METEORE: EXORCIST

Primo ed unico disco di una band misteriosissima, dietro la quale si celano in realtà gli statunitensi Virgin Steele (i nomi dei componenti degli Exorcist sono del resto palesi pseudonimi).

ExorcistNightmare Theatre

L’uscita di questo disco nel 1986 venne subito accompagnata dalla voce secondo la quale dietro alla band degli Exorcist (che in effetti nessuno aveva visto in faccia e che non si esibivano dal vivo), si celassero in realtà i newyorkesi Virgin Steele, campioni dell’epic metal e dell’hard rock più cromato di gran classe desiderosi di misurarsi con un album thrash, allora al culmine della popolarità, specie in America. La biografia ufficiale degli Exorcist affermava soltanto che il quartetto proveniva dalle terre canadesi. Da parte sua, il vocalist dei Virgin Steele, il cantante e tastierista David De Feis, non fece altro che negare ogni forma di coinvolgimento suo e dei suoi compagni d’arme. Tutti, peraltro, si convinsero della cosa, che oggi viene in buona sostanza data per assodata. Le coincidenze, d’altra parte, non erano poche: ambedue le band appartenevano alla scuderia della Cobra, erano prodotte da De Feis stesso e impiegavano il medesimo studio di registrazione, il Sonic Sound. Inoltre, dopo che Nightmare Theatre fu stampato, gli Exorcist scomparvero nel nulla: una vera meteora, insomma. Lo sfogo thrash dei Virgin Steele, ristampato giusto un anno fa dalla HR Records in edizione doppia, è da riascoltare: un thrash assai oscuro e tetro, non distante da certo horror metal di qualità, intriso di atmosfere dark e con una gran dose di occulta ferocia sonora. Detto altrimenti: un classico, con titoli e testi degni delle evil stories di King Diamond.

Track list
1- Black Mass
2- The Invocation
3- Burnt Offerings
4- The Hex
5- Possessed
6- Call For the Exorcist
7- Death By Bewitchment
8- The Trial
9- Execution of the Witches
10- Consuming Flames of Redemption
11- Megawatt Mayhem
12- Riding to Hell
13- Queen of the Dead
14- Lucifer’s Lament
15- The Banishment

Line up
Damian Rath – Vocals
Marc Dorian – Guitars
Geoff Fontaine – Drums
Jamie Locke – Bass

METEORE: MIASMA

Una grande band che avrebbe potuto aspirare all’Olimpo del Death Metal europeo, e sedere a fianco dei connazionali Disastrous Murmur e Pungent Stench. Grandi capacità tecniche, prefetto connubio tra melodia e brutale assalto sonoro, rendono l’album Changes una perla imperdibile.

I viennesi Miasma si formarono nel lontano 1990 dalla fusione di due band: gli Evil Tale e i Caldera.

Gli Evil Tale realizzarono un solo demo tape di discreto thrash metal, Mountains of Madness, di chiara ispirazione teutonica, mentre i Caldera nascevano dalle ceneri della grindcore band Digested Corpse. La prima apparizione dal vivo dei Miasma fu durante un festival tenutosi la vigilia di Natale del 1990, presso il piccolo locale viennese Graffiti. A marzo del 1991 uscì il loro primo lavoro, Godly Amusement, un demo di 4 tracks di discreto death metal. Iniziò così la loro carriera fatta di pochi alti e molti bassi, e di diversi split-up e successive reunion. Vennero alla ribalta grazie ad alcuni show con alcune band già famose di quel tempo, (aprirono per Unelashed e Pungent Stench, e successivamente – sempre nel 1991 – per Ulcerous Phlegm, Disastrous Murmur e Disharmonic Orchestra). Furono così successivamente contattati dalla Turbo Music tedesca, che però preferì alla fine mettere sotto contratto gli allora emergenti Asphyx. La grande voglia di uscire con un full length fu premiata solo l’anno successivo, grazie all’interesse della concittadina Lethal Records (Acheron, Eminenz, Hellwitch, Belial e Disastrous Murmur, per citare alcune band del roster); il 5 ottobre 1992 usci così Changes, favoloso album death metal di chiara matrice europeo/teutonica che ebbe allora un discreto successo grazie anche a tournée con band del calibro di Evil Dead, Laaz Rockit, At The Gates e Therion (da alcune date ne scaturì anche un live – Liepzig – sempre datato 1992). L’anno successivo usci il loro ep Love Songs, poco prima del loro primo scioglimento. Riunitisi nel 1995, fecero uscire il demo omonimo, per poi sciogliersi immediatamente dopo. Ancora una reunion dieci anni dopo, che vide unicamente alcuni loro show in terra natia, per poi decretare lo split-up definitivo (almeno secondo quanto dichiarato dal bassista Johannes Attems).

Discography:
Godly Amusement – Demo – 1990
Live Leipzig – Live album -1992
Changes – Full-length – 1992
Love Songs – EP – 1993
Miasma 1995 – Demo – 1995

Line-up
Ares Cancer – Guitars
Gerhard “Gorehead” – Vocals
Johannes Attems – Bass

LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL – POWERDRIVE

Grazie alla reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni domenica alle 21.30 su Witch Web Radio.
Questa volta è il turno dei rockers liguri Powerdrive.

MC I Powerdrive nascono nel 2013 in Liguria e iniziano immediatamente a comporre musica originale. Ci raccontate com’è andata?

PD A dir la verità nel 2013 eravamo tutta un’altra formazione, sono rimasto solo io che sono il cantante. I primi pezzi erano più doom, stile primi Black Sabbath, Saint Vitus.
Poi nel 2015, per diverse vicissitudini, ci siamo sciolti per qualche mese e poi si sono uniti Robertino e Paolino provenienti dagli Sfregio e abbiamo cambiato genere, ci siamo avvicinati più all’hard rock/metal primi anni 80, tipo Saxon e simili.

MC Nel 2015 alcuni membri della line up originaria se ne vanno e la band si ferma per un breve periodo ma nello stesso anno subentrano nuovi musicisti a sopperire alla perdita. Citiamo la line-up attuale dei Powerdrive?

PD Machinegun Miche alla voce, Ylme alla batteria, Grinder al basso, Dr. Rock chitarra e ultimo aggiunto Jacopo sempre alla chitarra.

MC Vi distinguete per il vostro stile hard & heavy che è stato paragonato gli Ac/Dc,ai Motorhead e ai Wasp. Brani immediati che entrano immediatamente in testa. Come nasce un brano dei Powerdrive?

PD Di solito i chitarristi, o in questo caso anche in bassista, portano dei riff in sala prove: si sentono tutti assieme e si fanno modifiche per creare corpo al futuro pezzo.
E’ un lavoro comune che facciamo in sala prove, ci riesce facilmente perché abbiamo una buona intesa fortunatamente e poi non ci piace ricamare troppo, rimaniamo semplici e grezzi.

MC Dopo “On the run”, vostro primo mini cd pubblicato nel 2016, arriva quest’anno il vostro primo full length “Rusty Metal” che ha fatto il pieno di recensioni positive. Ci parlate della realizzazione di quest’album?

PD Innanzitutto salutiamo Cristiano, il nostro ex chitarrista il quale ha composto diversi brani che sono presenti in Rusty Metal.
Le registrazioni sono state abbastanza rapide, abbiamo deciso di registrarlo in presa diretta (praticamente un live in studio), a parte le voci, gli assoli e gli arrangiamenti delle due chitarre che sono stati aggiunti in un secondo momento. In 4 o 5 giorni abbiamo completato tutto, non è stato facilissimo me ci siamo riusciti.

MC Ci sono già delle date stabilite per vedervi suonare dal vivo?

PD Sì queste: 8 dicembre @ Genova – Crazy Bull; 15 dicembre @ Verona – The Factory; 4 maggio @ Padova – Dakota; 11 maggio @ Genova – L’Angelo Azzurro; 18 maggio @ Imperia – Babilonia

MC Si parla spesso di supporto alle band. Che rapporto avete con il pubblico che vi segue?

PD Abbiamo un ottimo rapporto con i nostri fans in Liguria e speriamo a breve di ampliare le nostre conoscenze anche in altre regioni.

MC Vi faccio questa domanda ma credo di sapere già la risposta: qual’è la dimensione ideale per i Powerdrive? In studio o il palco?

Chiaramente il palco, la versione live è quella che preferiamo! Questo, ovviamente, comporta un lavoro importante in sala prove, così da arrivare sui palchi carichi e preparati.

MC Quali sono i contatti sul web per seguirvi?

PD Ci trovate su Facebook scrivendo Powerdrive Savona, su Bandcamp e a breve anche su Instagram e ITunes.

Prima del successo: note e appunti sull’alba della new wave britannica

Quando il purismo, non importa di quale segno, ha fatto solo danni. Potremmo iniziare così questa nostra inchiesta storico-musicale, volta a riconsiderare – e rivalutare, perché bisogna, ora, deporre i pregiudizi – dischi e gruppi, emersi al tempo della new wave, che, a causa della fama, hanno fatto (e tuttora fanno) storcere il naso a molti. Ingiustamente, però, dato che prima di svoltare verso suoni e soluzioni di tipo sfacciatamente commerciale, quegli artisti hanno fatto talvolta altro, e sovente con risultati tanto eccellenti quanto purtroppo dimenticati o misconosciuti.

L’anno-cardine, terminato il primo e più noto fermento punk (1976-78), fu il 1979. Nel giro di pochi mesi videro la luce dischi importanti ed iniziatori. Tra questi, sono assolutamente da segnalare il LP d’esordio di Adam and the Ants (Dirk Wears White Sox fu un formidabile incrocio di retaggio punk e dark sperimentale, ed il successo arrivò solo dopo) e Life in a Day, debutto degli scozzesi Simple Minds. Il gruppo di Jim Kerr e Charlie Burchill si spinse ancora più in là, con il successivo Real to Real Cacophony (1979, impregnato di umori alla Can di Tago Mago) e soprattutto con Empires and Dance (1980, permeato di oscura e obliqua ricerca elettronica). Suoni tedeschi, con membri dei Can in cabina di regia, anche per il primo Eurythmics (In the Garden, 1981), proprio due anni prima di Sweet Dreams. Ed entusiasmante new wave sintetica pure per gli australiani INXS degli anni 1980-84, prima che virassero verso un (peraltro brillante) hard pop da classifica.
Anche la fase 1978-80 degli Human League di Sheffield (formatisi sulle ceneri dei Future), prima cioè del successo mondiale di Dare (1981), produsse un EP (The Dignity of Labour) con marziali e incalzanti strumentali di sintetizzatore, nonché due dischi che mostravano apertamente il debito del nuovo pop-rock elettronico verso il varco aperto in Gran Bretagna dal post-punk, varco per il quale passarono pure gli avventurosi – e, almeno a inizio carriera, quasi rumoristici – Cabaret Voltaire. Il primo disco degli OMD di Liverpool, inciso nel 1979 e pubblicato nel 1980, mostrava anch’esso un taglio freddo e minimalista (Colonia e Dusseldorf restavano evidentemente due modelli, cui rifarsi e guardare). Ed anche Organisation, il disco (del 1980) che conteneva il fortunatissimo 45 giri Enola Gay, era un album completamente diverso dal suo singolo trainante, con scelte sonore malinconiche ed autunnali, poco appariscenti e quasi impalpabili nella loro colta orchestrazione di fondo. Occorre rimarcarlo e rifletterci sopra adeguatamente. Anche qui, scelte più facili furono compiute soltanto in seguito, dal pessimo Junk Culture (1984) in poi.

E che dire dei Visage? Si trattava, per riprendere la terminologia in voga tra fine anni ’60 e primi ’70 sulla carta stampata, di un super-gruppo, che comprendeva membri e collaboratori di Ultravox, Rich Kids e Gary Numan, con sugli scudi arrangiamenti sopraffini, recitati femminili, ottime capacità di scrittura ed esecutive (pensiamo solamente al grande violinista e tastierista Billy Currie, il Paganini della new wave inglese, senza voler esagerare). Altro fondamentale anello di congiunzione tra punk del 1978 e ‘nuova onda’ britannica fu l’ex Generation X Billy Idol, che da solista – come il massimo giornalista e storico del punk, Jon Savage, ha sottolineato, in England’s Dreaming – ha ottenuto il suo meritato successo. L’artista, nel prosieguo della sua carriera, si è confrontato anche con la fanta-scienza (in Cyberpunk, del 1993) ed è, di recente, tornato sulle scene, con Kings and Queens of the Underground, ottimo lavoro di AOR moderno e moderatamente tecnologico. A suonare le tastiere e i sintetizzatori sul disco è stato tra l’altro un maestro del pomp rock, Geoff Downes, l’ex leader (con alla voce Trevor Horn, poi con lui negli Yes e celeberrimo produttore) dei Buggles di Video Killed the Radio Stars, una delle canzoni simbolo del 1980 in tutta Europa.
Eccoci quindi a trattare – ebbene sì, è giunta l’ora di farlo – dei Duran Duran. Nati a Birmingham, nel 1978, con uno stile tra glam rock e post-punk, in principio con Stephen Duffy alla voce, i cinque debuttarono con l’ottimo e troppo sottovalutato esordio omonimo, nel 1981: un grande disco di new wave elettronica, con il fantastico strumentale Tel Aviv in chiusura, lavoro che ben poco poteva fare presagire del successo planetario di qualche anno dopo. Rio (1982) iniziò a sbancare i botteghini – è vero – però conteneva ancora un brano eccellente, The Chauffeur, scritto nel 1978 ed intriso di echi progressivi, che si dipanano nei sette minuti del pezzo soprattutto con il notevole lavoro tastieristico di Nick Rhodes. La svolta, totalmente e solo commerciale, giunse con il terzo disco, Seven and the Ragged Tiger (1983), insipido e banale. Le quotazioni del gruppo si risollevarono tuttavia subito col live Arena (1984, molto rock nelle esecuzioni). Dalla band di Birmingham derivarono a quel punto gli Arcadia (1985, David Gilmour fra i prestigiosi collaboratori) ed i techno-funkers Powerstation (con alla voce Robert Palmer, che aveva scoperto il synth-pop in Clues nel 1980). I Duran Duran si rimisero assieme solo nel 1986, per il debole Notorius, che sprecava il riferimento ad Hitchcock del titolo per una sciatta e commerciale mistura mal digerita di pop, dance, r ‘n’ b e smooth jazz. Meglio (almeno in parte) fece Big Thing, due anni più tardi. Quindi crisi, sbandamenti ed abbandoni, sino al ritorno, qualche anno fa, con una serie di CD discreti, che guarda il caso ritornano parzialmente alle origini. Risale al 1987, infine, l’esordio solista Thunder, di Andy Taylor, classico lavoro di hard rock inglese, inserito dagli specialisti d’oltremanica tra i 100 top album nella storia della chitarra. Forse troppo, comunque un disco di qualità e da riscoprire, edito un anno prima che Taylor producesse (e suonasse magistralmente, da vero e autentico professionista) in Out of Order di Rod Stewart (1988).

Discorso assai simile si può fare per i ‘cugini-rivali’ Spandau Ballet. Dal loro terzo disco, col quale svoltarono verso un soul-pop levigato, e baciato da enorme successo commerciale, nessun critico o giornalista li ha mai voluti considerare. Anche, mi permetto di dirlo, per pregiudizio o partito preso: chi e quando ha stabilito che chi ‘vende’ non vale nulla? Rammentiamo che, nella storia del rock, si sono trovati ai primi posti delle classifiche mondiali nomi storici ed imprescindibili, come Jefferson Airplane, Grateful Dead, Bob Dylan, Pink Floyd, Yes, Genesis, Jethro Tull, Elton John, Billy Joel, Supertramp, BJH, ELO, ELP, Asia, Journey, Foreigner, REO Speedwagon, Springsteen, U2, Guns ‘n Roses, Iron Maiden, Metallica, Marillion… E che in Germania, paese da sempre attento al valore e alla qualità della cultura musicale, ai primi posti delle charts abbiamo avuto, proprio in questi mesi, band metal, inossidabili ed incorruttibili, come i Powerwolf e gli Immortal. Ma lasciamo perdere: chi scrive non vuole di certo fare polemica, solo ricostruire verità di fatto, colpevolmente ignorate o volutamente fatte passare sotto silenzio a causa di preconcetti arbitrari.
Torniamo agli Spandau Ballet. Quando non erano ancora nessuno, i cinque inglesi realizzarono, nel 1981, il loro debutto, Journeys to Glory. Intanto, il disco era prodotto da Richard James Burgess, un vero mago della ricerca elettronica inglese. Inoltre, i pezzi del disco palesavano un approccio molto post-punk, con due chitarre affilate e taglienti, suoni squadrati e geometrici, atmosfere tese e spesso cupe, due sintetizzatori, dalle timbriche gelide ed algide, canzoni freddissime e molto ‘tedesche’: un rock elettronico e quasi futuristico, che flirtava sommamente con le nuove tecnologie di allora, non senza una produzione pazzesca e avveniristica. Un capolavoro, anche se nessuno osa ammetterlo. E si tratta di un grave errore, diciamolo chiaro. Con il secondo disco – rifiutando intelligentemente di ripetersi – il quintetto albionico continuò il suo lavoro con il geniale Burgess: sulla prima facciata, a parte lo stupendo singolo Instinction (che rimandava alle sonorità dell’esordio), gli altri tre pezzi si rivolgevano piuttosto a soluzioni ritmate ed accattivanti di marca funky rock; le tracce della seconda facciata, a cominciare da una sublime cavalcata, alla Ultravox, She Loved Like Diamond, tornavano al sound del primo album, con, in più, le suggestioni e misteriose e rarefatte di Pharaoh, e le scale orientali degli ultimi due brani, in grado di anticipare certi schemi cari, in seguito, al duo Sylvian-Sakamoto. Il resto è storia nota: dal 1983 gli Spandau Ballet furono, di fatto, un altro gruppo, che cambiò genere ed incontrò una fama crescente (con dischi comunque gradevoli, per quanto di puro easy listening).

Chiudiamo questa breve rassegna con la scuola definita, già a quel tempo e non senza toni alquanto dispregiativi, new romantic: molto facile e assai sbrigativo, allora come oggi, sottostimare gruppi in realtà interessantissimi, come i Classix Nouveaux, campioni di un decadentismo in musica capace di unire le morbide songs esotiche dei Japan con le progressioni sinfoniche degli Ultravox. E sono, ad ogni modo, tanti i gruppi poco o nulla considerati, perché ritenuti troppo easy (come se scrivere una bella canzone di successo fosse una colpa!): pensiamo agli Alarm (che solo distrattamente sono stati bollati come una ‘brutta copia’ degli U2), agli americani Animotion (che seppero portare negli USA, la tradizionale patria del rock più sanguigno, le melodie del synth-pop), i nostri indimenticati Krisma (passati da sperimentazioni alla Tangerine Dream negli anni Settanta ad un intelligente pop elettronico, durante la decade successiva), sempre in Italia al primo Garbo (che riecheggiava Eno e il Bowie berlinese del 1977-79), ai tedeschi DAF (nati con il kraut rock più astratto e sperimentale) e Alphaville (numeri 1 con Forever Young, ma anche collaboratori del grande Klaus Schulze), agli Art of Noise ed agli Yello (lo spessore delle cui sperimentazioni non può e non deve esser appiattito solo svalutando alcuni singoli di più facile presa), ai Talk Talk (capaci sempre di reinventarsi e di rimettersi in gioco), ai Level 42 (che non furono solo il gruppo della hit Lessons in Love, ma anche una grande band di jazz rock, come attestano il primo omonimo, il doppio live e il primo LP solista del tecnicissimo Mark King, uno dei più grandi bassisti degli ultimi quattro decenni). Né dobbiamo, poi, condannare senza diritto di replica Mission e Bolshoi, solo per avere reso più fruibile il gothic-dark di Leeds e di Londra.
Altro mito da sfatare è quello di una new wave che romperebbe i ponti con il passato (leggasi i ’70), quando, in realtà, è vero spessissimo il contrario: i grandiosi Magazine, di Manchester, ed i Fiction Factory (una splendida meteora del 1984) seppero riportare in auge ed aggiornare in una chiave più melodica la lezione dei Roxy Music di Brian Ferry. Questi ultimi influenzarono non poco anche gli A Flock of Seagulls, di Liverpool, tra i pochissimi artisti che introdussero nel synth-pop la chitarra, strumento che era stato, per un certo periodo, accantonato. Né vanno dimenticati gli All About Eve (che rilessero con gusto ed in una direzione tra ambient e dark-wave il prog lirico e neo-classico dei Renaissance), i comunque gradevolissimi New Musik, il geniale Thomas Dolby (che iniziò con il kraut elettronico tedesco, prima di diventare solista di pregio, produttore ricercatissimo ed autore di colonne sonore, tra le quali Gothic, il visionario e barocco film dedicato da Ken Russell a Shelley e Byron). Persino i norvegesi A-Ha, dopo il boom di Take on Me (1985), seppero maturare, donando, con Scoundrel Days (1986) e Stay on These Roads (1988), perle luminose di nordica intensità. Oggi come riascoltare i dischi ed i gruppi censiti in questa rassegna? Accantonando idiosincrasie, aprendo la mente, evitando letture pre-costituite, allontanando una volta per sempre rigidi quanto ideologici e vuoti schematismi. E soprattutto mettendo finalmente da parte la sciocca equazione successo=pop commerciale=musica senza valore.

METEORE: DEMILICH

Un disco leggendario capace di sfidare le grandi band d’oltreoceano e una band che, pur essendo ancora saltuariamente attiva live, non ha più prodotto altro. Da riscoprire e amare incondizionatamente.

Questa band finlandese ha rappresentato, nel 1991, anno del demo Regurgitation of blood, un unicum nel panorama death nordeuropeo, formata da musicisti che non avevano voglia di rimanere banali o ancorati agli stilemi in voga, ma volevano osare e miscelare sonorità tra le più varie, fossero esse death, jazz, fusion o dissonanze varie.

Quattro musicisti senza particolare passato nel 1990 ma con la volontà di creare qualcosa che ancora oggi appare di sicuro antesignano di molte techincal death band e, allo stesso tempo, capace di “sfidare” gruppi d’oltreoceano come Atheist, Gorguts ai tempi all’apice della loro forma musicale. Una storia breve, durata fino al 1993 con l’uscita del loro unico full length Nespithe che ha assunto nel tempo un’aura leggendaria e che, purtroppo, non ha mai avuto un seguito. Brutalità nel growl gutturale unico di Antti Boman, chitarre che si attorcigliano in riffage complessi, articolati ma sempre funzionali all’interno delle songs, drumming cangiante e variegato In trentanove minuti si compie l’epopea di questo album contorto ma intelligibile che necessita della giusta pazienza per essere assimilato e compreso, difficile da descrivere a parole per l’atmosfera particolare, quasi aliena per quei tempi ma non solo. Un parto unico di menti geniali che verrà ristampato dalla Svart Records nel gennaio 2014, per la celebrazione del ventennale con in aggiunta un secondo cd con tutti i demo precedenti a Nespithe e tre brani inediti.

Regurgitation of Blood – Demo 1991

The Four Instructive Tales …of Decomposition – Demo 1991

…Somewhere Inside the Bowels of Endlessness… – Demo 1992

The Echo – Demo 1992

Nespithe – Full-length 1993

20th Adversary of Emptiness – Compilation – 2014

Em9t2ness of Van2s1ing / V34ish6ng 0f Emptiness – Compilation – 2018
Line up
Mikko Virnes – Drums
Antti Boman – Guitars, Vocals
Aky Hitonen – Guitars
Jarkko Luomajoki – Bass

LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL – MADNESS OF SORROW

Grazie alla reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni domenica alle 21.30 su Witch Web Radio.
Questa volta è il turno di Muriel Saracino, leader dei Madness Of Sorrow.

Mirella Catena: Madness of Sorrow è un progetto del polistrumentista Muriel Saracino che quest’anno mette a segno la pubblicazione del nuovo album, il quinto della band. Su Overthewall abbiamo proprio lui, Muriel Saracino. Partiamo dagli inizi. Com’è nata l’idea dei Madness of Sorrow?

Muriel Saracino: I Madness of Sorrow sono un evoluzione più oscura e metal del mio precedente progetto Filthy Teens. Da adolescente mi preoccupavo di “piacere” ai metallari alternativi, con i Madness il percorso
è stato decisamente “senza compromessi”, diciamo.

MC Parliamo anche di chi fa parte di questo progetto musicale, siete in tre adesso. Come si è stabilizzata durante gli anni la line up?

MS Purtroppo non si e’ mai stabilizzata davvero, ma non per mio volere. I precedenti membri hanno avuto spostamenti per lavoro, problemi di salute o motivazione, ma non si sono mai allontanati per
litigi col sottoscritto. Spero prima o poi di averla davvero una line-up stabile.

MC Le tematiche horror sono una costante della band, oltre a chiari riferimenti contro la religione e i suoi abusi. Qual’è il messaggio che volete trasmettere a chi vi ascolta?

MS Senz’altro l’essere se stessi, condannare le imposizioni di coloro che si mostrano come puri ma che, in realtà, sono più marci di noi. Mi e’ stato chiesto se sono satanista, e la mia risposta e’ stata che, se si intende il satanismo come elevazione dell’IO senz’altro mi ci sento vicino, ma niente a che vedere invece con l’adorazione di qualcosa di ultraterreno.

MC Confessions From The Graveyard è appunto il quinto album della band accolto, come i precedenti, molto bene da pubblico e critica. Ti aspettavi un riscontro così positivo?

MS Stiamo continuando a ricevere apprezzamenti e mi fa davvero piacere; mai come in questo disco c’e’ tutta la mia persona, svelata nei dolori e nelle parti più recondite del subconscio. Non so se toccherò mai, o avrò voglia di toccare ancora punti più profondi.

MC Parliamo appunto dell’album: le tematiche stavolta sono incentrate sulla perdita e su come si reagisce alla mancanza di persone care. Un tema profondo e molto delicato…

MS Un tema vissuto in prima persona: ho perso mio padre due anni fa per cancro, e sono stato con lui negli ultimi giorni di vita. Casualmente, l’ordine delle canzoni riflette proprio il viaggio trascorso in quel periodo: si parte con la rabbia e la frustrazione per la notizia della malattia (The Exiled Man, The Art Of Suffering), allo sbandamento emotivo (Sanity, Reality Scares) alla disperazione (The Path) sino alla rassegnazione per la morte e il destino seguente (Creepy), dove accetto i peccati commessi senza pentirmene poi molto al momento.

MC L’album è stato pubblicato per la AD NOCTEM RECORDS che è la tua casa discografica. Ci parli anche di questa tua nuova attività?

MS Sono felice di aver intrapreso questo nuovo percorso: negli ultimi mesi sono stato al fianco di una realtà discografica assolutamente discontinua che sta raccogliendo ultimamente sempre più dissensi.
Ora posso mettere sul piatto la mia serietà, la mia quasi decennale esperienza nel mercato digitale e nella promozione al servizio di quegli artisti che vogliono affidarsi a qualcuno che creda veramente nella loro arte.

MC So che sei sempre in giro a promuovere il nuovo album. Hai delle date immediate da comunicarci?

MS Dopo Halloween con i bravissimi Sylpheed e la data del 16 novembre al Dedolor, saremo il 24 alle Officine Sonore. Dopodiché si sta lavorando al 2019 con qualcosina ancora sul suolo italico e anche all’estero.

MC Dove i nostri ascoltatori possono trovare tutte le info per seguire i Madness Of Sorrow?

MS Andando sul nostro sito www.madnessofsorrow.com potrete accedere ai nostri canali Facebook, YouTube, Instagram e Bandcamp

Dopo il 1977 – Il punk inglese anni Ottanta

Che il ’77 sia stato un anno cardine, un crocevia temporale imprescindibile, nessuno lo discute più o lo ha mai discusso.

Fu realmente l’anno zero del rock, non solo nel Regno Unito, che fu e il luogo e il motore della svolta e della rivolta (non solo artistico-canora). Correttamente, i giornali e la stampa dedicati alla musica sono soliti affermare che la linfa vitale del punk britannico primevo si esaurì in circa due anni scarsi, dalla nascita dei Sex Pistols nel 1976 (anche se i seminali Stranglers erano nati addirittura nel 1974) sino alla morte di Nancy Spugen e Sid Vicious all’inizio del 1978. Vero. Si dice giustamente che presto – dal 1978-79 in poi, per l’esattezza – vennero il post punk (PIL, Pop Group, Killing Joke, ed altri nomi storici) e la new wave (ramificatasi in fretta in tre filoni fondamentali: il synth-pop elettronico, inaugurato dai Tubeway Army di Gary Numan e dagli Ultravox; il dark, sorto grazie ai Cure; la neo-psichedelia di Liverpool). Vero, di nuovo. Altrettanto vero è che chi dal primo punk inglese veniva e rimase in circolazione, cambiò spesso genere nel nuovo decennio. Al riguardo si può ripensare alla bella e brava Siouxie, oppure ai mitici Damned, che flirtarono, dapprima, con l’eredità dei Doors (nel Black Album, del 1980) e in seguito con sonorità gotico-elettroniche pregne di atmosfere prog e tastieristiche (lo stupendo Phantasmagoria, 1985: un vero spartiacque). Anche i Clash di Joe Strummer e Mick Jones cercarono nuovi orizzonti, dopo London Calling (1979). Tanto il reggae quanto il funk andarono infatti ad innervare le trame sonore del complesso Sandinista nel 1980. Alla asciutta ed abrasiva essenzialità del punk i Clash ritornarono poi nel 1982, con il classico Combat Rock (un titolo, una garanzia). Il loro ultimo lavoro, il discusso ma fantastico Cut the Crap (1985) uscì in una Gran Bretagna raggelata dalla Tatcher e fu, comunque, una fotografia dello stato della nazione, a partire dal magnifico singolo This Is England, forte di cori da stadio, drum machine e sperimentazioni con il sintetizzatore ai limiti del dub e del rap newyorkese di allora.

Tuttavia – e non si tratta certo di sopravvivenze marginali, come anche la pubblicistica di settore ha, seppure tardivamente, riconosciuto – il punk non morì, né scomparve. Vi fu, in Gran Bretagna, chi continuò a suonarlo e, soprattutto, a credere nei suoi principi, incarnando il nichilismo, la ribellione sociale e il pessimismo in nuove forme, tutte comunque fedeli ai modelli originali e da esso derivate attraverso una filiazione cronologica e valoriale diretta. Anche quella inglese degli anni ’80, in altre parole, fu una generazione del No Future. Ripensiamo al tatcherismo, alle periferie londinesi (e non solo), alle condizioni di vita dei minatori ed in generale ai problemi lavorativi della low class, allo stesso fenomeno degli Hooligans contiguo allo street punk nonché a certe frange dell’estrema destra britannica (la mente va qui agli scontri tra gli ultras del West Ham e quelli del Millwall, immortalati splendidamente dal film intitolato appunto Hooligans, diretto nel Lexi Alexander da 2005).

Tra i gruppi che portarono lo spirito del punk – eccola l’espressione giusta – negli Eighties vi furono in primis gli appartenenti al movimento Oi! e si tratta di grandi band, senza discussioni. Impossibile non ricordare in questa sede i Chelsea, i Lurkers, i Blood, i Vice Squad, i Last Resort (veri leader della corrente skinhead, insieme ai più famosi 4 Skins), i Menace, i capostipiti Sham 69, i Ruts (in seguito collaboratori dell’americano Henry Rollins post Black Flag). Né si può dimenticare qui, poi, la scena di Sunderland, legatissima alla squadra di calcio: i Wall di Personal Troubles and Public Issues, i Red Alert (che misero lo stemma dei loro beniamini sulla copertina di Wearside), gli stessi Red London, che si esibivano sul palco con la maglia dei Black Cats. Esponenti di spicco del filone Oi!, anche i grandi Cocksparrer, importante punto di riferimento pure per il thrash metal europeo: la loro We’re Coming Back è stata superbamente coverizzata dai tedeschi Tankard nel loro Beast of Bourbon (2004). Da molteplici punti di vista, anche se di rado membri ed esponenti hanno voluto ammetterlo, l’Oi! ha ripreso, aggiornato, radicalizzato ed indurito il messaggio dei Mods inglesi più disincantati di metà anni Sessanta: all’alba di tutto, ancora una volta, ritroviamo così My Generation degli Who, autentica pietra miliare e punto di partenza irrinunciabile, anche per il discorso che, qui, si sta svolgendo.

Molte volte, in relazione al movimento Oi!, si è parlato di stretti legami con la destra radicale. Altre volte, la cosa è stata invece smentita. Una vexata quaestio, si potrebbe dire, che si trascina dal 1981-82 almeno. La verità è probabilmente nel mezzo. Gruppi fondamentali come gli Angelic Upstarts, effettivamente, furono socialisti (come idee politiche) e nazionalisti (per animo patriottico: si ascolti la loro stupenda ed emblematica ballata England), ma non nazisti. In altri casi – gli Skrewdriver di Ian Stewart, successivamente leader del National Front – i rapporti con il cosmo dell’estrema destra vi furono e anche alquanto forti. Altre volte ancora, come nel caso degli scozzesi Skids, il discorso fu assai più sfumato: il loro capolavoro Days in Europa (1980), prodotto nel 1979 da Bill Nelson, dei glamsters Be-Bop Deluxe, attinse sin dalla copertina all’iconografia dei Giochi Olimpici di Berlino del 1936. Il disco conteneva almeno due pezzi-simbolo: Working for the Yankee Dollars (un’invettiva dura ed esplicita contro il capitalismo statunitense) e Dulce et decorum est pro patria mori (un grande inno in effetti ultranazionalista). Una considerazione da fare riguardo agli Skrewdriver di Stewart: al di là delle posizioni ideologiche (furono, in effetti e dichiaratamente, neo-fascisti), la loro fu grande musica, che in un’Inghilterra e in un Europa che soltanto a parole amano dirsi democratiche, liberali, tolleranti ed aperte, non ha mai visto una ristampa ufficiale su compact per mero pregiudizio, benpensante e bigotto. Un’indecenza. Senza contare, inoltre, che diverse punk band giudicate magari a torto neo-naziste erano in realtà anarchiche di destra. Punto.

Visto che abbiamo parlato di Scozia, impossibile fare passare sotto silenzio gli Exploited, assieme agli UK Subs di Diminished Responsibility (1981, nella Top Twenty britannica) ed ai Disorder di Distortion to Deafness i veri creatori del punk-metal. Il gruppo di Wattie, forse la voce più sgraziata di sempre, ha scritto la storia con il manifesto Punk’s Not Dead (1981) ed ha poi saputo reinventarsi con il più cupo e sinistro Horror Epics (1985), sino a fondare di fatto il metal-core nel 1987 (anche se definizioni ed etichette sono arrivate dopo) con lo storico e magnifico Death Before Dishonour. Il titolo del come-back in studio degli scozzesi, nel 2002, è stato non a caso Fuck the System, il segno che lo spirito dell’82 vive ancora incessantemente, puro ed incontaminato. Affini allo street punk – sia pure molto meno estremi, rispetto agli Exploited – e prossimi all’Oi!, abbiamo, inoltre, i Blitz, i Total Chaos, i giustamente celebri Anti-Nowhere League ed in anni più recenti i Tempars, ultimi epigoni di una scena davvero gloriosa.
Gli Exploited sono altresì il trait-d’union fra street punk e anarco-punk. Di quest’ultimo genere sono assolutamente da ascoltare Icons of Filth, Exit-stance, Instigators, Conflict, Xpozez, Zounds e i Kronstadt Uprising, che presero il nome dall’insurrezione anti-sovietica di marinai e soldati russi nel 1921. Quasi tutti i lavori di queste band sono stati ristampati su CD – all’epoca incisero singoli e demo tapes, split e mini soprattutto – e si possono dunque recuperare oggi con relativa facilità.

Per ragioni lirico-tematiche, oltre che stilistiche e di approccio, l’anarco-punk è sfociato, presto, nel crust punk (da cui, con i Napalm Death, è nato il grind). Padrini del crust punk sono stati gli storici Discharge, nati proprio nel 1977 e quindi al momento dell’origine di tutto, autentico e solido anello di congiunzione tra il primissimo punk inglese e i suoi itinerari ottantiani. Il crust punk del gruppo – un modello per moltissimi colleghi, a partire dai Metallica – è un hardcore minimalista e metallico, screziato di speed-thrash a tratti rumoristico. Veri pionieri i Discharge, ispiratori dei Charged GBH di Birmingham (memorabile il loro periodo su Clay Records 1981-1984). Poi Antisect – costituitisi, nel 1982, a Daventry, nel Northamptonshire – Extreme Noise Terror (fondati da membri dei Chaos UK) del masterpiece A Holocaust in Your Head (1988) ed Amebix del capolavoro Arise (1985) han definito in forma compiuta le coordinate del crust punk, ponendo le basi per gli sviluppi successivi, ad opera delle singole scuole nazionali: finlandese (Impaled Nazarene, in un contesto black e grind), svedese (Driller Killer, Skitsystem e Wolf Brigade), americana (Disrupt e Nux Vomica), brasiliana (i leggendari antesignani Ratos de Porao) e giapponese (i blacksters Gallhammer).

Il crust punk, nel Regno Unito di fine anni Ottanta, si è fuso – una naturale evoluzione – con l’allora neonato crossover thrash. In merito, le band basilari sono state Cerebral Fix, Hellbastard, English Dogs ed Unseen Terror tra gli altri. A loro volta, questi ultimi appartengono altresì alla prima storia del grind albionico, raccontata nel documentario (su VHS) Punk As Fuck, per la visione del quale sono debitore all’amico ‘helvetiano’ Michele Massari. In quel filmato, amatoriale e casalingo, come del resto l’etica spartana del punk impone, sono ripresi dal vivo, tra gli altri, artisti quali i Joyce McKinney Experience, i melodici HDQ, i laceranti proto-grinders Heresy e Ripcord (tutte band riedite dalla Boss Tuneage) e i Doom (ristampati dalla Peaceville), così come i Deviated Instinct, i quali traghettarono il crust punk in direzione death metal, con il sette pollici Welcome to the Orgy (1987) ed i due LP seguenti (Rock ‘n Roll Conformity e Guttural Breath, rispettivamente del 1988 e del 1989). Sulla medesima falsariga, segnaliamo anche Concrete Sox e Sore Throat.
Oggi, riattingere all’universo del punk inglese anni ’80 è facilissimo e assai comodo grazie alle tante ristampe, molto ben curate, anche sotto il profilo grafico ed informativo, della Cherry Red (sovente in cofanetto) e della Westworld (Anti-Pasti, Business, Chaotic Dischord, The Dark, Infa Riot, Chron Gen, Outcasts, Toy Dolls e 999, i formidabili One Way System e gli storici Broken Bones). Buona caccia. Perché quel mondo merita, e non poco. Tra le sue canzoni, vi si legge – controluce – anche la storia della Gran Bretagna, in una decade difficile e controversa. Ed i più giovani lo tengano bene a mente: il vero punk non sono Green Day, Lagwagon e company.

6th Counted Murder + MAD-Collusion + She Is Not Katherina live @ The Old Jesse – Saronno – 30 Novembre

I 6th Counted Murder tornano all’Old Jesse per presentare il nuovo album in uscita a fine 2018 via Sliptrick Records, proponendo per la prima volta dal vivo tutte le 10 tracce che compongono il nuovo lavoro.
In apertura i MAD-Collusion e She Is Not Katherina scalderanno la sala con la loro energia dirompente!

Apertura Ore 21.00
Inizio concerti ore 22.30

INGRESSO GRATUITO

Evento: https://www.facebook.com/events/1882375288545131/

6th Counted Murder: https://www.facebook.com/6thcounted

MAD-Collusion:https://www.facebook.com/Madcollusion/

She Is Not Katherina: https://www.facebook.com/sheisnotkatherina/

The Old Jesse: https://www.facebook.com/THEOLDJESSE/

www.6thcountedmurder.com

Tales From the Thousand Lakes: prog rock e metal in Finlandia

La Finlandia, terra dai mille laghi, ha avuto ed ha una storia, culturale e musicale, tutta sua, in linea, del resto, con l’orgoglio nazionale che da sempre contraddistingue i Lapponi.

La attuale Repubblica finlandese fece parte del vicino Regno di Svezia, dal XII secolo sino al 1809, quando si trasformò in un Granducato indipendente all’interno dell’Impero russo (il nemico di sempre ad Est) e diventò uno Stato a partire dal 1917, quando i conservatori di Helsinki sconfissero i rossi filo-bolscevichi.
Anche in Finlandia, vi fu il Rinascimento. Nel corso del secolo XVI, durante la Riforma luterana, si distinse al riguardo la grande figura del vescovo protestante e padre della lingua finlandese Michele Agricola. Nel XVIII secolo, l’Illuminismo trovò un appassionato sostenitore in Anders Chydenius (1729-1803), tra i più autorevoli esponenti nord-europei delle arti – difese e il valore e l’importanza delle nuove tecniche moderne, in linea con l’Enciclopedia dei philosophes francesi – e fu seguace di vaglia del liberalismo settecentesco. Matematico, naturalista, medico-chimico, docente universitario a Uppsala, Chydenius si batté in difesa della tolleranza e della libertà di stampa (caratteristici valori dei Lumi europei), contribuendo a diffondere in Finlandia il pensiero scientifico di Newton, e quello politico-economico moderato dello scozzese Adam Smith.
Il padre della musica – lasciando da parte il tradizionale folk medievale, tutt’oggi coltivato, in modo interessante e con spirito patriottico – fu in Finlandia il grande Sibelius, un eroe nazionale per il suo popolo, capace di raccontare in un poema sinfonico intitolato alla sua terra l’oppressiva aggressione da parte dei russi ai confini orientali.
Il sinfonismo di Sibelius ha lasciato, anche nel rock e nel metal finlandesi, un segno incancellabile e profondo, rimasto indelebile nel tempo, e tuttora presente. Echi dell’approccio di Sibelius anche nel prog lappone anni ’70, con gli Haikara (molto influenzati dalla musica classica, con archi e fiati, a tratti quasi cameristici) ed i Wigwam (il maggior gruppo di rock sinfonico finlandese, collaboratore anche di Mike Oldfield). L’immenso chitarrista Jukka Tolonen (ex Tasavallan Presidentti), solista innamorato di Hendrix e Coltrane, è sulla scena addirittura dal 1969, tra blues, free, hard e folk. Tra Caravan e Focus, vanno rammentati i Finnforest (li ristampò la americana Laser’s Edge, negli anni ’90), mentre i Fantasia (1975) e i Nova (1976) aderirono invece a schemi fusion. Tanta psichedelia nei dischi di Nimbus e Jukka Hauru (ieri), Moon Frog Prophet e Groovector (oggi). Se i Giant Hogweed Orchestra si rifacevano, sfacciatamente, sin dal nome, ai Genesis era-Gabriel, gli Hoyry Kone optarono per scelte più dissonanti e avanguardistiche. I Piirpauke (1975) incisero un solo LP, omonimo, per la Love Records: un prodotto all’insegna di una world music etnica e ante litteram. In ambito di prog acustico, sono da segnalare pure Scapa Flow, Tabula Rasa, Uzva, Viima e XL. Ma il più grande gruppo finlandese anni Settanta furono i Kalevala, che prendevano il nome dal titolo del poema epico nazionale. Per loro – in tre dischi, pubblicati tra il 1972 e il 1977 – un fantasioso e ottimamente eseguito ibrido di hard prog e folk rock. I Jethro Tull di Finlandia, veramente.

La Finlandia ha prodotto molte band, pregevoli, quando non fondamentali, negli ambiti del melodic death e del folk metal spesso con ispirazione volutamente weird. I grandiosi Amorphis, in tal senso, sono solo la punta di un iceberg, che ha saputo guardare con frutto particolare alle sonorità locali.

Si spiega anche così la specifica identità di rock e metal, in Finlandia. Lo stesso discorso vale poi per i Korpiklaani nel campo del folk metal. Quest’ultimo genere, si sa, è strettamente collegato al Viking che, nella terra dei mille laghi, ha visto esprimersi, ed al meglio, gli Ensiferum (prodotti dal grande Fleming Rasmussen), i Finntroll, i Moonsorrow e i Turisas.

Il death melodico vanta, in Lapponia, forse i suoi migliori epigoni: Manifacturer’s Pride (prossimi al groove metal in più punti) e Mors Principium Est, mentre gli ormai famosi Children of Bodom sono partiti dal power black neo-classico dell’esordio di oltre vent’anni fa per approdare a un ottimo death ‘n’ roll. Più classicamente death metal, sono gli interessanti Gorephilia, mentre nel settore del funeral doom vanno menzionati senz’altro Thergothon e Skepticism.

Qualcuno forse ricorderà i finnici Decoryah, attivi negli anni Novanta, ed autori di tre dischi, rimasti molto importanti: progressive doom il primo, più sperimentale e crimsoniano il secondo, elettronico e oscuro il terzo ed ultimo. Una grande band, purtroppo scioltasi ed ingiustamente dimenticata. Nel dominio del gothic metal più classico (e spesso sinfonico), segnaliamo qui almeno i Sentenced (nati con il death primevo), i Poisonblack, in parte i Lullacry (maggiormente legati all’heavy classico), i fantastici Sonata Arctica e Apocalyptica, senza scordare naturalmente i popolarissimi Nightwish e Stratovarius (i campioni del pomp metal orchestrale).

Tra atmosfere gotiche, metal melodico e dark wave elettronica, si collocano altri gruppi, contigui tra loro, tra cui gli ottimi To Die For e Entwine, con inflessioni alla Depeche Mode. Partono invece da lidi dark per arrivare prepotentemente all’horror metal, i Lordi, gli alfieri di uno shock rock memore di quanto fatto da Alice Cooper a partire dagli anni Settanta a Detroit.
Come d’altra parte in tutta la Scandinavia, anche in Finlandia possiamo oggi trovare tutta una scena di notevole qualità in ambito street e sleaze metal. Sovente con un occhio di riguardo rivolto all’hard rock del passato, questi ultimi anni hanno consacrato i Reckless Love (i nuovi eroi dell’hair metal) e i Santa Cruz. Il modello rimangono naturalmente gli storici Hanoi Rocks di Michael Monroe (poi anche con i Demolition 23), un mito dell’hard-glam e non certo solo finlandese degli anni Ottanta. I favolosi 69 Eyes sono stati da parte loro protagonisti di un significativo passaggio da sonorità street a schemi gothic-glam di classe. Alla ricerca di una vena ancora più melodica e malinconica, si sono mossi gli HIM, padrini del cosiddetto love metal (un incrocio di neo-glam gotico e dark pop). Assai più rock, comunque moderni e molto accattivanti nel sound, i noti Rasmus.

Se l’industrial metal ha riscontrato, in Finlandia, il grande successo dei Ruoska (a tutti gli effetti, i Rammstein nordici), il crust punk ha goduto e gode ancora oggi di una scena sotterranea vivissima e assai florida, in continua espansione. I Terveet Kadet di Lapin Helvetti ne sono solo un esempio. Il crust, mixato con grindcore, speed metal, death and roll, e soprattutto black, ha visto ed ancora oggi vede primeggiare gli inossidabili Impaled Nazarene. Ultra-nazionalista, il gruppo di Mika Luttinen ha manifestato tutto il proprio orgoglio patriottico in canzoni indimenticabili e rappresentative come Total War Winter War (dal capolavoro Suomi Finland Perkele), dedicata alla resistenza finlandese – nella Guerra di Inverno del 1939-40 – contro l’invasore sovietico, e con ferocia persino maggiore in una canzone come la cruda e durissima Healers of the Red Plague (dal bellissimo Rapture, uno dei loro migliori lavori in assoluto).

Chiudiamo con lo speed e il thrash metal. I due gruppi di punta della scena sono adesso certamente i sensazionali Home Style Surgery (tra Dark Angel e Anthrax) ed i Ranger (molto alla Exciter). Ma va altresì ricordata la fondamentale scena underground sviluppatasi in Finlandia tra il 1987 e il 1991 con band quali Stone, Defier, Statue, Waltari, Protected Illusion, Warmath, Airdash, Charged, Dirty Damage, Die, Skeptical Schizo, Dethrone, Prestige e Necromancer, tra gli altri. Chi vuole scoprirli si può tuffare nella compilation Real Delusions, edita dalla Svart. Una meteora del techno-thrash sono stati inoltre i fenomenali ARG, attivi tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta. Li stampò l’attenta Black Mark dei Bathory. Chiusura con la scena black metal. Qui troneggiano gli IC Rex e i Clandestine Blaze (legati al movimento del NSBM), ma i nomi da fare sarebbero davvero tantissimi. Appuntamento, magari, ad una prossima puntata.

LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL – EVERSIN

Grazie alla reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni domenica alle 21.00 su Witch Web Radio.
Questa volta è il turno di una band già piuttosto nota come quella dei siciliani Eversin.

Mirella Catena – Gli Eversin si formano nel 2008 in Sicilia. Chi ha fondato la band e quali sono state le caratteristiche che vi hanno accomunato in questo progetto?

Ignazio Nicastro – Gli Eversin nascono verso la fine del 2008 da una idea mia, di Giangabriele Lo Pilato (chitarra) e di Angelo Ferrante (voce). Dopo aver provato diversi batteristi, nel 2013 a noi si è unito in pianta stabile Danilo Ficicchia. Le nostre radici, ciò che ci accomuna, sono saldamente ancorate al Thrash degli anni ’90 con qualche passaggio a Thrash degli anni ’80. E’ la musica che più sentiamo nostra, quella che ci ha spinto a suonare.

MC Vogliamo citare tutti i componenti degli Eversin?

IN Angelo Ferrante alla voce, Ignazio Nicastro al basso, Giangabriele Lo Pilato alla chitarra e Danilo Ficicchia alla batteria.

MC Quali sono state le tappe più importanti della band?

IN Sicuramente la pubblicazione di Trinity: the Annihilation, nostro terzo album. L’album ha portato alla luce in maniera netta e riconoscibile le principali caratteristiche del nostro songwriting cosa che solo parzialmente si era verificato su Tears on the Face of God del 2012. Grazie al successo enorme del disco abbiamo iniziato a calcare palchi internazionali, come il Rock Off ad Istanbul, il Rock Avaria in Germania e molti altri, suonando con mostri sacri come Maiden, Slayer, Megadeth e Destruction.

MC Voi avete condiviso il palco con gruppi di fama mondiale.

IN Come ti dicevo abbiamo avuto queste grandi opportunità grazie al successo di Trinity ma soprattutto grazie ad una persona che ha creduto in noi e che ci ha spinto in maniera assolutamente perfetta. Suonare di fronte a migliaia di persone, dividere il palco con dei mostri sacri e rapportarci con veri professionisti ci ha insegnato moltissimo e ci ha fatto crescere in maniera esponenziale.

MC Qual’è stata la band con cui vi siete trovati più in sintonia?

IN Praticamente tutte, ma ricordo con estremo piacere il rapporto di simpatia che si è creato con i Carcass.

MC Dopo tre full length arriva il vostro nuovo album Armageddon Genesi. Ci parli di questa nuova uscita discografica?

IN Sai, sarebbe stato facile fare un “Trinity parte 2”, non sarebbe stato affatto difficile riciclare qualche idea, invece abbiamo preso Trinity come un piccolo spunto per sviluppare Armageddon Genesi che, seppur presentando le caratteristiche che ci hanno reso un nome molto noto al mondo del Metal, è un disco molto diverso dal suo predecessore. I nuovi brani sono molto più articolati rispetto a quelli contenuti in Trinity, ma allo stesso tempo sono assolutamente violenti, quindi riconosco con piacere che siamo riusciti a creare un qualcosa di elaborato ma non per questo meno dirompente. Oltre che a livello compositivo e stilistico la vera differenza sta nel sound unico che caratterizza Armageddon Genesi. Le tracce che lo compongono sono molto oscure, violente e dannatamente pesanti quindi necessitavano di un sound sì grezzo e dirompente ma allo stesso tempo molto claustrofobico, cosa che mai prima d’ora eravamo riusciti a creare.

MC Come nasce un brano degli Eversin?

IN Scriviamo molto per conto nostro, registriamo le nostre idee e poi le studiamo assieme in sala prove. Le idee del singolo vengono comunque modificate più volte da tutta la band, infatti da sempre siamo soliti arrangiare i brani diverse volte fino a raggiungere la giusta formula. Per Armageddon Genesi il processo compositivo è stato più o meno lo stesso degli altri album, e come sempre non ci siamo fermati a pensare come avrebbe dovuto suonare il nuovo materiale, cosa di cui, in tutta sincerità non ce ne è mai importato nulla. Noi componiamo musica per noi stessi, perché amiamo farlo, perché ci fa star bene, se poi riusciamo a piacere che ben venga.

MC Cosa ne pensate delle organizzazioni dei live in Italia? Vista la vostra esperienza all’estero quali sono le differenze che avete riscontrato suonando nel nostro paese?

IN All’estero è tutta un’altra storia, ahimè. I gruppi vengono trattati benissimo, in maniera professionale e non si ha l’impressione che chi organizza un evento ti stia facendo suonare per farti un favore trattandoti a pesci in faccia. La scena italiana non è coesa, le band si fanno la guerra per nulla e nel 90% dei casi tutto si basa quasi interamente sulla politica del pay to play. E’ una scena che viene supportata solo a parole, da gente che quando va ai concerti snobba i gruppi italiani d’apertura guardando soltanto lo show degli headliner e che non perde occasione per parlar male di tutto e tutti. Ovviamente ci sono le dovute eccezioni, quei 3-4 fest gestiti da gente seria e professionale che si sbatte da mattina a sera per poter realizzare qualcosa di buono.

MC Sono previsti dei live per promuovere il nuovo album?

IN Sono già in programma altre date live per i primi mesi del 2019 e per la successiva estate che però, non essendo state ancora ufficialmente confermate da chi di dovere, non posso anticipare.

MC Quali sono i Vs contatti sul web per seguirvi?

IN Ci avvaliamo come tutti dei social, abbiamo la nostra pagina ufficiale su Facebook, su Istagram e su altri social. I nostri album sono su tutte le piattaforme digitali quindi non è assolutamente difficile entrare in contatto con il mondo Eversin .

Sperimentazioni newyorkesi: la storia dei Prong

Una delle band in assoluto più importanti e sottovalutate del post-metal, originali e innovativi, che senza rinunciare mai alle proprie radici ha saputo costruirsi in maniera coraggiosa un approccio a se stante nel panorama internazionale. Ancora oggi, a oramai oltre trent’anni dalla nascita, i Prong assomigliano solo a se stessi. Una cosa che oggi si può dire davvero di pochissimi artisti.

I newyorkesi Tommy Victor e Mike Kirkland, che lavorano ambedue al CBGB’s della Grande Mela, creano i Prong nel 1986 insieme al batterista Ted Parsons degli Swans. In quello stesso anno vede la luce il loro primo demo tape e nel 1987 pubblicano il mini Primitive Origins, un lavoro di hardcore-punk puro, che dice molto – anzi, moltissimo – circa le loro origini stilistiche e culturali.
Nel 1988, la Southern’s Studio licenzia il primo album dei Prong. Si tratta di Force Fed, che vede il retaggio hardcore del trio tingersi di sfumature avanguardistiche e sperimentali, con inserti massicci di crossover thrash (stile Anthrax, Corrosion of Conformity, Suicidal Tendencies, Cro-Mags e DRI), mentre i concerti europei del 1989 confermano la classe, non comune, dei tre musicisti. Sempre nel 1989, i Prong fanno uscire su singolo Third From the Sun, cover dello storico brano dei Chrome, la grande band californiana di space rock e post-punk elettronico, da loro sempre amatissima e fonte di ispirazione primaria.
Arriva finalmente la grande e meritata opportunità per una major. I Prong firmano infatti per la CBS e con l’ottima produzione di Mark Dodson (Metal Church, Ozzy Osbourne, tra gli altri) registrano il loro primo capolavoro, l’eccellente ed avventuoso Beg to Differ (1990). Si tratta di un disco, molto piacevole e sorprendente, che non perde un’oncia della carica propria del gruppo, rivelandosi, nello stesso tempo, assai ben costruito e ricco di cambi di tempo. Musicalmente, Beg to Differ si colloca fra techno-thrash e punk americano, con un lavoro sulle ritmiche che di fatto fonda il groove metal, con qualche anno di anticipo sulla nascita ‘ufficiale’ del genere. All’uscita del disco, accolto in modo positivo da critica e pubblica, segue una tournée europea di spalla ai Faith No More. Ritornati a NY subentra il nuovo bassista Troy Gregory, primo cambio di line-up nella storia della band.

Il quarto album dei Prong è sempre prodotto da Dodson e si intitola Prove You Wrong (1991). Qui il retaggio hardcore punk muove in una direzione industrial, accentuando il groove ed impartendo una lezione di cui faranno tesoro i Ministry e i White Zombie. In successione giungono poi due mini-LP – Whose Fist Is This Anyway (1992) e Snap Your Fingers (1993), il secondo un EP di remix – i quali reagiscono alla crisi innescatasi oramai nel movimento thrash indicando la via che i Prong da questo momento in avanti percorreranno, in maniera lucida e personale, creativa e mai banale.
Nel 1994, appare Cleansing, un favoloso concentrato di groove metal, industrial e hardcore punk. Il disco viene prodotto da Terry Date (Soundgarden, Chastain, Dream Theater, Dark Angel, Incubus, Unearth, Limp Bizkit, Deftones, Dredg, Staind). Un gran beneficio viene dal contributo del nuovo bassista, il grande Paul Raven dei Killing Joke, che si occupa di tastiere e programmazione e spinge per un sound più elettronico e futuristico, con influenze gothic-dark mutuate dai Christian Death. Il risultato è un nuovo capolavoro nella storia dei Prong, che consolidano il loro status nei concerti in giro per il mondo di quel medesimo anno, in compagnia di Sepultura, Pantera e Life of Agony.

Nel 1995, il gruppo di New York partecipa con il pezzo Corpus Delicti alla compilation Tonnage e l’anno successivo esce il nuovo capitolo in studio, Rude Awakening. Di fatto, terzo capolavoro della band, l’album è realizzato con Charlie Clouster, dei Nine Inch Nails ai synth e presenta sonorità che, senza minimamente accantonare groove ed hardcore punk, reggono superbamente il confronto con il noise degli Helmet. Il lavoro è promosso quindi da un nuovo tour, questa volta insieme ai Type O Negative del compianto Peter Steele, un altro figlio illustre della NY anni ’80.

Nel 1997, i Prong tornano alle origini e partecipano, con London Dungeon, a Violent World, tributo ai Misfits. Il gruppo entra, di fatto, in stand-by: Victor comincia a lavorare con Danzig e Parsons si trasferisce in Inghilterra, dove entra nei Godflesh del geniale sperimentatore Justin Broadrick. Ma la parola fine per i Prong non è affatto detta. Dopo una lunga pausa, nel 2002, esce infatti 100% Live, realizzato dal solo Victor con nuovi collaboratori.
Finalmente, nel 2003, troviamo nei negozi il nuovo lavoro in studio dei Prong, dopo sette anni. Si tratta di Scorpio Rising, che conferma l’oramai consolidata diade groove metal-hardcore punk e che aggiunge porzioni industrial questa volta molto più new wave che in passato. In diversi momenti, in effetti, possono venire in mente gli inglesi Throbbing Gristle. I Prong sono di nuovo in pista – vivi più che mai – e partecipano con il bel rifacimento di Enter Sandman a Metallic Attack, compilation-tributo ai Metallica, nel 2004.
Arriva anche il momento della celebrazione dal vivo e la band fa le cose in grande. Esce, infatti, un DVD, dal titolo The Vault (2005) con tre magnifici concerti interi – un’attestazione dell’energia che i Prong sprigionano sul palco – registrati per l’occasione ad Amsterdam, in Svezia e Germania.

Dopo una pausa di due anni, nel 2007, è quindi la volta di Power of the Demager. Un grandissimo disco, che ritorna al thrash di fine anni Ottanta e ne rivede la formula, con opportune intromissioni di tipo nu metal: in pratica l’eredità della Bay Area e della New York che fu viene riscritta tenendo conto di quanto vanno facendo nuove leve quali Machine Head e Korn. L’uso sapiente della tecnologia, poi, rammenta la cura dei suoni caratteristica di Fudge Tunnel e Static X.
Nel 2009 esce, un po’ inatteso, ma sempre interessantissimo, Power of the Damn Mixxxer, album di remix, per realizzare il quale vengono appositamente chiamati dai Prong i Dillinger Escape Plan (tra gli altri), campioni del nuovo math-core. Nel 2010, una nuova tournée mondiale, assieme stavolta ai Fear Factory. Arriviamo così al 2012, anno in cui esce Carved Into Stone, solidissimo come-back in cui il gruppo statunitense ribadisce il proprio approccio al groove metal, diversissimo – si badi bene – da quello di quasi tutte le altre band che aderiscono al genere, con un riffing granitico eppure assai vario e cangiante. Come del resto tutta la musica dei Prong.
Nel 2014 i Prong danno alle stampe altri due ottimi lavori, il live Unleashed in the West, registrato a Berlino, durante una serie di esibizioni europee con gli Overkill, e Ruining Lives, un altro fantastico mix di fantasioso ed obliquo techno-thrash con inflessioni groove metal. Ai Prong preme comunque sempre riannodare le fila con il passato e ricordare, a tutti, le proprie origini musicali, non senza un giusto orgoglio. Ecco così spiegato Songs From the Black Hole (2015), un album fatto di sole cover (Discharge, Sisters of Mercy, Adolescents, Black Flag, Killing Joke, Husker Du, Fugazi, Bad Brains più il Neil Young dell’indimenticabile Cortez the Killer). Punk, post-punk, hardcore, dark: queste le radici – non solo musicali, anche culturali – dei Prong e della scena newyorkese da cui provengono, la cosa va tenuta a mente. Come molti altri colleghi illustri della Grande Mela – in ambito thrash, crossover, groove, industrial – al metal i Prong ci sono arrivati, non ne sono partiti. E la base, pure in America, è stato neanche a dirlo il 1977, con tutto quello che è ne derivato. Aspetto su cui si deve sempre riflettere. Solo in tale maniera, si possono realmente capire ed apprezzare i Prong – i Killing Joke del metal, a tutti gli effetti – e di tanti altri acts che hanno fatto la Storia della nostra musica.

Gli ultimi due episodi in studio dei Prong, X-No Absolutes (2016) e Zero Days (2017), anche se, a parere di alcuni, non aggiungono più moltissimo alla loro entusiasmante parabola (ma non avrebbe, davvero, senso alcuno chiederlo o pretenderlo), ci restituiscono nondimeno tutta la grande maestria di chi ha saputo ogni volta reinventarsi con intelligenza e spirito di ricerca sonora, senza mai cedere a compromessi di sorta o logiche commerciali. Questi sono i Prong da New York City: un gruppo da sempre ‘avanti’.

Meteore: SKEPTIC SENSE

Gruppo di culto del techno-thrash tedesco, tra gli antesignani del prog metal più intricato e teatrale in più punti. Per quanti apprezzano Watchtower, Target, Psychotic Waltz e primissimi Sieges Even.

Pensiamo tutti sappiano cosa sia una meteora. Un corpo celeste che entrando nella nostra atmosfera si incendia a causa dell’attrito e con elevata velocità passa alla nostra vista seducendoci con la sua bellezza per poi scomparire. La meteora può passare accanto al nostro pianeta senza impattarlo mai, in alcuni casi può anche creare sconvolgimento e panico colpendolo. In senso musicale molte ne sono cadute ed a volte ancora ne cadono sul pentagramma della storia della musica. Questa rubrica vuole essere uno strumento astronomico in grado di individuarle e permetterci di analizzarle, catalogarle per capire se saranno in grado di colpirci oppure solamente sfiorarci per poi morire.

SKEPTIC SENSE

Tra le meteore del thrash più tecnologico, possiamo di certo annoverare i tedeschi Skeptic Sense. Il quintetto della Germania meridionale, con base a Meckenbeuren, nel Baden-Wurttemberg, si formò nel 1988, dalle ceneri degli Sluggard, e sin dai primi due demo, Demonstration (1990) ed Harmony of Souls (1991) mise in mostra uno stile complicatissimo, persino troppo, infarcito di tempi dispari e cambi di tempo repentini, sorretto da una tecnica a dir poco mostruosa (si ascolti al riguardo quanto fa la sezione ritmica, degna di certa fusion più rock). Gli Skeptic Sense realizzarono un solo disco, Presence of Mind, forte di otto brani, velocissimi e molto articolati, quasi senza pause. Il successo, tuttavia, non arrise loro e si sciolsero l’anno successivo. A nuocergli, furono certamente le difficoltà che la loro musica ispirava negli ascoltatori: troppo thrash per chi ascoltava il neonato metal prog e troppo progressivi per chi veniva dal thrash teutonico. Il triste destino dei pionieri che si muovono sul confine tra i generi, con intelligenza e preparazione. Un vero peccato, perché questa meteora – adesso ristampata su compact, assieme ai due nastri precedenti, dalla Divebomb (The Anthology è il titolo) – meritava un’altra e ben migliore sorte. Membri della band hanno poi militato, senza troppa fortuna, in poco note entità minori connazionali (Strike, Entente e Varix).

Tracklist
1- Structures of Interruptions
2- Harmony of Souls
3- Human Indulgence
4- Raped
5- Downfall
6- Norm Always Wins
7- Last Moments
8- Capital Punishment

Line up
Cornelius Halder – Vocals
Peter Sugg – Guitars
Stephen Thumm – Guitars
Joachim Klinkosch – Drums
Jurgen Knorble – Bass

LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL – THIS VOID INSIDE

Grazie alla reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni domenica alle 21.00 su Witch Web Radio.
Questa volta tocca ai romani This Void Inside.

MC Stasera ospiti i This Void Inside: con noi il portavoce della band, il chitarrista Frank Marrelli.
Partiamo dalla genesi della band. Vi formate nel 2003. Avete iniziato immediatamente a comporre musica originale? Quali sono le vostre precedenti esperienze nellla sfera underground?

FM Sostanzialmente Dave, che cantava nei My Sixth Shadow, ha fondato inizialmente i This Void Inside come un solo project; nel corso degli anni questo progetto si è trasformato in una vera e propria band che nel 2008 ha pubblicato il suo primo album Dust. Della formazione di quel periodo sono rimasti solo Dave e Saji (la bassista); dopo un lungo silenzio Dave ha arruolato me e Alberto alle chitarre e Simone alla batteria e abbiamo pubblicato il nuovo album, My Second Birth/My Only Death, tramite Agoge Records. Tutti noi avevamo esperienze nell’underground in ambiti legati al rock o al metal, ma sarebbe lungo elencarle tutte.

MC Il vostro genere musicale è stato definito gothic rock: ci sono band a cui fate riferimento, rappresentando per voi dei punti fermi?

FM Il compositore della band è Dave, sia a livello di testi che di musica, e posso dirti che ascolta veramente tanti gruppi diversi, da Bon Jovi ai Cradle Of Filth, passando per gli Him e i Depeche Mode, quindi penso che abbia condensato tutte le sue influenze in uno stile personale che poi per qualche motivo suona abbastanza gothic. Attualmente, forse, quello che ascolta più dark wave o gothic in senso stretto sono forse io, ma sostanzialmente tendo a contribuire a livello compositivo più in sede di arrangiamento.

MC Siete già al vostro secondo album: My Second Birth/My Only Death è uscito in digitale a luglio, e a settembre ha raggiunto il 36° posto nella chart italiana di alternative rock su iTunes.
A breve uscirà in formato fisico per la Agoge Records. Ci parlate di questo disco?

FM My Second Birth.. è stato un disco dalla lunga genesi e piuttosto lungo come durata, essendo composto da ben quattordici brani. Dave è uno scrittore molto prolifico, quindi il lavoro più duro è stato scegliere tra oltre quaranta brani per i quali aveva fatto delle demo. A termine delle registrazioni il lavoro ha subito diversi processi di missaggio e mastering. Ritengo sia un disco molto valido, soprattutto nella misura in cui credo che sia fruibile e apprezzabile anche da ascoltatori non avvezzi necessariamente all’ascolto del gothic rock o del gothic metal. Benché mantenga uno stile riconoscibile, My Second Birth… contiene diverse sfaccettature che di volta in volta possono strizzare l’occhio anche al pop e a situazioni più commerciali.

MC Com’è nata l’attuale collaborazione con la Agoge Records?

FM Avevo conosciuto Gianmarco Bellumori (il boss dell’ Agoge Records) tramite alcuni gruppi con i quali aveva lavorato in passato: a seguito di uno scambio di mail e di chiacchiere via telefono si è dimostrato interessato alla band, noi da parte nostra lo abbiamo trovato una persona ottima sia dal punto di vista professionale che umano, quindi eccoci qua.

MC Soprattutto in Italia, ci sono molte difficoltà per le le band underground ed è molto difficile affermarsi. Ci sono stati momenti che vi hanno messo a dura prova e come li avete superati? Che cosa consigliereste alle band che cercano di farsi spazio in questo panorama musicale?

FM Non ho grandi consigli, i problemi ci sono, ci sono stati e probabilmente ci saranno. Personalmente non li abbiamo superati, ma tendo a non lamentarmi in pubblico, potrei raccontare al riguardo talmente tante storie che finirei tra un anno, quindi diciamo che in maniera molto signorile preferisco tacere. Quello che posso dire o consigliare, per quel che vale, è di non accettare qualsiasi tipo di situazione pur di suonare, soprattutto dal vivo. Ritengo che una volta che inizi a suonare a qualsiasi condizione poi sia difficile tornare indietro.

MC Si parla spesso di supporto e molto di questo sostegno è dato dai fans. Che rapporto avete con il pubblico che vi segue?

FM Per fortuna abbiamo dei fans piuttosto affezionati che ci scrivono costantemente, principalmente dall’estero. Da parte nostra cerchiamo di essere sempre disponibili.

MC Quali sono i vostri progetti futuri?

FM Dovremmo partecipare ad una compilation allegata ad un libro sui Kiss di prossima pubblicazione e, a breve, registreremo anche un nuovo singolo principalmente destinato alle radio, anche questa sarà una cover della quale per ora non stiamo dando ulteriori dettagli. Io, personalmente, di recente ho collaborato alla colonna sonora di Go Home – A Casa Loro, un film horror in concorso alla Festa del Cinema di Roma, dove anche Saji recita in una piccola parte.

MC Sono previsti dei live per supportare il nuovo album? Avete delle date da riferire ai nostri ascoltatori?

FM Stiamo valutando alcune opzioni, ma come dicevo sopra, vista la nostra tendenza a non suonare ad alcune condizioni non posso darti purtroppo ulteriori dettagli.

MC Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi?

FM La maniera migliore per restare in contatto con noi è seguirci su Facebook o, in alternativa sul nostro sito, che per ovvi motivi però è meno tempestivo di FB nel comunicare eventuali novità, e su Instagram.

Infernal Forces Festival – Live Music Club 27/10/8

Il report della prima edizione dell’Infernal Forces, festival dedicato appositamente all’estremo tenutosi sabato 27 ottobre 2018 a Trezzo sull’Adda, nella bellissima e collaudata location del Live Club.

Sabato 27 ottobre 2018, a Trezzo sull’Adda, nella bellissima e collaudata location del Live Club, si è svolta la prima edizione dell’Infernal Forces, festival dedicato appositamente all’estremo. I cancelli sono stati aperti poco dopo le due.

Ricchissimo il merchandising presente e nutritissimo, e di elevata qualità, l’elenco delle otto band che hanno reso indimenticabile la giornata e la serata. Fuori la pioggia incessante, dentro la grande musica.
I primi a salire sul palco sono stati i tedeschi The Spirit, ottimo gruppo di black-death, volutamente scelto dai co-headliners Hypocrisy e Kataklysm per la tournée. Il combo germanico, con all’attivo il validissimo esordio Sounds From the Vortex su Nuclear Blast, non ha purtroppo avuto quel pubblico che avrebbe meritato (alle 14,30 la platea era ancora da riempire), ma ha eseguito una performance impeccabile e molto professionale, con una scelta di brani dal debutto eseguiti con una sicurezza già alquanto pronunciata, che fa ben sperare in vista di quello che poi sarà – ci auguriamo presto – il secondo lavoro.

Una breve pausa – come anche in seguito, ovviamente, tra un act e l’altro – e si sono presentati gli storici Distruzione. Vera grande cult-band (sono nati nel 1990), seguitissima da uno zoccolo duro di fans scatenati, gli emiliani hanno sfoderato una prestazione decisamente muscolare, con una scelta di pezzi da pressoché tutti i loro lavori, primariamente dallo storico Endogena (1996) e dall’ultimo e notevole disco omonimo. Dal vivo, il loro thrash-death ha rivelato tutta la propria attitudine di tipo hardcore-punk, in stile Sepultura-Cavalera Conspiracy, come a volerci ricordare che l’extreme metal non è nato per fare atmosfera, ma per portare a grande velocità violenza, morte – casino, ha voluto, coerentemente, rammentare il singer – e appunto distruzione. Un set davvero incandescente, caldo e rumoroso.

Gli Antropofagus si sono confermati una stella di prima grandezza del nostro panorama musicale. I musicisti liguri hanno oramai compiuto – e la loro esibizione ne è stata una brillante conferma – la transizione definitiva dal death-grind a tinte gore dei primi anni (ne hanno ben 21 sulle spalle) ad un brutal efficacissimo e chirurgico, velocissimo e marziale, supportato da una una tecnica veramente fuori dal comune, in linea con le nuove leve del genere pubblicate in America da Unique Leader. Se fossero statunitensi, avrebbero probabilmente altri riconoscimenti.

Altro cambio di scena, altra grande band italiana: i romani Hour of Penance. Autori di svariati ed eccellenti dischi – fenomenali gli ultimi due, Cast the First Stone e Regicide – i laziali hanno sfoderato una prestazione davvero maiuscola, tutta all’insegna d’un brutal death tecnico ed eseguito in maniera formidabile. Anche per loro si può giustamente parlare di una caratura artistica a tutti gli effetti internazionale, come il set ha attestato in maniera inequivocabile e ammirevole.

La seconda parte della giornata – intanto, fuori si è fatta sera – si è aperta cogli Enthroned. I belgi hanno confermato tutto il proprio valore. Lo storico (attivo da un quarto di secolo) quintetto di Bruxelles è stato il primo gruppo di puro black metal della giornata ad esibirsi e non ha certo deluso le aspettative (anzi), con una performance maligna e cattivissima che ha rinunciato del tutto alle aperture sinfoniche, per abbeverarsi alla fonte del BM primigenio di scuola nordeuropea, freddo ed evocativo.

A ruota sono venuti gli Impaled Nazarene, grandiosi e pieni di energia. Unici al mondo nella loro originale e personalissima commistione di black metal, crust punk e grindcore, sempre orgogliosi di essere finlandesi, hanno eseguito per intero il loro capolavoro Suomi Finland Perkele con una carica a dir poco impressionante, non senza divertirsi e divertire il pubblico, oltre a una scelta di altri loro brani storici (ricordiamoci che sono in pista da oltre ventotto anni, sempre coerenti con sé stessi). Il loro è stato un set di grind-metal alla velocità della luce, tra provocazione e squarci melodici con un sostrato punkeggiante che dal vivo emerge e si fa strada prepotentemente, molto più che in studio e con un impatto granitico. Mika Luttinen, neanche a dirlo, si è dimostrato ancora una volta frontman incredibile. L’Udo Dirckschneider dell’estremo. E gli Impaled Nazarene hanno lasciato intendere, tra le loro note, di essere stati – forse inconsapevolmente, ma le etichette sono del resto venute dopo – i padri fondatori di ciò che oggi si chiama war metal. Questo dicono in fondo i loro show.

L’emozione di assistere allo show di Mr. Tägtgren, la voglia di poter presenziare all’esibizione degli Hypocrisy ci conduce intanto quasi alla pazzia; la spasmodica attesa di veder ascendere (perché Loro non salgono sui palchi, ascendono) la band di Peter e soci provoca tachicardia e fibrillazioni…
Ore 22.10: avviene il miracolo. Salgono sul palco, scatenando applausi, esaltanti cori, scene di delirio di massa e ogni qualsivoglia sorta di solenne celebrazione, i Signori del Death Svedese.
La presenza scenica è all’altezza: i nostri irrompono nel nostro campo visivo, attraverso l’arte comunicativa di un vero showman, quale è Tägtgren. Gesti e movenze ci appaiono come pura estensione spontanea della voce e degli strumenti. Un suono pulito, terso come una fresca, limpida giornata primaverile. La potenza e la ferocia compositiva espressa dai nostri, saggiamente guidate da un ingegno musicale non comune, raggiunge apici stratosferici. Competenze strumentali, interpersonali e sistemiche, tra cui la grande abilità di dialogare col pubblico, non solo grazie alla voce, ma anche a gesti, posa e movimento, trasformano un semplice show in un affresco sociale della scena Death moderna, dove attori e spettatori agiscono univocamente, quasi fossero un’entità singola e non – come, spessissimo, accade – i differenti astanti di un evento musicale. La scelta di uno show Best of, cuore pulsante dell’attuale Death… is just the beginning tour 2018 (in onore della famosissima serie di compilation della Nuclear Blast, a cui i Nostri hanno sempre aderito, sin dal Volume II), sicuramente determinata dalla mancanza di un nuovo album, non ha fatto che enfatizzare il legame tra gli Hypocrysy e i loro fan, enunciando pubblicamente l’amore reciproco. Trenta anni esatti di carriera (ricordiamo che i nostri nacquero nel 1988 come Seditious, solo project di Peter), sciorinati con sapiente cura dei dettagli, in poco più di un’ora di musica (da Penetralia sino ad Osculum Obscenum, da Abducted a Virus e a Catch 22, e così via) ci hanno donato ricordi memorabili e scaldato i nostri cuori, nella spasmodica attesa del nuovo album, promesso (e quindi segnato col sangue), recentemente dallo stesso Tägtgren.

Esaltante chiusura in bellezza con i canadesi Kataklysm, forti del loro ultimo lavoro, Meditations – dal quale sono state estratte molte songs, con, in più, i classici del repertorio – e gruppo di assoluta prima classe, esaltante e grandioso, nella sua capacità (più unica che rara) di unire brutal americano (e in effetti la performance è stata realmente devastante, oltre che tecnicamente ineccepibile) e il più melodico death di matrice svedese. Il cantante, originario del nostro paese, non ha mancato mai di esprimere tutto il suo sincero amore per la nostra terra, alla quale è sentimentalmente legato dall’età di sedici anni. Per tutta la durata dell’esibizione – che i collaboratori presenti di MetalEyes hanno potuto comodamente seguire, ospiti allo stand dei gentilissimi ragazzi della Punishment 18 Records – si è rivolto in italiano al pubblico, coinvolgendolo e mostrando una naturale carica di simpatia. La sua frase finale – “noi siamo insieme in un mondo solo nostro, che nessuno ci può toccare” – resta il suggello, non solamente del concerto dei Kataklysm e di un indimenticabile evento, ma di tutto un movimento musicale. Perché la musica è la colonna sonora della nostra vita.

Dazagthot – Michele Massari

METEORE: PHLEGETON

Precursori della attuale scena finnica, i Phlegeton sono da riscoprire per godere appieno della loro grande capacità compositiva e delle loro ammorbanti atmosfere.

Penso tutti sappiano cosa sia una meteora. Un corpo celeste che entrando nella nostra atmosfera si incendia a causa dell’attrito e con elevata velocità passa alla nostra vista seducendoci con la sua bellezza per poi scomparire. La meteora può passare accanto al nostro pianeta senza impattarlo mai, in alcuni casi può anche creare sconvolgimento e panico colpendolo. In senso musicale molte ne sono cadute ed a volte ancora ne cadono sul pentagramma della storia della musica. Questa rubrica vuole essere uno strumento astronomico in grado di individuarle e permetterci di analizzarle, catalogarle per capire se saranno in grado di colpirci oppure solamente sfiorarci per poi morire.

PHLEGETON

Da considerare come pioniera della scena finnica, la band proveniente da Joensu (FIN) è ancora “on hold”, ma è stata veramente attiva dal 1989 con una serie di demo, un EP (Fresco Lungs, 1991) e uno split con Tormentor, Atrocious, Funebre sempre dello stesso anno. Preso il nome da uno dei cinque fiumi infernali qu,esti artisti hanno inglobato nel loro sound nobili derive death (Morbid Angel, Death), influenze thrash e techno thrash (Slayer, Pestilence) e un gusto melodico “weird” per un risultato che ai tempi dimostrò personalità e assoluta qualità con brani medio lunghi dallo sviluppo cangiante e con un grande suono di chitarra. Di assoluto interesse la compilation doppia Drifting from the crypt edita nel 2010 dalla etichetta Xtreem, contenente ogni nota registrata dalla band. Togliamo la polvere da questa gemma perduta ricordando anche che il loro leader Lasse Pyykko oggi suona con gli Hooded Menace, nome di punta del panorama doom death europeo.

Discografia
– Fresco Lungs (1991) mini
– Split (1991) with Tormentor / Atrocious / Funebre
– Drifting From the Crypt (2010) collection

https://www.youtube.com/watch?v=7va9PRZYbsU

In Britain: i Napalm Death dal crust punk al death-grind

1. Un anno basilare il 1977. Il rock, come sempre voce del disagio giovanile, riesce ad oltrepassare i limiti di una lettura razionale ed a cogliere tutto il lato simbolico ed emotivo di questo disagio, trasformandolo in ribellione. Dall’Inghilterra, arriva l’urlo nichilistico dei Sex Pistols, No Future. In Italia i centri sociali lo amplificheranno in tutta la sua potenza anarcoide. Band come Clash, Carcass e gli oscuri Cure daranno vita ad una scena musicale capace di evolversi, in seguito, in altre forme più estreme (crust punk, hardcore, grind, thrash e death), come qui di seguito andremo a analizzare.

2. Dici Grindcore e pensi ai Napalm Death. Descrivere questo genere, senza citarne i veri padri fondatori, sarebbe come parlare del Futurismo dimenticandoci del Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti. Quando un genere musicale nasce, notoriamente possiede più padri (ed un’unica madre, ossia la passione per la musica stessa). Pensiamo al thrash o al death e ci vengono in mente almeno dieci band genitoriali (e tre o quattro nazioni). Il caso del Grindcore è forse più unico che raro. Esso possiede un’identità ben definita, un’unica terra Natale (l’Inghilterra) e un solo ed unico padre. Per riprendere il paragone con il Manifesto del poeta, scrittore e drammaturgo italiano, non possiamo esimerci dal citare almeno i primi due punti essenziali del testo che paiono scritti ad emblema del messaggio che i Nostri, esattamente settantadue anni dopo, hanno voluto lasciare ai posteri: a) noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità; b) il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
Vogliamo parlare del coraggio, dell’amor del pericolo, dell’audacia e dell’abitudine all’energia, di questi ragazzacci di Birmingham, che agli albori degli anni ’80 (a quei tempi si facevano chiamare Civil Defence), si permisero di proporre un genere assolutamente in contro-tendenza con i canoni fondamentali della musica (almeno quella di allora)? Nel 1981, per estremo si intendeva al massimo Welcome to Hell dei Venom (Reign in Blood uscì solo nel 1986 e i Death, così come i Bathory, uscirono solo nel 1984, e comunque sempre uno step indietro – in termini di violenza sonora – da quanto proposto dal combo inglese). Certo, ai tempi di demo come Halloween e And, Like Sheep, We Have All Gone Astray (i primi due, usciti nel lontano 1982) c’era ancora tanto Punk e Hardcore. Comprensibile! D’altronde, l’allora terzetto di Birmingham (Nic Bullen alla voce, Miles Ratledge alla batteria e Daryll Fideski alle chitarre, poi divenuto quartetto con l’ingresso di Finbar Quinn al basso) arrivava direttamente dagli sconquassi social-musicali della stravolgente scena punk inglese. Ma già a quei tempi preistorici, si intravvedeva una ricerca di un’energia al di là di quanto espresso dalla scena di allora. Un’estenuante necessità di correre alla velocità della luce, quasi a fuggire dalle meschinità della società post anni ‘70 (almeno nella visione punk del periodo) o a corrergli contro, urlando il proprio disprezzo. E forse, ad un certo punto, si accorsero che il nome di Civil Defence fosse troppo ‘leggero’. Ci voleva qualcosa di potente e distruttivo, che ardesse tutto e tutti, e che emanasse forte odore di bruciato: Napalm Death, appunto! Ma, tutto ciò, non rappresentava che l’inizio; il progetto era ancora grezzo, indefinito; un diamante sì bello, ma ancora finemente da tagliare.
Nel 1985 – la leggenda racconta – in un negozio di dischi di Birmingham, Nic Bullen incontra un giovanissimo chitarrista – Justin Broadrick – che si unisce al gruppo. E’ un momento decisivo per la band (onestamente nella loro storia, di circostanze determinanti per i loro cambiamenti, ce ne sono state poi parecchie). Esce Hatred Surge, il demo tape che abbandona, quasi definitivamente, ogni collegamento col passato: non più anarcho-punk o crust punk, non più Amebix o Crass. Un suono nuovo, devastante, mai ascoltato prima di allora. Per inciso, la chiave del loro successo, probabilmente fu proprio la demo del 1985. E’ con questa uscita, infatti, che scandalizzati critici musicali iniziarono ad appioppare alla musica dei ND, il sostantivo di ‘rumore’; pensando di cucinare per bene questi “presunti musicisti da quattro soldi”, stroncandoli con piogge di critiche, spesso mai troppo benevole, finirono – a loro insaputa – per farne la loro fortuna.
Ma fu l’arrivo di Mick (Harris) a fa virare i Napalm Death verso lidi molto più caotici, assordanti, passando attraverso velocità mai sperimentate, prima di allora. Sostituendo Ratledge alle pelli (mentre Bullen divenne anche bassista, sostituendo Shaw, che a sua volta aveva sostituito il primo Quinn), rielaborò quasi tutti i pezzi sino ad allora composti, riducendone drasticamente le durate, ri-arrangiando il sound, rendendolo molto più brutale e più veloce. Con questi presupposti si arrivò all’incisione di due demo: From Ensalvement to Obliteration e Scum, poi divenuti i celeberrimi omonimi album (con alcune eccezioni, nelle rispettive track list), e fiori all’occhiello della storia musicale dei Nostri.
Ma è il 1987 che consacra il combo a vera icona dell’estremo. Oramai diciamo che si era già sparsa la voce e, grazie anche al tape-trading, i Napalm Death incominciavano a farsi conoscere, anche nella scena d’oltre oceano. Iniziarono a condividere idee e pensieri con band (allora nascenti) del calibro di Heresy , Unseen Terror, Extreme Noise Terror e Ripcord (tutti loro connazionali) e ancora Siege, Macabre, Cryptic Slaughter, Repulsion (USA). La fama giunse alle orecchie di un certo Digby Pearson, proprietario dell’allora minuscola etichetta Earache. Pearson ne vide le potenzialità (e sicuramente la possibilità di rendere famosa la propria etichetta) e li mise sotto contratto; uscì quindi Scum. Le novità rispetto alla precedente formazione furono: al basso un allora sconosciuto Jim Whitely (divenuto poi front-man di famosissime band, con diversi pseudonimi come ‘Jimbo’ e ‘Big Jim Grinder’, quali Extinction of Mankind, Prophecy of Doom, Filthkick, Doom e Ripcord), e alla chitarra un certo Bill Steer (Carcass) e uno sconosciutissimo Lee Dorrian (anche se molte track erano allora ancora cantate da Bullen).
Se Scum, lo possiamo affermare con certezza, rappresentò il primo vero album di Grindcore (l’album che sconvolse le masse, con accelerazioni spaventose, sonorità più affini ai rumorismi sperimentali di storiche band quali i Throbbing Gristle e gli Swans, vocalizzi più simili a schizoidi gorgoglii di un lavandino, tracce di una brevità sconcertante – You Suffer tocca l’apice, con il suoi eterni 00:01 secondi…), From Enslavement To Obliteration (uscito l’anno dopo) ne rappresentò il vero Manifesto Futurista. Qui troviamo una formazione che si consolida nella storia, e che rimarrà, negli anni a venire, nei cuori di tutti i ‘grinders’ più nostalgici e malinconici. Chi può affermare di non aver amato Lee Dorrian alla voce (cupissimi growls e schizoidi urli che hanno tracciato le linee guida del genere), Bill Steer alla chitarra (un favoloso chitarrista, divenuto, poi, un’icona con i suoi Carcass), Shane Embury al basso (anche lui un prime-mover, con i suoi Unseen Terror, poi successivamente leader incontrastato di Brujeria e Lock Up, per citarne qui solo alcuni), ed infine, ovviamente l’anima e core della band, Mr. Mick Harris alla batteria?
Il seguito, tra centinaia di concerti, alcuni split (tra cui quello famosissimo con i giapponesi S.O.B.) e una seconda edizione delle celebri Peel Sessions (la prima è datata 1987), ci porta ad un fatidico agosto del 1989, che vede l’uscita di un mini, non capito da molti fan, Mentally Murdered. Anzi, ad onore del vero, considerato da alcuni un vero e proprio tradimento. Un mini lp di 4 canzoni… della durata totale di 15 minuti e mezzo! Signori, il Grindcore – per come era stato inteso, sino a quel momento – venne considerato definitivamente defunto… o almeno defunta era la fase Grindcore dei Nostri. Sonorità estreme si, ma molta più ricerca e tecnica compositiva, sounds spesso accostabili al death (oramai divenuto l’estremo più ascoltato di quegli anni), cancellarono ogni parvenza musicale riconducibile al primo Grindcore, all’Hardcore, al Crust Punk.
Forse per questa ragione (e forse per svariate altre: Bill Steer lasciò, per esempio, la band solo per dedicarsi completamente ai suoi Carcass, che divenivano, ogni giorno di più, leader incontrastati del Goregrind), la formazione cambiò. Entrarono, alle chitarre, Mitch Harris (già leader dei grinders Righteous Pigs) e il compianto Jesse Pintado (come non ricordare i Terrorizer di World Downfall?); ma soprattutto, Lee Dorrian (che fondò, a quel tempo, i doomsters Cathedral), fu sostituito da un allora giovanissimo (ma già divenuto famoso per i suoi Benediction) Mark “Barney” Greenway.

3. Trovata la stabilità cercata, i Napalm decisero, assecondando anche la passione mai sopita e mai nascosta di Embury e del chitarrista Harris, di rendere più pesante il loro suono, non svoltando completamente verso il death ma incorporandolo in modo naturale nel loro sound. Affidandosi alle sapienti mani di Scott Burns, ai tempi il re Mida del death, andarono ai famosi Morrisound Studios, un passaggio obbligato per ogni gruppo dedito a queste sonorità. Il risultato, nel 1990, fu Harmony Corruption, che sconvolse il popolo Grindcore, non pronto a una svolta così decisa da parte dei loro beniamini; non tutto, ma molto death si trova nei solchi di quest’opera, che esce nello stesso anno (1990), di Left Hand Path degli Entombed, non sfigurando, ma neanche centrando completamente il bersaglio; la produzione, nonostante Burns, non è ancora perfettamente calibrata, con le due chitarre un po’ schiacciate dal suono della batteria, ma brani come Suffer the children e It the truth be known dimostrano, ampiamente, che la convinzione è notevole e che la strada si deve percorrere. Mick Harris, guru e prime mover del Grindcore, lascia la band, forse non convinto completamente della direzione intrapresa e viene prontamente sostituito da Danny Herrera. Così la band instancabile nel 1992 propone Utopia Banished, maturando ulteriormente quella fusione tra grind, (crust) punk e death. Pintado sforna riff memorabili ed il sound è selvaggio, violento e in alcune parti decisamente anche tecnico. Christening of the Blind e Aryanism sono autentiche mazzate in faccia, sorrette dalle vocals di Barney, incisive e pronte a declamare testi mai banali, improntati sul sociale e sulla degradazione umana. La tesissima e claustrofobica Contemptuous dimostra che la band ha anche altre frecce da scoccare nella sua faretra. Incredibilmente, la band non ha variazioni di formazione e prosegue lo sviluppo del suo suono proponendo nel 1994 Fear, Emptiness, Despair, forse l’apice da quando hanno ‘osato’ abbandonare il puro grind; i cinque musicisti, in grande spolvero, ci donano undici brani cattivi, strutturati con grandi riff, semplici e travolgenti, accostati a suoni dissonanti, generando un’atmosfera devastante ed allo stesso tempo claustrofobica (State of Mind); la ferocia hardcore rimane immutata, ma è innestata in una materia cangiante e assolutamente ispirata. Scena musicale in continuo movimento negli anni ’90 ed i Napalm Death forse si fanno prendere troppo la mano; in perenne movimento in sede live, dal punto di vista discografico, nel 1995 (Greed Killing, un EP) e nel 1996 (Diatribes), danno alle stampe due dischi non perfettamente centrati: vogliono incorporare nel loro sound parti di groove metal, tracce industrial, nu metal ed il risultato non da i frutti sperati. Intendiamoci, se si togliesse il monicker Napalm Death sarebbero due buoni dischi, ma chi ha fatto la storia non può permetterselo; il sound sembra stratificato su diversi piani, con la voce di Barney troppo pesante per la struttura dei brani, che oltrettutto sono a volte poco ispirati per la presenza di troppi ingredienti forse mal pesati. Sono quasi irriconoscibili i ND, mancando la ferocia e la cattiveria a cui ci hanno abituati; riescono raramente ad accendere l’interesse (Cold forgiveness), senza però riuscire a mantenerlo alto. Due dischi che chiaramente divisero la critica e il pubblico, che apprezzò molto relativamente la loro scelta; invito il lettore a mettere nel lettore cd in successione Fear e Diatribes per capire la differenze di suono ed emozionali che ne derivano. I Napalm Death hanno però troppo credito, hanno fattto la storia e non si può credere che possano aver imboccato una strada che non li rappresenti, è giusto guardare al futuro, trarre ispirazione per produrre arte sempre nuova e coinvolgente; sono transitati dal grind al death, con buona naturalezza e hanno rilasciato opere fondamentali, ma forse ora hanno bisogno di correggere la rotta. A distanza di solo un anno, nel 1997 esce Inside the torn apart che inizia a riportare il loro suono su coordinate più consone ai Napalm: introdotto da un opener fantastica come Breed to Breathe, potente e agile il disco, non tutto dello stesso livello, non depone completamente i suoni del precedente, ma mostra incoraggianti segnali di cattiveria che forse ora è meno selvaggia, ma più controllata. Assolutamente non è tra i primi acquisti da fare per conoscere questa band seminale, forse non ci sono brani cosi memorabili, ma rappresenta un buon ritorno a qualcosa che si svilupperà poi successivamente di lì a poco.

4. Nel 1998 i Napalm Death pubblicano sempre per la Earache Words From the Exit Wounds. Qui, il sound aggressivo e moderno degli ultimi dischi viene confermato, non senza sperimentazioni di tipo industrial, sulla scia dei Killing Joke più claustrofobici e violenti. Si tratta di un lavoro di notevole e grande maturità artistica, anche sotto il profilo della scrittura musicale, con una marcata attenzione per la cura dei suoni e le nuove e più aggiornate tecnologie di incisione.
A questo punto, il gruppo di Birmingham sente evidentemente di avere concluso una stagione della propria storia e puntuale arriva il live (semi-ufficiale), Bottlegged in Japan, pubblicato soltanto nel paese del sol levante: un doppio CD che vede i Napalm Death davvero al massimo della forma pure sul palco, con un’ottima carrellata di pezzi più recenti e di classici del loro repertorio.
Senza alcuna fretta sulla strada da intraprendere, i nostri si concedono un’ulteriore – ma fruttuosa – pausa di riflessione, dando alle stampe un interessante Leaders Not Followers (1999), per la Dream Catcher: trattasi, questa volta, di un disco di sole covers, tese (come si evince chiaramente a partire sin dal titolo scelto) a riconoscere l’importanza storica di coloro che sono stati, nella storia del metal e dell’hardcore punk, iniziatori se non pionieri che hanno saputo aprire una strada seguita in seguito da altri. Troviamo così brani dei Death di Chuck Schuldiner, dei doomsters Pentagram, degli italiani Raw Power (la loro Politicians resta evidentemente un pezzo-manifesto noto e amato in Inghilterra, a conferma della statura internazionale dell’act emiliano), degli Slaughter, dei Repulsion e dei Dead Kennedys. Finalmente, nel 2000, sempre per la Dream Catcher, esce il nuovo capitolo in studio dei ND: Enemy of the Music Business, fin dal titolo una (programmatica ed esplicita) dichiarazione di intenti e musicali e lirici, si segnala positivamente come uno dei più feroci ed intransigenti episodi, nella discografia del gruppo inglese. Dal punto di vista stilistico, l’assoluto diniego verso qualsiasi forma di concessione commerciale si trova poi confermata da un approccio non dissimile da quello del coevo brutal death metal d’oltreoceano: un monolite compattissimo ed inflessibile, una grande testimonianza di coerenza e di integrità, da parte della band britannica. Nello stesso anno, vengono stampate anche le Complete Radio One Sessions, gli storici provini radiofonici incisi per John Peel, disc jockey che tanto fece in favore del riconoscimento del movimento punk inglese.
Da questo momento in poi, i Napalm Death si orientano sempre più verso il death-grind: ricuperano cioè il grindcore da loro inventato nella seconda metà degli anni Ottanta, ne rivedono e aggiornano la formula portandola nel terzo millennio e facendo, soprattutto, tesoro dell’esperienza death. Order of the Leech vede la luce nel 2002 per la Spitfire ed è un fantastico affresco di grindcore moderno, con piccoli tocchi black metal alla Immortal. Nel 2003, appare Noise for Music’s Sake, una raccolta di materiale registrato in concerto e di EP con il tempo divenuti piuttosto rari, edita dalla Earache, in formato doppio. Si tratta di una chicca davvero imperdibile: il secondo CD in particolare ripropone il mitico mini Mentally Murdered e pezzi dallo split con gli svedesi At the Gates.
Nel 2004 esce il secondo capitolo di Leaders Not Followers. Questa volta tocca a Cryptic Slaughter, Devastation, Hellhammer, Discharge, Master, Kreator, Massacre, Attitude Adjustment e Agnostic Front, Sepultura e Hirax tra gli altri venire coverizzati in chiave death-grind, con risultati grandiosi; passa solo un anno e nel 2005 è nei negozi il nuovo The Code is Red / Long Live the Code, in linea sotto ogni aspetto con il suo predecessore in studio. Qualche variazione introduce Smear Compaign (licenziato, nel 2006, dalla tedesca Century Media), che vede ospite la vocalist degli olandesi The Gathering. Tre anni e Time Waits For No Slave (2009) ritorna al più classico e collaudato grindcore-death. Dodici mesi dopo esce sul mercato per la Snapper (pure in versione DVD) il live Punishment in Capitals, dall’infuocata esibizione registrata a Londra nel 2002.
I due dischi successivi dei Napalm Death, Utilitarian (2012) ed Apex Predator – Easy Meat (2015), pur non aggiungendo forse più moltissimo in termini di novità – ma è possibile dopo oltre trent’anni e poi può essere cosa che alla band interessa? – ci restituiscono un gruppo ormai intoccabile, sicuro di sé ed entrato di diritto nella storia, incorruttibile e inossidabile come l’etica crust punk impone.
Assolutamente irrinunciabile è l’ultimo Coded Smears and More Uncommon Slurs (2018), antologia doppia, costituita da sessions inedite dagli ultimi lavori, due covers dei Melvins (i veri padrini dello sludge), B-sides e brani dagli split realizzati con Voivod, Converge e Heaven Shall Burn a conferma di un interesse anche verso math-core, SCI-FI metal e post-core melodico. Napalm Death: la Storia.

Roberto Grassi – Michele Massari – Massimo Pagliaro – Dazagthot

Letture essenziali
– Stefano Cerati e Barbara Francone, I 100 migliori dischi death metal (Tsunami)
– Gianni Della Cioppa, Il grande libro dell’heavy metal (Giunti)
– Ian Glasper, Anarcopunk (Shake)
– Ian Glasper, Quando bruciammo l’Inghilterra (Shake)
– Albert Mudrian, Choosing Death (Tsunami)
– Jason Netherton, Profondo estremo (Tsunami)

LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL – VULGAR SPEECH

L’intervista di Mirella agli emergenti Vulgar Speech.

Grazie alla reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni domenica alle 21.30 su Witch Web Radio.
Questa volta tocca ai pordenonesi Vulgar Speech.

MC Partiamo dagli inizi.La band si forma nel 2012 come quartetto. Mi raccontate la genesi di questo progetto musicale?

VS Inizialmente io, Riccardo, e mio cugino Fabio, ci divertivamo a suonare  qualche cover nel giardino di casa sua. Successivamente, decidemmo, quasi per scherzo, di provare a formare una band e con due amici creammo gli Iron Farter ( ovviamente se lo traducete capirete che era un progetto inizialmente fatto per ridere ). Successivamente, dopo aver suonato in qualche localino soprattutto cover, scegliemmo di evolverci come gruppo e creammo pezzi nostri, registrando in casa il primissimo vero progetto. Con il tempo, decidemmo di cambiare nome poiché il progetto stava prendendo una piega più “seria” e cambiammo il nome in Vulgar Speech. Con gli anni i componenti diminuirono a tre, dove il bassista Mirko si aggiunse alla band.
Da quel momento decidemmo di restare un power trio e registrammo, dopo numerosi concerti, il primo vero EP dal titolo Is this Vulgar? presso il Deposito Giordani di Pordenone.

MC Come definireste il vostro genere musicale ?

VS Un misto tra il groove, l’heavy e il melodic metal, con piccole influenze trash.

MC A chi è affidata la composizione memodica e la scrittura dei testi? Ci sono argomenti che trattate più frequentemente?

VS La composizione è affidata a tutti, sia per le canzoni sia per i testi, in modo tale da rendere il risultato qualcosa che viene fatto dal gruppo stesso e non da uno solo. Gli argomenti sono generalmente temi legati all’essere umano: vita, morte, il superamento delle difficoltà ecc.

MC Il vostro primo disco viene pubblicato a giugno del 2015. Com’è stato l’impatto con il pubblico e la critica?

VS Per certi versi molto buono, nonostante avessimo scelto di registrare qualcosa di “grezzo”, non troppo trattato come molti altri progetti, per altri ci venne spesso criticato il fatto di aver fatto dei “collage” di generi. Questa critica però non ci ha fermati, ne abbiamo fatto tesoro e ora abbiamo un materiale molto più amalgamato, orientato sul groove/melodic metal, che si caratterizza da riff forti che si trascinano ed alternano con melodie più lente e melodiche. Speriamo presto di registrare in studio l’album!

MC Quali difficoltà incontra una band come la vostra a trovare una casa discografica? Avete qualche esperienza in merito?

VS Sì, esperienze legate a richieste di denaro elevate solo per una sponsorizzazione che, alla fine, non vale nulla, specialmente se hai solo un EP a disposizione, poiché molti preferiscono investire su un album piuttosto che su un EP. Siamo comunque in cerca di un etichetta e con il prossimo album speriamo di proseguire con nostro progetto.

MC Preferite il rapporto diretto col pubblico, quindi i live o vi trovate più a vostro agio in sala registrazione?

VS Assolutamente live! L’impatto che abbiamo sul pubblico, nonostante il fatto di essere solo in tre, è sempre stato buono ed apprezzato.

MC State lavorando ad un nuovo album? Quali sono i progetti immediati?

VS Come dicevo prima, il materiale per il nuovo album è quasi pronto, appena le finanze lo permetteranno potremmo procedere con le registrazioni. Altri progetti sono l’aver fatto il video ufficiale, disponibile su YouTube, della nostra Can U Really..?, track n° 5 del nostro EP.

MC Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi? ( pagina, sito, live…)

VS Facebook: Vulgar Speech Instagram: vulgarspeech  Twitter: vulgarspeechban

Riporto esattamente come cercarci, è più facile!

METEORE: MESTEMA

I fratelli sfortunati di Massacra e Mercyless. Breve apparizione di 4 anni sulla scena Death Transalpina e 4 demo di ottima fattura. Scioltisi troppo presto e senza alcuna produzione su vinile. Da ricordare per conoscere meglio la scena Death Metal francese di allora.

Penso tutti sappiano cosa sia una meteora. Un corpo celeste che entrando nella nostra atmosfera si incendia a causa dell’attrito e con elevata velocità  passa alla nostra vista seducendoci con la sua bellezza per poi scomparire. La meteora può passare accanto al nostro pianeta senza impattarlo mai, in alcuni casi può anche creare sconvolgimento e panico colpendolo. In senso musicale molte ne sono cadute ed a volte ancora ne cadono sul pentagramma della storia della musica. Questa rubrica vuole essere uno strumento astronomico in grado di individuarle e permetterci di analizzarle, catalogarle per capire se saranno in grado di colpirci oppure solamente sfiorarci per poi morire.

MESTEMA

I Mestema, combo francese nato nel 1988, sono quello che di più si avvicinerebbe ai divini connazionali Massacra, avessero solo avuto un po’ più di fortuna e non si fossero fermati alla demo, come unica loro produzione. Autori di un ottimo Death Metal di tipico stampo transalpino, “spalmato” su 4 demotapes, i Mestema ebbero davvero vita breve. Unicamente 4 anni “on the road” e poi più nulla. Ci lasciano in eredità 4 nastri, tra cui The way of stupidity, forse la demo che riscosse a quel tempo i maggiori successi (era il 1991). Nel combo unicamente Pierre Lopez (basso e voce) David Kempf (batteria) vantano qualche partecipazione di rilievo in band note: Mr. Lopez in “Sure to be sure” dei francesi Mercyless (album del 2000) e Mr. Kempf in C.O.L.D. sempre della band di Max Otero (siamo nel 1996) e una breve collaborazione con i Neoclassici Dark Ambient parigini Elend (ma nessuna attiva partecipazione come strumentista, anche perché questi ultimi non utilizzano batteria…).

Discography:
Horrifying Sight – Demo – 1990
Horrifying Sight / The Way of Stupidity Split Demo – Demo – 1991
The Way of Stupidity – Demo – 1991
Mestema – Demo – 1992

Line-up
Pierre – Bass, Vocals
David – Drums
Thierry – Guitars
Christian – Guitars, Vocals

https://www.youtube.com/watch?v=74NKphfxhkk

Made in Florida: alle origini del death metal

Il death nasce in Florida, non altrove. E’ una verità storica e va riconosciuta, senza se e senza ma. E’ inutile, d’altra parte, ricercare altri inconsapevoli ‘precursori’.

Quando è nato il death metal? E soprattutto dove? Negli Stati Uniti, in Svezia? Questo articolo mira ad andare alle radici del genere, quando era ancora solo un fenomeno puramente underground.

Ogni volta che si parla di origini culturali del death metal, si dice correttamente che il genere è sorto nella seconda metà degli anni Ottanta. Più problematico diventa localizzarlo, dal punto di vista tanto geografico quanto precisamente temporale in maniera esatta. Al riguardo, i pareri restano discordi: secondo alcuni, primo gruppo death sarebbero stati i Possessed, autori nel 1985 dello storico debut Seven Churches, emblematico e sin dalla copertina. Tuttavia, riguardo al gruppo californiano non ci sembra possibile parlare di puro death per come in seguito lo si è inteso: abbondano infatti i rimandi al thrash della Bay Area da cui la band di Larry Lalonde e Jeff Becerra proveniva e Seven Churches è più che altro un grandioso ed epocale album di thrash-death, di passaggio, dall’uno all’altro genere musicale.
Anche riguardo ai grandissimi Celtic Frost permangono alcuni dubbi circa l’appartenenza al death: il seminale act svizzero produsse a inizio carriera capolavori indiscussi di thrash-black primordiale, con tocchi dark, doom e sperimentali (al più, volendo cercare una definizione, proto-death: discorso che potremmo fare anche per i primissimi Bathory in Svezia e i Kreator in Germania, o ancora per gli Hellhammer, primo nucleo dei Celtic Frost). Né basta avere intitolato una canzone Death Metal (come nel caso dei fantastici thrashers inglesi Onslaught) per individuare a fortiori un’appartenenza voluta e soprattutto consapevole al genere.
Taluni citano come primo gruppo death i Master, di Paul Speckmann. Anche qui tuttavia non si può essere del tutto d’accordo. Il primo demo della peraltro imprescindibile band di Chicago (sorta nel 1983) data 1985, lo stesso anno in cui vide la luce anche l’unico nastro dell’altra creatura di Paul, i Death Strike. Nondimeno, quello dei due gruppi era più che altro un thrash-death, a base di Venom, Slayer e Motorhead (le linee vocali non erano, infatti, ancora growl, ma molto alla Lemmy). Stesso discorso per gli Abomination, sempre dell’Illinois, o per i Necrophagia degli inizi, spostandoci in Ohio.
Il death nasce in Florida, non altrove. E’ una verità storica e va riconosciuta, senza se e senza ma. E’ inutile, d’altra parte, ricercare altri inconsapevoli ‘precursori’. Nel 1986, in Florida, i Morbid Angel incidono il loro Abomination of Desolations.

Il disco, purtroppo, non viene stampato subito (uscirà per la Earache solo nel 1991), poiché il gruppo non era soddisfatto di suoni e registrazione. Pertanto il primo vero ed esplicito album di death metal è Scream Bloody Gore (1987) dei Death, formati dal grande e compianto Chuck Schuldiner, addirittura tra il 1981 e il 1982. Quello è il disco che di fatto, uscito per la Combat, crea il death metal e ne fonda il movimento, a livello non solo musicale, ma anche lirico ed iconografico (inclinazioni horror comprese). La base. Una base su cui – e sempre in Florida – in quegli stessi anni o di lì a pochissimo tempo, una autentica legione di leve si sviluppa e cresce in termini esponenziali.

Ricordiamo la prima incarnazione dei Deicide, gli Amon, creatura di Glenn Benton e dei fratelli Hoffmann, il cui primo demo tape apparve sempre nel 1987 (ristampato, insieme alla seconda cassetta di due anni dopo, con il titolo Sacrificial dalla Vic Records).

La Florida, per il death, funge da luogo di partenza e centro d’irradiazione. Nel 1987 si costituiscono i Nocturnus ed i Malevolent Creation, nel 1988 Acheron, Atheist e DVC. Nel 1989 esce Slowly We Rot degli Obituary per la Roadrunner: un manifesto.

Nel 1990 nascono i Monstrosity e trovano un’identità definitiva i Massacre, sorti come gruppo di thrash slayeriano sei anni prima. Moltissimi di questi gruppi passano, poi, per le mani del geniale Scott Burns – produttore, ingegnere del suono, addetto a missaggio e masterizzazione – che presso i Morrissound Studios di Tampa, in Florida, si dà a forgiare quello che rimane il primo ed indimenticabile death-sound.

Con Burns – ricordiamolo – hanno lavorato pure i death-progsters Cynic, gli inglesi Cancer, i Sepultura di Arise e Beneath the Remains, i newyorkesi Suffocation e Cannibal Corpse, gli olandesi Pestilence, i canadesi Gorguts, i grinders britannici Napalm Death (per il capolavoro Harmony Corruption del 1990) e i Terrorizer, i floridiani Six Feet Under, i tedeschi Atrocity di Hallucinations (1990), gli Exhorder, i Devastation, i Coroner, gli Psychotic Waltz ed i Sadus di Steve Di Giorgio, forse il più grande bassista death metal in generale. A quanti hanno sostenuto che Burns avrebbe fornito, alle band che hanno lavorato con lui, un suono sempre uguale e quindi in ultima istanza standardizzato, si può rispondere che: 1) non è del tutto vero, dato che i gruppi in questione sono tutti riconoscibilissimi e distinguibili fra di loro; 2) Burns ha avuto un ruolo determinante non solo nell’ambito del primo death floridiano e mondiale ma anche in quello imparentato con la fusion progressiva (Atheist, Cynic, i lovecraftiani Pestilence di Testimony of the Ancients, Gorguts), in quello fantascientifico (gli indimenticabili Nocturnus, tra Asimov e Crowley) e nella genesi storica dello stesso brutal death metal (Cannibal Corpse, Deicide dal 1995 in avanti), ed infine 3) vista la centralità e rilevanza indiscutibili, se anche il sound di tante death metal band della prima ondata può apparire forse similare, viene da pensare che sia stato, alla fine, un bene, per il quale essergli profondamente grati.

Se oggi, grazie ai fenomenali Kataklysm, il brutal americano ha saputo unirsi con quello melodico (di scuola svedese), lo dobbiamo in maniera indiretta a chi – i gruppi della Florida tra fine anni ’80 e primissimi ’90, che lavorarono con Burns – ha posto le fondamenta.

Arte a luce rock: Giger dal prog al metal

Lo svizzero Hans Rudolf Giger (1940-2014), artista conosciutissimo per avere creato l’iconografica figura del mostro di Alien (portato per la prima volta sugli schemi, da Ridley Scott, nel 1979), ha riservato molti dei suoi lavori alle copertine di numerosi musicisti e band dell’universo rock.

Le sue creature surreali – ai limiti del body horror, di cronenberghiana memoria – erano fatte di carne e di meccanica. Mostri partoriti da una mente visionaria, lovercraftiana, di infinito orrore e bellezza. Si può capire, dunque, perché questo artista estremo abbia trovato un così largo consenso, nel mondo musicale, tanto che oltre alla sua copertina capolavoro di ELP (Brain Salad Surgery, 1973) con quel volto femminile triste e regale presagio di un mondo futuro infernale e tecnologico, abbia avuto poi al suo attivo lavori con i Korn, con Debbie Harry (in Koo Koo), con gli svizzeri Shiver, i francesi Magma, band black metal (come gli elvetici Celtic Frost, Triptykon), gothic-death metal come gli Atrocity, dark-punk come i Danzig e Dead Kennedys. La freddezza metallica della sua arte, unita alla dimensione tecnologica e fantascientifica, ne hanno fatto un’icona imprescindibile, per tutti quei gruppi rock e metal che si sono avvicinati e si avvicinano all’estremo.
E’ un estremo visuale e sonoro, quello di Giger e delle band che si sono avvalse dei suoi favori. Nel 1973, Brain Salad Surgery di ELP fu un disco avveniristico e contro-corrente per l’epoca: infatti, se pensiamo che, in quell’anno, i Genesis pubblicavano il melodico e romantico Selling England by the Pound, un album come quello di Emerson e compagni rappresentava un qualcosa di antitetico: un disco futuristico ed oscuro, elettronico e fantascientifico, forse persino troppo in anticipo sui tempi, per venire compreso ed apprezzato allora sino in fondo. Naturale pertanto che a firmare la copertina sia stato appunto Giger, la cui inquietante pittura era perfettamente confacente a quel sound, nero ed atmosferico, cinematografico e magniloquente, zeppo di tessiture per sintetizzatore e freddissimo sul piano formale. In assoluto, uno dei più grandi dischi della storia del rock, con la Jerusalem del grande poeta William Blake (1757-1827) e la suite Karn Evil 9 sugli scudi.

Quattro anni dopo, nel 1977, Giger venne anche invitato a realizzare la cover per Pictures, debutto e unico album dei suoi connazionali Island, band di culto, molto influenzata dai Van der Graaf, assai dark oltre che progressive, quindi. In copertina, con due anni d’anticipo sul film, troviamo già Alien, all’interno di un scenario, e orrorifico e biomeccanico, che precorre la cultura cyber-punk degli anni Ottanta.

Nel 1978 furono i Magma a chiamare a collaborare Giger in occasione del loro Attahk. Certo non si tratta del loro lavoro migliore, tuttavia valido ed importante, un ulteriore tassello, nella storia dello zeuhl francese ed europeo dei Seventies. Del resto, la band del grande Christian Vander non poteva, vista la propria proposta artistico-musicale, non avvalersi del talento visionario e proto-cibernetico di Giger, artista davvero alieno per un gruppo dichiaratamente altrettanto alieno.

Se negli anni Settanta la nuova frontiera del rock era stata soprattutto il progressive, nel corso della decade successiva lo fu indubbiamente il metal, con tutte le sue branche ed in particolare coi legami intrattenuti dall’heavy con l’universo dell’esoterismo, dell’horror e delle scienze occulte. Giger era in proposito l’artista perfetto al quale chiedere una controparte visiva del tutto complementare a quella sonoro-musicale: una rappresentazione e materializzazione iconica di incubi, paure, terrori. I primi a valorizzarne il genio, durante gli Eighties, furono i Celtic Frost, guarda caso svizzeri come lui. La copertina di To Mega Therion (1985), con il demone che usa il crocifisso come fionda, è ancor oggi non poco disturbante. Quanto alla musica, quasi superfluo ricordare che quel disco, partendo da una base speed-thrash venomiana, ha aperto – direttamente o indirettamente, a seconda dei punti di vista – le porte a black e death primordiali.

E visto che abbiamo parlato di death metal, impossibile non citare a questo punto gli Atrocity, band tedesca davvero storica, il cui esordio Hallucinations, prodotto nel 1990 dal grande Scott Burns, fu illustrato da Giger: stavolta l’ispirazione veniva dal surrealismo francese del primo Novecento, e da Dalì in particolare, come appare evidente dall’uso deformante del tratto e dai connotati obliqui della raffigurazione, astratta e distorta insieme, al centro di una geometria impossibile che ha cessato del tutto di rispondere alle regole euclidee.

Due anni dopo, nel 1990, Giger collaborò con Danzig per il terzo capitolo della sua carriera solista: How the Gods Kills vide l’ex leader dei Misfits alle prese con un thrash gotico per il quale il pittore elvetico pensò ad un’ennesima variazione sul tema di Alien, vera sorgente inesauribile della sua arte estrema.

Nel 1993, furono gli inglesi Carcass a ricorrere a Giger, per il loro Heartwork, un capitolo storico del grindcore nordeuropeo, con in copertina il classico simbolo della pace rivisto in chiave horror e biomeccanica. Provocazione? Umorismo nero? O superiore disprezzo e stravolgimento dei luoghi comuni e dei canoni codificati? Da Giger tutto davvero ci si poteva aspettare.

Più di recente, Giger è voluto ‘tornare a casa’ – artisticamente e musicalmente parlando – tornando a collaborare con il suo vero alter ego in ambito metal, Thomas Gabriel Warrior (Fischer all’anagrafe) per Eparistera Daimones (2010) e Melana Chasmata (2014) dei Triptykon: due stupendi lavori di black-thrash, che aggiornano e conducono a definitiva maturazione l’itinerario principiato dai Celtic Frost a metà circa degli anni ’80. Vera demonologia in musica e perfetta conclusione della migliore e più inquietante meditazione artistico-musicale su spazi altri ed incubi cosmici.

Roberto Grassi – Warhammer