Myriad Lights – Kingdom Of Sand

Per gli amanti del power metal, Kingdom Of Sand può senz’altro considerarsi un buona alternativa ai soliti nomi

Attivi da una decina d’anni e con un primo lavoro licenziato quattro anni fa (Mark of Vengeance), tornano i lombardi Myriad Lights con il secondo album, Kingdom Of Sand, album che dimostra quanto la scena nazionale sia ormai patrimonio del metal europeo.

Anche a livello underground infatti il metal italiano dimostra di avere molte frecce al proprio arco, molte ancora da scoccare direi, visto la qualità dei prodotti made in Italy, anche quelli meno conosciuti.
Costruito su fondamenta che ricordano il power metal raffinato ed elegante al quale lo stivale ha dato un fondamentale contributo con Labyrinth, Shadows Of Steel ed in parte Vision Divine: il sound di Kingdom Of Sand è un ottimo e vario esempio di quello che le sonorità metalliche di stampo classico hanno dato in questi ultimi anni, con la band che non si ferma agli illustri colleghi ma spazia tra melodie, aggressività e varie soluzioni stilistiche, così da non essere solo figlia di un unico approccio.
Tra i brani che compongono l’album , oltre ad orchestrazioni dal mood orientaleggiante, è forte lo spirito power nato nelle terre germaniche, che non fa altro se non indurire il sound, quel tanto che basta per accontentare anche i defenders che mal digeriscono qualche orchestrazione di troppo.
Così ci troviamo al cospetto di un buon lavoro, che non manca di brani davvero interessanti (Mirror) ed un’ottima altalena tra il neoclassicismo nazionale ed il power dirompente di scuola tedesca, valorizzata da un’interpretazione su buoni livelli di Andrea Di Stefano, vocalist dalle grandi potenzialità, ed una prova strumentale tutta grinta e passione.
Una band che crede in quello che fa, ne escono così i Myriad Lights, e non è poco in un mercato virtuale che abbonda di proposte di tutti i generi, fortunatamente molte buone, ma anche con troppe sotto la media.
Per gli amanti del power metal, Kingdom Of Sand può senz’altro considerarsi un buona alternativa ai soliti nomi, molti dei quali ormai lontani dalle opere che hanno scritto la storia del genere.

TRACKLIST
1.Desert Nights
2.Kingdom of Sand
3.Abyssal March
4.The Deep
5.The Grave Chant
6.039 Lights
7.Mirror
8.The Waves
9.Deathbringer
10.Ascension

LINE-UP
Francesco Lombardo-Guitars
Jeff Lombardo-Bass
Andrea Di Stefano-Vocals
Simone Sgarella-Drums
Emanuele Salsa-Keyboards

MYRIAD LIGHTS – Facebook

Freedom Call – Master Of Light

Non si tratta del metal più adulto o raffinato, ma di album come questo non ci si stanca mai, lunga vita ai Freedom Call.

Si potrebbe discuterne per una vita su quanto il power metal tedesco abbia in qualche modo influenzato il metallo classico del nuovo millennio, se poi si entra nei meandri di quello che gli Helloween dell’era Kiske/Hansen inventarono e divenne per tutto il mondo metallico l’happy metal, allora troverete defenders che, con gli occhi illuminati, vi decanteranno le lodi del genere, ed altri che vi guarderanno con disgusto difendendo l’onore e l’orgoglio del metal d’assalto tutto muscoli ed acciaio.

La verità come sempre sta nel mezzo, con il genere che nel tempo ha dato al metal linfa fresca ed ottime band, non risparmiandosi con lavori di qualità altissima ed altri mediocri, scritti da gruppi che ormai si sono sciolti come neve al sole.
L’ importanza delle zucche di Amburgo però rimane inalterata con il trascorrere del tempo ed è indubbio che il gruppo erede di quei dischi che fecero epoca sono i Freedom Call di Chris Bay, superstite insieme al rientrato Ilker Ersin della prima incarnazione del gruppo, quella che dietro ai tamburi vedeva il raggio gamma Dan Zimmermann.
1999, Stairway to Fairyland arriva sul mercato, con i Freedom Call che affiancano i Gamma Ray, ancora sul tetto del metal classico dell’epoca dopo i fasti di Land Of The Free, Somewhere Out In Space e Power Plant, album che rimangono la massima espressione della creatività di mister power metal Kay Hansen e che trova nei fratellini Freedom Call una degna spalla.
Sono passati più di quindici anni, l’happy power metal è tornato all’ombra delle miriadi di generi che imperversano nel mondo metallico del nuovo millennio, ma i Freedom Call sono ancora in sella e Master Of Light è l’album numero nove di una discografia ormai di un certo rilievo, con lavori che, se non fanno gridare al capolavoro, rientrano nella categoria degli imperdibili, almeno per i fans del genere.
Maestri nel saper dosare energia metallica, fughe ritmiche al limite della velocità consentita, mid tempo epici e dai chorus irresistibili e super ballatone che farebbero inorgoglire Syd (il bradipo dell’era glaciale), la band di Norimberga ci consegna l’ennesimo lavoro tutto metallo e melodie, ancorato a cliché persi negli annali ma dall’appeal irresistibile.
Dunque Master Of Light continua sulla falsariga dei suoi predecessori, prodotto quel tanto che basta da bombardarvi di ritmiche infuocate ed orchestrazioni messe li, tanto per rendere il tutto ancora più bombastico ed epico.
Metal Is For Everyone, Hammer Of The Gods (un titolo, una garanzia) e fuori una via l’altra l’ennesima carrellata di brani di metallo melodico suonato a cento all’ora o potenziato da mid tempo ariosi, epici e pregni di quelle atmosfere che hanno fatto del genere un appiglio per il metal classico, ai tempi delle vacche magre targate anni novanta.
L’album esce in diverse versioni, sta a voi scegliere quella più intrigante (il formato digipack è il più completo e colmo di versioni alternative), non si tratta del metal più adulto o raffinato, ma di album come questo non ci si stanca mai, lunga vita ai Freedom Call.

TRACKLIST
1. Metal Is For Everyone
2. Hammer Of The Gods
3. A World Beyond
4. Masters Of Light
5. Kings Rise And Fall
6. Cradle Of Angels
7. Emerald Skies
8. Hail The Legend
9. Ghost Ballet
10. Rock The Nation
11. Riders In The Sky
12. High Up

LINE-UP
Chris Bay – Vocals & Guitars
Lars Rettkowitz – Guitars, Backing Vocals
Ilker Ersin – Bass, Backing Vocals
Ramy Ali – Drums, Backing Vocals

FREEDOM CALL – Facebook

Sonata Arctica – The Ninth Hour

L’album mantiene per tutta la sua durata bellissime atmosfere malinconiche, trovando nelle orchestrazioni mai invadenti e nei passaggi progressivi la sua linfa e, forse, la strada definitiva per il sound dei futuri Sonata Arctica.

Apparsi sulla scena power sul finire del millennio, i Sonata Arctica hanno trovato il meritato successo con album che univano le cavalcate metalliche alla Stratovarius con un gusto melodico raffinato ed un approccio caldo che li allontanava dal maggior difetto dell’allora band di Timo Tolkki (sempre un po’ freddini, anche nei loro indiscutibili capolavori), in un crescendo qualitativo che li ha portati ad essere uno dei gruppi più rappresentativi del genere.

Con una discografia che, se consideriamo la riessue di Ecliptica uscita due anni fa, arriva con questo nuovo lavoro al traguardo della doppia cifra, la band finlandese ha ormai abbandonato le sonorità degli esordi per un sound più introspettivo, calcando la mano sull’aspetto melodico e prog del proprio credo musicale a svantaggio del più canonico power metal di scuola scandinava.
Non fraintendetemi, Tony Kakko and company non fanno certo mancare gli attimi dove sontuoso metallo nordico ha ragione dell’atmosfera malinconica che si respira su questo The Ninth Hour, ma è indubbio che una svolta c’è stata, partendo da Pariah’s Child, ultimo lavoro di inediti targato 2014.
E The Ninth Hour prosegue deciso la strada intrapresa, con le ballad che prendono il sopravvento sul songwriting e la furia power ormai domata in favore di un metal classico, colmo di melodie e dal gustoso sentore symphonic prog.
Ora, com’è normale in questi casi ci saranno i fans che storceranno il naso al cospetto di cotanta melodia e chi invece apprezzerà le scelte operate dal gruppo che, diciamolo, conferma l’essere una top band aldilà dei gusti personali.
Si perché The Ninth Hour è un ottimo lavoro, magari leggermente prolisso, ma sicuramente in grado di mantenere inalterata la fama del gruppo, con un Kakko probabilmente mai così interpretativo ed una serie di brani che alla lunga riusciranno ad aprire una breccia nel cuore dei fans.
Così, archiviato l’unico episodio che ricorda il passato del gruppo (Rise A Night), l’album mantiene per tutta la sua durata bellissime atmosfere malinconiche, trovando nelle orchestrazioni mai invadenti, in mid tempo dove la potenza è accennata ma mai liberata in toto e nei passaggi progressivi la sua linfa e, forse, la strada definitiva per il sound dei futuri Sonata Arctica.
Pioveranno critiche alla pari degli elogi, ma a mio parere la bellezza di Fairytale, Till Death’s Done Us Apart e White Pearl, Black Oceans Part II – By The Grace Of The Ocean non potranno che emozionare anche il fan più scettico.

TRACKLIST
01. Closer to an Animal
02. Life
03. Fairytale
04. We Are What We Are
05. Till Death’s Done Us Apart
06. Among the Shooting Stars
07. Rise a Night
08. Fly, Navigate, Communicate
09. Candle Lawns
10. White Pearl, Black Oceans (Part II: By the Grace of the Ocean)
11. On the Faultline (Closure to an Animal)

LINE-UP
Elias Viljanen – Guitars
Henrik Klingenberg – Keyboards
Pasi Kauppinen – bass
Tommy Portimo – Drums
Tony Kakko – Vocals

SONATA ARCTICA – Facebook

Narnia – Narnia

Lavoro apprezzabile in tutte le sue parti, Narnia convince e ci presenta un gruppo in ottima forma.

Sono passati quasi vent’anni dal debutto, ma i Narnia continuano, magari con meno assiduità rispetto al passato, a regalarci album di power neoclassico classicamente scandinavo.

La band svedese torna dopo sette anni dall’ultimo lavoro sulla lunga distanza, Course of a Generation, con un album da considerare senza dubbio più diretto rispetto al passato: infatti questo lavoro omonimo, oltre a non arrivare ai quaranta minuti di durata, si compone di nove tracce che, senza troppi fronzoli e andando subito al sodo, mettono in bella mostra l’anima power del gruppo di Jönköping, come sempre impreziosito da tastiere e solos dal gusto neoclassico ma molto più dirette.
Un bene perché il songwriting risulta fresco, per una band dalla già abbondante carriera discografica.
Certo che il successo commerciale dei primi lavori, licenziati nella seconda metà degli anni novanta in piena seconda era per il power metal, soprattutto in Europa, ormai è un ricordo, ma a livello qualitativo i Narnia hanno creato un lavoro degno delle produzioni passate (Long Live The King , The Great Fall e Enter the Gate su tutti).
Anche il fatto di intitolare l’album con il nome del gruppo lascia una sensazione di ripartenza per la band svedese, che non mancherà di compiacere gli amanti dei suoni metallici, dal flavour neoclassico, elegantemente power e dalle ottime atmosfere epiche.
Prodotto dal chitarrista CJ Grimmark (Grimmark, Rob Rock, ex Saviour Machine, ex-Fires Of Babylon), Narnia conferma l’ottimo feeling con queste sonorità del gruppo svedese: i brani tra potenza e melodia escono forti del chitarrismo elegante di Grimmark e dell’ottima interpretazione di Christian Rivel-Liljegren dietro al microfono, in gran spolvero su brani che sono perfettamente bilanciati tra Rainbow, Royal Hunt e robusto power metal epico (Reaching for the Top e I Still Believe formano una partenza entusiasmante).
Il taglio prog che si evince in qualche atmosfera, riprendendo il mood del precedente album, ed un originale vena dark rock nella splendida ballad Thank you, rendono ancora più vario ed elegante il sound dell’album, dove chiaramente non mancano mid tempo epici e dal piglio hard rock come On The Highest Mountain, song che rinverdisce i fasti dell’arcobaleno più famoso del rock.
Lavoro apprezzabile in tutte le sue parti, Narnia convince e ci presenta un gruppo in ottima forma, consigliato senza riserve.

TRACKLIST
1. Reaching for the Top
2. I Still Believe
3. On the Highest Mountain
4. Thank You
5. One Way to the Promised Land
6. Messengers
7. Who Do You Follow?
8. Moving On
9. Set the World on Fire

LINE-UP
Carl-Johan Grimmark – Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Christian Rivel-Liljegren – Vocals
Andreas Johansson – Drums
Martin Härenstam – Keyboards
Andreas Olsson – Bass

NARNIA – facebook

Almah – E.V.O

E.V.O ha molte frecce da scoccare e come maliziosi cupidi gli Almah centrano i nostri cuori con una serie di tracce d’alta scuola.

Pare davvero di essere tornati ai tempi dei migliori Angra e non solo quelli dell’arrivo di Falaschi nel combo brasiliano, ma a quel gruppo che clamorosamente irruppe sulla scena metallica con i primi stupendi lavori.

Era nell’aria il disco della vita per il gruppo brasiliano, già il precedente Unfold, anche se lasciava entrare nella propria anima qualche soluzione moderna, risultava un grande album metal, con Falaschi convincente e ormai coinvolto al 100% dalla sua nuova avventura.
Sono passati tre anni e l’arrivo di questo nuovo lavoro pone la band brasiliana sul podio dei migliori act alle prese con il power metal dalle sfumature progressive e splendidamente melodico.
Chiusa la parentesi modernista aperta in alcuni frangenti sul lavoro precedente, gli Almah tornano a suonare quello che la loro tradizione dice di saper fare meglio, toccando picchi elevatissimi , difficilmente raggiunti da un po’ di anni a questa parte, anche se la qualità dei loro lavori non è mai scesa sotto un buon livello.
E.V.O torna a far risplendere quel tipo di power metal melodico che ha fatto scuola, colmo di soluzione melodiche, ariose aperture orchestrali e quel tocco latino, irresistibile per molti e che ha sempre differenziato la scena sudamericana da quella europea per l’eleganza ed il talento ritmico innate nei musicisti brasiliani.
Basterebbe Age Of Aquarius, opener del disco, un brano arioso, positivo, stupendamente melodico ed impreziosito da orchestrazioni da musical, per prendere il largo e fare il vuoto nelle opere del genere, ma E.V.O ha molte frecce da scoccare e come maliziosi cupidi gli Almah centrano i nostri cuori con una serie di tracce d’alta scuola.
Il giro di piano che trascina Indigo, malinconico e dalle sfumature dark, il power metal di classe di Higher, l’hard rock ruffiano e melodico di Infatuated, l’unica concessione a soluzione moderne nell’aggressiva Corporate War, l’arioso refrain della magnifica Speranza, il power prog colmo di soluzioni raffinate e dall’irresistibile ritornello di Final Warning, sono solo pochi dettagli di un’opera piena di sorprese nel suo comunque essere classicamente metallica.
Gli Almah questa volta hanno messo in campo tutte le loro armi per vincere questa battaglia e ci sono riusciti senza fare prigionieri, album di un’altra categoria, consigliarvelo è il minimo.

TRACKLIST
1.Age Of Aquarius
2.Speranza
3.The Brotherhood
4.Innocence
5.Higher
6.Infatueted
7.Pleased To Meet You
8.Final Warning
9.Indigo
10.Corporate War
11.Capital Punishment

LINE-UP
Edu Falaschi – Vocals
Marcelo Barbosa – Guitar
Diogo Mafra – Guitar
Rapahael Dafras – Bass
Pedro Tinello – Drums

ALMAH – Facebook

Final Solution – Through The Looking Glass

Una serie di cavalcate metalliche veloci e potenti, eseguite con piglio e personalità.

I Final Solution irrompono sul mercato underground metallico tramite l’attivissima label nostrana logic(il)logic Records, con questa piccola bomba sonora dal titolo Through The Looking Glass.

Il gruppo capitanato dal chitarrista Fabio Pedrali, in passato axeman degli Hellcircles, licenzia questo bellissimo ed arrembante lavoro, incentrato su sonorità power prog seguendo le linee guida dei maestri americani Symphony X, ma accentuando l’anima estrema del sound, ricordi di un passato da melodic death metal band.
Ne esce un album violentissimo, sempre alla massima tensione, ma valorizzato dall’ottima tecnica dei musicisti, una serie di cavalcate metalliche veloci e potenti, eseguite con piglio e personalità.
Prodotto benissimo, così da mettere in luce tutti i dettagli che compongono il sound (la sezione ritmica è un uragano) Through The Looking Glass stupisce per la già notevole padronanza del proprio sound da parte del gruppo, una raccolta di brani, dove si nota l’elevata maturità del combo, in grado di lasciare nell’ascoltatore l’impressione di band navigata e non certo al debutto.
Funziona tutto perfettamente, dai suoni, alle ritmiche da mitragliatore impazzito, dall’ottimo lavoro sulle sei corde, al cantato che, se ricorda Russell Allen non dimentica di mantenere un approccio comunque personale.
Si parlava dei Symphony X, influenza o ispirazione (fate voi) del gruppo nostrano, ed in effetti Through The Looking Glass non può che ricordare i momenti più heavy della discografia del combo di Romeo, solo che i Final Solution accelerano le ritmiche, aggiungono al cantato, già di per se aggressivo del buon Mario Manenti, growl di estrazione death che deflagrano in tutta la loro potenza nella già devastante atmosfere dei brani.
Dopo l’intro, Sick Of You fa capire che qui la tempesta si fa intensa, power metal oscuro, veloce ed impreziosito da interventi chitarristici da manuale, dal taglio chiaramente progressivo.
Via una e sotto con Demon Inside: drumming straordinario, furia metallica, cambi di tempo che mantengono la velocità al limite dell’umano e le voci che alternano rabbia estrema e melodia metallica.
La furia tempestosa continua a fare danni, la band non smette di stupire tra ritmi indiavolati e chorus perfetti, il growl fa capolino come se la parte estrema facesse a spintoni con quella prog metal, e l’ascolto se ne giova travolti da Empty Walls, The Show Is On e Dogs Of War.
Questo è un lavoro che sprizza entusiasmo, voglia di emergere e talento: qualche volta la band si specchia un po’ troppo nel famoso gruppo americano, ma non vedo il problema, perciò fate vostro Through The Looking Glass senza se e senza ma.

TRACKLIST
01. Awakening
02. Sick Of You
03. Demon Inside
04. Empty Walls
05. The Show Is On
06. (R)Evolution
07. Dogs Of War
08. Grey

LINE-UP
Mario Manenti – Vocals
Fabio Pedrali – Guitars
Alessandro Martinelli – Guitars
Gabriele Savoldi – Bass
Gianluca Borlotti – Drums

FINAL SOLUTION – Facebook

Desert Near The End – Theater Of War

Un ottimo lavoro che fa convivere in assoluta e devastante armonia il power metal epico dei Blind Guardian, la furia thrash dei Kreator ed il metal teatrale ed oscuro degli Iced Earth

Gran bella sorpresa questo Theater Of War dei power/thrash metallers greci Desert Near The End, un bombardamento sonoro notevole, drammaticamente oscuro e dall’elevato songwriting.

La band arriva al terzo lavoro, successore del debutto A Crimson Dawn del 2011 e di Hunt for the Sun licenziato un paio di anni fa, e il sound rilegge il power/thrash inserendo molti elementi europei e quell’oscurità tipica del metal statunitense con risultati molto positivi.
Theater Of War infatti risulta un album in cui le atmosfere tra il moderno e il classico si fondono alla perfezione con la musica estrema, una soffocante e palpabile oscurità avvolge i brani in una coltre di nero fumo, gli scontri all’ultimo sangue tra le due anime del sound si risolvono in una carneficina metallica di proporzioni bibliche e noi non possiamo che goderne, anche per l’ottima produzione, una forma canzone di alto livello e la buona tecnica dei musicisti.
Mixato e masterizzato da Tue Madsen (The Haunted, Heaven Shall Burn, Kataklysm) l’album è un apocalittico esempio di metal distruttivo, la guerra impera, l’umanità è alla fine e Ashes Descent, Point of No Return, la spaventosa title track e la devastante e melodica A Martyr’s Birth raccontano degli ultimi giorni della terra, ormai in preda ad un disfacimento totale, immersa nel buio della coltre di fumi che si alzano dagli incendi che avvolgono le città.
Un ottimo lavoro che fa convivere in assoluta e devastante armonia il power metal epico dei Blind Guardian, la furia thrash dei Kreator ed il metal teatrale ed oscuro degli Iced Earth, non perdetevelo per nessun motivo.

TRACKLIST
1. Ashes Descent
2. Faces in the Dark
3. Point of No Return
4. Under Blackened Skies
5. A Martyr’s Birth
6. Season of the Sun
7. Theater of War
8. At the Shores

LINE-UP
Alexandros Papandreou – Vocals
Akis Prasinikas – Bass
Thanos K – Guitars
Lithras – Drums (session)

DESERT NEAR THE END – Facebook

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Sabaton – The Last Stand

L’epicità valorizzata da orchestrazioni melodiche sopra le righe, la fierezza e l’impatto uniti ad un approccio da true defenders sono ancora ben in vista nel sound del battaglione Sabaton.

Tornano i guerrieri di Falun con l’ottavo lavoro sulla lunga distanza di una carriera che li ha visti arrivare fino ai vertici nelle preferenze degli amanti del power metal epico e, in questi anni di suoni moderni e contaminazioni varie che imbastardiscono (spesso con ottimi risultati, chiariamolo) il nostro amato metal, non è cosa da poco.

La band svedese si è appunto costruita una reputazione che solo i gruppi con una marcia in più e benedetti dal dio metallo possono vantarsi d’avere, e poco conta se questo The Last Stand dividerà la critica e forse i fans, l’epicità valorizzata da orchestrazioni melodiche sopra le righe, la fierezza e l’impatto uniti ad un approccio da true defenders sono ancora ben in vista nel sound del battaglione Sabaton.
Un album scritto per intero in tour, con una miriade di date live che hanno tenuto la band in giro per il mondo praticamente dall’uscita del precedente Heroes, non hanno minato lo spirito con cui i Sabaton si approcciano al power metal epico con cui sono diventati uno dei gruppi più amati e seguiti della scena, confermato da un’opera che se lascia qualcosa indietro per quanto riguarda furia e durezza metallica, si impreziosisce valorizzando l’aspetto melodico.
Peter Tägtgren ha prodotto l’album, una garanzia per la qualità dei suoni di The Last Stand, che letteralmente esplodono metallici e sontuosamente orchestrali, attraversando i secoli tra scontri e battaglie vissute in diverse epoche storiche.
Dai 300 guerrieri di Sparta, alla prima guerra mondiale, dalla Scozia dei clan (Tunes Of War docet), ai samurai nel Giappone degli imperatori, The Last Stand trascina in epoche e fatti dove i comuni denominatori sono sangue e valore, eroi vincenti o sconfitti, sempre sotto il segno dei guerrieri di Falun.
Se il sound del gruppo aveva bisogno di una rinfrescata, l’uso più marcato delle melodie ed un’occhiata all’hard rock (che ricordo in Svezia è tradizione, ancora prima del successo dei suoni estremi), direi senz’altro che la band ha raggiunto il suo scopo, forte di brani dal grande appeal (su tutti la splendida Blood of Bannockburn), non facendo mancare gli inni epici per cui sono diventati famosi e che già dall’opener Sparta faranno crogiolare i vecchi fans della band.
I cori vi inviteranno come sempre ad urlare al cielo la vostra fiera appartenenza al popolo metal, le tastiere di scuola hard rock smuoveranno i vostri fondo schiena, le ritmiche faranno sbattere le vostre teste e le asce sanguineranno quando entreranno nel petto del nemico.
Da un album del genere pretendere di più è puro eufemismo…

TRACKLIST
1. Sparta
2. Last Dying Breath
3. Blood of Bannockburn
4. Diary of an Unknown Soldier
5. The Lost Battalion
6. Rorke’s Drift
7. The Last Stand
8. Hill 3234
9. Shiroyama
10. Winged Hussars
11. The Last Battle

LINE-UP
Joakim Brodén-Vocals
Chris Rörland-Guitars
Pär Sundström-Bass
Hannes Van Dahl-Drums

SABATON – Facebook

Sacred Steel – Heavy Metal Sacrifice

Heavy Metal Sacrifice, con tutti i pregi e i difetti di un suono che non produce novità di sorta, è un buon lavoro anche per chi si imbattesse solo ora nei cinque guerrieri teutonici.

Tornano i Sacred Steel di Gerrit P. Mutz, dopo tre anni dall’ultimo The Bloodshed Summoning, con un nuovo capitolo di una discografia iniziata vent’anni fa e che li ha incoronati come una delle migliori band di musica heavy dai tratti epici, tra violenza metallica e ritmiche power/thrash.

Heavy Metal Sacrifice (titolo che risulta una dichiarazione di intenti), è il nono album della band, un buon risultato di questi tempi, anche se le luci della ribalta metallica si sono leggermente offuscate e i tempi d’oro di Wargods of Metal e Bloodlust sono ormai lontani.
Poco male, il nuovo album continua la tradizione del gruppo, il sound non concede compromessi di sorta e per i fans tutti i cliché di una proposta ormai collaudata sono presenti alla grande anche su questo lavoro.
Registrato presso i Music Factory Studio Kempten in Germania e prodotto da Christian Schmid e dagli stessi Sacred Steel, Heavy Metal Sacrifice dispensa fierezza metallica, colmo di anthem, chorus e solos che faranno la gioia dei true defenders.
Sempre sugli scudi la voce di Mutz, un concentrato di potenza ed orgoglio, perfetto come al solito nell’esaltare la parte più truce e guerriera che è in noi, con una prova da condottiero metallico, capitano di questa macchina da guerra dalle ritmiche che alternano come al solito mid tempo potentissimi ed accelerazioni al limite del thrash, con i Judas Priest a benedire ancora una volta i musicisti/guerrieri prima della battaglia e gli Slayer a proteggerli sul campo.
Il suono esce pieno e potente valorizzando gli undici brani qui presenti, la prova dei musicisti è indiscutibile (specialmente la sezione ritmica, vero motore inesauribile del gruppo) e l’heavy metal classico potenziato da massicce dosi di power/thrash, marchio di fabbrica dei nostri, non perde un’oncia dell’immancabile esaltazione che produce negli amanti di un suono forgiato negli anni.
Heavy Metal Sacrifice,con tutti i pregi e i difetti di un suono che non produce novità di sorta, senza arrivare al livello dei lavori storici del combo è comunque un buon lavoro, sicuramente gradito dai fans del gruppo ma soddisfacente anche per chi si imbattesse solo ora nei cinque guerrieri teutonici.

TRACKLIST
1. (Intro) Glory Ride
2. Heavy Metal Sacrifice
3. The Sign Of The Skull
4. Hail The Godz Of War
5. Vulture Priest
6. Children Of The Sky
7. Let There Be Steel
8. Chaos Unleashed
9. The Dead Walk The Earth
10. Beyond The Gates Of Nineveh
11. Iron Donkey

LINE-UP
Gerrit P. Mutz – vocals
Jonas Khali – guitars
Jens Sonnenberg – guitars
Kai Schindelar – bass
Mathias Straub – drums

SACRED STEEL – Facebook>/a>

Divine Weep – Tears Of The Ages

L’album si sviluppa in cinquanta minuti di metallo incendiario, tra sonorità puramente heavy e la carica portentosa del power metal teutonico

I Divine Weep sono una band heavy/power proveniente dalla Polonia, attiva dalla metà degli anni novanta anche se le sonorità degli esordi erano orientate al più estremo black metal.

Nel 2010, dopo un lungo stop, il gruppo capitanato da Bartek Kosacki (chitarra) e Darek Karpiesiuk (batteria) decide di dare una svolta decisa al proprio sound e i Divine Weep si trasformano in una belligerante macchina da guerra heavy/power.
Tears Of The Ages è il secondo full length dopo la rinascita stilistica, successore del primo lavoro uscito tre anni fa (Age of the Immortal).
L’album si sviluppa lungo cinquanta minuti di metallo incendiario, tra sonorità puramente heavy e la carica portentosa del power metal teutonico; la produzione al passo coi tempi, permette di apprezzare in toto il lavoro dei musicisti che non risparmiano melodie dall’ottima presa, chorus, cavalcate epiche ed arrangiamenti moderni.
Un album di metal classico targato 2016, Tears Of The Ages è tutto qui, il songwriting rimane di ottima qualità per tutta la durata non facendo mancare al fan refrain dall’alto potenziale melodico, riff scolpiti sulle tavole della legge metalliche e un ottimo singer che imprime di personalità la sua performance.
Valorizzato dall’ospite Wojciech Hoffmann, axeman degli storici connazionali Turbo, che presta la sua chitarra su un brano, Tears Of The Ages è un ottimo esempio di cosa possa dare il genere nel nuovo millennio, specialmente se la cura dei particolari e l’attenzione nel lavoro in sala porta e questi risultati; le tracce esplodono in un fragore metallico, gli strumenti si inseguono correndo verso la gloria, i chorus non mancano di gasare e la noia fa le valigie per soggiornare in altri lidi.
L’opener Fading Glow attacca al muro con un riff in stile Hammerfall, l’heavy classico ed il power si scambiano il comando; la band svedese, i Primal Fear, e poi Gamma Ray e Judas Priest, sono i richiami più limpidi ad una stagione metallica neanche troppo lontana, anche se di acqua sotto i ponti ne è passata e le spade piantate sul campo di battaglia rischiano di arrugginirsi.
Ma gruppi come i Divine Weep tornano a far risplendere il drappo dei true defenders e The Mentor, Imperious Blade e la title track sono inni metallici da cantare orgogliosamente sotto il palco di qualche festival in giro per la vecchia Europa.
Purtroppo, in concomitanza con l’uscita del disco, l’ottimo singer Igor Tarasewicz ha lasciato la band, rimpiazzato a quanto pare da Kamil Budziński al quale auguriamo di ricalcarne le orme.

TRACKLIST
1.Fading Glow
2.The Mentor
3.Day Of Revenge
4.Last Breath
5.Petrified Soul
6.Imperious Blade
7.Never Ending Path
8.Tears Of The Ages
9.Age Of The Immortal (bonus track)
10.Lzy Wiekow (bonus track)

LINE-UP
Daro – Drums
Janusz Grabowski – Bass
Dariusz Moroz – Guitars
Bart – Guitars
Igor Tarasewicz – Vocals

DIVINE WEEP – Facebook

Running Wild – Rapid Foray

Una band che continua dal vivo a divertire non poco, ma come molte altre dalla lunga carriera, in leggero affanno quando si tratta di creare nuova musica.

Trittico di nuove uscite in casa Steamhammer che vedono coinvolte tre band storiche del metal, quali Sodom, Vicious Rumors e Running Wild, la banda di pirati capitanata dal mai domo Rolf Kasparek, in arte Rock ‘n’ Rolf.

Lo storico gruppo tedesco dal concept piratesco che, negli anni ottanta, conquistò anime metalliche come galeoni a spasso per il Mar dei Sargassi, di fatto è ormai da considerarsi un duo, con Rock’n’Rolf accompagnato dal fido Peter Jordan e raggiunto in sede live dall’accoppiata ritmica Ole Hempelmann al basso e Michael Wolpers alle pelli.
Poco male, l’anima dei Running Wild è ben salda tra le mani del leader, che continua imperterrito a portare il proprio vascello all’arrembaggio con il classico sound che prende dal power tedesco e dall’hard rock , per trasformarsi nel solito assalto sonoro.
Come ormai da un po’ di anni l’aspetto melodico è diventato preponderante nella musica del combo, ed anche in questo ultimo lavoro Rolf ha puntato molto sulle atmosfere e sui solos, addomesticando la belva power, con ritmiche più controllate e meno impatto diretto come nelle produzioni ’80/’90.
Prodotto dallo stesso Kasparek con l’aiuto del tecnico del suono Niki Nowy e presentato da una copertina che rispecchia il mood piratesco del gruppo, Rapid Foray torna dopo tre anni dall’ultimo lavoro (Resilient), album che sicuramente non aveva fatto gridare al miracolo ma si era assestato sul livello del classico compitino che, se pur svolto bene, non andava oltre un giudizio discreto.
Quest’ultimo lavoro non cambia di molto la situazione anche se, dove il gruppo rischia qualcosa in più sotto l’aspetto del songwriting, escono brani molto melodici e sostenuti da portentose cavalcate, come le due tracce che risultano il cuore pulsante dell’album: la strumentale The Depth Of The Sea – Nautilus e l’ottima power hard rock oriented Black Bart che, con la conclusiva e maideniana Last Of The Mohicans, sono ciò di meglio ha da offrire il gruppo nell’anno di grazia 2016.
Con tutto questo, Rapid Foray rimane un prodotto godibile e ben confezionato; il mood eroico e battagliero con cui la ciurma di Amburgo ha costruito la sua discografia è ben presente, risultando per i fans un lavoro degno della loro reputazione, anche se (è bene precisarlo) siamo ormai lontani dalle gloriose gesta piratesche di classici come Under Jolly Roger, Port Royal e quel gran bel disco che fu Masquerade, sicuramente un lavoro da rivalutare nella discografia immensa dei Running Wild.
Una band che continua dal vivo a divertire non poco, specialmente quando i riff dei classici riprendono vita dalle chitarre ma, come molte altre dalla lunga carriera, in leggero affanno quando si tratta di creare nuova musica: d’altronde gli anni passano per tutti, anche per gli eroi della Tortuga.

TRACKLIST
1. Black Skies, Red Flag
2. Warmongers
3. Stick To Your Guns
4. Rapid Foray
5. By The Blood In Your Heart
6. The Depth Of The Sea – Nautilus (instr.)
7. Black Bart
8. Hellestrified
9. Blood Moon Rising
10. Into The West
11. Last Of The Mohicans

LINE-UP
Rock N’ Rolf – vocals, guitars
Peter Jordan – guitars
Live:
Ole Hempelmann – bass
Michael Wolpers – drums

RUNNING WILD – Facebook

Vicious Rumors – Concussion Protocol

Non mancano brani che ricordano il passato glorioso del gruppo statunitense ed il songwriting si attesta su di una media medio alta per tutto lo scorrere del lavoro.

Geoff Thorpe non molla la presa e, a distanza di tre anni da Electric Punishment, torna con un nuovo album (il dodicesimo) dei suoi Vicious Rumors, heavy power metal band made in U.S.A., amata da chiunque si professi un amante dei suoni metallici fin dall’anno di grazia 1988, da quando cioè uscì il loro capolavoro Digital Dictators.

Una carriera quella del gruppo californiano tra alti e bassi, con un periodo che li vide affrontare suoni dal mood più moderno e cool, una sfilza di vocalist che si sono avvicendati dietro al microfono ed il ritorno alle sonorità heavy power con le ultimissime uscite.
Concussion Protocol, prodotto dal chitarrista e Juan Urteaga ai Trident Studio, famosi per aver già ospitato artisti come Testament, Heathen, Machine Head ed Exodus, e con la partecipazione di due ospiti d’eccezione come Brad Gillis (Night Ranger) e Steve Smyth (Nevermore, Testament, Forbidden), vede due nuovi entrati nella line up del gruppo rispetto al suo predecessore: l’ottimo singer Nick Holleman vero animale metallico, ed il bassista Tilen Hudrap.
Valorizzato come sempre dal sontuoso lavoro di Thorpe alla sei corde e aiutato dall’ascia di Thaen Rasmussen, l’album si sviluppa su un concept catastrofico riguardante la caduta di un asteroide sulla terra ed il conseguente armageddon a cui va incontro il genere umano; il gruppo viaggia a mille all’ora tra power metal e ritmiche thrash risultando devastante e melodico, ruggente e molto heavy.
L’heavy metal classico ha appunto un ruolo fondamentale in questo lavoro, la voce di Holleman spazza via ogni tentazione moderna regalandoci una prova da singer di razza, nato e cresciuto nella più pura tradizione metallica e le songs ci guadagnano in impatto ed appeal melodico.
Non mancano brani che ricordano il passato glorioso del gruppo statunitense (Digital Dictators, Vicious Rumors e Welcome to the Ball, album fondamentali per il movimento metallico d’oltroceano) ed il songwriting si attesta su di una media medio alta per tutto lo scorrere del lavoro.
I cinque californiani picchiano che è un piacere, le chitarre fumano sotto le dita degli axeman e le ritmiche sono tempeste sulla costa, le ottime Chemical Slaves, Victims of a Digital World, dal mood hard rock, ed il massacro sonoro ad opera di 1000 Years sono solluchero per i padiglioni auricolari metallizati dal sound old school che il gruppo, almeno questa volta, riesce ad imprimere in questa raccolta di canzoni che non mancherà di soddisfare gli amanti della musica di Thorpe.
Un buon ritorno, il tempo è passato troppo in fretta ma la voglia di suonare metallo è tornata quella di una volta.

TRACKLIST
1. Concussion Protocol
2. Chemical Slaves
3. Victims Of A Digital World
4. Chasing The Priest
5. Last Of Our Kind
6. 1000 Years
7. Circle Of Secrets
8. Take It Or Leave It
9. Bastards
10.Every Blessing Is A Curse
11. Life For A Life

LINE-UP
Nick Holleman – vocals
Geoff Thorpe – guitars
Thaen Rasmussen – guitars
Tilen Hudrap – bass
Larry Howe – drums

VICIOUS RUMOURS – Facebook

Shatter Messiah – Orphans of Chaos

Drammatico, potente, tragicamente metallico, oscuro, furioso ed a tratti elegante nella sua continua ricerca della melodia vincente, Orphans Of Chaos non cade dal gradino dell’eccellenza per tutta la sua lunga durata

La label greca Sleaszy Rider, in evidenza nel mondo del metal underground di questi ultimi anni con l’uscita di lavori che pescano da svariati generi che compongono l’immenso mosaico che risulta la nostra musica preferita, questa volta centra il colpo grosso e licenzia questo ottimo lavoro, il quarto del super gruppo Shatter Messiah.

La band, in attività da una dozzina d’anni, schiera tra le sue fila una manciata di musicisti che hanno militato in gruppi fondamentali per lo sviluppo del genere, autori di capolavori epocali come Annihilator (Robert Falzano), Nevermore (Curran Murphy), Monstrosity, Death e Vital Remains (Kelly Conlon).
Batteria, chitarra e basso, formazione praticamente fatta, ma al gruppo si aggiungono gli altrettanto importanti Pat Gibson alla sei corde e quell’animale metallico di Michael Duncan dietro al microfono, una iena che valorizza tutto il lavoro strumentale dei suoi colleghi con una prova mostruosa.
Quarto album dunque, quarto pezzo di indistruttibile acciaio metallico, arrivato a metà dell’anno in corso dopo aver dato alle stampe il primo vagito dieci anni fa (Never to Play the Servant) per poi proseguire nella creazione di un devastante power/thrash con God Burns Like Flesh (2007) e Hail the New Cross, uscito tre anni fa.
Orphans Of Chaos riprende a triturare padiglioni auricolari dove l’ultimo lavoro si era interrotto, il sound del gruppo che si rifà, senza copiarlo pedissequamente, a quello dei Nevermore e dei gruppi che al thrash metal aggiungono dose letali di power metal statunitense e sfumature progressive, risulta una mazzata tecnicamente ineccepibile, curatissima nella produzione e dal songwriting straordinario.
Inutile girarci intorno, stiamo parlando di un gruppo composto da musicisti che sono top players del proprio strumento, con esperienze di alto livello alle spalle e la cosa esce allo scoperto in ogni passaggio, su ogni nota esplosa dalle casse del vostro impianto messo a dura prova dalla potenza sprigionata dal combo americano.
Ritmiche che alternano groove, accelerazioni e cambi di ritmo vorticosi, chitarre che squarciano il cielo con solos folgoranti, cambi di atmosfera che rimanendo nei canoni oscuri dell’U.S. Metal si impregnano di umori progressivi e vocalizzi che passano da grintosi toni thrash ad aperture melodiche e teatrali tra Warrel Dane e Russell Allen.
Drammatico, potente, tragicamente metallico, oscuro, furioso ed a tratti elegante nella sua continua ricerca della melodia vincente, Orphans Of Chaos non cade dal gradino dell’eccellenza per tutta la sua lunga durata, regalando un prezioso diamante nero ai fans del genere.
In uscita nelle versioni cd, lp e digipack, troviamo come bonus track l’ep Full Moon Blood, altre tre mazzate thrash metal di dimensioni apocalittiche, motivo in più se non bastasse per farlo vostro e goderne in questi caldi giorni estivi.

TRACKLIST
1. Fixx For Demise
2. Shallow
3. Slave
4. Forget Forgiveness
5. Nothing Friend
6. The Mad Man Lies
7. Doom
8. Disruption
9. Thoughtless Timeless
10. Cold And Alone
11. Free
FULL BLOOD MOON:
12. Full Blood Moon
13. Dead Eye Liar
14. Disallussion Of My Misery

LINE-UP
Michael Duncan – vocals
Curran Murphy – guitars
Kelly Conlon – bass
Pat Gibson – guitars
Robert Falzano – drums

SHATTER MESSIAH – Facebook

Psychoprism – Creation

Un’opera di una bellezza disarmante da parte di un quintetto di musicisti preparatissimi, con un songwriting che avvicina la band ai nomi di rilievo del metal mondiale di stampo classico.

Il metal classico è vivo più che mai, magari si è rinnovato, o forse dagli anni ottanta si è evoluto con l’aggiunta di elementi sinfonici e prog, ma rimane comunque il genere di riferimento per i metallari sparsi per il mondo, anche e soprattutto nel nuovo millennio.

I detrattori o gli uccelli del malaugurio che si beano della morte del genere padre di tutto il movimento metallico, anche quello più moderno o estremo, possono mettersi l’anima in pace, specialmente se a mantenerlo in vita sono band eccezionali come questi musicisti statunitensi che, sotto il monicker Psychoprism, hanno creato un lavoro di power/prog metal straordinario.
Il gruppo del New Jersey due anni fa licenziò il primo ep autoprodotto, e la Pure Steel è piombata come un falco sul gruppo e dopo la firma, pubblicandone il primo full length, Creation, in questo assolato e tragico luglio.
Un’opera di una bellezza disarmante da parte di un quintetto di musicisti preparatissimi, con un songwriting che avvicina la band ai nomi di rilievo del metal mondiale di stampo classico, trovando nelle sfumature progressive un alleato per far risplendere la musica di cui si compone questo manifesto all’arte musicale.
Probabilmente Creation rimarrà nel genere l’esordio più riuscito fino alla fine dell’anno, anche se forse non riscuoterà neanche un quarto del successo che un’opera del genere meriterebbe, ma non importa, se siete amanti della musica, qui la si deve glorificare come si deve.
Prendete il metal classico raffinato dei Crimson Glory, aggiungete potenti dose ritmiche di estrazione power, una vena progressiva che si espande per tutta la durata dell’album, direttamente dai primi e fondamentali lavori di Queensryche e Fates Warning, e incorniciateli con note sinfoniche di commovente epicità: avrete forse un’idea di cosa vi aspetta appena la title track imploderà nei vostri padiglioni auricolari, donandovi musica regale e splendidamente metallica.
Chiaramente i musicisti non possono che essere dei maestri, ed allora rimarrete a bocca aperta quando Jess Rittgers vi sconvolgerà con la sua voce che, se a tratti richiama Geoff Tate, risulta ancora più teatrale, un’ugola nata per emozionare.
Bill Visser e la sua sei corde sono una macchina di solos altamente metallica, ma che ovviamente non manca di crogiolarsi in scale progressive dall’alto tasso tecnico, mentre la sezione ritmica (Kevin Myers alle pelli e Erick Hugo al basso) non si risparmia in cavalcate power e repentini ed intricati cambi di tempo.
Il tutto viene valorizzato dai tasti d’avorio di Adam Peterson, raffinati, a tratti neoclassici, squisitamente orchestrati da questo mostro di bravura, ed a mio avviso arma in più del gruppo americano.
Niente di nuovo direte voi, il classico album suonato con maestria e nulla più!
Nulla di più sbagliato, invece, perchè Creation vive di un’emozionalità unica e la pelle d’oca che procurano brani intensi e meravigliosamente metallici come The Acclaimed, la super ballad Friendly Fire, l’epico power metal neoclassico di Against The Grain, la potentissima e velocissima The Wrecker, difficilmente la riproverete di questi tempi, specialmente continuando ad ascoltare i soliti nomi.
Lavori come questo mi fanno ringraziare il cielo per essermi innamorato della musica fin da ragazzino facendomi sentire un uomo fortunato. Capolavoro.

TRACKLIST
1. Alpha
2. Creation
3. Shockwaves
4. The Acclaimed
5. Chronos
6. Friendly Fire
7. Against the Grain
8. Defiance
9. The Wrecker
10. Stained Glass

LINE-UP
Erick Hugo – Bass
Jess Rittgers – Vocals
Bill Visser – lead guitars
Kevin Myers – Drums
Adam Peterson – Keyboard

PSYCHOPRISM – Facebook

Almanac – Tsar

Un album imperdibile per gli amanti dei suoni power orchestrali e di chi ha amato i Rage in questa nobile versione con la Lingua Mortis Orchestra

Che Victor Smolski abbia lasciato i Rage è cosa risaputa ed il musicista bielorusso non ha perso tempo, rimboccandosi le maniche e chiamando a se un manipolo di musicisti della scena fondando gli Almanac, band figlia degli ultimi Rage, quelli più orchestrali.

Tsar è il primo album di questa nuova creatura che vede Smolski in compagnia di Enric Garcia alle tastiere, la sezione ritmica composta da Michael Kolar alle pelli e Armin Alic al basso, più tre eccezzionali vocalist: Andy B. Franck (Brainstorm, Ivanhoe e Symphorce), David Readman (Voodoo Circle, Pink Cream 69) e Jannette Marchewka.
Unite le forze con la prestigiosa Orchestra Filarmonica di Barcellona, il gruppo ha dato vita ad un esordio spumeggiante che, pur prendendo spunto dal passato del chitarrista ( i Rage con la Lingua Mortis Orchestra), trova subito la propria strada, fatta di un power orchestrale, dal mood cinematografico e da molte sfumature classic metal.
L’uso dei tre cantanti fa la differenza, così come il flavour epicissimo che il concept su cui si sviluppa l’opera è costruito, valorizzato dalle fughe chitarristiche di un Smolski che si dimostra come uno degli axeman migliori degli ultimi anni, almeno in campo power metal.
La storia è di quelle impegnative, le gesta e le vicende di Ivan IV di Russia, conosciuto come Ivan il Terrribile, sovrano crudele vissuto nel sedicesimo secolo di cui Tsar racconta la vita, iniziando con la splendida title track proprio dalla sua infanzia.
Da Self-Blinded Eyes in poi Tsar è un susseguirsi di power metal dalle ritmiche serrate, epico e magniloquente, orchestrato perfettamente dalla famosa filarmonica ed irrobustito da fiero metallo, dove la chitarra dell’axeman bielorusso si incendia e dona regale musica heavy.
Grande prova dei tre vocalist coinvolti, degli assi nel genere e si sente con prove a tratti sontuose, mentre la storia coinvolge sempre più, permettendo a Tsar di risultare un lavoro affascinate, perfettamente bilanciato tra la raffinatezza e la magniloquenza della parte orchestrale e la carica travolgente del power metal.
Per chi si approccia all’opera è un attimo arrivare alla fine con la voglia di rituffarsi tra le note di Children Of The Future, dell’intensa No More Shadows, nell’oscuro doom epico di Reign Of Madness e della straordinariamente potente Flames Of Hate.
In conclusione Tsar risulta un album imperdibile per gli amanti dei suoni power orchestrali e di chi ha amato i Rage in questa nobile versione con la Lingua Mortis Orchestra; la speranza è che questa nuova avventura del chitarrista bielorusso non rimanga confinata a questo lavoro, sarebbe un vero peccato.

TRACKLIST
1. Tsar
2. Self-Blinded Eyes
3. Darkness
4. Hands Are Tied
5. Children Of The Future
6. No More Shadows
7. Nevermore
8. Reign Of Madness
9. Flames Of Hate

LINE-UP
Andy B. Franck: Vocals
David Readman: Vocals
Jeannette Marchewka: Vocals
Victor Smolski: Guitars
Enric Garcia: keyboards
Michael Kolar: Drums
Armin Alic: Bass

ALMANAC – Facebook

Atreides – Cosmos

Gli Atreides hanno tutte le carte in regola per piacere, essendo in possesso di un’ottima tecnica e di brani coinvolgenti.

La Spagna ha la sua ottima tradizione, parlando di metal classico, e in questo caso riguardante il power metal, le band come gli Atreides che si dedicano ai suoni classici sono molte e alcune davvero ottime: i Tierra Santa, gli Avalanche, i Saratoga e i famosi Mago De Oz sono solo esempi per presentarvi il quartetto proveniente da Vigo, nato da un’idea del chitarrista Dany Soengas dei thrashers Skydancer, protagonisti della scena metallica iberica con quattro full length tra il 2007 ed il 2013.

Cambio di registro per Soengas, che lascia i suoni death/thrash per un power metal dalla forte influenza nord europea, sulla scia di Stratovarius e del power metal teutonico, e il debutto della band convince alla grande, tra ritmiche mozzafiato e solos ben congeniati e melodicissimi.
Un lotto di brani dal buon piglio forma un dischetto tutt’altro che trascurabile: le vocals in lingua madre non inficiano la riuscita delle poderose canzoni e la band gira a mille, con il chitarrista sugli scudi e l’ottima performance dei suoi compari, una sezione ritmica pesante come un incudine e veloce come il vento, composta da Antonio Orihuela al basso e David Borjas alle pelli e la buona prestazione del vocalist Emi Ramírez.
Prodotto e mixato dal chitarrista con la partecipazione dell’onnipresente Josè Rubio alla masterizzazione, Cosmos risulta un debutto avvincente, iniziando dalla grandiosa e devastante title track, seguita dalla cadenzata e Stratovarius-oriented Medianoche, dove le ritmiche impazzano tra potenza e sfuriate ed il drumming del buon Borjas spacca il drumkit.
Quinto brano e centro pieno per la band, che si butta a capofitto in uno strumentale dai solos dal sapore neoclassico, Providencia, che segue la scia di una Speed Of Light anch’essa di tolkkiana memoria, introducendo un’ottima parte atmosferica nella quale l’axeman fa cantare la sua sei corde.
Il power teutonico esce dai solchi di Cruzando El Bosque, brano in pieno stile Rage, così come nella conclusiva ed ottima Garret, finale col botto di questo gran bel debutto.
Cosmos non stupisce certo per originalità, d’altronde gli amanti del genere ciò che vogliono sentire è la musica inclusa in questo lavoro, ed allora dategli un ascolto perché gli Atreides hanno tutte le carte in regola per piacere, essendo in possesso di un’ottima tecnica e di brani coinvolgenti.

Tracklist:
1. Singularidad
2. Cosmos
3. Medianoche
4. Distancia
5. Providencia
6. Alma Errante
7. Cruzando el Bosque
8. Garret

Line-up:
D.S.: Guitars.
Emi Ramírez: Vocals
Antonio Orihuela: Bass Guitar
David Borjas: Drums

ATREIDES – Facebook

Frozen Sand – Prelude

Ottimo ep d’esordio per i prog metallers Frozen Sand, ideale preludio all’imminente full length.

I Frozen Sand provengono da Novara, nascono nel 2010 e, all’insegna di un buon progressive metal, alternando tradizione e modernità, licenziano questo Ep di quattro brani dal titolo Prelude, appunto preludio di una storia che sarà sviluppata nel futuro esordio sulla lunga distanza.

Fractal Of Frozen Lifetimes, questo è il titolo del concept in cui la band sviluppa il suo songwriting fatto di un metal/prog che predilige le atmosfere piuttosto che cervellotiche parti tecniche, anche se ai musicisti del gruppo la bravura strumentale non manca di certo.
Ottime le vocals, che passano da parti evocative che creano un aurea epica, al growl (ormai usato sempre più spesso dalle band del genere) fino ad un’ottima voce pulita, il che rende l’ascolto dei brani vario, così come vario risulta il sound di Prelude che alterna con disinvoltura progressive e metal classico, inserendo ritmiche di death moderno che seguono l’alternarsi delle voci, cambiando atmosfere ad ogni passaggio.
Inutile elencare influenze o band da cui il gruppo piemontese prende spunto, qualsiasi amante dei suoni progressivi troverà modo di farsi una sua idea: la cosa che invece salta all’orecchio è la personalità con cui i Frozen Sand affrontano un genere non facile come quello racchiuso in Prelude, aumentando la curiosità e le aspettative per il futuro full length, di cui sicuramente ci faremo carico di parlarvi.

Tracklist:
1.Chronicle I – Chronomentrophobia
2.Chronicle II – Sand Of The Hourglass
3.Chronicle III – Khrono’s Pendulum
4.Fracture

Line-up:
Luca Pettinaroli – Vocals
Mattia Cerutti – Guitar
Tiziano Vitiello – Bass
Simone De Benedetti – Drums
Federico De Benedetti – Guitar, synth guitar & back vocals

FROZEN SAND – Facebook

Kalidia – Lies’ Device

La band toscana riesce nella non facile impresa di consegnarci un disco semplice ma costruito su belle canzoni, metalliche ma nel contempo orecchiabili, e va oltre le più rosee aspettative con il proprio power classico ma dal sapore melodico.

Un altro bellissimo album di power metal melodico tutto italiano uscito in questa prima metà dell’anno di grazia 2014, ed un’altra band da scoprire e da seguire per tutti i fan del genere.

Si chiamano Kalidia, vengono da Lucca ed arrivano al debutto sulla lunga distanza dopo un EP del 2012 dal titolo “Dance of the four winds”, prodotto da Alessio Lucatti (Vision Divine, Etherna) che offre loro la possibilità di intraprendere un’intensa attività live, suonando con la crema del power/prog metal nazionale ed internazionale (Vision Divine, DGM, Timo Tolkki, Etherna). Le registrazioni dell’album di debutto iniziano lo scorso anno, sempre sotto l’ala di Alessio Lucatti che produce, masterizza e mixa questo notevole Lies’ Device. La band, guidata dalla voce della bravissima Nicoletta Rosellini, che “interpreta” in modo caldo con il suo tono ricco di pathos ed emozionalità le trame presenti in questo debutto, riesce nella non facile impresa di consegnarci un disco semplice ma costruito su belle canzoni, metalliche ma nel contempo orecchiabili, e va oltre le più rosee aspettative con il proprio power classico ma dal flavour melodico, di gran lunga superiore a tanti artisti più famosi. Dimenticatevi suoni sinfonici, gothic e vocals baritonali, questo è power e, dove necessita, i Kalidia picchiano da par loro, lasciando spazio a momenti dove esce un po’ di anima prog, specialmente nella drammatica Harbinger of Serenity cantata in duetto da Nicoletta con Andrea Racco degli Etherna (freschi dello splendido “Forgotten Beholder”). Si passa così da momenti heavy ad altri dove la band lascia spazio al talento della vocalist, che spadroneggia su tutto l’album deliziandoci con Shadow Will Be Gone, ballad sopra le righe, The Lost Mariner, song che apre l’album tra ottime melodie e bissata dalla più potente Hiding From the Sun, e Dollhouse (Labyrinth of Thoughts), dalle melodie ariose che sfiorano l’AOR. Lies’ Device è a suo modo trascinante e l’ascolto sempre piacevole, tanto che arrivare alla conclusiva In Black and White, dove compare come ospite Alessandro Lucatti con la sua sei corde, è un attimo, passando per almeno altri due brani coinvolgenti come Reign of Kalidia e la title-track. L’abilità della band nello strutturare su un tappeto tastieristico l’ottimo power, addolcito dalla voce della cantante, fornisce a questo lavoro una marcia in più e ci consegna un altro debutto coi fiocchi da parte di una band nostrana, ovviamente consigliato a tutti gli amanti del metal melodico.

Tracklist:
1. The Lost Mariner
2. Hiding from the Sun
3. Dollhouse (Labyrinth of Thoughts)
4. Reign of Kalidia
5. Harbinger of Serenity
6. Black Magic
7. Shadow Will Be Gone
8. Lies’ Device
9. Winged Lords
10. In Black and White

Line-up:
Federico Paolini – Guitars
Nicola Azzola – Keyboards
Nicoletta Rosellini – Vocals
Roberto Donati – Bass
Gabriele Basile – Drums

KALIDIA – Facebook

Holy Shire – Midgard

Interessante debutto per i lombardi Holy Shire,che si allontanano dai soliti clichè symphonic per un album folk/epic metal d’autore.

Interessante debutto sulla lunga distanza per i milanesi Holy Shire, freschi di firma con Bakerteam e autori di un album che di questi tempi riesce ad essere originale, allontanandosi dai soliti clichè power, gothic e symphonic cari a molte band della scena, mostrando un approccio più ottantiano, meno pomposo ma altrettanto riuscito.

Fondato nel 2009, con all’attivo un demo ed un Ep (“Pegasus” – 2011), il gruppo è composto da ben otto elementi; Midgard, che si rifà per la maggior parte, a livello di tematiche, alla saga “Il trono di spade”, opera Fantasy di George R.R Martin, è un’opera prima affascinante e molto raffinata. Di non semplice lettura, il lavoro come detto è spogliato da tutti quegli elementi che caratterizzano le classiche opere che tanto vanno di moda in questi tempi, qui l’heavy metal dalla forte epicità è levigato da una spiccata connotazione folk cantautorale e da tanto Rock; i suoni, mai troppo magniloquenti nelle orchestrazioni, rendono il disco sognante, maturo nel saper trasmettere le atmosfere senza forzare la mano, arrivando all’ascoltatore in modo genuino. Gli Holy Shire sanno anche essere incisivi, infatti chitarre metalliche e ritmiche più heavy sono protagoniste in brani potenti ed epici come l’opener Bewitched, The Revenge of The Shadow e Holy War, mentre il flauto e le tastiere ricamano melodie che si fanno a tratti incantevoli nelle magnifiche Winter Is Coming e Holy Shire. Buone le voci delle vocalist e di spessore le prove dei musicisti, in particolare quella di Ale che coinvolge con il suono del suo flauto, strumento protagonista indiscusso di tutto il lavoro e che, a tratti, riprende sonorità provenienti direttamente dagli anni ’70 (Jethro Tull). È indubbio che l’epic metal ottantiano faccia parte del background della band, così come penso siano ascolti abituali per il gruppo quelli di cantanti folk come Loreena McKennitt, elemento che contribuisce a fornire quel tocco di originalità rendendo quello che poteva essere un “semplice” album metal un lavoro d’autore. Complimenti alla band, quindi, così come alla Bakerteam per aver dato fiducia ad un gruppo dalle sonorità leggermente fuori dagli schemi abituali. Senza ombra di dubbio, buona la prima.

Tracklist:
1. Bewitched (My Words Are Power)
2. Winter Is Coming
3. Gift of Death
4. Overlord of Fire
5. Holy Shire
6. The Revenge of the Shadow
7. Beyond
8. Holy War
9. Midgard

Line-up:
theMaxx – Drums
Reverend Jack – Keyboards
Aeon – Vocals (lead)
Ale – Flute
Andrew Moon – Guitars (lead)
Ed Gibson – Guitars (rhythm)
Piero Chiefa – Bass
Sisiki – Vocals (choirs)

HOLI SHIRE – Facebook

Ancient Bards – A New Dawn Ending

Gli Ancients Bards si confermano come una delle band di riferimento per il symphonic power metal con un album stupefacente.

Magnifico è la parola che più di altre può descrivere un’opera come il terzo album dei nostrani Ancient Bards: i musicisti romagnoli, ormai considerati una delle band di punta del power sinfonico europeo, non deludono fan e addetti ai lavori e se ne escono con un disco che si candida fin da ora come il top nel genere in questo anno di grazia 2014.

Per chi ancora non li conoscesse, gli Ancients Bards sono attivi dal 2006 e hanno all’attivo, prima di questo, due album: l’esordio del 2010 “The Alliance Of The Kings”, che ne faceva intuire le grandi potenzialità, ed il bellissimo “Soulless Child”, del 2012. Il nuovo A New Dawn Ending supera la più rosee aspettative, confermando le qualità della band e regalando al metal una nuova regina: Sara Squadrani. La vocalist, di ritorno dall’esperienza con Anthony Lucassen sul nuovo album del suo progetto Ayreon, sfodera una prova magnifica: il suo contributo in personalità e talento fa di questo lavoro, già di per sè bellissimo, un oggetto che, al di là dei gusti, dovrebbe essere presente sullo scaffale di qualsiasi appassionato di metal. Hanno fatto passare tre anni prima di tornare sul mercato, ma è valsa la pena attendere visti i risultati; infatti, il gruppo torna più che mai consapevole della propria forza e l’ascoltatore così si trova davanti ad un album devastante sotto ogni profilo: una produzione stupefacente, un songwriting grandioso, musicisti al top ed un sound epico, magniloquente e sinfonicamente cinematografico, dove il power metal è spogliato dei soliti clichè rivestendolo di un’eleganza metallica fuori dal comune. Allora va da sè che, dall’intro Before The Storm, verrete investiti da questa travolgente esperienza e i settanta minuti circa di durata vi sembreranno un attimo, presi per mano dalla stupenda voce di Sara che vi accompagnerà in questo sogno fatto di orchestrazioni, accelerazioni, emozionanti atmosfere epiche, bordate di cannoni power scagliate dalle mura del castello del quale la vocalist è magnifica sovrana. A Greater Purpose, l’esaltante Across This Life, In My Arms ,scelta come singolo, The Last Resort, dove appare in qualità di ospite “Re” Fabio Lione, ed i sedici minuti della conclusiva title-track, sono solo alcuni dei passaggi di quest’album che rimarrà nel mio stereo per molto, molto tempo. Mette i brividi pensare all’evoluzione di questi ragazzi in soli tre full-length e se, come leggenda vuole, il terzo album per una band è quello della conferma e della consacrazione, allora siamo senza dubbio davanti ad una delle migliori realtà symphonic metal del pianeta, punto.

Tracklist:
1. Before the Storm
2. A Greater Purpose
3. Flaming Heart
4. Across This Life
5. In My Arms
6. The Last Resort
7. Showdown
8. In the End
9. Spiriti Liberi
10. A New Dawn Ending

Line-up:
Martino Garattoni – Bass
Daniele Mazza – Keyboards
Claudio Pietronik – Guitars
Sara Squadrani – Vocals
Federico Gatti – Drums

ANCIENT BARDS – Facebook

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