Le fondamenta di questo suono sono le colonne sonore dei film italiani minori degli anni sessanta, settanta e ottanta, film innovativi e dalle grandi soundtrack, nelle quali l’avanguardia musicale poteva mostrarsi nuda e senza remore, regalando molte gioie.
Nuovo disco di questo duo italiano che confeziona splendide colonne sonore di film immaginari.
Il gruppo nasce da un’idea di Ezio P. Zender nel 2012 e ha già pubblicato Maciste Nell’Inferno Dei Morti Viventi – Peplum Holocaust e Squartami Tutta – Black Emanuelle Goes To Hell: i titoli dicono molto ma la questione è ancora meglio. La musica di questo duo è un qualcosa di inedito per molte orecchie, un viaggio di synth e chitarra, inframezzato da estratti da questi film immaginari. In pratica come se fosse una jam adattata alle immagini, questa musica che ora si attarda ora si slancia impetuosa è qualcosa che scorre senza mai ripetersi per tutto il corso del disco. Le idee dei Kotiomkin sono molteplici e tutte buone, l’ascoltatore non sa mai cosa lo aspetta, e il viaggio sonoro è molto bello. Le fondamenta di questo suono sono le colonne sonore dei film italiani minori degli anni sessanta, settanta e ottanta, film innovativi e dalle grandi soundtrack, nelle quali l’avanguardia musicale poteva mostrarsi nuda e senza remore, regalando molte gioie. Per la prima volta nella sua carriera il gruppo abbandona le chitarre per fare il tutto con i synth e la batteria. Il suono è molto fresco e ha un forte sapore di improvvisazione jazzistica, un andare oltre la forma canzone rompendo molti schemi in nome di un’avanguardia che è soprattutto mentale. La fisicità e il sesso sono qui onnipresenti, legandosi al dimonio che guida le azioni di donne e falli sventurati, e anche questo è reso benissimo ed in maniera molto fantasiosa. Una suora suicida, un padre che non si arrende, un demonio e tanto altro per una storia avvelenata come un albicocco al curaro. Qui i generi musicali si sovrappongono, dal noise al lounge satanico, stoner, prog e tanto altro, per un qualcosa di davvero originale ed unico. Non costa molto vendere l’anima ai Kotiomkin, ne ricaverete solo grande godimento.
Tracklist
Lo Lato A
I. Fatal Commestio
II. Sexy Averno
III. Metti lo Diavolo Ne Lo Convento
Lo Lato B
IV. Vilan Chesserton
V. Satanasso “Protettore” Delle Donne
Black Water è un album che merita l’attenzione degli amanti del metal/rock di gran classe, in grado di riportare all’attenzione degli appassionati una band reduce da un lungo silenzio come i Fist Of Rage.
L’Andromeda Relix è da anni sinonimo di grande musica metal e rock, in quanto ogni album che giunge alla nostra attenzione ha quale comune denominatore l’alta qualità della proposta, indipendentemente dal genere trattato.
Non differisce da tali coordinate il secondo album dei Fist Of Rage, band friulana che esordì otto anni fa con Iterations To Reality: BlackWater è infatti un gran bel lavoro, a suo modo originale nel proporre un sound che accoglie tra le sue note una manciata di generi e li rielabora a suo piacimento trasformandoli in un ottimo esempio di metal classico dai rimandi progressivi e AOR, potenziato a tratti da ritmiche che si avvicinano al power rock.
E’ da qui che il sestetto parte per il suo viaggio nelle acque oscure di un mare in preda ad una tempesta metallica, con il cantante Piero Pattay che offre una prestazione notevole, a tratti graffiante come un cantante metal di razza, ma anche splendidamente melodico.
I Fist Of Rage non puntano tutto sulla tecnica esecutiva da prog metal band ma guardano, semmai, all’hard rock melodico ed alle sue emozionanti melodie al servizio di un sound che passa dagli anni ottanta (Rainbow e Europe) ai novanta (Dream Theater), per entrare nel nuovo millennio tra fuochi d’artificio metallici grazie a splendidi e robusti brani come l’opener Just For A While, la successiva e potentissima New Beginning, ed il nucleo centrale composto da Mudman, Lost e These Days.
Black Water è un album che merita l’attenzione degli amanti del metal/rock di gran classe, in grado di riportare all’attenzione degli appassionati una band reduce da un lungo silenzio come i Fist Of Rage.
Tracklist
01. Just For A While
02. New Beginning
03. Between Love & Hate
04. Black Water
05. Mudman
06. Lost
07. These Days
08. Awake
09. Set Me Free
10. September Tears
A differenza di ciò che deve essere compreso attraverso i social media, questo disco, fatto in maniera antica ma non per questo antiquata, mette la musica al centro di tutto rendendola strumento di narrazione.
Esordio per il duo vicentino Nosexfor, composto da Severo Cardone e Davide Tonin.
Al primo ascolto non si rimane particolarmente impressionati dalla loro musica e dai loro testi, ma dopo un po’ che li si ascolta si rimane stupiti di quanto siano bravi e capaci nel rendere melodie e pensieri, fissandoli su piccoli bassorilievi musicali che colpiscono per la loro originalità e credibilità.
La prima impressione non era certo colpa del duo veneto, che infatti poi convince appieno, ma della nostra abitudine a sentire cose in poco tempo cercando di trovarci del senso e delle cose che in realtà non ci sono. In questo periodo storico, nel più completo rovesciamento della realtà, il cosiddetto indie è diventato più mainstream del mainstream stesso, attraverso formule musicali che sono per lo più vuote e barocche; quando contano più i followers su Instagram che la musica, l’atto musicale passa quasi in secondo piano, sotterrato da nuovi guru sonori. Poi arrivano dischi come questo d’esordio dei Nosexfor che, con parole adeguate e musica minimale e veritiera, ti aprono gli occhi riportandoti dove vorresti sempre essere stato. La formula chitarra e batteria è stata percorsa da molti gruppi negli ultimi anni, c’è chi lo ha fatto bene chi un po’ meno, ma i Nosexfor appartengono decisamente al gruppo di chi ha qualcosa da dire e lo grida bene. Non ci sono pose particolari, nessuna costruzione senza fondamento, ma un uso intelligente e potente della musica e delle parole. Melodie inusuali, momenti accelerati e fasi più intime che si incontrano e danno vita ad una formula assai inusuale per l’Italia, ovvero una specie di stoner rock dai molti risvolti, con tanta realtà raccontata in maniera mai isterica e puntuale. A differenza di ciò che deve essere compreso attraverso i social media, questo disco, fatto in maniera antica ma non per questo antiquata, mette la musica al centro di tutto rendendola strumento di narrazione. Inoltre c’è un sentore di blues che aleggia per tutto il lavoro, arricchendolo di una forza calma ed inoppugnabile. I Nosexfor fanno un qualcosa che è nell’aria e che c’è per chi ne sa cogliere la presenza, un piccolo tesoro che aspettavamo da tanto, con quella voce in italiano su un tappeto di suoni che sgorgano incessanti.
Tracklist
1Pensavo fosse ok
2 Zero Meno
3 Perdere la testa
4 Ma non ti preoccupare
5 L’America
6 Niente luci in centro
7 Noi
8 Bambino Vodu’
9 Eva
10 Quello che resta
Partendo dall’assennato assunto di Italo Svevo che la vita attuale è inquinata alla radice, i bolognesi Subtrees debuttano con un disco meraviglioso e pieno di tossici gioielli.
Partendo dall’assennato assunto di Italo Svevo che la vita attuale è inquinata alla radice, i bolognesi Subtrees debuttano con un disco meraviglioso e pieno di tossici gioielli.
Tutti portiamo un certo grado di tossicità dentro di noi, abbiamo un lato che come un click difettoso non funziona molto bene, o funziona molto meglio della parte che crediamo sana, comunque c’è e vive assieme a noi come un simbionte. La sensazione più importante fra le tante che regala questo disco è il tremendismo, un senso di catastrofe imminente che fortunatamente non si riesce a cogliere nella sua pienezza perché siamo intossicati, e i nostri pensieri viaggiano molto lentamente. Musicalmente il disco esplora diversi lidi e tocca molte istanze musicali, a partire da un forte retrogusto grunge che permea tutta l’opera, ma si va anche verso il noise anni novanta, tenendo sempre ben presente la propria impronta originale. Procedendo nell’ascolto si trova anche un incedere tipico degli Isis, ovvero un passo musicale davvero ampio e che abbraccia l’ascoltatore mentre lo porta lontano. La musica dei Subtrees è qualcosa che riscalda e che scorre direttamente nelle vene, come un droga salvifica, rinnovando la nostra tossicità, rendendola inevitabile e immanente. La completezza del disco è difficile da descrivere a chi non lo ascolterà, perché è sempre la musica che deve spiegare, qui possiamo solo dare indicazioni di ascolto, e questo è un ascolto da fare assolutamente. Le atmosfere create dal gruppo sono bolle temporali nei quali ci si sente confortevoli e al contempo viene esposto il nostro disagio. Non ci sono momenti particolarmente veloci, è tutto molto incisivo e ben composto, con trame che non si sentivano da tempo per un gruppo davvero notevole.
I Bullfrog danno vita all’ennesimo tributo ad un genere immortale, senza temere di confrontarsi con tutti i miti facenti parte della lunga e affascinante storia del rock e donano agli amanti di queste sonorità uno scrigno di emozioni forti.
Se l’hard rock classico continua ad essere uno dei vostri abituali ascolti, magari accompagnato da una dose letale di blues, allora correte nel vostro negozio di fiducia perché sono tornati i Bullfrog, power trio nostrano attivo dall’ormai lontano 1993 ed arrivato con questo sanguigno ultimo lavoro al quinto album della propria discografia.
Non stiamo parlando di novellini quindi, ma di gente che vive di blues e di rock da una vita, con l’attitudine e l’energia per regalare agli amanti del genere un piccolo gioiellino .
La band veronese di acqua sotto i ponti ne ha vista passare tanta, ha diviso il palco con leggende dell’hard rock mondiale e tutta la sua esperienza, passione e bravura le ha riversate in questi undici capitoli che formano quasi un’ora di meraviglie sonore racchiuse nel titolo High Flyer.
Francesco Dalla Riva (voce e basso), Silvano Zago (chitarra) e Michele Dalla Riva (batteria) danno vita all’ennesimo tributo ad un genere immortale, senza temere di confrontarsi con tutti i miti facenti parte della lunga e affascinante storia del rock e donano agli amanti di queste sonorità uno scrigno di emozioni forti.
Hard rock, blues, southern rock vengono racchiusi in un sound che rimanda ad immagini di palchi immensi in grandi festival estivi aldilà dell’oceano, dove ai grandi del rock americano si aggiungevano i gruppi anglosassoni alla ricerca di una conferma nel nuovo continente.
Led Zeppelin, Cream, Bad Company, Lynyrd Skynyrd, Hendrix, i Deep Purple di Coverdale e Hughes, ma chi conosce la storia del rock sa che le ispirazioni non finiscono qui, come non manca ovviamente la firma del trio veneto che mette in campo tutta la sua personalità. Lola Plays The Blues, la stratosferica jam Dangerous Trails, il southern di Rod Hot, Out Of The Wide Sea dal riff che alza centimetri di pelle d’oca sono i momenti migliori di un imperdibile album senza tempo.
Tracklist
01. Lola Plays The Blues
02. Losing Time
03. Hot Rod
04. Beggars and Losers
05. Dangerous Trails
06. Johnny Left The Village
07. Dance Through The Fire
08. Three Roses
09. Out on The Wide Sea
10. Blind Leader
11. River of Tears
Line-up
Francesco Dalla Riva – Vocals, Bass
Silvano Zago – Guitars
Michele Dalla Riva – Drums
Ormai il mondo death si sta evolvendo verso forme che un tempo sarebbero state impensabili, l’old school rappresenta sempre la base di partenza ma giustamente molte band hanno il coraggio di osare, sfidando le convenzioni di un genere e ampliando gli orizzonti sonori con forza e personalità.
Crescita di personalità esponenziale per i tedeschi Chapel Of Disease, i quali nell’arco di sei anni hanno evoluto il loro suono dal death metal legato alle origini di Summoning Black Gods (2012), acerbo e senza particolari spunti, fino all’attuale opera ...And As We Have Seen The Storm, We Have Embraced The Eye, in cui un suono caleidoscopico e vario impregna tutte i brani.
Già nell’opera del 2015, The Misterious Way Of Repetitive Art, i musicisti di Colonia avevano intrapreso un percorso verso una propria identità, ampliando il loro raggio sonoro con un tocco gotico e meno old school, ma ora ci conducono su sentieri peculiari innestando su un base death, neanche particolarmente estrema, sonorità metal classiche e non solo. L’opener Void of Words mette subito in chiaro che il viaggio sonoro sarà ricco di perturbazioni affascinanti e inaspettate, con un lavoro chitarristico di primo ordine, ora atmosferico ora più dinamico, sempre ispirato in fase solistica; nella parte finale il solismo si lascia andare in direzione classic rock rimembrando addirittura Mark Knopfler! I musicisti non temono la sfida e con sincera ispirazione compongono sei canzoni che necessitano di essere ascoltate con attenzione, tante sono le variazioni atmosferiche presenti; nulla di avanguardistico o sperimentale, gli ingredienti sono noti ma l’amalgama non risulta forzata, tutto fluisce spontaneo e il piacere è garantito. Intensi profumi lisergici e acidi fuoriescono, come se fossimo a fine anni ’60, dalla splendida Song of the Gods che procede spedita e potente su un canovaccio che trascende il comune suono death, per approdare nel suo florilegio chitarristico in lidi metal. Pur non essendo avanguardistici, il termine di paragone non appare semplice tante sono le varianti innestate nella struttura delle tracce (Null) e ormai anche il nome della band creato in omaggio dei Morbid Angel (Chapel of Ghouls e Angel of Disease) non li identifica più come semplici “cloni” della band floridiana. Ormai il mondo death si sta evolvendo verso forme che un tempo sarebbero state impensabili, l’old school rappresenta sempre la base di partenza ma giustamente molte band (Horrendous, Venenum, Obliteration ed altre) hanno il coraggio di osare, sfidando le convenzioni di un genere, ampliando gli orizzonti sonori con forza e personalità.
Tracklist
1. Void of Words
2. Oblivious – Obnoxious – Defiant
3. Song of the Gods
4. Null
5. 1.000 Different Paths
6. The Sound of Shallow Grey
Line-up
Christian Krieger – Bass
David Dankert – Drums
Cedric Teubl – Guitars
Laurent Teubl – Vocals, Guitars
In Italia ci sono già stati gruppi di questo tipo, ma l’agilità e l’incisività dei Morso è cosa rara, quasi come se fossero un distillato delle migliori esperienze nel genere, una mutazione genetica che parla del nostro quotidiano.
Incisivo noise math con fortissime influenze hardcore punk in italiano per il debutto dei Morso.
Il gruppo nasce fra Milano e Varese nella Lombardia che scalcia, dal desiderio del chitarrista Davide e del cantante Guido di fare musica senza canovacci prestabiliti, riportandola alla sua origine di mezzo espressivo libero. Raggiungono pienamente il loro scopo e vanno anche oltre, dato che gettano un ponte fra un qualcosa di moderno e una particolare declinazione dell’hardcore che era in voga nei primi duemila, sulla scia dei La Crisi tanto per capirci. Come radici abbiamo la furia e l’urgenza dell’hardcore punk, unito ad un noise che aumenta la carica distruttiva. I Morso sono un gruppo che picchia pesante e viaggia veloce, ma la musica è sempre ben suonata e prodotta con attenzione, i testi sono particolari e si capiscono molto bene, anzi sono al centro della scena. Si parla di questa realtà dopata, della scomparsa della stessa, di questa gran confusione che ci picchia in testa e fa male, maledettamente male. Ciò che stava su ora è giù, e ciò che stava giù e salito e tutto ci appare normale. I Morso sono come la pillola rossa di Matrix, sarai catapultato più vicino alla verità a tuo rischio e pericolo, il tutto attraverso una musica incessante ed incalzante, assolutamente originale. In Italia ci sono già stati gruppi di questo tipo, ma l’agilità e l’incisività dei Morso è cosa rara, quasi come se fossero un distillato delle migliori esperienze nel genere, una mutazione genetica che parla del nostro quotidiano. I Morso non ti lasciano quiete, non c’è più aria e bisogna andare veloci. Un disco veloce ma che si insinuerà in profondità dentro di voi.
Tracklist
1 . Liberaci Dal Male
2. Nessuno e Centomila
3. Pieno di Istanti
4.Non Si Muore Ogni Dicembre
5. Sempre meglio di niente
6. Incline
7. Glamour Suicide
8. Il Fine Giustifica i Mezzi
9. Cmc
10. Ex
11. Sognavo Di Essere Bukowski
Chasm non è un album che farà epoca ma è anche molto più di un semplice ascolto gradevole: le coordinate essenziali del gothic rock vengono riproposte senza ritrosia e in maniera del tutto competente.
Chasm segna il ritorno dei The Awakening, band del prolifico musicista e produttore sudafricano Ashton Nyte, oggi di stanza in California.
L’impressione derivante dal primo ascolto di quest’album è strana, nel senso che per chiunque abbia amato band come Sisters Of Mercy, Fields Of The Nephilim e The Mission imbattersi nei i primi arpeggi di Other Ghosts e nella voce profonda di Ashton si rivela una sorta di ritorno a casa, che lascia però alla fine di questo primo passaggio un velo di perplessità dovuto soprattutto all’apparentemente eccessiva leggerezza ed orecchiabilità dei brani.
Gli ascolti successivi diventano quindi necessari per far sì che queste dieci canzoni penetrino al di sotto dell’epidermide lasciando le opportune cicatrici. Ashton ha tutta l’esperienza che serve per rimodulare la propria voce ed adattarla a tutte le opportune sfumature del sound proposto: più profondo, tra McCoy e Eldritch, nei brani maggiormente ruvidi ed inquieti, più suadente ed evocativo in quota Murphy-Hussey allorché i brani si fanno più ariosi e melodici.
Del resto, Nyte possiede le necessarie credenziali per permettersi tali riferimenti senza apparire solo un eccellente copista, alla luce delle innumerevoli e importanti collaborazioni che vanta nel corso dell sua ventennale carriera, costellata da una abbondante doppia cifra di album usciti a suo nome o come The Awakening. Chasm non è un album che farà epoca ma è anche molto più di un semplice ascolto gradevole: le coordinate essenziali del gothic rock vengono riproposte senza ritrosia e in maniera così competente da annullare qualsiasi cattivo pensiero relativo alla possibile obsolescenza di queste sonorità.
Ecco quindi il ritorno a casa di cui si parlava all’inizio, tanto più gradito quando l’artista in questione non è solo bravo e brillante nel proprio ambito, ma è anche lodevolmente in prima linea da anni per combattere qualsiasi discriminazione di genere, per cui, almeno per quanto mi riguarda, il piacere nell’ascoltare bellissime canzoni come Shore,About You, Raphael Awake, Gave up the Ghost e Hear Me non può che risultare rafforzato
Tracklist:
1. Other Ghosts
2. Shore
3. About You
4. Raphael Awake
5. Back To Wonderland
6. Gave up the Ghost
7. Savage Freedom
8. A Minor Incision
9. Hear Me
10. Shadows In The Dark
Dischi come questo sono sempre i benvenuti perché riportano la musica ad un divertimento semplice ma non scontato, inserendosi in un genere le cui uscite sono rare ma di una qualità migliore rispetto al passato, forse a causa di una selezione naturale.
A chi piace l’hardcore punk selvaggio e molto vicino al metal, con un importante tocco di anni novanta, eccovi servito il disco degli svizzeri CardiaC.
Giunti al settimo disco, i CardiaC si confermano come uno dei pochi gruppi che portano avanti la bandiera dell’hardcore punk anni novanta, quello più aperto alle influenze esterne, tanto da ospitare nel disco nientemeno che Sen Dog dei Cypress Hill. Mañana No Será Otro Día Igual non è però un disco di mera nostalgia, un cercare di riprodurre tempi ormai irrimediabilmente andati, ma è anzi la riproposizione moderna di un suono che ha mietuto molte vittime negli anni passati e che continua ad esistere grazie a band come i CardiaC. Questi ultimi hanno le idee molto chiare, non si discostano molto dal loro canovaccio, ma questo è ciò che ci aspetta. Chitarre veloci al limite del thrash metal, che rimane comunque uno dei loro riferimenti stilistici, sezione ritmica che non arretra di un centimetro e ben distorta, la voce di Ricardo Chimichanga che canta in spagnolo dando un qualcosa in più di molto particolare e che rende unico il suono. La missione dei CardiaC è quella di divertirsi e di far divertire il proprio pubblico, tramite una poderosa distribuzione di adrenalina e potenza. L’immaginario di questo suono vive di tuffi dal palco, headbanging casalingo e tanto testosterone, e qui dentro c’è tutto ciò e anche di più. Dischi come questo sono sempre i benvenuti perché riportano la musica ad un divertimento semplice ma non scontato, inserendosi in un genere le cui uscite sono rare ma di una qualità migliore rispetto al passato, forse a causa di una selezione naturale. Ottimi gli ospiti presenti, sia il suddetto Sen Dog dei Cypress Hill, sia Billy Graziadei dei mammasantissima Biohazard, gli alfieri di questo genere, e dai Samael Drop. Un disco davvero divertente e che vi farà volare spalla contro spalla contro il muro di casa vostra o contro qualcun’altro come voi.
Tracklist
1.La Vanguardia
2.Diapositivas y negativos
3.La Resurrección del Antihéroe
4.Imparable (feat. Billy Graziadei)
5.M.O.J.I.T.O
6.Al filo de lo Imposible (feat. Scott Middleton)
7.En L.A. de me decían (feat. Sen Dog)
8.Nadie nace odiando
9.Una vida extraordinaria
Drive Into The Night è composto da dieci brani sguaiati ed irresistibili, un adrenalinico pezzo di hard & heavy ottantiano che travolge come un’onda causata dal crollo di una diga a colpi di hard/rock ‘n’ roll metallico e senza freni.
Una bomba hard & heavy dalla miccia rock ‘n’ roll esploderà sulle vostre teste appena vi avvicinerete, magari per caso o curiosità, a Drive Into The Night, primo full length del duo canadese Turbo Vixen, composto dal batterista Aaron Bell e dal chitarrista J.J. Rowlands, a cui si aggiunge in veste di ospite al microfono Dan Cleary.
Dieci brani sguaiati ed irresistibili, un adrenalinico pezzo di hard & heavy ottantiano che travolge come un’onda causata dal crollo di una diga, a colpi di hard/rock ‘n’ roll metallico e senza freni.
Non c’è un attimo di tregua, il duo sale sul bolide e a tavoletta si allontana nella notte nel deserto, mentre accordi southern fanno da ricamo al mid tempo All My Love e si ripresentano nella conclusiva title track.
Il resto è un susseguirsi di esaltanti brani tra hard rock ed heavy metal, un mix perfetto di Van Halen, Motley Crue, Ratt e Twisted Sister alla maniera dei Turbo Vixen ovvero dinamitardo, esagerato e tremendamente coinvolgente.
Salite a bordo della vostra auto, accendete motori e lettore cd e sparatevi a velocità illegale nella notte in compagnia delle varie Thunder And Lightening, Cat House, Straight Out Of Hell e Drive Into The Night: vi prenderanno prima che faccia mattina, strapperanno la vostra patente, ma vi ritroverete a canticchiare dietro le sbarre i cori di questa decina di trascinanti brani.
Tracklist
01. Thunder and Lightning
02. No Mercy
03. Hard Love ‘n’ You
04. Cat House
05. Hit Back (Refuse to Lose)
06. All My Love
07. She’s Got the Touch
08. Straight out of Hell
09. Down the Hatch
10. Drive into the Night
La musica è variegata, sognante e dura quando serve, un piccolo trattato di come dovrebbe essere la quella cosiddetta alternativa, ovvero una tuffo nel bello che la musica di massa non offre.
Urali è un ambizioso progetto sonoro che mette insieme varie e diverse istanze musicali, all’insegna della qualità, della bellezza sonora e della delicatezza, cose alquanto sconosciute di questi tempi.
Diviene quasi pesante spiegare il tutto, dato che qui davvero la musica è la cosa più importante e il fine di tutto è dare qualcosa all’ascoltatore. Era da tempo che non si ascoltava un disco così improntato a far scorrere la musica, esplorando differenti zone e facendo sprigionare varie emozioni. Il progetto Urali è portato avanti da Ivan Tonelli ed è la prima volta che incide con altri musicisti, infatti si può sentire in maniera molto marcata la sua impronta cantautorale, che nel suo caso è anche una grande dote. Si provano a rappresentare e a vivere diverse emozioni, a galleggiare a testa alta in un mondo che ti vorrebbe tirare già con i suoi sporchi tentacoli, ma da qualche parte la bellezza c’è ancora, questo disco la possiede e la fa vedere. Chiudere gli occhi, lasciarsi andare e poi forse tornare, non è un ordine ma un consiglio gentile. Ghostology è un disco concepito con canzoni che sono brevi racconti messi in musica, ispirandosi alle opere del sommo vate H.P. Lovecraft, dello scrittore di fantascienza Alex Garland e all’immaginario giapponese degli anime e dei manga. Una delle particolarità di questo disco è che la voce narrante è un’intelligenza artificiale liberatasi dal giogo del suo padrone ed amante e che narra ciò che ha vissuto e la traiettoria della razza umana vista da un’angolazione particolare. La musica è variegata, sognante e dura quando serve, un piccolo trattato di come dovrebbe essere la quella cosiddetta alternativa, ovvero una tuffo nel bello che la musica di massa non offre, e quindi un qualcosa di diverso. Tutto ciò è Ghostology e anche di più: un’opera delicata ed intelligente, frutto di una sensibilità musicale superiore che riesce a stupirsi di fronte alle cose più piccole e che rende molto bene anche quelle assai difficili da spiegare. Nel corso di alcuni pezzi ci sono magnifici cambi musicali che rendono il disco un oggetto difficilmente classificabile per quanto riguarda i generi, e questo è un altro punto a suo favore.
Tracklist
1. A Ghost Anthology
2. Memorizu
3. Arborescence
4. One Day, A Thousand Autumns
5. Grave Of The Stars
6. Dwellers
7. The History Of Mankind On The Palm Of My Hand
8. Finale
L’Incanto dello Zero rappresenta l’album che in ambito progressive mancava da tempo: la tecnica sopraffina dei protagonisti è asservita del tutto ad una scrittura che appare fresca ed attuale, nonostante affondi le sue radici in un epoca destinata a non finire mai nel dimenticatoio.
L’Incanto dello Zero, nuovo album de Il Segno del Comando, costituisce la prova tangibile di quanto la musica sia un qualcosa che magicamente sa offrire sempre nuovi spunti e nuovi squarci di grande creatività.
Il gruppo guidato da Diego Banchero ha una genesi che risale alla metà degli anni novanta, quando nacque come una sorta di costola degli storici Malombra per divenire poi a sua volta un nome di culto, nonostante una produzione discografica piuttosto ridotta che ha trovato però nuovo slancio ed impulso in questo decennio; Il Segno del Comando, anche in virtù di una più frequente attività dal vivo, ha assunto da diverso tempo le sembianze della band vera e propria, cessando d’essere una sorta di progetto solista del bassista genovese, il quale, pur mantenendo sempre ben salde le redini della sua creatura, occupandosi in gran parte sia della composizione che della stesura dei testi, si è attorniato di un gruppo di musicisti di grande spessore in grado di interpretarne al meglio le brillanti intuizioni. L’Incanto dello Zero rappresenta l’album che in ambito progressive mancava da tempo: la tecnica sopraffina dei protagonisti è asservita del tutto ad una scrittura che appare fresca ed attuale, nonostante affondi le sue radici in un epoca destinata a non finire mai nel dimenticatoio; inoltre il sound esibisce quella robustezza in grado di renderlo appetibile anche alla platea degli appassionati di metal devoti alla frangia più occulta del genere.
Anche l’aspetto lirico ha il suo peso in tutto questo, rivelandosi molto più significativo percentualmente nell’economia del lavoro rispetto ad altre band: Diego si è sempre interessato di esoterismo e non a caso i due precedenti album Der Golem (2001) e Il Volto Verde (2013) traggono ispirazione dalle omonime opere dello scrittore austriaco Gustav Meyrink; questa volta il testo al quale viene fatto riferimento è il ben più recente libro di Cristian Raimondi intitolato Lo Zero Incantatore, alla cui stesura lo stesso Banchero ha comunque collaborato
Per chi non ha familiarità con questo tipo di studi, i testi dell’album rappresenteranno una sequela di abbaglianti enunciazioni, spesso geniali, talvolta di difficile decrittazione, ma sempre comunque capaci di tenere desta l’attenzione dell’ascoltatore anche sul versante concettuale del lavoro.
Dal punto di vista prettamente musicale L’Incanto dello Zero offre invece oltre un’ora di suoni magnifici, coinvolgenti, destinati ad imprimersi nella memoria ascolto dopo ascolto e da lì non schiodarsi per molto tempo, grazie ad una varietà compositiva che vede ergersi a protagonisti, oltre allo stesso Banchero con il suo basso, interpreti di assoluto livello e di grande esperienza come i chitarristi Davide Bruzzi e Roberto Lucanato, il cantante Riccardo Morello, il tastierista Bepi Menozzi ed il batterista Fernando Cherchi . Chi cerca punti di contato con qualche band del passato ne troverà per forza, perché “rien ne se perd, rien ne se crée” non è un enunciato che possa valere solo per la chimica, nonostante il buon Lavoisier a quello si riferisse: così, se l’incipit di Sulla Via Della Veglia può richiamare il Banco e quello di Le 4 A gli Area, in realtà il sound di ogni traccia ha sua fisionomia ben delineata, pur nel suo costante evolversi in svariate direzioni, che riporta infine ad una sola matrice denominata Il Segno Del Comando. Il Calice Dell’Oblio, Sulla Via Della Veglia, Nel Labirinto Spirituale, Le 4 A e Il Mio Nome E’ Menzogna sono solo alcune delle tracce fondamentali che invito ognuno ad ascoltare, in modo di farsi un’idea propria del valore di quest’opera destinata ad alzare ulteriormente l’asticella per chi voglia cimentarsi con queste sonorità d’ora in poi, con la speranza che possa far breccia in un’audience come quelle costituita dagli appassionati di progressive, di norma poco propensa a dare un supporto incondizionato a chi continua a proporre musica originale.
Tracklist:
1. Intro – Il Senza Ombra
2. Il Calice Dell’Oblio
3. La Grande Quercia
4. Sulla Via Della Veglia
5. Al Cospetto Dell’Inatteso
6. Lo Scontro
7. Nel Labirinto Spirituale
8. Le 4 A
9. Il Mio Nome E’ Menzogna
10. Metamorfosi
11. Outro – Aseità
Tutte le note di questo disco sono suonate con un senso, tutto appartiene ad un sentimento superiore della musica, quella che avvolge e che scorre nelle vene, e che porta molto lontano.
Prins Obi è il nome di battagliadi Georgios Dimakis, farmacista greco e per nostra fortuna musicista dei Guru, ora al secondo disco con il suo progetto solista insieme ai grandi The Dream Warriors, dopo l’acclamato The Age Of Tourlou del 2017.
La loro proposta è composta da uno psyhc rock anni settanta molto godibile, profondo e con un’incredibile aderenza ai canoni di quegli anni. Se questo disco fosse uscito negli anni settanta avrebbe avuto un sicuro successo, perché sia la composizione che la produzione sono molto in linea con quei dettami musicali. Si spazia un po’ in tutti gli ambiti, dalla psichedelia più acida dai rimandi floydiani a momenti che sembrano usciti da un Sgt. Pepper greco, infatti, quando le liriche sono in lingua madre la magia è maggiore. Tutte le note di questo disco sono suonate con un senso, tutto appartiene ad un sentimento superiore della musica, quella che avvolge e che scorre nelle vene, e che porta molto lontano. Chi segue da qualche anno la nuova scena psichedelica greca sa che possiede gruppi notevolissimi, ma qualcosa come questo disco non si era ancora sentito. Con ciò non si vuole affermare che esso sia il punto più alto di suddetta scena, ma è un qualcosa di molto importante. Innanzitutto sorprende la grande naturalezza con la quale Prins Obi ed il suo gruppo si lanciano nell’agone musicale, e dopo una prima parte del disco più veloce ed incalzante si passa ad una seconda più riflessiva che sfiora il folk psichedelico, e che comunque si lega benissimo alla prima. Difficile cadere nella noia con un lavoro così ben costruito e suonato ancora meglio, dato che gli interpreti sono molto capaci con un risultato d’insieme che diviene l’obiettivo comune. Gioia e stupore psych per un altro grande disco greco della Inner Ear Records.
Tracklist
1.Concentration
2.Flower Child (Reprise)
3.Negative People / Άμοιρε Άνθρωπε
4.Astral Lady Blues
5.Fingers
6.Δίνη
7.Αδαμάντινα Φτερά
8.Sally Jupinero
9.Guilty Pleasure Theme
10.For Absent Friends
11.Wide Open
Line-up
Georgios Dimakis – lead vocals, piano, synths –
Pantelis Karasevdas – drums, percussion –
Sergios Voudris – bass, electric guitar –
Kwstas Red Hood – percussion –
Chris Bekiris – electric guitar-
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Find And Light è un album impedibile per gli amanti del southern rock, elettrico e graffiante come forse mai nella discografia del gruppo, intriso di sanguigno blues rock e composto da una serie di brani che ribadiscono la grandezza dei Blackberry Smoke.
In ritardo di qualche mese sull’uscita del nuovo Find And Light tornano sulle pagine di Metaleyes i Blackberry Smoke, probabilmente la band southern più famosa tra le nuove leve del rock americano per antonomasia.
Charlie Starr continua ad essere il pilota di questa perfetta macchina southern rock, arrivata ormai al sesto album in studio da quando, all’alba del nuovo millennio partì da Atlanta per conquistare i cuori dei rocker a stelle e strisce prima e poi di quelli sparsi per il mondo.
Il successo arrivato ultimamente ma consolidato con almeno due capolavori come Little Piece of Dixie (2009) e The Whippoorwill (2012) ha portato la band in giro per il mondo con live sempre più seguiti dai fans ed immortalato a suo tempo nel bellissimo Leave a Scar, Live: North Carolina, licenziato ormai quattro anni fa, ma che esprimeva tutta la poetica carica southern rock dei Blackberry Smoke. Find And Light è dunque un album impedibile per gli amanti del southern rock, elettrico e graffiante come forse mai nella discografia del gruppo, intriso di sanguigno blues rock e composto da una serie di brani che ribadiscono la grandezza di questa band.
I Blackberry Smoke targati 2018 sono tutti nel rock dell’opener Flesh And Bone o in quello sporcato di blues di The Crooked Kind, nella poesia country della strepitosa ballad I’ve Got This Song, in Let Me Down Easy con la singer Amanda Shires al microfono e nel capolavoro I’ll Keep Ramblin’, un rock’n’roll d’altri tempi con tanto di coro gospel e chitarre che sanguinano blues; un gruppo strepitoso che continua a scrivere la storia del Southern rock, con il solo Cody Cannon ed i suoi Whiskey Myers a contendergli lo scettro di sovrani del genere.
Tracklist
1.Flesh And Bone
2.Run Away From It All
3.The Crooked Kind
4) Medicate My Mind
5.I’ve Got This Song
6.Best Seat In The House
7.I’ll Keep Ramblin’
8.Seems So Far
9.Lord Strike Me Dead
10.Let Me Down Easy
11.Nobody Gives A Damn
12.Till The Wheels Fall Off
13.Mother Mountain
Line-up
Charlie Starr – Vocals,Guitars
Paul Jackson – Guitars, Vocals
Richard Turner – Bass
Brit Turner – Drums
Brandon Still – Keyboards
Waiting In The Wings è un album piacevole ed intenso, maturo e divertente quanto basta per risultare un ascolto obbligato per gli amanti dell’hard & heavy classico.
Sembra facile suonare hard & heavy nel nuovo millennio quando, per quanto riguarda il rock, si è già detto tutto o quasi e le nuove tendenze portano ad una spettacolarizzazione della musica a discapito di impatto, attitudine e molte volte talento.
Nel genere in cui si muovono questi quattro rockers senesi, al secolo Barbarossastraße, l’impressione è quella di un ritorno prepotente allo spirito che regnava negli anni ottanta, specialmente nell’underground nel quale si muovono realtà che devono vedersela con i problemi di tutti i giorni, muovendosi forti di una passione mai doma tra serate in piccoli locali di provincia, un lavoro che reclama una sveglia che suona senza pietà all’alba e tanti sacrifici. Waitings In The Wings è il loro secondo lavoro, licenziato dalla Volcano Records, un ottimo esempio di quello che è stata per una manciata d’anni la massima espressione del life style rock’n’roll e che vedeva come ombelico del mondo Los Angeles ed il suo Sunset Boulevard.
La copertina che ricorda non poco quella di Theatre Of Pain dei Motley Crue ci mette subito in guardia su quello che ascolteremo sul nuovo lavoro targato Barbarossastraße, ed infatti il sound ricorda nei brani più tirati lo storico gruppo statunitense che con gli Skid Row rappresenta la fonte d’ispirazione primaria per questi dieci brani.
La band si fa preferire quando preme sull’acceleratore dello sleazy metal e se ne esce con piccoli ma letali candelotti di dinamite come Backdraft,Nowhere Train, la trascinante ed irriverente On The Loose e I’ll Do It Again, ma è palese che tutto Waiting In The Wings funziona, tra veloci trame rock ‘n’ roll, mid tempo dal piglio heavy e ballad che placano l’elettricità sprigionata nell’aria dai Barbarossastraße. Un album piacevole ed intenso, maturo e divertente quanto basta per risultare un ascolto obbligato per gli amanti dell’hard & heavy classico.
Tracklist
1.Here to Stay
2.Backdraft
3.Waiting in the Wings
4.Nowhere Train
5.Hereafter
6.On the Loose
7.Praise the Storm
8.Mexican Standoff
9.I’ll Do It Again
10.It Will Take Some Time
La band dal vivo risulta una macchina da guerra hard rock e la track list, che pesca principalmente dall’ultimo album per poi fungere di fatto da best of dei lavori precedenti, è un susseguirsi di brani che uniscono influenze scomode come Black Sabbath e Led Zeppelin e il più moderno stoner rock, rilasciando essenze di rock blues condito da un’atmosfera di evocativo e drogato trasporto.
Nel viaggio a ritroso verso il mondo del rock di matrice settantiana, i tedeschi Kadavar sono una delle band che più hanno mostrato personalità e talento nel proporre sonorità che rispecchiano il sound di band che hanno fatto la storia e con le quali le nuove leve si devono obbligatoriamente confrontare.
Il trio nato a Berlino nel 2010, senza grossi clamori ha dato alle stampe quattro full length (di cui l’ultimo, Rough Time, uscito lo scorso anno) e oggi con il sempre fondamentale aiuto della Nuclear Blast, licenzia questo Live In Copenhagen, registrato lo scorso anno al Pumpehuset nella capitale danese durante il tour di supporto all’ultimo lavoro.
La band dal vivo risulta una macchina da guerra hard rock e la track list, che pesca principalmente dall’ultimo album per poi fungere di fatto da best of dei lavori precedenti, è un susseguirsi di brani che uniscono influenze scomode come Black Sabbath e Led Zeppelin e il più moderno stoner rock, rilasciando essenze di rock blues condito da un’atmosfera di evocativo e drogato trasporto, ma rimanendo legato a canzoni semplici e lineari, grintose nelle versioni live e dal facile ascolto.
I Kadavar sono la classica band che, senza strafare, suona del buon rock, convincendo all’istante anche se ci si ritrova al suo cospetto per la prima volta.
Ottima partenza con Skeleton Blues e poi via per gli arcobaleni vintage ricamati dal trio tedesco, in alcuni casi esaltati da scorribande hard rock come Pale Blue Eyes o Die Baby Die.
Con i Kadavar non esistono momenti di pausa, il rock duro, stonato e vintage della band continua a martellare gli astanti con riff sabbathiani che si intrecciano come serpenti nascosti all’ombra di rocce nel deserto, con il sole che schiaccia e le membra che diventano pesanti al suono della potente e monolitica Forgotten Past, uno dei brani più stonati di tutto il repertorio del gruppo.
La psichedelica Purple Sage conclude il concerto in un delirio retro rock e i Kadavar si congedano dai fans con il brano che più di altri si rivela la classica jam psych/hard/rock e si confermano una live band di alto livello: un live da non perdere se siete amanti di questo tipo di sonorità.
Tracklist
1. Skeleton Blues
2. Doomsday Machine
3. Pale Blue Eyes
4. Into The Wormhole
5. The Old Man
6. Die Baby Die
7. Black Sun
8. Living In Your Head
9. Into The Night
10. Forgotten Past
11. Tribulation Nation
12. Purple Sage
L’ennesimo valido lavoro offerto da un artista il cui operato si colloca costantemente su un livello medio alto, grazie alla bravura sua e dei musicisti di cui si circonda, senza possedere però quello spunto decisivo necessario per arrivare all’eccellenza assoluta.
Pur considerandolo un’artista meritevole della massima stima e di altrettanto successo non sono mai riuscito ad entrare del tutto in sintonia con l’idea di progressive di Roine Stolt, del quale ricordo con molto più piacere la militanza nei magnifici Transatlantic (dove comunque c’è molta farina del suo sacco) piuttosto che l’attività con la sua band principale, The Flower Kings, e lo stesso dicasi anche per la recente creatura denominata The Sea Within.
Per i miei gusti il musicista svedese esprime una versione tropo soffusa del progressive, ineccepibile quanto si vuole dal punto di vista tecnico ed esecutivo, ma avara di quegli slanci emotivi che il genere in questione dovrebbe evocare ad ogni pie’ sospinto.
Va da sé che non si può non accogliere con soddisfazione questa nuova uscita targata Roine Stolt’s The Flower King, perché in Manifesto Of An Alchemist non c’è davvero nulla che non vada per allietare le orecchie di chi voglia ascoltare, nel nuovo millennio, sonorità che rielaborano in maniera fedele e competente quanto offerto dai campioni del genere negli anni ‘70 e ‘80.
A tale proposito basta puntare subito alla traccia numero 5, Rio Grande, un bellissimo episodio strumentale che in certi passaggi sembra essere stato sottratto con destrezza alle sessioni di registrazione di A Trick of the Tail o Wind And Wuthering e questo, nel bene e nel male, è quanto bisogna attendersi da un lavoro del genere, piacevole, carezzevole ma destinato a non lasciare un segno indelebile nell’ascoltatore, a meno che questo non sia un fan incallito del prolifico musicista scandinavo.
Ovviamente quanto portato ad esempio in precedenza non deve far pensare ad un’operazione blandamente calligrafica da parte del buon Stolt, che unisce con sapienza gli insegnamenti del prog del secolo scorso con le pulsioni provenienti da oltreoceano (la sua lunga frequentazione con Neal Morse nei già citati Transatlantic in tal senso si percepisce chiaramente, specie in un brano come Lost America): il risultato è l’ennesimo valido lavoro offerto da un artista il cui operato si colloca costantemente su un livello medio alto, grazie alla bravura sua e dei musicisti di cui si circonda, senza possedere però quello spunto decisivo necessario per arrivare all’eccellenza assoluta.
Tracklist:
1. Rainsong
2. Lost America
3. Ze Pawns
4. High Road
5. Rio Grande
6. Next To A Hurricane
7. The Alchemist
8. Baby Angels
9. Six Thirty Wake-Up
10.The Spell of Money
Line-up:
Roine Stolt – lead vocals, guitars, synths, keyboards, bass
Marco Minnemann – drums
Michael Stolt – bass, vocals
Jonas Reingold – bass
Rob Townsend – sax
Max Lorentz – Hammond B3, vocals
Zach Kamins – Moog & keys
Hans Froberg – vocals
Nad Sylvan – vocals
Vinyle è composto da undici brani che formano una valanga di note rock ‘n’ roll, con il piedino che batte il tempo e la voglia di essere davanti ad un palco in qualche locale della Parigi rock, a farsi travolgere dall’indomito sound di questi tre rockers d’annata, commoventi nel portare avanti lo spirito del rock dopo così tanti anni.
Sono passati cinque anni dall’ultimo lavoro e i Motorhead francesi, come da sempre sono soprannominati, tornano con questo esplosivo nuovo album intitolato Vinyle.
I Vulcain sono una delle band più longeve e famose della scena hard rock transalpina, dal 1981 capitanati dai fratelli Puzio (Vincent al basso e Daniel alla chitarra e voce), con Marc Varez fido batterista dal 1985.
Più di trent’anni a suonare hard rock, ipervitaminizzato da dosi massicce di rock ‘n’ roll di scuola Motorhead, per una band che del genere ha sposato sound ed attitudine, anche se non possiamo parlare di band clone del gruppo del compianto Lemmy, ma di un gruppo con una ben marcata personalità.
Nove full length, compilation, singoli e live vanno a formare una discografia numericamente importante, rendendo i Vulcain un’ottima alternativa ai soliti nomi, benché siano poco conosciuti fuori dai confini nazionali anche per la scelta di cantare in lingua madre, in grado di regalare ai fans del rock duro un altro ottimo lavoro che spazia tra l’impatto motorheadiano e una forte dose di melodie ispirate al classic rock. Vinyle è composto da undici brani che formano una valanga di note rock ‘n’ roll, con il piedino che batte il tempo e la voglia di essere davanti ad un palco in qualche locale della Parigi rock, a farsi travolgere dall’indomito sound di questi tre rockers d’annata, commoventi nel portare avanti lo spirito del rock dopo così tanti anni.
Il trio alterna così brani fortemente ispirati da Lemmy e soci ad altri più melodici e classici, lasciando fuori dal sound l’anima punk della storica band inglese per un approccio più melodico, come nelle irresistibili Hèros, Blackline Music (dai richiami agli Ac/Dc), Dans Les Livres e Borderline.
Un album consigliato ovviamente ai fans del genere e ai fans dei Vulcain i quali non verranno sicuramente delusi da questa nuova uscita.
Tracklist
1. Vinyle
2. Héros
3. Backline Music
4. L’Arnaque
5. Darling
6. Décibels
7. Dans les Livres
8. L’Oseille
9. Borderline
10. Contrôle
11. Motör
Line-up
Daniel Puzio – Guitar, vocals
Vincent Puzio – Bass, backing vocals
Marc Varez – Drums, backing vocals
I The Turin Horse sono un gruppo che francamente mancava nel panorama del noise nostrano, che come quello mondiale vive di flash e questa è una gran bella esplosione.
Quando si uniscono due musicisti che sanno come fare rumore e scrivere distorsioni il risultato fortunatamente non è quello che ti aspetti, perché il rumore spiazza sempre.
Il duo The Turin Horse racchiude al suo interno Enrico Tauraso, già nei mitici Dead Elephant che hanno scritto grandi pagine dell’underground italico, e Alan Lapaglia che militava nei MoRkObOt, vera e propria fucina di rumore. Unendo le visioni musicali hanno dato vita a questo power duo che pubblica questo debutto di tre pezzi che brucia tutto ciò che incontra. Prendete del noise e velocizzatelo, dello stoner e rendetelo più corrosivo, un po’ di sludge e sarete in quei dintorni, ma come al solito soltanto l’ascolto può rendere giustizia al grande suono del duo. Qui dentro troviamo certe malate ripetitività del miglior noise, come quello degli Unsane dei quali infatti viene riproposta Blame Me da Scattered, Smothered & Covered del 1996. Infatti qui troviamo tonnellate di quel piacere perverso che dà certo noise, ovvero quel ripetersi in maniera sempre diversa, e giro dopo giro di chitarra alzare la posta fino a fotterti il cervello: è quello che vogliamo ed i The Turin Horse lo fanno come nessun altro. Come si diceva all’inizio, non sai cosa aspettarti e ne vieni spiazzato, e qui effettivamente si va ben oltre le già alte aspettative, perché comunque Enrico e Alan sono di un altro livello, ma i The Turin Horse sono un gruppo che francamente mancava nel panorama del noise nostrano, che come quello mondiale vive di flash e questa è una gran bella esplosione. Unico difetto, bisogna accontentarsi ma solo per ora, è la lunghezza dell’ep, che è di tre pezzi che sono altrettante mazzate, ma se ne vorrebbe ancora. Il duo è anche sperimentatore, dato che alcuni strumenti sono costruiti da Enrico, e la mancanza del basso ha introdotto a scelte diverse e molto interessanti. Non è un caso che la città culla di questo grande inizio sia Torino, che è molto noise già di per sé e che è decisamente la migliore città musicale d’Italia. Un debutto devastante, maturo e bellissimo.
Tracklist
1. The Regret Song
2. Blame Me
3. The Light That Failed
Line-up
ALAIN LAPAGLIA – Drums & Power Electronics –
ENRICO TAURASO – Guitar & Voice & Power Electronics –
Un’altalena tra brani storici e nuove perle fanno di questo live un appuntamento imperdibile per i fans dei Magnum che, dal vivo, si confermano un gruppo ancora in grado di suonare come pochi hard rock melodico di gran classe.
Gli storici melodic rockers Magnum stanno diventando un appuntamento fisso sulle pagine di MetalEyes e questo nuovo album live conferma il buon periodo del gruppo inglese, lo scorso anno sul mercato con il ventesimo album della sua carriera, Lost On The Road To Eternity.
Il tour di supporto all’ultimo lavoro ha portato Tony Clarkin, Bob Catley, il bassista Al Barrow e i due nuovi membri, il tastierista Rick Benton e il batterista Lee Morris, sul palco della Symphony Hall di Birmingham il 18 Aprile 2018, città da cui partirono nel lontano 1972 .
Ovviamente l’atmosfera dell’evento è palpabile, i Magnum giocano in casa la seconda volta dopo vent’anni e vincono facile la partita con i loro fans grazie ad un’ottima forma, specialmente della coppia d’assi Clarkin/Catley che, a dispetto degli anni che passano inesorabilmente, regalano una performance degna della loro fama, assecondati dai loro compagni.
Ovviamente il momento clou del live è la salita sul palco di Tobias Sammet, mastermind di Edguy ed Avantasia che, come nell’album, duetta con Catley sulla title track dell’ultimo lavoro.
Si tratta di un brano di un’altra categoria, che potrebbe tranquillamente far bella mostra di sé in un greatest hits dei Magnum, così come gli altri brani tra storia e leggenda che il gruppo inglese ha regalato all’hard rock melodico mondiale (Vigilante,How Far Jerusalem, The Spirit e When The World Comes Down).
Un’altalena tra brani storici e nuove perle come Crazy All Mothers fanno di questo live un appuntamento imperdibile per i fans dei Magnum che, dal vivo, si confermano un gruppo ancora in grado di suonare come pochi hard rock melodico di gran classe.
Tracklist
CD1
1. When We Were Younger
2. Sacred Blood ‘Divine’ Lies
3. Lost on the Road to Eternity
4. Crazy Old Mothers
5. Without Love
6. Your Dreams Won’t Die
7. Peaches and Cream
8. How Far Jerusalem
CD2
1. Les Morts Dansant
2. Show Me Your Hands
3. All England’s Eyes
4. Vigilante
5. Don’t Wake the Lion (Too Old to Die Young)
6. The Spirit
7. When the World Comes Down
Line-up
Tony Clarkin – guitars
Bob Catley – vocals
Rick Benton – keyboards
Al Barrow – bass
Lee Morris – drums