Helllight – As We Slowly Fade

As We Slowly Fade è un album che non deve sfuggire a chi apprezza il death doom melodico nelle sue espressioni emotivamente più elevate.

As We Slowly Fade è il sesto full length degli Helllight ed esce giusto dieci anni dopo quel Funeral Doom che fece balzare all’attenzione degli appassionati il nome della band di Fabio De Paula.

Mi è capitato di ascoltare, qualche mese fa, quell’opera che presentava una montagna di intuizioni magnifiche, sia pure inserite all’interno di una struttura perfettibile sotto diversi aspetti, e non si può fare a meno di notare come il musicista brasiliano abbia intrapreso una lenta ma costante progressione che ha portato il suo gruppo ad essere uno dei nomi più rispettati in ambito doom, non solo in Sudamerica.
Il death doom melodico e atmosferico sciorinato in As We Slowly Fade, del resto, è quanto mai europeo per stile ed espressione musicale, trovandosi a gravitare nell’orbita dei Saturnus assieme a realtà quali Doom Vs. e When Nothing Remains: il lavoro chitarristico di De Paula è di primissima qualità, così come tutto il comparto strumentale che vede il fedele Alexandre Vida al basso e il neo arrivato Renan Bianchi alla batteria a fornire un puntuale supporto ritmico.
La voce è invece ciò che in certi momenti può assumere un carattere divisivo: se il growl è assolutamente e positivamente nella norma, le clean vocals continuano a lasciare qualche dubbio per il loro essere sempre un po’ troppo stentoree e con l’effetto di attenuare il carico di drammaticità del songrwiting; sarà un caso, o forse no, se per me i brani migliori dell’album sono The Ghost e The Land Of Broken Dreams, gli unici nei quale De Paula si astiene dall’esibire la voce pulita e forse anche per questo, ma non solo, risultano i più vicini ai lidi funeral. Ma questo resta in qualche modo un punto che più di altri è strettamente connesso alla soggettività: quel che conta è che la musica degli Helllight, ancora una volta, non delude offrendo un pregiato dono a tutti gli appassionati di questo tipo di doom; la title track, While The Moon Darkens, e Bridge Between Life And Death sono infatti tracce lunghe ma ricche di magnifici spunti e caratterizzate da un elevato tasso di evocatività.
Fa storia a sé la conclusiva Ocean, canzone alla quale dà il suo contributo anche una voce femminile e nella quale il leader regala alcuni minuti finali di struggenti melodie chitarristiche: una degna coda per un album che, come d’abitudine degli Helllight, si rivela impegnativo per l’ascoltatore soprattutto a causa di una durata che come sempre supera abbondantemente l’ora.
As We Slowly Fade è, in definitiva, un album che non deve sfuggire a chi apprezza il death doom melodico nelle sue espressioni emotivamente più elevate.

Tracklist:
1 Intro
2 As We Slowly Fade
3 While The Moon Darkens
4 The Ghost
5 Bridge Between Life And Death
6 The Land Of Broken Dreams
7 Ocean

Line-up:
Fabio de Paula – Guitars, Vocals, Keyboards
Alexandre Vida – Bass
Renan Bianchi – Drums

HELLLIGHT – Facebook

Tytus – Rain After Drought

Vera macchina da guerra hard & heavy, i Tytus non fanno prigionieri e si confermano come una delle più convincenti realtà del genere.

I Tytus sono tornati e fanno male….. tanto male!

La band proveniente da Trieste, dopo aver distrutto mezzo pianeta con la micidiale detonazione provocata dal primo lavoro intitolato Rises (uscito tre anni fa), da il via ad un secondo bombardamento sonoro, questa volta licenziato dalla Fighter records ed intitolato Rain After Drought.
Rain After Drought è un concentrato di musica metallica che vede riff, solos, ritmiche potenti come un caccia torpediniere in primo piano: chitarra, basso e batteria al servizio del dio del rock, epico per certi versi, quasi eccessivo all’apparenza, ma in realtà perfetto nel suo glorificare un sound primitivo e dannatamente coinvolgente.
Se il primo album raccontava di una catastrofe legata all’avvicinamento della Terra al Sole, causato anche dalle dieci esplosioni contenute in Rises, Rain After Drought è uno tsunami biblico di metal/rock a non lasciare scampo.
Fin dall’opener Disobey veniamo travolti da queste nuove dieci tracce, tra riff mastodontici, solos taglienti e cavalcate strumentali di scuola Maiden (Rain After Drought Pt.1).
Vera macchina da guerra hard & heavy, i Tytus non fanno prigionieri e si confermano come una delle più convincenti realtà del genere.

Tracklist
1.Disobey
2.The Invisible
3.The Storm That Kill Us Hall
4.Our Time Is Now
5.The Dark Wave
6.Death Throes
7.Rain After Drought PT.1
8.Rain After Drought PT.2
9.Move On Over
10.A Desolate Shell Of A Man

Line-up
Ilija Riffmeister – Vocals & Guitars
Mark SimonHell – Guitars
Markey Moon – Bass
Frank Bardy – Drums

TYTUS – Facebook

Norilsk – Weepers Of The Land

Weepers Of The Land non è affatto un brutto album, perché i due musicisti sono autori di un sound gradevole al quale manca quell’incisività e soprattutto quel pathos che vengono richiesti a chi si cimenta in ambito doom e dintorni: la sensazione è che ci siano ampie potenzialità per fare decisamente meglio, magari offrendo un ‘interpretazione meno dispersiva del genere.

Norilsk è un città siberiana nota per le sue temperature inclementi, oltre al fatto d’essere stata fondata in luoghi particolarmente inospitali negli anni ’30 da Stalin per diventare uno dei famigerati Gulag.

La band che ha deciso di adottare questo monicker è invece canadese e giunge con Weepers Of The Land al suo terzo full length in pochi anni di attività.
Il duo del Québec si cimenta con un death doom dalle sfumature post metal che non è affatto male, anche se l’impressione che resta al termine di questa mezz’ora abbondante di musica è quella di una band che mette un po’ troppa carne al fuoco, finendo per non assumere una propria fisionomia ben delineata.
Lo stoner sludge di No Sacred Ground scorre via piuttosto bene, invero, ma viene seguita da un funeral minimale e appena abbozzato (The Way) prima che la francofona Toute la noirceur du monde riporti il tutto su un piano melodico più ragionevole, benché a sua volta non troppo collegato a quanto oggetto in precedenza.
A confondere ulteriormente le idee arriva Tomber 7 fois, cover di uno dei brani più noti della cantante francese Mylene Farmer, sensuale creatura che ebbe un notevole successo negli anni novanta: la riproposizione non è affatto male e il suo irrobustimento non ne fa smarrire l’orecchiabilità ma resta la sensazione di un qualcosa fuori contesto.
Ben venga, allora, la conclusiva title track, notevole e lunga litania che sembra finalmente connotare il sound dei Norilsk in maniera più precisa e soprattutto minacciosa, tenendo fede all’immaginario creato dal monicker e dalla copertina del quale francamente, fino a questo punto del lavoro, non se ne era vista traccia.
Weepers Of The Land non è affatto un brutto album, perché i due musicisti sono autori di un sound gradevole al quale manca quell’incisività e soprattutto quel pathos che vengono richiesti a chi si cimenta in ambito doom e dintorni: la sensazione è che ci siano ampie potenzialità per fare decisamente meglio, magari offrendo un ‘interpretazione meno dispersiva del genere.

Tracklist:
1. No Sacred Ground
2. The Way
3. Toute la noirceur du monde
4. Tomber 7 fois (Mylene Farmer Cover)
5. Weepers of the Land

Line-up:
Nic M – Vocals, bass, guitars
Nick R – Drums, backing vocals

NORILSK – Facebook

A Pale Horse Named Death – When the World Becomes Undone

Il ritorno degli A Pale Horse Named Death è bellissimo ed assolutamente imperdibile per gli amanti del sound nato tra le vie di Brooklyn una trentina d’anni fa.

Quello che nel 2010 sembrava un progetto estemporaneo, nel corso degli anni è diventato uno dei gruppi più interessanti del panorama doom/gothic statunitense, dal sangue di tipo 0 negativo.

Sal Abruscato, ex tra gli altri di Type 0’Negative e Life Of Agony, ha continuato a percorrere la strada aperta dal guru del genere Peter Steele con i A Pale Horse Named Death, arrivati con questo ottimo When the World Becomes Undone al terzo full length in meno di dieci anni.
Masterizzato da Maor Appelbaum (Faith No More,Yes, Sepultura, Halford) questo nuovo mastodontico lavoro del gruppo newyorkese risulta l’ennesimo grattacielo eretto sopra piani di musica metal/rock dalla struttura doom, tra i quali si aggirano anime grunge, hardcore e metal che non trovano pace.
Un’ora di metallo si trascina tra i resti di un mondo messo a nudo e ormai allo sfascio, con un lento incedere che a tratti lascia che la rabbia prenda il sopravvento, con schizzi di oscuro hardcore che sferrano colpi mortali all’atmosfera gotica e disillusa dell’album.
Quei muri sonori, che sono la firma del doom metal suonato nella grande mela, tornano a far tremare le membrane di casse lasciate nella polvere del tempo prima che il nuovo millennio vedesse la luce, cimiteri dimenticati tra i quartieri di una metropoli oscurata dal male e che portano sulle lapidi i titoli di brani come la title track, Feel In My Hole, Lay With The Wicked, Splinters e che vedono girare tra la terra smossa velate forme sonore dalle somiglianze con Type 0 Negative, Life Of Agony, Alice In Chains e Danzig.
Il ritorno degli A Pale Horse Named Death è bellissimo ed assolutamente imperdibile per gli amanti del sound nato tra le vie di Brooklyn una trentina d’anni fa.

Tracklist
1.As It Begins
2.When the World Becomes Undone
3.Love The Ones You Hate
4.Fell in My Hole
5.Succumbing to the Event Horizon
6.Vultures
7.End of Days
8.The Woods
9.We All Break Down
10.Lay with the Wicked
11.Splinters
12.Dreams of the End
13.Closure

Line-up
Sal Abruscato – Vocals, Guitars
Eddie Heedles – Guitars
Eric Morgan – Bass
Joe taylor – Guitars
Johnny Kelly – Drums

A PALE HORSE NAMED DEATH – Facebook

Pressor – Weird Things

Pesanti come macigni, i quattro brani che compongono questo ep non lasciano scampo: nel genere i Pressor sono un gruppo sicuramente da seguire nelle sue prossime mosse.

La lava scende inesorabile dalla lontana Russia e brucia migliaia di chilometri, violentando l’ovest per poi esplodere in un fragoroso boato stoner sludge metal.

Pesantissimo, stonato e psichedelico arriva, trasformando tutto in un letale magma metallico il nuovo lavoro dei Pressor, combo russo dalla discografia che dal 2012 si dipana in ep e split.
Formata da musicisti dal passato doom/death e black metal, la band sforna l’ennesimo e monolitico tsunami di magma vulcanico intitolato Weird Things, composto da quattro brani aperti dal lento incedere della monolitica Heavy State, oppressivo ed ossessivo episodio che sfocia nella più dinamica title track, stone nell’indole pur mantenendo intatta l’anima estrema della proposta.
Gli strumenti formano un muro sonoro invalicabile e Tripping Deep torna a rallentare la corsa, valorizzata da ottimi intrecci ritmici.
Tastiere settantiane fanno da tappeto a Hexadecimal Unified Insanity, traccia conclusiva e brano più americaneggiante del lotto, salutandoci prima d’essere fagocitati dall’onda lavica alzata dai quattro rockers russi.
Pesanti come macigni, i quattro brani che compongono questo ep non lasciano scampo: nel genere i Pressor sono un gruppo sicuramente da seguire nelle sue prossime mosse.

Tracklist
1.Heavy State
2.Weird Things
3.Tripping Deep
4.Hexadecimal Unified Insanity

Line-up
Stas – guitar, vocals
Anton – guitar, vocals
Denis – bass
Danya – drums

PRESSOR – Facebook

https://noname666.bandcamp.com/

Sulphur Aeon – The Scythe Of Cosmic Chaos

Questo lavoro si colloca tra le migliori produzioni del genere, ad uso e consumo di chi ha storto il naso per la svolta “dark/gotica” dei sempre fondamentali Behemoth.

Dal più profondo abisso dell’inferno arriva ad oscurare il cielo di questa fine d’anno 2018 The Scythe Of Cosmic Chaos, ultimo di tre mostruosi parti estremi dei deathsters tedeschi Sulphur Aeon.

Un terremoto che a livello underground non lascia scampo, un death metal alimentato da maligne presenza black in un’atmosfera da girone infernale: questo lavoro si colloca tra le migliori produzioni del genere, ad uso e consumo di chi ha storto il naso per la svolta “dark/gotica” dei sempre fondamentali Behemoth.
The Scythe Of Cosmic Chaos porta in sé quell’attitudine senza compromessi che è di molte band che si muovono nei meandri del metal estremo, quindi ancora più violento, oscuro e diabolico degli ultimi spartiti dello storico gruppo polacco.
Il genere è quello, un minimo di confronto con la band di Nergal è quasi dovuto, ma i Sulphur Aeon non sono sicuramente un gruppo da archiviare come cloni di realtà più famose, in questi cinquantun minuti di musica esce prepotentemente il talento estremo del gruppo che si traduce in cascate di riff che bruciano nell’inferno, fiumi di note che creano vortici e mulinelli dove se si cade, si apre una porta per la casa del demonio intento a suonare un death metal maligno, tra potenti mid tempo, atmosfere blasfeme ed un tocco di oscura e gotica ispirazione che ne alza il valore compositivo.
Otto anni dopo l’inizio dell’attività e dopo due album che mettevano le basi per qualcosa di più grande (Swallowed by the Ocean’s Tide del 2013 e Gateway to the Antisphere del 2015) la band tedesca arriva al suo apice compositivo con The Scythe Of Cosmic Chaos, lavoro letteralmente da adorare e ricoo di autentiche perle estreme come Yuggothian Spell, Veneration Of The Lunar Orb e Lungs Into Gills e di magnifiche atmosfere morbose e diaboliche.

Tracklist
1.Cult of Starry Wisdom
2.Yuggothian Spell
3.The Summoning of Nyarlathotep
4.Veneration of the Lunar Orb
5.Sinister Sea Sabbath
6.The Oneironaut – Haunting Visions Within the Starlit Chambers of Seven Gates
7.Lungs into Gills
8.Thou Shalt Not Speak His Name (The Scythe of Cosmic Chaos)

Line-up
T. – Guitars, Bass
M. – Vocals
D. – Drums
S. – Bass
A. – Guitars

SULPHUR AEON – Facebook

Monuments – Phronesis

I Monuments possiedono quelle caratteristiche che in parte coprono i difetti riscontrabili in tutte le opere del genere e Phronesis, da questo punto di vista, ha dalla sua richiami al nu metal che imprimono quella verve in più all’ascolto.

Il metalcore ha iniziato da almeno un paio d’anni l’ involuzione fisiologica di quei generi che trovano il successo, rimangono nei favori degli ascoltatori per un periodo più o meno lungo per poi cadere in uno stato creativo comatoso, provocato dalle centinaia di band tutte uguali che le label sparano a mitraglia sul mercato alla ricerca della gallina dalle uova d’oro.

Il metal moderno melodico quindi, lascia alla sua anima più estrema e violenta (il deathcore) la gloria qualitativa, per provare invece a raggiungere i più giovani con opere sempre più melodiche e chiuse nella solita formula da tempo abusata fino alla noia.
Si salvano da tutto questo i Monuments, quintetto londinese al terzo lavoro sulla lunga distanza per Century Media, una garanzia di qualità anche in questo genere, grazie ad una produzione scintillante e ad un lotto di brani che ben esprimono il concetto di metal core, con ritmiche sincopate e dalla ottima tecnica, chorus puliti e dal sicuro appeal e un uso discreto della canonica dicotomia vocale.
Gratificati da un successo che li vede girare l’Europa anche in questo anno per supportare il nuovo lavoro, i Monuments hanno dalla loro quelle caratteristiche che in parte coprono i difetti riscontrabili in tutte le opere del genere e Phronesis, da questo punto di vista, ha dalla sua richiami al nu metal (Leviathan) che imprimono quella verve in più all’ascolto.
Per il resto siamo perfettamente in sintonia con i dettami ben conosciuti, ed anche questo ultimo lavoro targato Monuments troverà estimatori tra gli amanti di queste sonorità mentre verrà totalmente ignorato da tutti gli altri.

Tracklist
1.A.W.O.L
2.Hollow King
3.Vanta
4.Mirror Image
5.Ivory
6.Stygian Blue
7.Leviathan
8.Celeste
9.Jukai
10.The Watch

Line-up
Olly Steele – Guitar
Adam Swan – Bass
Chris Barretto – Vocals
John Browne – Guitar
Daniel ‘Lango’ Lang – Drums

MONUMENTS – Facebook

Unearth – Exctintion(s)

Gli Unearth concentrano qui tutto ciò di buono che sanno fare, esaltando al massimo le proprie capacità; la maturità musicale è netta e incontrovertibile, come la loro superiorità rispetto agli altri gruppi.

Passano gli anni, arrivano nuovi nomi sulla scena, ma poi esce il nuovo disco degli Unearth che spazza via tutto e tutti.

I paladini del metalcore sono in giro dal 1998 e non hanno intenzione di abdicare, anzi affermano la propria superiorità con questo ottimo Extinction(s), che mette in mostra tutto ciò che la casa possa offrire. Con chitarre contundenti, batteria e basso incessanti, una voce sempre calibrata e adeguata, gli Unearth sono uno dei gruppi che sanno incanalare al meglio la propria potenza, offrendo anche ottimi momenti di melodia, ma in questo disco prevale la pesantezza. Molti, e a ragion veduta, sono critici verso un sottogenere come il metalcore, poiché si dice che sia troppo melodico e fatto per vendere ai giovanissimi, cose che in alcuni casi sono vere, ma se i critici ascoltassero questo ultimo lavoro degli Unearth darebbero più di una possibilità al genere. Ovviamente non tutti i gruppi sono come loro, ma questo ultimo disco è molto valido, lo si ascolta dall’inizio alla fine apprezzando le continue e ottime soluzioni sonore, e il risultato di insieme è ottimo. Non esiste tregua o momento di stanca, la ripartenza della carriera dopo venti anni è un autentico successo, un continuum di mazzate e grandi momenti di metal moderno. Gli Unearth concentrano qui tutto ciò di buono che sanno fare, esaltando al massimo le proprie capacità; la maturità musicale è netta e incontrovertibile, come la loro superiorità rispetto agli altri gruppi. Mostrare i muscoli ma non solo, perché gli Unearth sono comunque capaci anche di belle melodie, sempre incastonate all’interno di ritmi veloci e potenti. Ottimo il cantato anche nei momenti di growl, dimostrazione di versatilità da parte del cantante e dell’intero gruppo.

Tracklist
1. Incinerate
2. Dust
3 Survivalist
4 Cultivation Of Infection
5 The Hunt Begins
6 Hard Lines Downfall
7 King Of The Arctic
8 Sidewinder
9 No Reprisal
10 One With The Sun

Line-up
Trevor Phipps – Vocals
Ken Susi – Guitar
Buz McGrath – Guitar
Nick Pierce – Drums
Chris O’Toole – Bass

UNEARTH – Facebook

Cantique Lépreux – Paysages Polaires

Una Natura aspra e invincibile si ritrova nella seconda opera dei canadesi Cantique Lepreux che riescono con la purezza della loro arte a rappresentarla in tua la sua magnificenza.

Epicità, disperazione e gelo sono gli ingredienti che ci investono appena partono le prime note del secondo disco dei canadesi Cantique Lepreux, terzetto del Quebec che nonostante una ancora breve carriera, il primo full length “Cendres Celestes” è del 2016, ha le idee chiare e una ispirazione pura per diffondere la propria arte devota alla nera fiamma.

Cover estremamente esplicativa e titolo suggestivo ci aiutano ad acclimatarci immediatamente nel turbinio emozionale che fuoriesce fin dall’opener Le feu secret, furibondo brano condotto in costante tremolo picking e sorretto dall’angosciante scream di Blanc Feu; qui domina una natura selvaggia, incontaminata, insondabile, invincibile e l’intento della band è quello di trasportarci al suo interno, facendocela conoscere in tutte le sue sfumature. La proposta della band, sette brani, monolitica nel suo incedere, senza sostanziali variazioni, ci avvolge in un freddo vento che spira senza sosta, che non ci offre riparo, ma ci pone davanti all’ asprezza e alla maestosità di un suono senza tempo, memore della lezione nordica ma capace a livello melodico di trovare la strada per colpire la nostra sensibilità romantica. Lo scream in francese dona un afflato nostalgico e angosciante durante tutto lo svolgimento e la title track, quasi sedici minuti divisi in tre parti ci abbraccia in un vortice molto suggestivo dove le chitarre si rincorrono senza sosta e ci ipnotizzano donandoci melodie fredde e pure, figlie di una capacità e di una identità personale. L’urlo liberatorio che prorompe fiero e inesauribile, riempie di forza i nostri cuori e i nostri muscoli, rendendoci partecipi nell’ascolto di un suono sincero e dalla forte identità. Buonissima band e opera assai meritevole in un 2018 ricco di ottime uscite

Tracklist
1. Le feu secret
2. Les étoiles endeuillées
3. Paysages polaires I
4. Paysages polaires II
5. Paysages polaires III
6. Hélas…
7. Le fléau

Line-up
Matrak – Bass
Cadavre – Drums
Blanc Feu – Guitars, Vocals

CANTIQUE LEPREUX – Facebook

Cóndor – El Valle del Cóndor

Il sound del quintetto colombiano amalgama in modo sagace gli elementi dell’heavy/death/doom, e li modella lasciando che le atmosfere si dilatino senza perdersi troppo, potenziate da mid tempo potenti ed un rantolo di matrice death nel cantato.

Arrivati al quarto lavoro sulla lunga distanza, i Cóndor si presentano come una delle realtà più presenti nella scena metal underground della capitale colombiana Bogotá.

Il gruppo, infatti, in cinque anni di attività ha dato vita a tre lavori, prima che La Caverna Records licenziasse questo ultimo album incentrato su un doom/death metal dai risvolti heavy e old school.
Una proposta assolutamente underground ma che mantiene una sua forte personalità: il sound del quintetto colombiano amalgama in modo sagace gli elementi dei tre generi citati, li modella lasciando che le atmosfere si dilatino senza perdersi troppo, potenziate da mid tempo potenti ed un rantolo di matrice death nel cantato.
L’album si apre con una lunga intro strumentale dal titolo Obertura, con le chitarre che sprigionano riff dissonanti e carichi di watt, mentre El Paramo De Pisba accelera le ritmiche avvicinandosi al death metal.
La Cuchilla Del Tambo è un breve brano strumentale che funge intermezzo prima che Santa Rosa De Osos apra squarci doom/death metal, in un contesto ritmico dai molti cambi di tempo.
El Valle del Cóndor ha nei molti strumentali, come Cabeza de Buitre, i momenti più riusciti e si conclude con le note folk della title track a suggellare un buon lavoro in arrivo da una scena ancora tutta da scoprire come quella colombiana.

Tracklist
1.Obertura
2.El Páramo de Pisba
3.La Cuchilla del Tambo
4.Santa Rosa de Osos
5.Aw’tha
6.Gudrún
7.Cabeza de Buitre
8.Raudo es el Cauca
9.El valle del Cóndor

Line-up
Andrés Felipe López Vergara – Drums, Vocals
Francisco Fernández López – Guitars
Antonio Espinosa Holguín – Guitars, Vocals
Alejandro Solano Acosta Madiedo – Bass
Jorge Eduardo Canal Corredor – Guitars, Vocals

CONDOR – Facebook

Hollow – Between Eternities of Darkness

Echi di Nevermore, Queensryche, Morgana Lefay e Tad Morose sono presenti in questo splendido ritorno firmato Hollow, un lavoro che mette in primo piano sentimenti, emozioni, dubbi e paure e le trasforma in musica, tragicamente metallica, potente ma dall’impatto melodico straordinario.

Sono passati vent’anni da quando gli Hollow del polistrumentista Andreas Stoltz licenziarono Architect Of The Mind, bellissimo lavoro che vedeva la band svedese alle prese con un power progressive metal potente e melodico, sulla scia di Nevermore e Morgana Lefay.

La Rockshots Records non si è fatta scappare l’opportunità di mettere il suo marchio su questo inaspettato ritorno intitolato Between Eternities of Darkness, scritto, cantato e suonato da Stoltz con l’aiuto del batterista Stalder Zantos.
Mixato e masterizzato da Ronnie Björnström ai Enhanced Audio Productions in Svezia, l’album racconta il periodo difficile e drammatico di una famiglia normale, un periodo oscuro che non cancella il ricordo di tempi migliori, raccontato per mezzo di un emozionante viaggio nel metal progressivo che, come da tradizione del combo, si divide tra il concetto melodico ricco di tensione, oscuro e drammatico del metal statunitense e quello potente, roccioso e power suonato in Scandinavia a cavallo dei due secoli.
Echi di Nevermore, Queensryche, Morgana Lefay e Tad Morose sono presenti in questo splendido ritorno firmato Hollow, un lavoro che mette in primo piano sentimenti, emozioni, dubbi e paure e le trasforma in musica, tragicamente metallica, potente ma dall’impatto melodico straordinario.
La bravura tecnica del mastermind svedese non si discute, ma è la parte compositiva che lascia senza fiato, trasformando Between Eternities of Darkness, in una raccolta di brani drammatici, spettacolari nelle parti progressivamente ritmiche e da brividi nelle parti cantate.
Fate Of The Jester, Pull Of The Undertow, le splendide Hidden e Calling regalano insieme a tutta la tracklist grande musica metal, di livello superiore alla media per maturità artistica e songwriting: il ritorno degli Hollow è qualcosa più di una gradita sorpresa.

Tracklist
1.Travel Far
2.Fate of the Jester
3.Down
4.Pull of the Undertow
5.Shadow World
6.Hidden
7.Calling
8.The Road I’m on
9.Death of Her Dream
10.Say Farewell

Line-up
Andreas Stoltz – Vocals and Guitar
Stalder Zantos – Drums

HOLLOW – Facebook

Svarthart – Awaiting The Return

Il problema degli Svarthart è che il loro death doom è davvero troppo scarno per poter attrarre chi desidera ascoltare dolenti melodie, ma non è neppure abbastanza crudo ed incisivo per lasciare un segno.

Awaiting The Return è il secondo full length dei belgi nome, Svarthart nella quale ritroviamo Tom Mesens musicista che abbiamo conosciuto con l’altro suo progetto solista Riven.

Lo scorso anno abbiamo parlato, purtroppo in termini non troppo lusinghieri, dell’esordio su lunga distanza degli Svarthart intitolato Emptiness Filling the Void e va detto subito che i progressi rispetto a quell’opera sono stati davvero pochi.
Rispetto a quanto offerto in maniera apprezzabile da Mesens con i Riven, la differenza non è riscontrabile solo nel fatto che in questo caso non stiamo parlando di una one man band ma anche in un approccio che riconduce più al death doom che non al funeral.
Ma se in un un album come Hail to the King, pur nel suo minimalismo, gli aspetti positivi superavano senz’altro quelli negativi, nel caso di Awaiting The Return purtroppo le cose si ribaltano, nel senso che le fasi meno convincenti del lavoro non vengono compensate da un songwriting che si rivela privo di passaggi di particolare interesse. Un growl eccessivamente piatto finisce per affliggere ulteriormente un sound di suo già soffocato da una produzione insufficiente, esattamente come accadeva in Emptiness Filling the Void, con la differenza che almeno, nel presente album, in alcuni frangenti balenano radi lampi melodici capaci di attrarre l’attenzione per un tempo comunque troppo ridotto.
Il problema degli Svarthart è che il loro death doom è davvero troppo scarno per poter attrarre chi desidera ascoltare dolenti melodie, ma non è neppure abbastanza crudo ed incisivo per lasciare un segno come fatto di recente, tanto per non andare troppo lontani, dai connazionali Iteru.
Dovendo trarre qualche conclusione da questo lavoro, mi verrebbe da consigliare a Mesens di dedicarsi anima e corpo al suo progetto Riven, dal quale sembra che vi siano oggettivamente dei margini per trarre quelle soddisfazioni e quei riscontri che difficilmente potranno provenire dal suo operato con il marchio Svarthart.

Tracklist:
1. While Sadness Is Following
2. Waiting
3. Blinded by Lies
4. Harbringer
5. Ignition
6. The Murder, Part One
7. The Murder, Part Two
8. Aan de afgrond
9. Dawning

Line-up:
Zeromus – Guitars (lead)
Svartr – Guitars, Vocals
Sven – Bass

SVARTHART – Facebook

Esben And The Witch – Nowhere

Praticamente l’album è un sogno lungo diverse decine di minuti, nel corso del quale il tempo e lo spazio sono sospesi e si va via con gli Esben And The Witch.

Come in un sogno, la musica degli Esben And The Witch si snoda nel nostro cervello, generando quel piacere del toccare ciò che non è reale, poiché la realtà qui non è di casa.

La musica del gruppo, che si divide fra Berlino e l’Inghilterra, è da annoverare nella psichedelia pesante, ma in realtà c’è molto di più. Il tappeto sonicamente distorto di Daniel e Thomas è fertile per la bellissima voce di Rachel, la strega che officia il rito che ci porta in un’altra bellissima dimensione. La musica è quasi uno shoegaze più pesante e dilatato dove sembra quasi che ogni strumento vada per conto suo, mentre si amalgama alla perfezione con gli altri. L’etereo cantato e ciò che succede sotto creano una trama che avvince l’ascoltatore per prepararlo alle tante esplosioni sonore che ci sono in tutto il disco. Praticamente l’album è un sogno lungo diverse decine di minuti, nel corso del quale il tempo e lo spazio sono sospesi e si va via con gli Esben And The Witch. Poche band riescono a catturare in maniera tale l’ascoltatore e qui stupisce anche la grande profondità dei suoni, che riescono a penetrare molto a fondo nella psiche dell’ascoltatore, lasciando un segno indelebile. La carriera del gruppo anglo tedesco è stata un continuum ben preciso, una decisa scalata verso vette molto alte: Nowhere è per ora il loro picco, ma possono dare ancora molto. Seppur non appartengano a nessun genere ben preciso, o forse proprio per questo motivo, gli Esben And The Witch sono uno di quelle sparute band che riescono a creare un genere a sé stante, rinnovando profondamente alcuni codici musicali. Un disco che fa sognare ma che non è sicuramente un prodromo della gioia, bensì una presa di coscienza della nostra fallibilità e della nostra brevità, ma ci sono musiche che fortunatamente ci conducono lontano.

Tracklist
1. A Desire For Light
2. Dull Gret
3. Golden Purifier
4. The Unspoiled
5. Seclusion
6. Darkness

Line-up
Daniel
Thomas
Rachel

ESBEN AND THE WITCH – Facebook

Metal Church – Damned If You Do

In questo ultimo album le atmosfere dark sono presenti così come le accelerazioni di scuola thrash metal, e le melodie incastonate in assoli e chorus che hanno fatto scuola permettono ai Metal Church di ripresentarsi in buona forma.

I veterani Metal Church pubblicano il loro dodicesimo album e si torna così a parlare della storia del metal statunitense.

Infatti la band americana è forse la più indicata quale pioniera di un sound diventato marchio di fabbrica dell’heavy metal classico made un U.S.A., dalle tinte dark, drammatico e thrashy, ma sempre con un occhio attento alle melodie.
Diversi gruppi hanno costruito intere carriere con le regole che i Metal Church hanno definito fin dai primi anni ottanta passando alla storia metallica con lavori leggendari che, per quanto riguarda la band di Kurdt Vanderhoof, sono scritti sulle tavole della legge dell’heavy metal (The Dark, Blessing In Disguise e The Human Factor su tutti).
Dodici album non sono neppure così tanti, ma la qualità dei lavori licenziati è rimasta elevata per oltre trent’anni e i vecchietti terribili del metal classico a stelle e strisce non mancano all’appuntamento con i loro fans neppure questa volta.
Il ritorno del batterista Stet Howland dopo i gravi problemi di salute che gli impedirono di subentrare immediatamente a Jeff Plate, è la novità che si porta dietro questo nuovo lavoro, per il resto tutto funziona alla grande e Damned If You Do risulta l’ennesimo buon lavoro; potente e melodico.
In questo ultimo album le atmosfere dark sono presenti così come le accelerazioni di scuola thrash metal, e le melodie incastonate in assoli e chorus che hanno fatto scuola permettono ai Metal Church di ripresentarsi in buona forma.
L’album parte con la title track, brano che segna il percorso assolutamente ovvio e privo di sorprese di questo lavoro, alternando mid tempo, armonie pregne di oscure melodie e sfuriate metalliche sulle quali Mike Howe ruggisce e graffia da par suo.
Damned If You Do è un album che nei suoi perfetti automatismi regala canzoni di alto livello come The Black Things, Guillotine e Monkey Finger, quindi in grado di soddisfare gli amanti del gruppo e del metal classico d’oltreoceano; dal vivo i Metal Church continuano ad essere una macchina da guerra, mentre in studio si confermano come gruppo ancora lontano dalla quiescenza compositiva.

Tracklist
1. Damned If You Do
2. The Black Things
3. By The Numbers
4. Revolution Underway
5. Guillotine
6. Rot Away
7. Into The Fold
8. Monkey Finger
9. Out Of Balance
10. The War Electric

Line-up
Mike Howe – Vocals
Kurdt Vanderhoof – Guitars
Stet Howland – Drums
Steve Unger – Bass
Rick Van Zandt – Guitars

METAL CHURCH – Facebook

Death Waltz – Born To Burn

I Death Waltz guardano avanti e, pur non nascondendo ispirazioni ed influenze, licenziano un buon lavoro provando a farsi spazio nella scena underground nostrana.

I bresciani Death Waltz si definiscono semplicemente una band “metal” e fanno bene, sarebbe forse troppo lungo etichettare il sound del loro primo lavoro come melodic death, thrash, heavy metal.

Nata ormai quattro anni fa, la band lombarda arriva a licenziare il primo lavoro dopo alcuni cambi di line up e la solita gavetta in giro per i locali della provincia bresciana, prima che questo roccioso, metallico e melodico Born To Burn veda la luce e venga promosso dalla Ad Noctem Records.
Questi undici brani che formano quaranta minuti di musica, vedono la band impegnata nel proporre metal che prende ispirazione tanto dal melodic death metal, quanto dall’heavy, potenziando a tratti l’atmosfera con sferzate thrash che velocizzano le ritmiche ed estremizzano il sound.
Ne esce un lavoro piacevole, grezzo e melodico, attraversato da armonie che richiamano i Sentenced di Down, i Maiden ed in generale il thrash metal, ma che trovano una loro strada, sicuramente ancora più da personalizzare in futuro.
Born To Burn risulta quindi un buon ascolto, un tocco moderno in qualche arrangiamento non manca e dona a brani come Blood Moon, Dream e Samarra quel che basta per essere inserito nel metal del nuovo millennio.
I Death Waltz guardano avanti e, pur non nascondendo ispirazioni ed influenze, licenziano un buon lavoro provando a farsi spazio nella scena underground nostrana.

Tracklist
1.Intro
2.Juliet
3.Blood Moon
4.Beast
5.Death Waltz
6.Dream
7.This Is War
8.Samarra
9.Born to Burn
10.Riot
11.Asylum

Line-up
Jacopo “Jack” Polonioli – Drums
Mirko “J” Scarpellini – Guitars
Diego Dangolini – Bass
Stefano “Stef” Comensoli – Guitars
Alberto Scolari – Vocals

DEATH WALTZ – Facebook

Coffin Birth – The Serpent Insignia

I Coffin Birth sono una nuova formazione nata nel 2018 dalla collaborazione fra musicisti metal maltesi ed italiani.

Non deve stupire il fatto che vi siano dei componenti maltesi, perché la scena metal dell’isola, in special modo quella doom, è molto fiorente e valida. Il gruppo offre una potente miscela di death metal con un taglio vecchia scuola, con molte influenze punk e con incursioni nel groove metal. Il risultato è un disco di debutto molto potente, calibrato alla perfezione anche grazie alla grande esperienza degli attori coinvolti. I nostri sono Giulio Moschini (Hour of Penance), Marco Mastrobuono (Hour of Penance), Francesco Paoli (Fleshgod Apocalypse, ex-Hour of Penance), Davide Billia (Hour of Penance, Beheaded) e Frank Calleja (Beheaded). Visti i nomi ciò che viene fuori con i Coffin Birth non dovrebbe stupire più di tanto, ma si va ben oltre le aspettative. La media del disco è molto alta, l’intensità non viene mai meno, e con essa c’è una grande potenza di fondo che lega con una capacità compositiva importante. La musica è molto pesante e veloce, con dei mid tempo devastanti, e la produzione fa rendere al meglio il tutto. Era da tempo che non si ascoltava un disco come questo, in grado di partire dal death metal e spaziare in altri ambiti, senza creare steccati, ma anzi andando a ricercare aspetti differenti per creare un ottimo groove. Infatti The Serpent Insignia non sfigura nemmeno in quest’ultimo ambito, dove spesso ci sono lavori che segnano il passo mentre qui è tutto fresco e ben composto. I Coffin Birth sono ben al di sopra della media e il disco è un debutto che si proietta direttamente nelle migliori uscite dell’anno che volge al termine per i generi coinvolti.

Tracklist
01. Throne of Skulls
02. The 13th Apostle
03. Godless Wasteland
04. Red Sky Season
05. Christ infection Jesus Disease
06. From the Dead to the Dead
07. Casket Ritual
08. Sanguinary
09. The Serpent Insignia
10. Zombie Anarchy

Line-up
Frank Calleja – Lyrics & Vocals
Giulio Moschini – Guitars
Francesco Paoli – Guitars
Marco Mastrobuono – Bass
Davide Billia – Drums

COFFIN BIRTH – Facebook

Who Dies in Siberian Slush – Intimate Death Experience

Convincente ritorno, a sei anni dall’ultimo full length, di una delle più influenti band della scena doom moscovita, gli Who Dies in Siberian Slush di Evander Sinque.

A sei anni dall’ultimo full length We Have Been Dead Since Long Ago… torna una delle più influenti band della scena doom moscovita, gli Who Dies in Siberian Slush di Evander Sinque.

Quel lavoro, seppure di buna fattura, non aveva comunque raggiunto il ragguardevole livello dell’esordio Bitterness of the Years That Are Lost del quale erano state mantenute sostanzialmente le principali linee guida, sotto forma di un funeral death doom a tratti dissonante e poco incline alla melodia.
Intimate Death Experience, in tal senso, conferma invece il cambio di direzione giù mostrato nei due brani presenti nello split The Symmetry Of Grief (in coppia con il finnici My Shameful) , facendo intuire fin dall’inizio che il sound non sarà affatto scevro di malinconici passaggi, per lo più chitarristici ma anche delineati dalla tastiera.
Inoltre, a fornire quella peculiarità che è sempre la benvenuta purché non si tramuti in un un elemento spiazzante, troviamo l’interessante contributo del flauto e soprattutto del trombone, uno strumento che più di altri, utilizzato in un simile contesto, restituisce la sensazione di trovarsi al cospetto della banda che accompagna il defunto nel suo ultimo viaggio.
Va detto che i due brani presenti nello split album citato, And It Will Pass e The Tomb of Kustodiev, li ritroviamo anche in quest’occasione, sebbene riarrangiati, il che non è un male perché trattasi di tracce decisamente buone, ma non si può fare a meno di notare al contempo che la musica inedita presente in Intimate Death Experience ammonta a poco meno di venti minuti.
Poco male, però, quando i due brani di nuovo conio, al netto dell’intro Through the Heavens e del breve recitato Solace, si rivelano alcune delle cose migliori offerte dagli Who Dies in Siberian Slush nella loro storia: infatti Remembrance e, soprattutto, On Different Sides lasciano finalmente sfogo ad un indole melodica che, comunque, non finisce per sopraffare lo stie sempre un po’ naif e originale dei moscoviti.
In particolare la traccia che chiude il lavoro è davvero splendida, nel suo tragico e doloroso crescendo conclusivo che mette in mostra quello che a mio avviso è il lato migliore della band di Evander Sinque, come sempre autore di un’interpretazione vocale di grande intensità.
Il ritorno, quasi contemporaneo, di due dei nomi più pesanti della scena doom russa come gli Who Dies in Siberian Slush ed i Comatos Vigil (sia pure con il suffisso A.K. causa beghe tra gli ex membi originari) riporta ala luce un movimento che negli ultimi anni era stato messo in ombra da altre stimolanti realtà provenienti dalle nazioni dell’area ex-sovientica; non è stato facile per Evander ripartire, specialmente dopo la prematura e dolorosa scomparsa di Gungrind, ma i risultati che scaturiscono da Intimate Death Experience sono oltremodo convincenti.

Tracklist:
1. Through the Heavens
2. And It Will Pass
3. Remembrance
4. The Tomb of Kustodiev
5. Solace
6. On Different Sides

Line-up:
Igor T. – Drums
E.S. – Vocals
Flint – Guitars (lead)
A. Kraev – Bass
A.Z. – Flute
L.K. – Keyboards, Trombone
Alexey K. – Guitars, Vocals (backing), Synthesizer

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

Eternal Candle – The Carved Karma

The Carved Karma è un lavoro ottimo, maturo benché i musicisti coinvolti siano ancora oggi relativamente molto giovani, convincente in ogni sua parte, sia quando vengono tessute dolenti melodie che rimandano al death doom sia quando è un’anima progressiva a prendere il sopravvento.

Le difficoltà nel proporre musica di un certo tipo nei paesi arabi i cui governi sono profondamente connessi alla religione islamica sono note a tutti ma questo non impedisce a musicisti meritevoli e capaci di porsi in evidenza sia pure magari in tempi più dilatati rispetto a quelli abituali.

È questo il caso degli iraniani Eternal Candle, il cui esordio The Carved Karma, nonostante abbia visto la luce nelle scorsa primavera, risale a circa sei anni fa e questo a ben vedere fa ancora più rabbia specialmente dopo essersi resi conto del valore intrinseco di quest’opera,
Togliendo subito qualsiasi dubbio in merito, va detto infatti che The Carved Karma è un lavoro ottimo, maturo benché i musicisti coinvolti siano ancora oggi relativamente molto giovani, convincente in ogni sua parte, sia quando vengono tessute dolenti melodie che rimandano al death doom sia quando è un’anima progressiva a prendere il sopravvento.
La band guidata da Mahdi Vaezpour non esprime un sound nuovo di zecca ma brilla nel fondere in maniera mirabile tutte quelle istanze musicali che, per fortuna, sono immuni a qualsiasi tipo di barriera fisica o mentale: tutto questo dà vita ad un’opera che, al di là delle inevitabili reminiscenze che può provocare in questo o quel passaggio, gode di un’impronta forte e della freschezza tipica delle band collocate geograficamente ai margini del mondo musicale che conta.
Volendo molto semplificare, gli Eternal Candle propongono un sound che risulta un’ideale punto di incontro tra i Novembers Doom e gli Opeth di Deliverance (a mio avviso l’ultimo dei lavori in cui Åkerfeldt ha saputo equilibrare al meglio le contrastanti pulsioni del suo immaginario musicale), ma è bene ribadire che ciò è utile solo ad inquadrare parzialmente la band asiatica in un ambito stilistico perché The Carved Karma offre decisamente molto di più di un compitino all’insegna del taglia e cuci.
Il malinconico e oscuro incedere del death doom viene costantemente incalzato dalle turbolenze progressive che si manifestano ora sotto forma di un riffing nervoso ora di eleganti arpeggi acustici per poi incontrarsi e stringersi in un saldo abbraccio quando è la chitarra dì Mahdi tesse splendide linee soliste
L’efficace tonalità harsh e growl di Babak Torkzadeh ben si sposa agli interventi con voce pulita dello stesso Vaezpour e tutto ciò avviene in maniera assai fluida, così come passaggi decisamente robusti si stemperano naturalmente in eleganti soluzioni melodiche.
L’album si rivela così compatto e senza punti deboli, tanto che si fatica a trovare un brano che spicca in particolare sugli altri, anche se The Ripped Soul, dovendo scegliere, si fa preferire perché incarna al meglio lo stile degli Eternal Candle, con l’alternanza tra il progressive death doom alla Novembers Doom della prima parte ed il sognante e melodico finale.
In The Carved Karma si rinvengono talvolta accenni ai Dark Suns del capolavoro Existence così come, in certe soluzioni strumentali, alla scena death doom melodica russa (non è casuale probabilmente il fatto che proprio da quelle parti si sia scelto di mixare e masterizzare il lavoro prima d’essere finalmente pubblicato).
Tutto questo va a comporre un quadro complessivo che rende doveroso dare una possibilità a questi valenti ragazzi iraniani, con la speranza che la loro ispirazione trovi nuovo impulso per offrirci altro materiale inedito di conio più recente.

Tracklist:
1. In the Absence of Us
2. The Ripped Soul
3. Sick Romance
4. A Path to Infinity
5. A Dismal Inhabitant
6. The Absurd Sanity
7. The Void
8. Hear My Cry
9. My Turn
10. Prayer of the Hopeless
11. A Wage of Affliction

Line-up:
Mahdi Vaezpour: Composer,Clean Vocal,Lead Guitar
Babak Torkzadeh: Growl And Harsh Vocal
Armin Afzali: Bass
Amir Taqavi: Electric Guitar
Josef Habibi: Drums

ETERNAL CANDLE – Facebook

Spleen Flipper – Myndbreyting

L’aggressività è notevole, i testi sono interessanti e personali, mai banali o scontati, il risultato è un graditissimo ritorno di un gruppo che scalcia tantissimo e non ti lascia tregua, e che insegna che l’attitudine non scompare, ma anzi è maggiore quando si fa qualcosa di originale e non di derivativo.

Dopo l’ultimo disco del 2013 The Will To Kill, tornano gli Spleen Flipper da Crema.

Il loro esordio uscì nel 2003 per la gloriosa Vacation House di Rudi Medea, lo storico cantante degli Indigesti. E’ passato molto tempo da allora, e giunti ai nostri cupi giorni il gruppo non ha perso nulla, anzi è tornato più aggressivo e carico di prima, con un ottimo ep. Il suono è un hardcore metal, con venature newyorchesi e non solo, eseguito con passione e credibilità. In questi quattro pezzi gli Spleen Flipper fanno ben presto capire che l’hardcore per loro è una cosa seria e fa parte della loro vita, non è un passatempo temporaneo o una moda. I nostri hanno il cuore dalla parte giusta, e dimostrano di essere un gruppo al di sopra della media, fin dai primi momenti dell’iniziale The Mirror Room, un pezzo che rende subito chiare le coordinate entro le quali si muovono i lombardi. Le radici sono nel terreno hardcore punk, il metal è molto presente, perché si arriva a contaminarsi con death e anche alcuni sprazzi di black. Il discorso musicale intavolato dal gruppo è molto ampio e verte su argomenti musicali che è bello veder veicolati ora, in un momento nel quale si era perso un certo tipo di hardcore metal, specialmente in Italia con la dipartita di alcuni gruppi storici. La lunghezza dei brani permette al gruppo di avere una struttura complessa che ne mostra la bravura compositiva. L’aggressività è notevole, i testi sono interessanti e personali, mai banali o scontati. Il risultato è un graditissimo ritorno di una band che scalcia tantissimo e non ti lascia tregua, e che insegna che l’attitudine non scompare, ma anzi è maggiore quando si fa qualcosa di originale e non di derivativo. Come suono ci sono momenti che rimandano direttamente all’epoca della suddetta Vacation House, e se avete voglia andate a riprendervi il loro catalogo, che oltre agli Spleen Flipper annoverava cosa davvero notevoli.

Tracklist
1.The mirror room
2.No escape
3.I have a dream
4.Falling

Line-up
Katta – chitarra
Nico – basso
Charlie – batteria
Catta – chitarra
Topper – voce

SPLEEN FLIPPER – Facebook