracklist
1.Senz’anima
2.A stretto contatto
3.Terzo millennio
4.Fragile
5.Jack Daniel’s
6.Fuga dalla morte
7.Donna senza testa
8.Silenzio Profondo
I Concrete Jelly concludono nella maniera migliore la trilogia su Amless, un progetto nel quale si fondono molte cose e dal quale sarebbe bello trarre un musical, perché la loro è una musica molto visiva, con un concept dal respiro molto ampio.
Terza ed ultima puntata della trilogia di Amless da parte dei Concrete Jelly, un gruppo triestino di rock and roll pesante e pensante.
Il musicista maledetto Amless ed il suo fido socio Chaz vivono la loro ultima avventura e sarà tutta da scoprire. I Concrete Jelly hanno dipanato una storia molto particolare su Amless, unendo narrativa, musica e dimensione onirica. Amless In Wonderland è fatto di blues, hard rock anni settanta e tanto altro. I generi suddetti sono dominati con saggezza ed estrema tranquillità, l’importanza maggiore è data alla musica che si incrocia con la storia, e ascoltando il disco si entra o in profondità in entrambe. Ciò che colpisce della musica dei Concrete Jelly è la perfetta consecutio temporum nella composizione, ovvero tutto va al suo posto, ed incastrandosi perfettamente rende tutto molto piacevole. Non parlo tanto di tecnica, che qui è comunque ben rappresentata, quanto della chiarezza con la quale si sviluppa il lavoro. Ci sono momenti maggiormente vicini alla jam, altri maggiormente strutturati, ma è tutto molto bello e di valore. Il gruppo triestino è composto da amanti e profondi conoscitori della musica ed il loro operato è il giusto risultato di tutto ciò. C’è uno spirito anni settanta che aleggia per tutto il disco, ma non è solo una nostalgia, quanto uno stimolo musicale, perché poi la proposta dei Concrete Jelly si fonda sull’originalità e su una certa dolcezza musicale, accarezzando le orecchie nonostante la musica sia rumorosa. Il gruppo conclude nella maniera migliore la trilogia su Amless, un progetto nel quale si fondono molte cose e dal quale sarebbe bello trarre un musical, perché questa è una musica molto visiva, con un concept dal respiro molto ampio. Amless in Wonderland è la loro prova più lucente, convincente come e più delle precedenti, che già erano ottime. Il disco vedrà la luce in un prossimo futuro, non si sa ancora quando, ma se amate l’hard rock imbastardito e di qualità, qui c’è il meglio.
Tracklist
1. Rock Town
2. The Memory Hurts
3. Good Ol’ Chaz
4. The Dealer
5. The Drug
6. Black Curtains
7. Head Out
8. Monsters
9. Elicse Atarme Pt.3