I quattro brani che compongono We Are Not From Here hanno il pregio di farsi ascoltare senza particolari difficoltà, potendo sembrare magari retrò ma anche affascinanti in più frangenti, e sono sicuramente un buon inizio per i Towering Flowers.
I Towering Flowers sono una band progressive rock di Roma le cui origini vanno ricercate nei Waters Underground, tribute band dei Pink Floyd.
Nel 2015 il cantante e chitarrista Emiliano Ukmar decide di formare una band con un repertorio di brani inediti e, dopo vari assestamenti nella line up e la firma con Volcano Records, esce questo ep di quattro brani intitolato We Are Not From Here.
Il sound creato dal sestetto romano è un progressive rock psichedelico e fortemente influenzato da Pink Floyd, Beatles, T.Rex e il primo David Bowie, quindi non ci si muove dal periodo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta.
Ogni brano è un viaggio tra la musica dei gruppi citati: le atmosfere dilatate la fanno da padrone ma non inficiano una certa fruibilità nell’ascolto, anche per chi non è un fan del genere.
La pinkfloydiana Asherah apre l’album mettendo in risalto la familiarità dei Towering Flowers con quanto suonato dal gruppo di Waters, cosa che si ripete nella successiva title track.
I due brani successivi (Come Down e Believe Me) abbandonano in parte tali sonorità per una più varia e personale interpretazione del rock psichedelico dei Beatles era Sgt.Pepper’s e dei T.Rex, risultando più vari nelle atmosfere, solari nella prima parte di Come Down, più intimiste e poi beatlesiane nella conclusiva Believe Me.
I quattro brani che compongono We Are Not From Here hanno il pregio di farsi ascoltare senza particolari difficoltà, potendo sembrare magari retrò ma anche affascinanti in più frangenti, e sono sicuramente un buon inizio per i Towering Flowers, che dovrebbero trovare estimatori tra chi ha nelle proprie corde le sonorità dei nomi storici citati.
Tracklist
1.Asherah
2.We Are Not From Here
3.Calm Down
4.Believe Me
Line-up
Emiliano Ukmar – Voice and guitar
Fabio Rossi – Bass and voice
Claudio Carpenelli – Drums
Stefano Gallozzi – Keyboards and voice
Pierluigi Vizioli – Lead guitar
Sara Usai – Backing voice
La musica delle Tacobellas è veloce e distorta, ma oltre alla velocità ed incisività riesce anche a creare situazioni surreali e psichedeliche che arricchiscono il tutto.
Le Tacobellas sono un power duo femminile dalla provincia di Modena che vi prenderà felicemente a calci nel sedere.
Le coordinate sono quelle del punk rock e dell’indie più corrosivo e bastardo, con molte influenze e soprattutto tante cose da dire. La loro musica è veloce e distorta, ma oltre alla velocità ed incisività riesce anche a creare situazioni surreali e psichedeliche che arricchiscono il tutto. Chitarra, batteria e voce per un attacco sonoro che in certi momenti lascia senza fiato, e non si può far riferimento all’insulsa storia delle rrriot girls. Il femmineo è uno degli elementi principali, e forse il più bello e perfettamente incompleto dell’universo, la sua rabbia è sacra e la sua furia si abbatte su di noi in maniera giusta ed equa, senza tirare fuori stupide parole in inglese. Questo femmineo e questa rabbia è ben rappresentata da Total 90, un disco che mancava alle nostre latitudini e che abbraccia molte situazioni notevoli e piacevoli. Le Tacobellas ripercorrono molto della storia dell’indie, ma lo fanno per ampliare il proprio bagaglio narrativo, e proprio quest’ultimo possiede un’ampiezza ed una profondità notevole. Otto tracce che vanno ben oltre le classificazioni per un debutto che riesce a meravigliare, cosa non facile di questi tempi. La struttura è minimale, eppure dentro ad essa ci sono moltissime cose. Alcune tracce sono concepite come furiose jam, ma non c’è solo la rabbia, perché il duo modenese riesce anche a lasciarci un po’ di speranza. Total 90 è anche un grande omaggio alla scena indie americana degli anni novanta, dove gruppi come i The Pavement o gli Sonic Youth, ma più per esteso ad una certa maniera di fare indie, con un piglio più abrasivo e moderno rispetto ad oggi. Insomma è un gran bel debutto, ascoltatelo perché sta nascendo qualcosa di molto bello.
The Way To Rock’n’Roll è un altro album da custodire gelosamente nella propria discografia, e l’invito agli amanti dei suoni classici è quello di non perdere questo splendido album firmato da uno dei personaggi più importanti della scena hard & heavy nazionale: la strada per il rock’n’roll passa tra i vicoli di una Genova metallica sempre più in evidenza.
Neanche il tempo di somatizzare lo splendido ritorno dei Ruxt che la label Diamonds Prod ci presenta il nuovo album degli Athlantis, progetto del bassista Steve Vawamas, musicista attivissimo nella scena hard rock e metal ligure.
Il bassista di Ruxt, Mastercastle, Bellathrix e Odyssea torna dunque con la sua creatura ed un nuovo album, The Way To Rock’n’Roll, a distanza di un paio d’anni dal precedente Chapter IV e dalla ri-registrazione del secondo lavoro, quel Metalmorphosis ripreso in mano dopo ben dieci anni.
La strada per il rock’n’roll passa dagli Steve Vawamas Studios e MusicArt di Pier Gonella, strepitoso chitarrista di Necrodeath, Vanexa e Odyssea che con Davide Dell’Orto alla voce (Drakkar, Verde Lauro), Alessandro “Bix” Bissa alla batteria (A Perfect Day, ex-Vision Divine) e Stefano Molinari alle tastiere completa la line up all’opera su questo nuovo lavoro firmato Athlantis.
Hard rock e power metal si alleano fin dall’opener Letter To Son, in questo ennesimo bellissimo album, dove tutto è perfettamente bilanciato verso l’alto, dalla qualità dei brani, alcuni veramente fenomenali come la già citata Letter To Son, l’hard ad heavy di Heaven Can Wait (con un solo centrale di Gonella da applausi), l’hard rock melodico della successiva Forgive Me, l’atmosfera epica di Lady Starlight e l’irresistibile title track posta in chiusura (un brano che unisce il sound purpleiano con il power metal), fino alle prove dei musicisti con una menzione particolare per Davide Dell’Orto, mattatore incontrastato di questo monumento all’hard & heavy. The Way To Rock’n’Roll è un altro album da custodire gelosamente nella propria discografia, e l’invito agli amanti dei suoni classici è quello di non perdere questo splendido album firmato da uno dei personaggi più importanti della scena hard & heavy nazionale: la strada per il rock’n’roll passa tra i vicoli di una Genova metallica sempre più in evidenza.
Tracklist
01. Letter To A Son
02. Prayer To The Lord
03. Heaven Can wait
04. Forgive Me
05. No Pain No More
06. Black Rose
07. Lady Starlight
08. If I
09. Reborn
10. The Way To Rock’n’Roll
I Bazooka pescano sia dalla tradizione new wave post punk britannica che da quella a stelle e strisce, riuscendo a proporre una sintesi originale del tutto. Riverberi, tastiere che si perdono in cielo, giri di basso che riempiono la testa e un ritmo sempre ben definito e piacevole.
I Bazooka sono greci e fanno una new wave post punk con accenni psych molto coinvolgente e di pregevole fattura.
In verità ascoltando Zero Hits i generi sono anche di più, ma le aree coinvolte sono quelle. Raramente si può ascoltare un gruppo post punk new wave con questo tiro, ogni pezzo è coinvolgente e ha giri di basso e di chitarra che ti catturano e non ti lasciano. Molto funzionale al tutto è il cantato in greco moderno, che è una lingua molto strana come suoni e che si adatta benissimo alla musica dei Bazooka. Bellissimo anche il fatto che questi ragazzi cantino nella loro lingua nella quale si esprimono molto meglio che in inglese facendosi capire ugualmente molto bene. In giro dal 2008, il gruppo greco è sinonimo di qualità ed in patria non si trova di meglio. Oltre a riprendere i canoni del post punk e della new wave stravolgendoli con una forte dose di modernità, i nostri creano un tappeto psichedelico notevole con le loro canzoni che si sviluppano in maniere molto diverse e in alcuni momenti quasi come fossero delle jam. Non ci sono momenti di stanca o riempitivi, ogni episodio fa parte di un insieme più grande che va visto nella sua interezza. I Bazooka pescano sia dalla tradizione britannica che da quella a stelle e strisce, riuscendo a proporre una sintesi originale del tutto. Riverberi, tastiere che si perdono in cielo, giri di basso che riempiono la testa e un ritmo sempre ben definito e piacevole. Ci sono sia suoni retrò che cose maggiormente moderne, in una mistura che non stanca mai. Zero Hitsè un titolo assai fallace, perché qui le hits ci sono eccome, e i Bazooka saranno presto in Italia per una data.
Tracklist
01. Ela (Come)
02. Filaki (Prison)
03. Keno (Void)
04. Monos (Alone)
05. Oi Vlakes Kanoune Parelasi (Idiots Are Going On Parade)
06. Eho Kourasti (I’m Tired)
07. Mesa Stin Poli (In The City)
08. Kati Eho Prodosi (Something I Have Betrayed)
09. Vradini Vardia (Night Shift)
10. To Hroma Tou Trelou (The Colour Of A Crazy Man)
11. Adiafores Maties (Indifferent Glances)
12. Min Kitas Piso (Don’t Look Back)
13. Soultana (Soultana)
14. Ta Spao Ola (I Break Everything )
Racconti di giorni come tutti e quindi dove non tutto va bene anzi, ma con la ferma sicurezza che musica come contenuta quella in Nothing sia un qualcosa che ci accompagna da tanti anni e che lo farà ancora per molto.
Quando sei in giro dal 1992 e hai pubblicato otto dischi, hai creato un sottogenere del punk rock chiamato softcore, non è facile dire ancora qualcosa, invece i Millencolin riescono sempre a darci delle gioie in questi anni difficili.
Il mondo gira sempre peggio ma loro ci sono sempre, e dopo quattro anni dal precedente True Brew ci regalano un altro grande disco. Non aspettatevi grandi stravolgimenti o innovazioni incredibili, ma qualcosa di ancora più profondo e difficile, ovvero la capacità di reinventarsi e di continuare ad essere interessanti e piacevoli, portando avanti dei temi ben precisi. I Millencolin hanno una declinazione unica di un suono comune e diffuso come il punk rock tendente all’hardcore melodico, hanno attraversato molte epoche, fin dai loro inizi sulla mitica etichetta svedese Burning Heart, in un momento di grande visibilità per quel suono e quelle tematiche. Nel 2019 questi svedesi ci sono ancora, sono cresciuti con noi e fanno sempre musica piena di qualità e di grande melodia, e ci parlano di vite che sono le nostre. Canzoni come quella che dà il titolo al disco rendono ben chiaro cosa sia il gruppo svedese, ovvero qualcosa che quando ci metti il cuore sopra non ti delude mai. SOS è tra l’altro uno dei loro episodi migliori in una discografia che non ha mai conosciuto grandi cadute, ma solo qualche momento di stanca con dischi magari non troppo convinti, cosa che ci sta per un gruppo che ha sempre dimostrato la giusta insofferenza verso l’inumana industria discografica che ti porta a stare anni lontano dalla tua famiglia (infatti i Millencolin si presero una pausa di due anni fra il 1997 ed il 1999). Qui c’è tutto quello che un loro fan accanito si aspetta da loro, melodie gentili che esplodono e non ti lasciano più, softcore al cento per cento. Il softcore non è qualche pratica porno per impiegati o donne educate, ma un modo di fare punk rock adeguato alla propria vita e al proprio modo di essere, non tutti siamo skinhead che vanno all’assalto dei mods sulla spiaggia di Brighton. Vite che sembrano normali, ma fatte di pezzi che necessitano di grande maestria per tenerli assieme senza far crollare il tutto. Racconti di giorni come tutti e quindi dove non tutto va bene anzi, ma con la ferma sicurezza che musica come contenuta quella in SOS sia un qualcosa che ci accompagna da tanti anni e che lo farà ancora per molto. Non è un tornare indietro a tempi ormai andati, ma è andare avanti con suoni, parole e visi che invecchiano senza che la trama cambi. Grazie Millencolin, come sempre, c’eravate al mio esame di maturità e ci siete oggi che vi ascolto con mia figlia.
Tracklist
01. SOS
02. For Yesterday
03. Nothing
04. Sour Days
05. Yanny & Laurel
06. Reach You
07. Do You Want War
08. Trumpets & Poutine
09. Let It Be
10. Dramatic Planet
11. Caveman’s Land
12. Carry On
Line-up
Nikola Sarcevic – Vocals & bass
Mathias Färm – Guitar
Erik Ohlsson – Guitar
Fredrik Larzon – Drums
I Buckcherry non hanno raccolto quello che ci si aspettava all’indomani dell’uscita dei primi due lavori, anche per scelte compositive del suo leader mal digerite da molti fans e addetti ai lavori, e in tal senso anche Warpaint non fa eccezione, per cui prendere o lasciare.
La Century Media ha deciso di andarci giù duro con il rock ‘n’ roll e a distanza di una settimana l’uno dall’altro mette sul mercato i nuovi lavori di due icone del genere, almeno per quanto riguarda le ultime battute del vecchio secolo: gli svedesi Backyard Babies e gli statunitensi Buckcherry.
Neanche il tempo di riabbracciare Borg e Dregen che quell’animale rock’n’roll di Josh Todd reclama la giusta attenzione per sè stesso e la sua band, a distanza di un anno dal suo secondo album solista con Josh Todd & The Conflict, progetto a cui questo nuovo lavoro deve non poco.
Rock’n’roll di scuola Aerosmith, hard rock e divagazioni mainstream e nere, fanno di Warpaint un lavoro duro e deciso, con la band convincente nel proporre un rock d’assalto, americano fino al midollo, ma lontano dal rock’n’roll del capolavoro Time Bomb.
Oggi i Buckcherry sono una band moderna, dai non pochi rimandi alternative che sommati al rock stradaiolo e sporco formano un sound che dividerà non poco i fans, facendo storcere il naso a quelli della prima ora.
Todd continua ad essere una tigre, vero mattatore di brani come la title track, Head Like a Hole e The Vacuum, mentre perde qualcosina quando attenua la voglia di far male per ballad che tanto sanno di già sentito. Warpaint è dunque un album che alterna brani d’assalto ad altri in cui la band perde quella carica esplosiva che permette all’ascoltatore di perdonare qualche spunto moderno di troppo, anche se l’interpretazione del leader che emana carisma da tutti i pori è come sempre sopra la media.
I Buckcherry non hanno raccolto quello che ci si aspettava all’indomani dell’uscita dei primi due lavori, anche per scelte compositive del suo leader mal digerite da molti fans e addetti ai lavori, e in tal senso anche Warpaint non fa eccezione, per cui prendere o lasciare.
Tracklist
1.Warpaint
2.Right Now
3.Head Like A Hole
4.Radio Song
5.The Vacuum
6.Bent
7.Back Down
8. The Alarm
9. No Regrets
10.The Hunger
11.Closer
12.The Devil’s In the Details
Line-up
Josh Todd – vocals
Stevie D. – guitar, backing vocals
Kelly LeMieux – bass, backing vocals
Kevin Roentgen – guitar, backing vocals
Nuovo ep per i savonesi Dagma Sogna che presentano la nuova line up con sei brani tra inediti, nuove versioni di tracce già edite e la cover di Verso Oriente dei Timoria.
I savonesi Dagma Sogna tornano con una line up rinnovata ed un nuovo ep di sei brani intitolato Grattacieli Di Carta, che presenta cinque canzoni firmate dalla band tra inediti e nuove versioni, più la cover di Verso Oriente dei Timoria, tratta dal capolavoro Viaggio Senza Vento e che la band ha suonato in occasione del concerto celebrativo tenutosi al teatro Govi di Genova, in apertura dello show di Omar Pedrini.
Il gruppo è arrivato così, tra molte soddisfazioni, al quarto lavoro, il terzo per Areasonica Records, che aveva già licenziato gli album Frammenti di Identità, uscito nel 2016, e Tratti Di Matita. ultimo lavoro licenziato lo scorso anno.
Il nuovo cantante Davide Crisafulli, già dietro al microfono dei rockers The Sunburst, ed un sound più robusto e rock, sono le novità più importanti nell’economia del gruppo savonese che riparte dalla splendida cover di Verso Oriente, brano cruciale nel concept che i Timoria firmarono venticinque anni fa del quale abbiamo avuto modo di parlarvi in occasione dell’uscita della versione rimasterizzata, proponendosi come potenziali eredi di una delle principali rock band italiane di sempre.
L’opener Cometa e la seguente Cenere, mettono subito in risalto la bravura di un Crisafulli per la prima volta alle prese con il cantato in lingua madre, valorizzando un paio di brani dal piglio rock e molto vicino al sound del gruppo bresciano.
La versione acustica di Nuotando In Un Mare Di Stelle (dal precedente album Tratti Di Matita) e il rock melodico della title track preparano alla già citata cover, prima delle note pianistiche della conclusiva Adesso No (dall’album Frammenti di Identità), con la quale il nuovo cantante ci accompagna al pacato finale e dandoci appuntamento al prossimo sogno musicale.
Tracklist
1.Cometa
2.Cenere
3.Nuotando In Un Mare Di Stelle (Acoustic Version)
4.Grattacieli Di Carta
5.Verso Oriente
6.Adesso No (Acoustic Version)
Buon ritorno per il gruppo svedese, Silver & Gold non deluderà di certo i fans: gli anni d’oro del genere sono tramontati da tempo ma del rock ‘n’ roll suonato alla Backyard Babies non ci si stanca mai.
Come sempre, quando un genere musicale raggiunge il successo, le luci che si spengono dopo i titoloni sulle riviste di settore ed i concerti sold out lasciano solo i migliori a raccogliere i cocci della lunga festa nella quale molti si sono imbucati, ripartendo con ancora la voglia di portare la propria musica in giro per il mondo.
Questo accade sistematicamente da ormai settant’anni, da quando è nato il rock ed il suo meraviglioso e controverso mondo, con generi e band esplose a livello commerciale con la stessa velocità con cui sono tornate nell’underground o addirittura sparite per poi magari tornare in reunion più o meno riuscite.
La scena scandinava che trovò gloria e clamore a cavallo dei due secoli, ha lasciato ormai da anni cicche di sigarette, alcool e vomito sul pavimento dei locali dove The Hellacopters, Gluecifer, Turbonegro, Hardcore Superstar e i Backyard Babies di Nicke Borg e Dregen facevano impazzire i fans europei a suon di rock ‘n’ roll adrenalinico e, come sempre quando si parla delle terre del nord, di altissima qualità.
Tocca a Sliver & Gold, ultimo lavoro dei Backyard Babies, il compito di regalare mezz’ora abbondante di quella musica che non smetteremo mai di amare, anche se nel corso degli anni la nostra attenzione è stata attratta da una vastità impressionante di generi lontanissimi tra loro.
Dregen e i Backyard Babies sono tornati, dando un successore a Four By Four, precedente lavoro uscito nel 2015, con l’ottavo full length di una discografia avara di album inediti, visto che il debutto Diesel And Power è targato 1994. Sliver And Gold è il classico lavoro che ci si sarebbe attesi con ingredienti ben noti: una serie di tracce che scaricano adrenalina rock ‘n’ roll, un talento per le melodie straordinario, il familiare cantato di un Borg a tratti tornato ad esaltare come su Making Enemies Is Good e Stockholm Syndrome (Total 13 lasciamolo dove merita, nell’olimpo del genere), e la sei corde di uno dei chitarristi e personaggi più carismatici della scena.
La sezione ritmica, sempre al suo posto con i veterani Johan Blomqvist e Peder Carlsson, non manca certo di fare il suo sporco lavoro e già dal buongiorno dato da Good Morning Midnight si capisce che ci sarà da divertirsi.
Il singolo Shovin’ Rocks è da infarto, pura adrenalina rock ‘n’roll che la band non smette di cantare in tre minuti abbondanti di party song irresistibile, Yes To All No placa il graffiante inizio e l’album si assesta su una serie di brani che vedono rock da battaglia (Bad Seeds, 44 Undead) e una ballad leggermente prolissa ma nostalgicamente perfetta per chiudere l’album (Laugh Now Cry later).
Buon ritorno per il gruppo svedese, Sliver & Gold non deluderà di certo i fans: gli anni d’oro del genere sono tramontati da tempo ma del rock’n’roll suonato alla Backyard Babies non ci si stanca mai.
Tracklist
1.Good Morning Midnight
2.Simple Being Sold
3.Shovin‘ Rocks
4.Ragged Flag
5.Yes To All No
6.Bad Seeds
7.44 Undead
8.Sliver And Gold
9.A Day Late In My Dollar Shorts
10.Laugh Now Cry Later
Line-up
Nicke Borg – Vocals, Guita
Andreas “Dregen” – Guitar
Johan Blomquist – Bass
Peder Carlsson – Drums
Orville Peck compone, scrive, suona e si autoproduce un disco che farà sgorgare lacrime e vi farà guardare l’orizzonte come non l’avete mai guardato.
Incredibile debutto di un cow boy mascherato che vi porterà di notte su polverose strade dimenticate di un Canada che non conosciamo bene.
La voce di Orville Peck è qualcosa di davvero affascinante e si fonde benissimo con una musica strutturata in maniera minimale, ma davvero adeguata: il suo timbro assomiglia terribilmente all’Elvis Presley più dolce ed intimo, infatti Peck è uno straordinario narratore di storie ed accadimenti. La tradizione è quella gotica americana, che ultimamente ha avuto momenti di notevole qualità declinati in maniera diversa, si pensi a King Dude, ma qui è un’altra storia. Orville Peck è posseduto da un rocker americano anni sessanta che ha deciso di raccontare le sue storie in un pomeriggio estivo di afa asfissiante, con le macchine che procedono lentamente come se anche loro sentissero la fatica, le rose cadono a terra, e alcune gonne attirano molti sguardi. Un mondo apparentemente immoto, ma pieno di vita nascosta che Orville ci racconta con la sua splendida musica. Pony non è un disco fuori dal tempo, è un’opera che costruisce un’epoca tutta sua, un unicum spazio temporale nel quale veniamo catapultati e dove si sta benissimo. Immaginario western, paesini, suburbia, tutto scorre come vederlo da un finestrino in un viaggio nell’America del Nord più rurale e vera, dove certe cose non sono cambiate. Si arriva addirittura a pensare che tutto sia un’invenzione pur di aver qualcosa che la voce e la musica di Orville Peck possa narrare. E non ci sono dubbi ragazzi miei, se avete un pugno di dollari (vanno bene anche gli euro, i bitcoin li sconsigliamo), da spendere per comprare un disco decente da quando quel grassone di Memphis è morto, beh questo è il disco giusto. Dolcezza, sesso, vita, morte , polvere, Dio, caldo e tanto altro qui vengono cantati in maniera commovente e bellissima. Ci sono anche alcuni accenni a un certo inglese chiamato Mr.Morrissey, che è forse la cosa più simile al King che ci sia stata dopo il re, ma questo è un’altra storia. Orville Peck compone, scrive, suona e si autoproduce un disco che farà sgorgare lacrime e vi farà guardare l’orizzonte come non l’avete mai guardato.
Tracklist
1 Dead of Night
2 Winds Change
3 Turn To Hate
4 Buffalo Run
5 Queen of the Rodeo
6 Kansas (Remembers Me Now)
7 Old River
8 Big Sky
9 Roses Are Falling
10 Take You Back (The Iron Hoof Cattle Call)
11 Hope to Die
12 Nothing Fades Like the Light
Gli Anèma tornano con il secondo album ed un approccio al genere lievemente cambiato, sterzando verso il rock/pop, con la lingua italiana che ne accentua questa nuova veste ed un sound ancora più lontano dai cliché classici del genere.
Una svolta non da poco quella che ha portato i siracusani Anèma a questo secondo lavoro sulla lunga distanza, intitolato Umana Città.
Già dal titolo si intuisce che il gruppo siciliano ha lasciato l’idioma inglese per quello italiano in questa nuova raccolta di brani che risultano più pop rispetto a quelli del bellissimo debutto.
Ma andiamo con ordine: per chi non conoscesse gli Anèma, la band nasce come cover band dei gruppi storici del rock progressivo nel 2015; bruciando le tappe arrivano due anni dopo al debutto con After The Sea, album rock che metteva in luce un’attitudine progressiva elegante e raffinata, modellata su toni pacati e mai vicini al metal come è di moda nel progressive odierno.
Il quartetto torna dunque con il secondo album ed un approccio al genere lievemente cambiato, sterzando verso il rock/pop, con la lingua italiana che ne accentua questa nuova veste ed un sound ancora più lontano dai cliché classici del genere.
Vero è che la traccia più progressiva del lotto è quella cantante in inglese (Shake It, Reply), che apre un finale di album sicuramente con più verve rispetto alle prime battute, con Anomala Ipnosi e la conclusiva title track.
Il resto dell’album è composto da un esempio elegante e raffinato di rock/pop cantato in italiano (dove spicca Blu Assoluto), pregno di sfumature progressive suonato molto bene e consigliato un po’ a tutti gli amanti dei generi descritti.
Hard rock. Quello classico, duro e puro, provocatorio e senza tempo, privo di fronzoli.
Da Verona, con oltre vent’anni di attività sulle spalle. Gli Ex furono formati da musicisti dalla lunga e provata esperienza, attivi sul territorio nazionale sin dal lontano 1981 (anche nei prime movers del metal tricolore Spitfire).
La musica della band è oggi la naturale somma delle singole esperienze dei suoi componenti: un hard rock, cantato in italiano, con forti influenze Seventies. Essenziali e liberi dai modelli: questi sono gli Ex. Come il grande e compianto Sergio Leone nel cinema, gli Ex altro non fanno che ‘demitizzare’ il loro stesso genere musicale, con testi di contestazione sociale verso i luoghi comuni della realtà urbana odierna. Una band indipendente, priva di compromessi, nemica di ogni troppo facile etichetta. Già il loro disco precedente, Cemento armato (2016) – promosso live in Svizzera, Francia, Scozia – era un validissimo esempio di combat rock (per citare qui il classico dei Clash, targato 1982). Del resto, se non il genere suonato, l’attitudine è molto punk. I pezzi sono tutti scarni ed immediati, energici e di forte impatto. Raccontano le periferie, la passione per la musica, la vita di strada (un po’ alla Rolling Stones) e il desiderio insopprimibile di libertà, l’insofferenza per ipocrisia e perbenismo, nonché la difficoltà di essere visibili all’interno di un sistema che appiattisce e livella, oggi, tutto e tutti. Le undici canzoni de I nostri fantasmi, sesto capitolo nella carriera degli Ex, sono tutto questo. Con la giusta dose di orgoglio e tanto, tantissimo cuore.
Tracklist
1- Vieni a vedere
2- La mia donna odia il rocchenroll
3- No Panic
4- L’ambiguità
5- Ora
6- La sconfitta del 2000
7- (Ogni giorno è) un nuovo giorno
8- Idee uniche
9- California
10- Santi e delinquenti
11- Cicatrice
Line up
Roberto Mancini – Vocals
Gabriele Agostinelli – Bass
Yari Borin – Drums
Stefano Pisani – Guitars
Opus 1880 si rivela un lavoro monumentale, consigliato agli amanti delle opere di Lucassen e agli ascoltatori del metal/rock progressivo.
Alexandra Zerner è una chitarrista e polistrumentista di origine bulgara, e questo mastodontica opera progressiva dal titolo Opus 1880è il suo terzo album di una carriera solista iniziata nel quattro anni fa con il debutto 9 Stories e proseguita con il successivo Aspects.
Conosciuta e rispettata nell’ambiente shred, la Zerner ha collaborato ad una miriade di progetti prima di dedicarsi alla sua musica che arriva con questo lavoro alla consacrazione.
Due ore di musica divisa in due cd seguendo la storia di una donna in cerca dell’amore, un lungo viaggio in una linea temporale parallela iniziato appunto nel 1880.
Sci-Fi e prog metal non sono una novità essendo un connubio già sviluppato ampiamente da Arjen Anthony Lucassen con il suo progetto Ayreon, al quale la musicista di Sofia si ispira non poco, anche se le tante sinfonie orchestrali negli album del folletto olandese sono sostituite dai momenti in cui la chitarra prende il sopravvento e ci investe con parti strumentali dalla tecnica sopraffina.
Considerare Opus 1880 il classico album del talentuoso musicista di turno risulta però una colossale cantonata: i brani, nelle due lunghe ore di musica, si fregiano di splendide aperture progressive, atmosfere pregne di melodie e di raffinato metallo, per cui l’ascolto è consigliato soprattutto agli amanti dei suoni progressivi.
L’enorme mole di musica prodotta dalla Zerner merita sicuramente di non passare inosservata, essendo per di più valorizzata da una manciata di ospiti che aiutano la chitarrista in questa nuova e splendida avventura.
Sul primo cd una menzione particolare la meritano le bellissime Quest Of Light e Pinch Of Time, mentre passando al secondo supporto è The Other Side Of The Sky Part 2 a deliziarci con melodie progressive di stampo settantiano. Opus 1880si rivela un lavoro monumentale, consigliato agli amanti delle opere di Lucassen e agli ascoltatori del metal/rock progressivo.
Tracklist
Disc 1
1.Overture
2.Chaos of Cards
3.The Oracle
4.Mirrors
5.Quest of Light
6.The Sound of Dreaming
7.Questions
8.Letter to Nowhere
9.Diamind
10.Pinch of Time
11.The Missed Dance
Disc 2
1.Desaturation Point
2.Master of Lightning
3.The Other Side of the Sky, Pt. 1
4.Unfairlytale
5.Cumulonimbi
6.Dolphins
7.Electric Kisses
8.Sensosphere
9.Five Gardens
10.The Other Side of the Sky, Pt. 2
11.Youtopia
Line-up
Alexandra Zerner – Guitars, Bass, Keyboards, Mandolin, Drum programming
La musica dei Kings Destroy è fatta per durare, si può ascoltare molte volte, ed ogni volta è come fosse la prima.
Dal 2010 i Kings Destroy fanno musica pesante di gran classe, coniugando sonorità vicino allo stoner, all’hard rock e al noise con melodia e grande tecnica.
Fantasma Nera è un disco pieno di canzoni entusiasmanti, che cominciano con un motivo per poi andare davvero lontano, portando l’ascoltatore a spasso per mondi fatti di melodia e grazia musicale. Questi nativi di Brooklyn sono andati a Toronto per collaborare con David Bottrill, già al lavoro con Tool, King Crimson, Stone Sour, ed infatti qui troviamo molto del suono progressivo delle prime due band di cui sopra. Rispetto a Maynard e soci e alla creatura di Fripp, i Kings Destroy hanno una grande facilità nel rendere maggiormente immediata la loro musica, con passaggi molto melodici e fantastici ritornelli. Questo loro quarto album differisce dagli altri, come ogni altro album che hanno fatto gli americani, sempre differente da quello precedente, in una continua ricerca sonora. La musica dei Kings Destroy è fatta per durare, si può ascoltare molte volte, ed ogni volta è come fosse la prima. Dentro alle loro canzoni c’è qualcosa che riesce a dare una notevole pace, come se ci si ricongiungesse con un’altra parte di noi stessi che avevamo perduto. Ogni canzone è una nuova scoperta, si viene avvolti da una grande quantità di luce, anche se la tenebra non è sconosciuta. Nella bella ed esoterica copertina c’è quello che potrebbe sembrare un lago od un mare, comunque tanta acqua, e proprio la sensazione di stare nell’elemento acqueo è una della grandi emozioni che ci regala questo gruppo. Possiamo anche trovare un po’ di grunge in chiave hard rock, ma i Kings Destroy non appartengono ad un genere ben preciso. Ci sono moltissime cose qui dentro e sono tutte da scoprire in un lavoro che è molto superiore e non lo nasconde.
Tracklist
1.The Nightbird
2.Fantasma Nera
3.Barbarossa
4.Unmake It
5.Dead Before
6.Yonkers Ceiling Collapse
7.Seven Billion Drones
8.You’re The Puppet
9.Bleed Down The Sun
10.Stormy Times
Per coloro che amano il prog più classico, contaminato di atmosfere anni Ottanta. L’opportunità di riscoprire i primi passi di un eccellente artista.
Baro è il nome d’arte di Alberto Molesini, bassista, cantante, songwriter e polistrumentista che, alla fine degli anni Settanta, fondò i Sintesi: un interessante tentativo di unire la tradizione prog inglese (Yes e King Crimson in primis) e il pop sinfonico italiano di PFM e Orme.
Nel 1980 fu realizzato al fine di alimentare il repertorio dal vivo del gruppo il concept in più atti Lucillo e Giada, una sorta di ambiziosa opera rock. Tre anni dopo fu la volta di Topic Wurlenio, altra raccolta di materiale live da proporre in concerto. Per il prog non erano, lo si rammenti, anni facili, né da noi, né all’estero. Dopo l’apparizione su una compilation di Radio Studio 24, il progetto entrò in stand-by. Molesini, durante gli anni Novanta, collaborò con gli Hydra e col duo pop metal degli Elam. Nel nuovo millennio, con l’aiuto delle nuove tecnologie, uscì quindi Utopie. Dal 2004 Molesini suona con i Marygold, ottima band progressive di casa nostra, responsabile dell’ottimo One Light Year (2017). Tuttavia, la voglia di concretare i progetti giovanili non deve essersi nel nostro mai spenta: ecco quindi spiegato Baro Prog-jets, un lavoro di rispettoso ricupero del periodo 1980-83, con nuovi apporti ed arrangiamenti. Ci è così possibile ascoltare oggi quei due primi lavori di Baro: un prog rock tradizionale, pieno di idee e di spunti originali. Molti i temi musicali che si intrecciano in Lucillo e Giada. Topic Wurlenio venne scritto in piena epoca new wave e ne conserva giustamente le influenze, un po’ nello stile dei primi Twelfth Night. In definitiva, due bellissimi lavori, che vedono ora finalmente la luce su doppio CD, non senza rimandi anche a BMS e Osanna.
Track list
Lucillo & Giada
1- Scena I
2- Scena II
3- Scena III
4- Scena IV
Topic Würlenio
1- Intro
2- Tracce di un’avventura
3- Ach the Stomach Contraction
4- Dialogo
5- Chiare gocce di pioggia
6- Attesa
7- Topis Wurlenio
8- Variazioni
9- Mosaico d’uomo
Line up
Baro – Vocals / Bass / Guitars / Keyboards
Elena Cipriani – Vocals
Gigi Murari – Drums
Paolo Zanella – Piano
Massimo Basaglia / Titta Donato / Nicola Rotta – Guitars
Il quartetto regala una performance convincente, alternando ovviamente vecchi brani a quelli del nuovo lavoro, ed uscendone vincitore dalla prima all’ultima nota.
I Reef sono tornati lo scorso anno con un nuovo album dopo diciotto anni dall’ultimo Getaway, lavoro che concluse la prima fase della carriera del gruppo britannico.
A torto considerati una band brit pop, probabilmente per la carta d’identità registrata nel comune di Glastonbury, i Reef hanno sempre avuto un’anima southern che a parer mio li ha alzati di una spanna rispetto alle band del genere.
Questioni di gusti direte voi, rimane il fatto che il ritorno sulle scene coincide con un nuovo album e con questo live, registrato lo scorso 6 maggio presso l’Hammersmith Apollo di Londra nel contesto del Britrock Must Be Destroyed, tour che li vedeva dividere il palco con band storiche del genere come Terrorvision e The Wildhearts.
Licenziato dalla earMUSIC nelle versioni 2LP+Blu-Ray/CD+Blu-Ray e digitale, questo documento conferma e accentua la vena southern/blues dei Reef, risultando un live sanguigno ed assolutamente in grado di regalare un emozionante quadro di rock che, invero, sa più di strade scaldate dal sole del sud degli States che di prati bagnati dalla pioggia in terra albionica.
Il quartetto, che vede il nuovo entrato Jesse Wood (figlio del più famoso Ronnie) alla chitarra al posto del membro originale Kenwyn House, regala una performance convincente, alternando ovviamente vecchi brani a quelli del nuovo lavoro, ed uscendone vincitore dalla prima all’ultima nota.
La band ha nel cantante Gary Stringer un animale blues rock incisivo e sanguigno, emulo di un certo Chris Robinson, così come la musica del gruppo si avvicina non poco a quanto fatto dai The Black Crowes nella loro carriera.
Cori gospel, atmosfere blues da infarto e rock ‘n’ roll dei pionieri cementificano il sound del quartetto, perfetto quando calcano le assi di un palco e consigliato a tutti i fans del genere.
Tracklist
1.Higher Vibration
2.Place Your Hands
3.Stone For Your Love
4.First Mistake
5.Consideration
6.How I Got Over
7.My Sweet Love
8.I Would Have Left You
9.I’ve Got Something To Say
10.Come Back Brighter
11.Precious Metal
12.Don’t You Like It?
13.Naked
14.Summer‘s In Bloom*
15.Revelation*
16.Yer Old
17.End
Line-up
Gary Stringer – Vocals
Jesse Wood – Guitar
Jack Bessant – Bass
Dominic Greensmith – Drums
Il sound è grezzo, registrato sicuramente in presa diretta fuori da qualsivoglia ambizione commerciale e creato e suonato come un lungo rituale pagano, una sorta di jam divisa in sei capitoli in cui rock acustico, atmosfere psichedeliche fine anni sessanta ed un tocco di pazzia compositiva rendono il tutto a suo modo originale.
I The Absense sono un quartetto di ispirazione pagana composto dai due fratelli Siri (Luca e Michele) ai quali nel corso del tempo si sono aggiunti la cantante Gianna Pinotti e il batterista Luca Pagliari.
E proprio il tempo è al centro del concept che si muove dietro a questo lavoro, intitolato Khronocracy e licenziato dalla Sliptrick records.
Il sound è grezzo, registrato sicuramente in presa diretta fuori da qualsivoglia ambizione commerciale e creato e suonato come un lungo rituale pagano, una sorta di jam divisa in sei capitoli in cui rock acustico, atmosfere psichedeliche fine anni sessanta ed un tocco di pazzia compositiva rendono il tutto a suo modo originale.
Non è per tutti la musica dei The Absense, quindi l’avvicinarsi con cautela a litanie distorte come l’opener Black Trip o il brano autointitolato diventa quantomeno d’obbligo, così come quanto consigliarne l’ascolto a chi è maggiormente avvezzo al rock psichedelico e rituale nelle sue vesti più underground.
Tracklist
01. Black Trip
02. Storm
03. Down On Your Eyes
04. The Absence
05. Khronocracy
06. La Fin Du Monde
Line-up
Luca Siri – Guitar/Vocals
Gianna Pinotti – Vocals
Michele Siri – Guitars
Luca Pagliari – Drums
At The Edge Of Light è probabilmente uno dei migliori album di Hackett da diversi anni a questa parte in virtù di un tocco chitarristico non solo unico, come sempre, ma anche ispirato e capace di evocare in maniera costante quelle emozioni che ogni ascoltatore ricerca.
Non c’è dubbio che tra gli eroi dell’epopea prog settantiana Steve Hackett sia oggi uno dei più amati, non solo per ciò che ha rappresentato ma anche e soprattutto perché è rimasto uno dei pochi che continua ed essere in piena attività, non limitandosi a portare in giro per il modo le immortali sonorità dei Genesis ma offrendo anche con una certa regolarità nuovi album, sempre di ottimo livello e contraddistinti da una classe innata.
Non fa eccezione questo ultimo At The Edge Of Light, quello che viene considerato ufficialmente il venticinquesimo full length di inediti della serie, che anzi è probabilmente uno dei migliori da diversi anni a questa parte in virtù di un tocco chitarristico non solo unico, come sempre, ma anche ispirato e capace di evocare in maniera costante quelle emozioni che ogni ascoltatore ricerca.
Infatti Steve, pur non rinunciando alle parti cantate, delle quali si occupa in prima persona, almeno per quanto riguarda la voce maschile, si lascia andare senza particolari remore ad una serie di brani in cui vengono spesso rievocati i fatti del passato asservendo le composizioni allo strumento principe e sfruttando, come sempre, la tecnica sopraffina dei compagni di viaggio di turno.
Non mancano neppure qui, in ogni caso, quegli accenni etnici alla cui fascinazione Hackett non si sottrae, esibendoli specialmente in un brano come Shadow And Flame, ai quali vengono in altri frangenti associate sfumature tra il gospel ed il country/blues che vengono racchiuse in Underground Railroad, a dimostrazione di quanto questo magnifico musicista non rinunci a ricercare diverse soluzioni espressive, nonostante un’età ed uno status che gli potrebbero consentire di viaggiare agevolmente con il pilota automatico inserito, all’interno del genere che ha contribuito a portare al successo.
La musica per questo grande artista è anche il veicolo ideale per diffondere un messaggio di pace e fratellanza, un qualcosa del quale mai come di questi tempi si sente un forte bisogno, specialmente quando giunge da una voce così autorevole e, in effetti, nelle sonorità contenute in At The Edge Of Light non è difficile cogliere un senso di ecumenismo che va oltre i già citati richiami etnici.
Non è quindi solo un sentore nostalgico quello che spinge a farsi cullare senza troppe remore dal tocco unico di Steve, messo al servizio di brani più lineari e sognanti come Hungry Years (con la voce di Amanda Lehmann) oppure dall’incedere solenne di Descent (nella quale si colgono accenni dell’intro di Watcher Of The Sky), o da quello più drammatico di Conflict, che va a formare con quella precedente una magistrale coppia di tracce strumentali.
Se a questo quadro aggiungiamo altre canzoni splendide come Beasts In Our Time, Under The Eye of the Sun (brano che sembra quasi omaggiare gli Yes, e conseguentemente l’amico scomparso Chris Squire) e Those Golden Wings, a livello di consuntivo non resta altro che ringraziare il chitarrista inglese per averci donato ancora un’altra prova del suo smisurato talento artistico, e pazienza se poi, durante la sua incessante attività dal vivo, il nostro alla fine cede alla tentazione di offrire al pubblico ciò che più vuole ascoltare, ovvero i cavalli di battaglia dei Genesis: le leggende si possono solo amare, e per quanto mi concerne la libertà di critica in casi simili andrebbe abolita per decreto …
Tracklist:
1 Fallen Walls and Pedestals
2 Beasts In Our Time
3 Under The Eye of the Sun
4 Underground Railroad
5 Those Golden Wings
6 Shadow and Flame
7 Hungry Years
8 Descent
9 Conflict
10 Peace
Line-up:
Steve Hackett – chitarre elettriche e acustiche, dobro, basso, armonica, voce
Gulli Briem – batteria, percussioni
Dick Driver – contrabbasso
Benedict Fenner – tastiere e programmazione
John Hackett – flauto
Roger King – tastiere, programmazione e arrangiamenti orchestrali
Amanda Lehmann – voce
Durga McBroom – voce
Lorelei McBroom – voce
Malik Mansurov – tar
Sheema Mukherjee – sitar
Gary O’Toole – batteria
Simon Phillips – batteria
Jonas Reingold – basso
Paul Stillwell – didgeridoo
Christine Townsend – violino, viola
Rob Townsend – sax tenore, flauto, duduk, clarinetto
Nick D’Virgilio – batteria
I Green River non erano solo dei precursori ma furono un gruppo che fece qualcosa di nuovo partendo da elementi già presenti nella scena musicale del tempo e di quella precedente.
Ristampa di lusso per l’unico disco su lunga distanza dei Green River.
Uscito originariamente nel 1988, Rehab Doll può essere considerato la summa e contemporaneamente il punto più alto della loro carriera: sintomo di un’epoca che stava cambiando musicalmente, a parte le note vicende future dei suoi membri, l’album è un piccolo capolavoro per quanto riguarda la musica e la sintesi fra post punk ed un hardcore altro. Registrato da Jack Endino, vero e proprio fautore di un certo suono, Rehab Doll è un compendio di un certo alternativo americano che in quegli anni da un lato annoverava gruppi come i Black Flag e dall’altro lato i Green River, che stavano facendo qualcosa di veramente differente. Rispetto a Dry As A Bone qui la musica è maggiormente strutturata, le canzoni mutano molto nel loro divenire, e la carica distorsiva è preponderante. Rehab Dollè un disco irripetibile di un gruppo che, oltre che anticipare alcune istanze musicali come il grunge, ha saputo proporre una sintesi molto riuscita fra post punk e il rock. La musica dei Green River non nasce con loro ma è originale la proposta musicale che fanno, di grande importanza ancora adesso. Ascoltando Rehab Doll si può facilmente comprendere come questo disco sia ancora avanti di anni ai giorni nostri e, cosa più importante, sia bellissimo dalla prima all’ultima canzone. Questa ristampa di lusso della Sub Pop comprende gli otto brani originali, più alcune versioni dei brani presi dalle cassette di prova di Jack Endino, e due inediti, un documento prezioso e occasione per poter riascoltare un capolavoro quanto mai attuale. I Green River non erano solo dei precursori ma furono un gruppo che fece qualcosa di nuovo partendo da elementi già presenti nella scena musicale del tempo e di quella precedente. Qualcosa a Seattle si stava muovendo e non sarebbe finito tanto presto.
Tracklist
01. Forever Means
02. Rehab Doll
03. Swallow My Pride
04. Together We’ll Never
05. Smilin’ and Dyin’
06. Porkfist
07. Take a Dive
08. One More Stitch
09. 10000 Things
10. Hangin’ Tree
11. Rehab Doll
12. Swallow My Pride
13. Together We’ll Never
14. Smilin’ and Dyin’
15. Porkfist
16. Take a Dive
17. Somebody
18. Queen Bitch
Rusty è un cantante eccezionale e trascina tutto il gruppo, musicisti rock di livello superiore che fanno storia a sé, ed infatti il disco bissa e supera la già alta qualità di III, il disco precedente.
In Australia hanno un tocco particolare per il rock in tutte le sue forme, ma in particolare per quelle più ruvide e vicine allo spirito del blues.
Gli Electric Mary sono appunto australiani e fanno un ottimo hard rock, molto bene suonato e dominato dalla bellissima voce di Rusty, fondatore del gruppo nel 2003. Da una sua particolare visione musicale nasce questa band che con Mother arriva al quarto album, con un seguito sempre maggiore in tutto il mondo. La gente che ama il gruppo oceaniano troverà in Mother un approdo sicuro, un hard rock di alta qualità che vive di momenti diversi, alcuni quasi stoner, altri molto blues, che è poi un po’ la cifra stilistica che lega il tutto. Il suono è ciò che fa smuovere i cuori di molti amanti dell’accezione più ruvida del rock, dove la strada diventa bollente e ci fa muovere gli stivali. Rusty è un cantante eccezionale e trascina tutto il gruppo, musicisti rock di livello superiore che fanno storia a sé, ed infatti il disco bissa e supera la già alta qualità di III, il disco precedente. C’è un qualcosa di sensuale e di fisico nelle note di Mother, un richiamo alla nostra vera natura, un riportarci là dove ci sono polvere e sudore. Il gruppo ruota benissimo dietro alla voce blues e maledetta del cantante, e si arriva ad un livello alto; infatti la band ha suonato in giro per il mondo con nomi molto importanti e nella loro Australia sono molto famosi, anche quella nazione ha una grande attenzione per gruppi come gli Electric Mary, dalla formula musicale in apparenza semplice ed in realtà di grande effetto. Non si trova nulla fuori posto in questo disco, tutto scorre bene, ma per ottenere un tale effetto il lavoro è grandissimo e deve essere strutturato molto bene. Venticinque anni fa questo disco avrebbe venduto moltissimo e gli Electric Mary sarebbero stati fissi in America; i tempi sono cambiati, ma un album così apre ancora i cuori di chi ama questi suoni stradaioli e da bar fumosi. L’hard rock continua a produrre buone cose grazie a realtà come queste, figlie della passione e della preparazione tecnica.
Tracklist
1 Gimme Love
2 Hold Onto What You Got
3 How Do You Do It
4 Sorry Baby
5 The Way You Make Me Feel
6 It’s Alright
7 Long Long Day
8 Woman
Line-up
Rusty – vocals
Pete Robinson – guitar and vocals
Alex Raunjak – bass guitar
Brett Wood – guitar and vocals
Paul “Spyder” Marrett – drums
Iris è un album che si ascolta piacevolmente, composto da tredici brani potenti ma molto attenti alle melodie, specialmente nei chorus e che, se fosse uscito qualche anno fa, avrebbe sicuramente trovato maggiore attenzione da parte di fans e addetti ai lavori.
Il Brasile metallico ha quasi sempre parlato la lingua del metal classico e di quello estremo, partendo da due punti fermi come Sepultura e Angra, le band che hanno portato alla ribalta più di altre il metal nato nella terra del samba e del calcio.
Gli Owl Company, invece propongono un alternative rock dai molti spunti metallici, ma legato a doppia mandata con il sound americano arrivato dopo l’enorme successo del rock di Seattle negli anni novanta e chiamato appunto post grunge.
Dei Creed più metallici o, se preferite, dei Nickelback meno commerciali e più rispettosi della tradizione settantiana, ipervitaminizzati da anni di alternative metal, gli Owl Company non deluderanno i fans del genere con questo loro secondo album intitolato Iris, licenziato dalla Eclipse Records dopo il debutto autoprodotto intitolato Horizon uscito lo scorso anno.
Niente di originale dunque, solo del buon rock alternativo, orfano di MTV, ma pur sempre nei cuori dei rockers della generazione a cavallo dei due millenni, ora leggermente in ombra rispetto alle desertiche sonorità stoner.
Iris è un album che si ascolta piacevolmente, composto da tredici brani potenti ma molto attenti alle melodie, specialmente nei chorus e che, se fosse uscito qualche anno fa, avrebbe sicuramente trovato maggiore attenzione da parte di fans e addetti ai lavori. Boogie Man, Antagonist, Broken Paradigm e Shades sono i brani che spingono l’album verso un giudizio più che buono, se il rock alternativo statunitense fa parte dei vostri abituali ascolti Iris potrebbe essere una piacevole sorpresa.
Tracklist
1.One Last Time
2.Boogie Man
3.Rise
4.Antagonist
5.Shattered Dreams
6.Daw of days
7.Broken Paradigm
8.Disconnected
9.Forbidden Ground
10.The Other Side
11.Shades
12.Doors