The Pernicious Enigma è uno dei migliori album funeral doom mai pubblicati e, nello specifico, quello che poco più di vent’anni fa collocò d’imperio gli Esoteric ai vertici del movimento.
Prosegue la meritoria opera di ristampa delle opere degli Esoteric da parte della Aesthetic Death.
Se l’anno scorso avevamo potuto riapprezzare Esoteric Emotions – The Death of Ignorance, il demo d’esordio della creatura di Greg Chandler, con The Pernicious Enigma si fa un ulteriore passo avanti.
Il perché è presto spiegato e non deriva solo dalla rilevanza del lavoro in questione, ma anche dal fatto che il tutto è stato oggetto di un restyling sonoro da parte dello stesso Chandler, del quale è universalmente riconosciuta la maestria anche dietro al mixer.
Chiaramente tutto risulta più facile quando l’oggetto dell’operazione è uno dei migliori album funeral doom mai pubblicati e, nello specifico, quello che poco più di vent’anni fa collocò d’imperio la band inglese ai vertici del movimento.
Chi conosce già i contenuti di The Pernicious Enigma ma non ne possedesse la copia originale, con questa re-issue può prendere i classici due piccioni con un fava, mentre se, invece, qualche appassionato se ne fosse perso fino ad oggi i contenuti, si sappia che l’interpretazione chandleriana del genere è a suo modo unica, collocandosi in maniera equilibrata tra le asprezze estremiste in stile Disembowelment e l’approccio più melodico atmosferico di gran parte della scuola scandinava.
Dopo l’ascolto di due brani capolavoro come Creation e Dominion of Slaves è trascorsa già mezz’ora ma resta ancora da goderne tre volte tanto; questo doppio album, infatti, oltre a tracce opprimenti e dolenti offerte con la solita maestria, esibisce anche la vis sperimentale di NOXBC9701040 e la repentina sfuriata death di At War with the Race, prima di chiudere con lo struggente finale di Passing Through Matter.
La riedizione di The Pernicious Enigma non può che essere accolta con entusiasmo da parte dei numerosi estimatori degli Esoteric ma, d’altra parte, rischia di acuire ancor più il senso di attesa per nuovo materiale inedito che si protrae ormai dalla fine del 2011, quando Greg Chandler regalò agli appassionati di funeral l’ultimo full length Paragon Of Dissonance.
Tracklist:
Disc 1
1. Creation (Through Destruction)
2. Dominion of Slaves
3. Allegiance
4. NOXBC9701040
Disc 2
1. Sinistrous
2. At War with the Race
3. A Worthless Dream
4. Stygian Narcosis
5. Passing Through Matter
Line-up:
Gordon Bicknell – Guitars, Keyboards, Samples
Greg Chandler – Vocals, Keyboards
Bryan Beck – Bass
Simon Phillips – Guitars, Samples
Steve Peters – Guitars
Abili cesellatori di incandescenti e allo stesso tempo eleganti atmosfere funeral doom, i danesi Woebegone Obscured ci donano un’opera di non facile assimilazione ma ricca di suggestioni e fascino.
Abili cesellatori di incandescenti e allo stesso tempo eleganti atmosfere funeral doom, i danesi Woebegone Obscured ci fanno riassaporare la loro arte, cinque anni dopo Marrow of Dreams, con il nuovo e terzo full length The Forestroamer.
La prima cosa che balza all’occhio è il ritorno a un minutaggio più contenuto rispetto ai settanta minuti del precedente. Qui tutto si condensa in poco più di quaranta minuti dove, però, ogni nota dipinge un grande affresco nel quale paesaggi death doom scivolano con naturalezza in atmosfere funeral intense, avvolgenti e decisamente affascinanti. La capacità di scrittura è veramente notevole, i musicisti conoscono questa arte e sanno come toccare le corde giuste dell’ascoltatore proponendo trame delicate, cangianti che si accendono e lentamente si acquietano aprendo ad atmosfere ora suggestive, ora oscure, tristi e di gran gusto: i dieci minuti dell’opener The Memory and the Thought trascorrono in un attimo con il loro alternarsi atmosferico, retto da un grande drumming sempre vario e ispirato. La splendida Drommefald, con il suo incedere brumoso, ci aiuta a calarci completamente nelle visioni di non existence invocate dalla band; il growl carico si intarsia perfettamente con l’interplay delle chitarre che non disdegnano derive black e, per caricare di ulteriore tensione, la trama e il finale in crescendo ci ammalia per la sua cristallina bellezza. La grande capacità di variare i suoni e la tensione all’ interno di ogni brano si dimostrano punti di forza importanti, donando ai tre lunghi brani un andamento progressivo da sempre presente nel tessuto sonoro del trio. Il breve strumentale Crimson Echoes, a mio parere, avrebbe dato vita a un grande brano, se il suo aroma psichedelico fosse stato sviluppato oltre i due minuti di durata. La maestosa title track, immersa in un personale flavour funeral, è intarsiata da delicate armonie mentre un potente growl la sovrasta; i giochi strumentali sono di prim’ordine, i musicisti non si risparmiano, le tastiere donano potenza e suggestioni oscure e i cambi di atmosfera sono molteplici, spaziando da momenti furiosi e carichi ad altri dotati di grande lirismo e melodia, con la parte finale letteralmente intrisa di abbacinante bellezza. Opera non di immediata assimilazione, ma capace di fornire sensazioni e cibo per la mente e il cuore di alta qualità.
Tracklist
1. The Memory and the Thought
2. Drømmefald
3. Crimson Echoes
4. The Forestroamer
5. Dormant in the Black Woods
La competenza c’è, l’attitudine pure: la presenza questi due elementi fa pensare che nel giro di poco tempo gli In Oblivion potrebbero regalarci qualcosa di davvero importante; per ora, comunque, bene così.
Delle tre uscite offerte dalla Endless Winter in questa parte del 2018, quella degli In Oblivion è la più canonicamente vicina al funeral doom, anche se quello dei texani presenta diverse digressioni come le accelerazioni di stampo black che deturpano l’opener Wreathed in Gloom.
Memories Engraved in Stone è il full length d’esordio, che segue l’ep autointitolato del 2015 dal quale vengono riprese sia la già citata Wreathed in Gloom che la title track: il quintetto di Austin prova con discreto successo ad ammantare di un velo cupo ed impenetrabile il proprio sound, ed è fuor di dubbio che le cose vadano senz’altro meglio quando il tutto diviene più rarefatto ed atmosferico.
L’opener è un ottimo brano che, anche se forse ancora un po’ acerbo, presenta notevoli spunti ma è in An Eve in Mourning che i nostri puntano al bersaglio grosso, rischiando anche qualcosa di loro con la ripresa delle ben note sonorità della Marcia Funebre; la pacchianeria infatti incombe sempre su operazioni di questo tipo, mai gli In Oblivion vi sfuggono abilmente abbandonando dopo circa due minuti gli schemi chopiniani (che verranno nuovamente richiamati nel finale) per elaborare, di fatto, sonorità proprie e dotate di un tasso drammatico ed evocativo non indifferente.
E’ proprio qui che il rantolo terrificante di Justin Buller si sposa a meraviglia con il lento dipanarsi melodico del brano, a dimostrazione della disinvoltura nel trattare la materia da parte della band statunitense.
La title track è ancora più cupa, a tratti solenne, con qualche richiamo alla scuola russa (Comatose Vigil, Abstract Spirit) nel lavoro tastieristico, mentre nella conclusiva e piu lunga traccia del lotto, In Perfect Misery, gli In Oblivion si concedono diversi minuti di respiro prima di infierire nuovamente e in maniera definitiva sui nervi scossi dell’ascoltatore.
Chiedere ad una band che suona funeral una maggiore sintesi potrebbe sembrare bizzarro, ma in effetti agli In Oblivion, per ora, manca la dote innata di trovare il giusto sbocco emozionale alle diverse buone intuizioni messe in mostra (il finale di In Perfect Misery è emblematico in tal senso, e ci si chiede perché uno spunto melodico così bello non sia stato sfruttato in maniera più generosa).
La competenza c’è, l’attitudine pure: la presenza questi due elementi fa pensare che nel giro di poco tempo gli In Oblivion potrebbero regalarci qualcosa di davvero importante; per ora, comunque, bene così.
Tracklist:
1. Wreathed in Gloom
2. An Eve in Mourning
3. Memories Engraved in Stone
4. In Perfect Misery
Dopo soli tre anni di attività, i Pissboiler rappresentano una solida certezza con il loro personale suono opprimente, ma dalla forte connotazione catartica.
Intrigante e derivante da un fatto di cronaca nera è il concept dietro il nuovo EP dei Pissboiler, duo svedese di Smaland; dopo il full length del 2017 (In the lair of lucid nightmares) nel quale proponevano una personale visione di drone, sludge doom ora, sempre per Third I Rex ci propongono un ulteriore assaggio della loro arte che ci illustra in musica “the act of a murder” in cui due persone anziane sono assassinate nel loro letto ed i samples usati nel disco derivano interamente dai fatti accaduti.
Il primo brano En visa for Elden rappresenta il momento prima dell’omicidio e offre un continuo arpeggio colmo di attesa e ansia, soprattutto quando la componente drone del suono prende il sopravvento, prima di sfociare nella seconda traccia Att med kniv ta en kristens liv (to take the life of a Christian with a knife), dove si entra in zone non confortevoli, quando doom e drone collidono e si uniscono in modo del tutto insano, creando un’atmosfera ammorbante e opprimente portandoci in territori funeral doom malevoli e realmente disturbanti; disperazione e pena sono gli ingredienti principali del brano, mentre un growl cavernoso si insinua nei nostri gangli nervosi fino a scuoterli. Qui si rappresenta il momento del massacro e non ci può essere luce ma solo infinità oscurità. La terza parte Ett Avslut rappresenta “the aftermath, burning the corpses” e la tensione insostenibile del secondo brano si stempera in un rassegnato suono funeral colmo di disperazione. L’opera è molto intensa, con i Pissboiler che ci conducono in territori extreme doom che si evidenziano ulteriormente nella bonus track di ventisei minuti Monolith of Depression, tratta dallo split con i francesi Deveikuth, altri mostruosi manipolatori di materiali urticanti. In questo brano estenuante si amalgama e si sublima tutta l’arte funerea del duo che magistralmente fonde a temperature altissime fangosità sludge, lentezza doom e terrificante drone, in un risultato di alto livello in cui la disperazione tocca punte veramente laceranti; le chitarre sommerse da distorsioni e drone ci conducono con le loro melodie in zone sconosciute dei nostri sensi. Dopo soli tre anni di attività, i Pissboiler rappresentano una solida certezza con il loro personale suono opprimente, ma dalla forte connotazione catartica.
Tracklist
1. En visa för elden
2. Att med kniv ta en kristens liv
3. Pt II – Ett avslut
4. Monolith of Depression
Line-up
Karl Jonas Wijk – Drums
LG – Vocals (lead), Bass
L’album d’esordio degli Obseqvies riporta prepotentemente alla ribalta il miglior funeral doom melodico ed atmosferico.
L’album d’esordio degli Obseqvies riporta prepotentemente alla ribalta il miglior funeral doom melodico ed atmosferico.
Di questa band si sa poco o nulla, se non che proviene dalla Finlandia, il che rappresenta una sorta di bollino di garanzia quando si parla di questo genere: la naturale conseguenza non può che essere quella di affidare alla musica il compito di raccontare agli ascoltatori l’ennesimo doloroso capitolo di una storia che trova sempre nuova linfa e magnifici interpreti, nonostante il suo risibile appeal commerciale. The Hours Of My Wake riparte pressapoco da dove ci avevano lasciato gli Ea con il loro ultimo album del 2013, con un sound però ancor più curato e ammantato di un’aura oscura e leggermente meno melodica, includendo anche alcuni spunti che riconducono agli Shape Of Despair; l’esito non può che essere esattamente ciò che vorrebbe sempre ascoltare chi adora questo genere: ritmiche bradicardiche e variazioni di tono quasi impercettibili ma costanti, fondamentali per accrescere il pathos.
Grazie anche ad un growl che per profondità si avvicina non poco a quello di Daniel Neagoe, i tre lunghi brani si trascinano dolenti per quasi un’ora con la loro ricetta essenziale ma sempre di grande efficacia, con gli Obseqvies che affidano il lavoro di costruzione melodica alle tastiere e mettono in scena, alla fine, una litania funebre che non può lasciare indifferenti gli animi più sensibili. Soloqvam è un brano di squassante bellezza, con il cantato che nella parte conclusiva diviene uno straziante screaming, indicativo del fatto che il risveglio al quale fa riferimento il titolo non dev’essere stato esattamente quello auspicato; Dawning è una traccia relativamente più aspra nella parte iniziale ma destinata a divenire più ariosa con i suoi accenni ad un canto di tipo monastico, mentre Cold è l’ideale unione tra i diversi spunti offerti in precedenza, per quanto tali scostamenti possano essere pressoché impercettibili per orecchie poco esperte.
Contrariamente ad un avvio illusoriamente consolatorio, il lavoro degli Obseqvies assume via via toni sempre più disperati con inesorabile e costante lentezza; il sonno eterno resta pur sempre la soluzione finale e più sicura, indipendentemente da come la si voglia pensare.
The Sky Over è uno degli album più commoventi ascoltati nell’ultimo decennio e regala quasi un’ora di musica dalla bellezza abbacinante.
Il ritorno dei Void Of Silence, otto anni dopo l’ultimo full length The Grave of Civilization, non può che rappresentare un evento per tutti gli appassionati di doom che attendevano da diversi anni un nuovo album della band romana.
Chi aveva già iniziato a disperare al riguardo ha ottenuto segnali confortanti alcuni mesi fa con l’uscita dei Towards Atlantis Lights, sorta di supergruppo che vedeva all’opera Ivan Zara assieme ad altri illustri esponenti della scena funeral/death doom internazionale, come Kostas Panagiotou e Riccardo Veronese.
Ed è cosi che, come auspicato, la consolidata partnership tra il chitarrista e Riccardo Conforti ha offerto un nuovo funereo lavoro che eguaglia (e a tratti supera anche) per intensità un album celebrato come Human Anthitesis.
Luca Soi (ex-Arcana Coelestia) alla voce, infatti, si rivela il valore aggiunto fondamentale per rendere ancor più evocativo il sound dei Void Of Silence che, forse come mai in passato, trova sfogo in brani intrisi di un afflato melodico dolente ed atmosferico.
Il lungo e inarrestabile crescendo emotivo di The Void Beyond è una prima testimonianza di lacerante struggimento emotivo, nella quale il vocalist raggiunge vette di lirismo incredibili a suggellare le magnifiche intuizioni strumentali di Zara e Conforti.
Fondamentalmente il disco vive di tre momenti chiave corrispondenti ad altrettanti brani di durata superiore al quarto d’ora: la già citata traccia d’apertura e le altre due gemme intitolate The Sky Over e Farthest Shores
La prima rappresenta il momento melodico più alto del lavoro, grazie ad un Ivan Zara che inanella assoli di dolente e cristallina bellezza, mentre la seconda rimane sulle stesse coordinate di evocativa solennità, ideale colonna sonora di un concept dedicato a tutti quei personaggi che, perennemente in bilico su quella sottile linea di confine che divide l’eroismo dall’incoscienza, sfidarono nel primo novecento i ghiacci artici con spedizioni audaci e spesso risoltesi in maniera tragica.
Ecco perché il sound dei Void Of Silence appare più angosciante che drammatico, e non è difficile, immergendosi nell’ascolto di queste note, visualizzare per esempio il tenace peregrinare sul pack alla ricerca di una via di salvezza da parte dei componenti della spedizione di S.A Andrée, ingegnere svedese promotore di un visionario tentativo di sorvolare il Polo Nord a bordo di un’instabile mongolfiera. The Sky Overè uno degli album più commoventi ascoltati nell’ultimo decennio in ambito doom (anche se poi di fronte ad opere di tale spessore le etichette lasciano il tempo che trovano): prodotto ed eseguito in maniera superba, il lavoro offre quasi un’ora di musica dalla bellezza abbacinante, come lo era la luce che gli esploratori dispersi nelle distese artiche si trovavano sempre dinnanzi sulla linea dell’orizzonte; non a caso è appunto lo splendido strumentale intitolato White Light Horizon a suggellare un’esperienza d’ascolto indimenticabile ed imperdibile.
Tracklist:
1. The Void Beyond
2. Abeona (or Quietly Gone in a Hiatus)
3. The Sky Over
4. Adeona (or Surfaced as Resonant Thoughts)
5. Farthest Shores
6. White Light Horizon
Line-up:
Luca Soi – Vocals
Riccardo Conforti – Drums, Keyboards, Samples
Ivan Zara – Guitars, Bass
Se può apparire inconsueta una proposta del genere proveniente dalla Tunisia, non lo è affatto dal punto di vista dell’ortodossia stilistica che mostra, quale unica possibile devianza, una propensione verso ritmiche di matrice black disseminate all’interno di un’opera di un’ora e mezza di durata.
Omination è un progetto solista di matrice funeral death doom che esibisce quale sua indubbia particolarità il fatto d’essere opera di un musicista tunisino, Fedor Kovalevsky.
Se può apparire inconsueta una proposta del genere proveniente da un paese magrebino, non lo è affatto dal punto di vista dell’ortodossia stilistica che mostra, quale unica possibile devianza, una propensione verso ritmiche di matrice black disseminate all’interno di un’opera di un’ora e mezza di durata.
Fedor si era già fatto vivo quest’anno con il demo …Whose Name Is Worthlessness, contenente l’omonima lunghissima traccia che ritroviamo anche in questo primo full length intitolato Followers of the Apocalypse.
Ed è, appunto, l’Apocalisse ad essere il tema dominante di un lavoro sul quale aleggia una religiosità inusuale per questo tipo di sound, così come non lo è invece una visione purificatrice che, personalmente, mi sgomenta più che consolarmi, ma in fondo questo è il frutto dell’insanabile dicotomia tra chi crede in qualcosa e chi no.
L’approccio del musicista tunisino alla materia è comunque dei migliori, grazie ad un’aura minacciosa che aleggia costantemente sul tutto e che, se risente inevitabilmente d’una cospicua durata impedendo una fruizione agevole, d’altra parte esibisce più di un momento di spaventosa intensità, che ha a mio avviso il suo apice in una traccia dal crescendo drammatico come Crossing the Frozen Wasteland, anche se la stessa …Whose Name Is Worthlessness non scherza in tal senso, con il suo magnifico finale in odore di Skepticism.
Il funeral degli Omination non offre moltissimo spazio alla melodia ma, allo stesso, tempo risulta avvolgente ed emotivamente di grande impatto: in tal senso fa parzialmente eccezione la splendida traccia iniziale The Temple of the End of Time, che rende piuttosto manifesto quali siano le nobili fonti di ispirazione per Fedor, che mette nel mirino Esoteric e Mournful Congregation senza approdare neppure troppo lontano da tali obiettivi. Followers of the Apocalypse sorprende piacevolmente, allargando ancor più la geografia di un genere come il funeral doom che continua a regalare emozioni a chi riesce a guardare al di sopra dello spesso drappo nero che avvolge un’umanità alla sbando.
Tracklist:
1. The Temple of the End of Time
2. Towards the Holocaust
3. Followers of the Apocalypse
4. Crossing the Frozen Wasteland
5. The Whirlpool of Ignorance
6. A Replica…
7. …Whose Name Is Worthlessness
8. Maybe (The Ink Spots)
Il funeral death doom offerto dal musicista fiammingo è rumoroso, cupo e ovattato, parco di barlumi di luce o pulsioni misericordiose, e tiene fede a quanto promesso dal titolo.
Boundless Torture è il nuovo lavoro dei Gateway, progetto death doom del musicista belga Robin van Oyen .
Non si tratta però di un nuovo full length, dopo il notevole Scriptures of Grief del 2016, bensì di un breve ep nel corso del quale comunque Van Ojen non lesina la sua tipica interpretazione soffocante del genere.
Il funeral death doom offerto dal musicista fiammingo è rumoroso, cupo e ovattato, parco di barlumi di luce o pulsioni misericordiose, e tiene fede a quanto promesso dal titolo.
Sono note di basso che paiono rimbalzare nel centro della Terra per poi cercare inutilmente uno sbocco attraverso una qualche fenditura sulla superficie , quelle che delineano la title track , ma se ci si aspettano aperture di qualsiasi genere si cade presto in errore, dato che Famished Below continua e prosegue dove era terminata la traccia precedente
L’opera di demolizione targata Gateway prosegue con la brevissima sfuriata Iron Storms, per poi riprendere e finalizzare l’annientamento psico fisico dell’ascoltatore con i dieci minuti di Odyssey of the Bereaved.
Se si ha un uggia il mondo e tutti gli esseri che contribuiscono a renderlo un luogo ancor peggiore di quanto già sia, Boundless Torture è un ascolto consigliato a volumi non convenzionali, immaginando di infliggere tutta la sofferenza che viene evocata a chiunque se lo meriti ed ottenere quell’effetto catartico che, se non può restituire il sorriso e l’ormai del tutto smarrito amore per il prossimo, contribuisce quanto meno a schiarirsi le idee e a squarciare diversi veli che filtrano la realtà.
Tracklist:
1. Boundless Torture
2. Famished Below
3. Iron Storms
4. Odyssey of the Bereaved
Un’opera notevole, in grado di portare in grande evidenza in ambito funeral un nome nuovo come quello degli Adversvm.
Adversvm è un progetto proveniente dalla Bassa Sassonia del quale poco si sa se non che Aion Sitra Ahra è il primo lavoro su lunga distanza che esce sotto l’egida della label.
Il genere offerto, comunque, lascia poco spazio a digressioni particolari, trattandosi di un funeral doom di grande ortodossia ed altrettanta competenza esecutiva, doti facilmente riscontrabili fin dall’opener Anti-Stellar Gnosis To The Acausal Nexus, lunga traccia che era già presente nel demo pubblicato lo scorso anno.
Il funeral degli Adversvm è sufficientemente melodico e allo stesso tempo dolente lasciando fin da subito notevoli sensazioni: anche la seconda traccia PS. XIII Maledictvm faceva parte del suddetto demo ed è difficile trovare grande discontinuità, quindi, rispetto a quanto già sentito, anche se qui affiorano riferimenti al versante più dissonante del genere, quindi Mournful Congregation, Esoteric, senza dimenticare un nome meno titolato ma di grande spessore come quello dei Doomed del connazionale Pierre Laube.
Questi venti minuti di musica paiono già sufficienti per constatare come gli Adversvm siano una sorpresa davvero gradita, ma l’album offre ancora molto dopo l’interludio strumentale Disequilibrium Evokes The Fifth Coronation; la title track si dimostra, infatti, una bella prova di forza quando i ritmi si intensificano privilegiando l’impatto alla melodia, mentre Est In Fatis è piuttosto particolare, con la stentorea voce campionata che viene accompagnata da riff catacombali.
Chiudono il lavoro i sei minuti dronici di Current 218, pietra tombale suun’opera notevole, in grado di portare in grande evidenza un nome nuovo come quello degli Adversvm.
Tracklist:
1. Anti-Stellar Gnosis To The Acausal Nexus
2. PS. XIII Maledictvm
3. Disequilibrium Evokes The Fifth Coronation
4. Aion Sitra Ahra
5. Est In Fatis
6. Current 218
Un biglietto di sola andata verso i meandri dell’esistenza con Absconditus, per un funeral doom che non lascia nulla al caso e si colloca in uno stile fortemente innovativo.
Grande forza e motivazione per questa band italiana di recente formazione, ovvero gli Assumption, un duo direttamente da Palermo con il loro primo effettivo full-length, dopo un demo ed un EP nel quale avevano già sperimentato diversi orizzonti di un genere mai facile da approcciare, ovvero il funeral death doom, tanto di nicchia quanto musicalmente vasto.
Questa volta gli Assumption sembrano davvero aver trovato una loro dimensione, tirando fuori dal cilindro un album variegato, deciso ma mai pretenzioso. Il ridotto numero di brani, solo tre, è una scelta di grande coraggio in un mercato in cui si abbonda per accontentare un pubblico sempre affamato, perdendone in qualità. Ma non si tratta nemmeno di “brevis”, perché la durata totale dell’album è di quasi 40 minuti, fedelmente alla tradizione funeral.
I tre brani si intrecciano come se avessero una storia comune che trova la sua sintesi, culmine e conclusione naturale con l’ultimo evocativo brano Beholder of the Asteroid Oceans Part I & II.
Il percorso della band palermitana ha portato a sonorità raramente udibili nel doom, e sta contemporaneamente nel mezzo ma anche fuori da band come Disembowelment, Evoken e non solo, dalle quali sicuramente i due musicisti hanno tratto grandissima ispirazione.
Un biglietto di sola andata verso i meandri dell’esistenza con Absconditus, per un funeral death doom che non lascia nulla al caso e si colloca in uno stile fortemente innovativo. L’album è quindi fortemente consigliato per tutti i fan di un genere che mantiene pur sempre quella sacra classicità che lo contraddistingue, ma che possiede anche la curiosità di esplorare.
Tracklist
1. Liberation
2. Resurgence
3. Beholder of the Asteroid Oceans (Part I & II)
Line-up
D. – Drums
G. – Guitars, Bass, Vocals, Keyboards, Flute
Slaves To Solitude si va a collocare a metà strada tra i due lavori che l’hanno preceduto, recuperando, anche grazie agli arrangiamenti, il senso drammatico di Canto III ma conservando l’incedere più controllato di Cenotaph.
Gli Eye Of Solitude sono stati i protagonisti indiscussi del funeral death doom di questo decennio, non solo per la loro prolificità, inusuale per chi si cimenta con il genere (basti pensare ai tempi biblici che sono intercorsi tra un lavoro e l’altro per band seminali come Mournful Congregation o Skepticism, oppure da quanto tempo siamo in attesa di nuove opere da parte di Evoken, Esoteric o Worship), ma soprattutto per la qualità che accomuna ogni singola uscita, partendo dai cinque full length per arrivare ai vari split album ed ep.
Slaves To Solitude arriva due anni dopo Cenotaph, che rappresentò un momento molto delicato per gli Eye Of Solitude proprio perché, a sua volta, veniva dopo Canto III, il capolavoro che ne fece letteralmente deflagrare il potenziale, e allo splendido ep Dear Insanity; in quell’occasione Daniel Neagoe, con una band rinnovata rispetto a quella che, come Caronte, ci traghettò nelle sonorità aspre e disperate dell’inferno dantesco, optò per l’approdo a sonorità più rarefatte, che riconducevano in parte a quanto fatto dal musicista rumeno con l’altro suo splendido progetto Clouds, senza smarrire comunque i tratti peculiari di un sound che ai fruitori più esperti palesa tutta la sua unicità. Slaves To Solitude, fin dalle dichiarazioni d’intenti di Daniel, si va a collocare a metà strada tra i due lavori che l’hanno preceduto, recuperando anche grazie agli arrangiamenti il senso drammatico di Canto III ma conservando l’incedere più controllato di Cenotaph: il risultato è l’ennesimo grande disco che offre oltre cinquanta minuti di musica oscillante tra il funeral ed il death doom melodico, sempre avvolta da un’aura tra il tragico ed il maestoso, che l’ineguagliabile growl del vocalist, ogni qualvolta sale al proscenio, fa piombare in una plumbea oscurità.
Gli Eye Of Solitude erano nati nel 2010 come progetto solista di Neagoe ma, dopo l’esordio The Ghost, da Sui Caedere in poi avevano assunto una struttura di band a tutti gli effetti, anche in sede di registrazione: in Slaves To Solitude, invece, ad accompagnare il leader troviamo il solo connazionale Xander, musicista che conosciamo per la sua militanza negli ottimi Descend Into Despair, oltre che nei Deos e oggi anche nei Clouds, nelle vesti di chitarrista ritmico in sede live.
Questo ovviamente non va a detrimento della riuscita dell’album, non scalfendo minimamente l’eccellenza qualitativa associata ad ogni uscita degli Eye Of Solitude: Slaves To Solitude, il cui magnifico artwork è curato da Gogo Melone, inizia con un brano come The Blind Earth che, dopo una lunga introduzione fatta di voci sussurrate, esplode nel consueto drammatico connubio tra il growl e le atmosfere da tregenda tessuta da un mirabile sfondo tastieristico. E questo è, in fondo, il trademark dell’album, fatto di sospensioni punteggiate da passaggi pianistici (in questo almeno si riscontra anche a livello compositivo una corrispondenza con i Clouds) per poi esplodere in quel drammatico parossismo che è l’elemento peculiare degli Eye Of Solitude, capaci di esprimere in maniera unica la devastazione psichica e morale che assale l’uomo “pensante” allorché realizza la propria insignificanza di fronte all’immensità dello spazio e del tempo, ed il senso di caducità che ne deriva.
Ogni uscita di questo prolifico musicista non può essere mai banale, perché il il suo impulso compositivo non è frutto di un manierismo calligrafico ma trae linfa da una sensibilità superiore, e se gli scostamenti possono apparire minimi, se si prendono superficialmente in esame le varie uscite, questo deriva essenzialmente dalla natura stessa del sound offerto e dalle sue finalità.
Tra i cinque brani, dovendo sceglierne forzatamente uno opterei per The Cold Grip Of Time, ma farei torto ad ogni singola nota di un’altro lavoro magnifico: Canto III rimarrà probabilmente un capolavoro ineguagliabile in questo decennio, questo non solo per gli Eye Of Solitude, ma ogni uscita della creatura di Daniel Neagoe si rivela un appuntamento sempre imperdibile per chiunque voglia trovare un’ideale valvola di sfogo per l’angoscia e la tristezza che sono compagne fedeli della nostra esistenza, anche se si cerca sempre di dissimularne la presenza relegandole in un angolino della nostra mente.
Tracklist:
1. The Blind Earth
2. Still Descending
3. Confinement
4. The Cold Grip Of Time
5. Boundless Silence
Soil è un ep altamente consigliato a chi ama il funeral death doom, che avrà così la possibilità di scorgere gli eventuali prodromi di una futura band di primo livello.
Primo ep per i polacchi Postmortal, che si erano già messi in mostra la scorsa estate con il singolo Heart of Depair che è valsa loro l’attenzione di una label importante in ambito doom come la Solitude.
Ogni uscita sotto l’egida dell’etichetta russa crea sempre un certa aspettativa, per cui da Soil ci sia attendeva quanto meno di scoprire se i Postmortal fossero un nome sul quale puntare qualche euro.
Da questi circa venticinque minuti, distribuiti su tre tracce, otteniamo risposte senz’altro positive ma non ancora definitive, nel senso che la band di Cracovia dimostra di maneggiare con tutta la padronanza del caso una materia ostica come quella del funeral death doom, offrendo nel complesso una buona prova alla quale manca ancora la scintilla, il momento memorabile che è poi l’unico modo per rendere peculiare un’offerta musicale collocata all’interno di un genere dal ridotto spazio di manovra. Elusion, Nighttime Serenity e Seven sono tre buoni brani, dall’andamento dolente e sufficientemente melodico, ben punteggiato da un riffing preciso e da un growl al’altezza della situazione: il tutto rende Soil un ep altamente consigliato a chi ama queste sonorità, che avrà così la possibilità di scorgere gli eventuali prodromi di una futura band di primo livello.
Chi ama sia il doom, sia il sempreverde formato in vinile, non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di fare propria l’ultima opera di una band magari finora poco conosciuta ma davvero di notevole spessore, oltre che composta da musicisti dotati di grande sensibilità.
Ascending Into Shimmering Darkness è il secondo full length degli inglesi Coltsblood: l’album è stato pubblicato dalla Candlelight circa un anno fa, ma la riedizione in vinile in uscita in questi giorni a cura della Black Bow ci fornisce l’occasione di rinfrescare la memoria degli appassionati di doom.
Il trio di Liverpool offre uno sludge strettamente imparentato con il funeral che restituisce al meglio il sentimento di vuoto e di sgomento insito nel genere: cinquanta minuti per cinque brani sono la tariffa consueta che le band operanti in questo ambito spesso applicano, quasi sempre con ottimi risultati come accade in questo caso. Ascending Into Shimmering Darkness è uno splendido lavoro, che ha per di più il pregio di procedere con un crescendo emotivo che vede una partenza più incline allo sludge con la title track (brano peraltro già edito nello split con Horse Latitudes e Ommadon del 2014), per poi giungere alla conclusiva The Final Winter, nella quale a predominare nettamente è una componente funeral esibita con grande intensità.
Il tutto avviene passando per tracce più aspre come Mortal Wound e The Legend of Abhartach e la relativamente più melodica Ever Decreasing Circles, specialmente per l’ottimo lavoro della chitarrista Jem; dal canto suo, il marito John affligge gli ascoltatori con il suo growl, componendo con con il batterista Jay una base ritmica che spicca maggiormente per dinamismo, come detto, nella prima parte del lavoro.
Vale davvero la pena, quindi, di compiere questa “ascesa verso una scintillante oscurità”, e chi ama sia il doom, sia il sempreverde formato in vinile, non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di fare propria l’ultima opera di una band magari finora poco conosciuta ma davvero di notevole spessore, oltre che composta da musicisti dotati di grande sensibilità.
Tracklist:
1. Ascending into Shimmering Darkness
2. Mortal Wound
3. The Legend of Abhartach
4. Ever Decreasing Circles
5. The Final Winter
Line-up:
John – Vocals, Bass
Jem – Guitars
Jay – Drums
Un’ora abbondante di musica dolente, che si trascina senza alcuna parvenza di accelerazione, regalando a tratti aperture melodiche che non sollevano l’animo ma contribuiscono ad affliggerlo ulteriormente.
“Questa è la litania lacerante e mortifera che si viene a creare se si uniscono due reagenti sonori come lo sludge più torbido e il funeral doom. Colonna sonora ideale per un Western post apocalittico.Un impasto sonoro con brevetto a stelle e strisce, che solo dei dannati bifolchi dell’Ohio potevano partorire.”
Rubo questo brillante commento al mio amico Alberto “Morpheus”, anima della pagina facebook Doom Heart, che ha fotografato come meglio non si sarebbe potuto fare il contenuto di The Wayward and the Lost, terzo full length dei Beneath OBlivion, band di Cincinnati che ormai da oltre un decennio affligge gli appassionati di doom con le proprie sonorità plumbee e limacciose.
Ci sono voluti ben sette anni per dare un seguito al precedente From Man To Dust, ma come spesso accade l’attesa non è stata vana, perché Scotty T. Simpson e soci hanno partorito un devastante monolite che, come già detto, appare l’ideale punto d’incontro tra lo sludge ed il funeral doom.
L’equilibrio permane lungo quest’ora abbondante di musica dolente, che si trascina senza alcuna parvenza di accelerazione, regalando a tratti aperture melodiche che non sollevano l’animo ma contribuiscono ad affliggerlo ulteriormente, come accade con gli stupendi passaggi chitarristici di Liar’s Cross, dove i nostri si spingono dalle parti dei Mournful Congregation d’annata (quindi non quelli relativamente più ariosi dell’ultimo The Incubus Of Karma).
Ma nel suo complesso The Wayward and the Lost non lascia molto spazio a barlumi di luce, con un sound che si snoda con la lentezza di una colata lavica prossima alla solidificazione: cupo, sofferto e sovrastato spesso dalle aspre vocals del chitarrista e fondatore delle band, l’album raccoglie il meglio delle sfumature del doom di matrice estrema per convogliarle un un’unica lunga marcia verso a lidi nebulosi ed indefiniti, un approdo nel quale vanno a convergere le varie pulsioni che animano i migliori dischi doom, come lo è quello offerto dai Beneath Oblivion.
Tracklist:
1. The City, A Mausoleum (My Tomb)
2. Liar’s Cross
3. The Wayward and the Lost
4. Savior-Nemesis-Redeemer
5. Satyr
Line-up:
Scotty T. Simpson – Guitars, Vocals
James Rose – Drums
Allen L. Scott II – Guitars, Samples
Keith Messerle – Bass
I Towards Atlantis Lights mettono in scena un ottimo funeral death doom dai tratti melodici, caratterizzato da una costante ricerca di atmosfere intense ed emotivamente impattanti.
I Towards Atlantis Lights sono una nuova band formata da musicisti di un certo nome all’interno della scena doom internazionale.
Il progetto vede all’opera il musicista italiano Ivano Zara (Void Of Silence) alla chitarra e con lui arriva dalla capitale anche il batterista Ivano Olivieri: assieme a loro troviamo un altro nome che tradisce le medesime origini, quello dell’inglese Riccardo Veronese (Aphonic Threnody, Dea Marica, Arrant Saudade), qui al basso, e del tastierista e cantante greco (ma attivo nella sua carriera soprattutto tra Belgio Olanda e Inghilterra in band come Pantheist, Wijlen Wij, nei Clouds di Daniel Neagoe e, in passato, negli stessi Aphonic Threnody).
Da una simile squadra era lecito attendersi un lavoro di un certo pregio e il risultato non delude affatto le attese: i Towards Atlantis Lights mettono in scena un’idea di funeral death doom dai tratti alquanto melodici, caratterizzato da una costante ricerca di atmosfere intense ed emotivamente impattanti. Dust of Aeons è un lavoro che si protrae per quasi un’ora, con il solo brano iniziale che ne occupa metà dello spazio: The Bunker Of Life si snoda esibendo due aspetti del sound offerto, in quanto presenta una parte tipicamente funeral, con ritmiche bradicardiche ed un lavoro chitarristico volto a tessere magnifiche melodie, alla quale si alternano passaggi con voce pulita che apparentemente sembrano spezzare la tensione ma che, in realtà, sono propedeutici al suo ulteriore incremento ogni volta che tornano a farsi sentire il growl e i più canonici e granitici riff.
Il successivo Babylon’s Hanging Gardens è un brano piuttosto interlocutorio, nel senso che non lascia particolari tracce fungendo di fatto da cuscinetto tra i due episodi chiave del lavoro, ovvero la già citata The Bunker Of Life ed Alexandria’s Library che, forse anche per una maggiore sintesi, si rivela il momento più alto di Dust of Aeons, specie nella sua seconda parte quando Ivan Zara tesse una splendida melodia chitarristica che conduce ad un finale dall’elevato potenziale evocativo. Greeting Mausolus’ Tomb chiude al meglio un album che è ovviamente rivolto, per le caratteristiche sopra enunciate, agli appassionati di doom più puri, quelli che hanno la pazienza di attendere tutto il tempo necessario alla mole di note riversate nel lavoro di ricomporsi, dopo diversi ascolti, nell’ennesima esperienza musicale in grado di fornire emozioni in quantità.
Detto ciò, sperando che i Towards Atlantis Lights non si rivelino un progetto estemporaneo bensì possano trovare una loro continuità discografica anche negli anni a venite, la sensazione è che questo quartetto di pregevoli musicisti abbia margini per migliorare ulteriormente una proposta già di ottimo livello, sfrondandola di qualche passaggio interlocutorio che affiora qua e là nel corso del lavoro.
Da rimarcare infine il magnifico artwork, anch’esso made in Italy essendo opera di Francesco Gemelli, uno dei grafici più richiesti ed apprezzati del momento.
Tracklist:
1. The Bunker of Life
2. Babylon’s Hanging Gardens
3. Alexandria’s Library
4. Greeting Mausolus’ Tomb
Line-up:
Kostas Panagiotou (Pantheist, Landskap) – Vocals and keyboards
Riccardo Veronese (Aphonic Threnody, Dea Marica, Arrant Saudade) – Bass
Ivan Zara (Void of Silence) – Guitar
Ivano Olivieri – Drums
Gli Aeonian Sorrow si rivelano il veicolo ideale per portare definitivamente alla luce il dirompente potenziale di un’artista a 360 gradi come Gogo Melone.
Uno dei rischi che si corrono nell’approcciarsi superficialmente ad un’opera di questo tipo è quello di derubricarla ad un normale album di gothic death doom con voce femminile, sulla falsariga di Draconian e band similari.
Commettere un errore del genere significherebbe non solo non rendere giustizia ad un disco meraviglioso come Into The Eternity A Moment We Are ma anche privarsi, per pigrizia o ignavia, di uno dei rari esempi di arte musicale in grado di toccare le giuste corde emozionali lungo l’intero scorrere dei brani.
Gli Aeonian Sorrow sono la creatura musicale di Gogo Melone, musicista greca che gli ascoltatori più addentro al genere avranno già avuto modo di conoscere in virtù della sua partecipazione a Destin, l’ultimo ep dei Clouds di Daniel Neagoe, offrendo nello specifico il suo magnifico contributo vocale nel brano In This Empty Room.
Gogo si è occupata in prima persona sia dell’aspetto compositivo, sia di quello lirico ed infine anche dell’aspetto grafico, essendo anche in quest’ultimo campo una delle più rinomate esponenti in circolazione: insomma, qui parliamo di un’artista a 360 gradi il cui talento viene finalmente svelato in tutto il suo dirompente potenziale grazie a Into The Eternity A Moment We Are.
Contribuiscono in maniera fondamentale alla riuscita del lavoro, accompagnando la musicista ellenica e collaborando fattivamente anche nell’arrangiamento dei brani, alcuni esponenti di comprovata esperienza della scena, partendo dal vocalist colombiano Alejandro Lotero (negli Exgenesis di Jari Lindholm) per arrivare al trio finnico composto da Saku Moilanen (batteria, Red Moon Architect), Taneli Jämsä (chitarre, Ghost Voyage) e Pyry Hanski (basso, ex Before The Dawn e live con Red Moon Architect): in particolare Lotero, con il suo profondo growl è l’ideale contraltare delle evoluzioni della cantante che, attenzione, non è la classica sirena dalla bella voce che parte con una tonalità e con quella finisce; Gogo Melone è “semplicemente” una vocalist formidabile, in grado di passare da timbriche cristalline e suadenti a lampi che riportano inevitabilmente a due giganti legati alla sua stessa terra come Diamanda Galas, naturale riferimento in quanto voce femminile, ed il mai abbastanza rimpianto Demetrio Stratos, che ben conosciamo per aver sviluppato la propria carriera in Italia, prima con i seminali Area e poi come vero e proprio sperimentatore e studioso dell’uso della voce umana.
Chi pensa che certi paragoni possano essere eccessivi deve solo ascoltare l’opener Forever Misery, finora l’unico brano reperibile in rete, che già di per sé sarebbe una canzone stupenda ma che, nella sua seconda metà, viene letteralmente segnata dai vocalizzi di Gogo poggiati su un tappeto sonoro drammatico; come prova del nove poi, chi verrà in possesso dell’intero album (che uscirà ad aprile), potrà pure passare alla conclusiva Ave End, uno dei pezzi più belli che abbia mai avuto la fortuna di ascoltare, con Alejandro a dominare la prima parte prima di lasciare spazio al canto drammatico e trasfigurato della vocalist, destinato infine a ricongiungersi al growl per un risultato d’assieme che conduce inevitabilmente alle lacrime.
Tutto ciò a livello esemplificativo, perché ovviamente resta tutto da godersi un corpo centrale dell’album che non è affatto da meno, oscillando da atmosfere più aspre (Thanatos Kyrie) ad altre più intimiste (Memory Of Love) per finire con tracce strutturate in maniera più canonica (Shadows Mourn, Under The Light, Insendia) ma dotate sempre di un’intensità superiore alla media grazie ad una scrittura di rara sensibilità.
E’ un delicato interludio pianistico (The Wind Of Silence) a condurre al capolavoro assoluto Ave End, che chiude l’album portando il coinvolgimento emotivo ad un livello tale da lasciare un tangibile senso di vuoto quando la musica cessa, invero in maniera quasi repentina: si tratta di pochi secondi, sufficienti però a realizzare che sì, la vita è un attimo rispetto all’eternità, come suggerisce il titolo del disco, ma spetta a noi darle un senso sviluppando al massimo un potenziale empatico che ci consenta di immedesimarci nella gioia e nel dolore altrui, marcando in maniera netta ed inequivocabile la differenza tra una minoranza fatta di persone senzienti e tutte le altre.
Dovendo per forza di cose fornire un riferimento musicale a chi legge, appare evidente, come già detto in fase introduttiva, che i Draconian dei primi album costituiscono un termine di paragone piuttosto attendibile, anche se gli Aoenian Sorrow possiedono un approccio più funereo, atmosferico e con una minore predominanza della chitarra, specialmente in veste solista, ma a fare la differenza con gran parte delle uscite del genere negli ultimi anni è una capacità innata di raggiungere il climax dei brani partendo sovente da passaggi più pacati ed intimisti.
Con un’opera di tale spessore gli Aoenian Sorrow vanno a collocarsi sullo stesso piano delle band citate nel corso dell’articolo, il che significa il raggiungimento dell’eccellenza assoluta, ottenuta anche e soprattutto tramite l’epifania di un talento artistico prezioso come quello di Gogo Melone.
Tracklist:
1.Forever Misery
2.Shadows Mourn
3.Under The Light
4.Memory Of Love
5.Thanatos Kyrie
6.Insendia
7.The Wind Of Silence
8.Ave End
Pur senza possedere un forte impulso innovativo, il nome Mortis Mutilati si fa ricordare per un’interpretazione musicale delle pulsioni più oscure dell’animo umano tutt’altro che inflazionata, con il suo incedere tragico e allo stesso tempo decadente.
Della one man band francese Mortis Mutilati ci si era già occupati diversi anni fa in occasione del precedente full length Mélopée funèbre.
Macabre, che in passto ha militato in ottime band come Azziard, Moonreich e The Negation, tra le altre, porta avanti da anni un idea di black metal molto personale benché nel complesso priva di particolari spunti sperimentali.
Il punto di forza del sound offerto è un buon gusto melodico che va ad intersecarsi con un mood drammatico e intenso, che abbraccia sonorità che vanno dal dsbm fino al doom, e non è un caso se lo stesso musicista parigino definisce il suo stile funeral black metal. The Stench Of Death è il quarto full length che va ad aggiungersi ad una discografia finora impeccabile, con il nostro che, dopo i primi anni in perfetta solitudine, ha iniziato recentemente ad avvalersi di contributi da parte di altri musicisti, tra i quali in particolare quello del chitarrista Rokdhan: questo finisce inevitabilmente per arricchire un sound che ha le sue fondamenta nel black metal ma da lì si muove per costruire un qualcosa di più composito, che attinge parimenti dal doom più catacombale come da quella dark wave che andò ad influenzare i Katatonia della superba coppia The Discouraged Ones / Tonight’s Decision.
Macabre possiede un notevole gusto melodico che favorisce la fruizione di un lavoro lungo ma ricco di momenti dal forte impatto emotivo, coincidenti per lo più con i passaggi maggiormente ragionati all’interno di brani bellissimi come Echoes From The Coffin, Onguent Mortuaure e Invocation A La Momie, oltre che nella lunghissima Portrait Ovale.
Pur senza possedere un forte impulso innovativo, il nome Mortis Mutilati si fa ricordare per un’interpretazione musicale delle pulsioni più oscure dell’animo umano tutt’altro che inflazionata, con il suo incedere tragico e allo stesso tempo decadente che va a comporre un quadro stilistico ben rappresentato graficamente dalla copertina horror/vintage.
Tracklist:
1.Nekro
2.Echoes From The Coffin
3.Crevant-Laveine
4.Regards D’outre Tombe
5.Onguent Mortuaure
6.Portrait Ovale
7.Homicidal Conscience (feat. Devo Andersson)
8.Invocation A La Momie
9.L’odeur du Mort
10.Ecchymoses
I modelli presi ad esempio dai Monads sono importanti ed ingombranti ma il quintetto belga non sfigura affatto nel confronto, in virtù di una proposta la cui essenzialità non va mai a discapito della costruzione di un sound aspro e, nel contempo, intriso di una malinconia che resta per lo più soffusa ma ugualmente percepibile.
Quella offerta dai belgi Monads è una delle sempre gradite sorprese che allietano gli appassionati di doom alla ricerca di nuove realtà capaci di introdurli nei meandri di un sentire plumbeo e dolente.
La band fiamminga si è mostrata una prima volta nel 2011 con il demo Intellectus Iudicat Veritatem, per poi non dare più notizie di sé discograficamente prima di questo primo full length intitolato IVIIV.
Nonostante la collocazione in ambito funeral, si intuisce fin da subito che il sound dei Monads possiede più sfaccettature perché, dopo un ottimo incipit in linea con la tradizione del genere, troviamo arpeggi chitarristici che riportano a certo post metal e a quei passaggi più rarefatti tipici dei Mournful Congregation, la seminale band dalla quale i nostri traggono sicuramente ispirazione (non solo per il monicker che ne richiama uno dei lavori più importanti, The Monad Of Creation).
I quattro lunghi brani rimandano quindi all’emisfero australe senza però dimenticare la migliore tradizione centro europea del genere, rinvenendo talvolta una certa vicinanza agli Worship, ma senza raggiungere la stessa esasperazione nel rallentare i ritmi.
Così le trame acustiche, oltre ad essere apprezzabili, non vanno a spezzare la tensione ma preparano semmai il ritorno sul proscenio del growl e di un riffing pesante e diluito.
L’album non lascia soverchi spazi alla melodia andando a raffigurare uno scenario immoto e monocromatico, con l’eccezione parziale costituita da un brano come The Despair of an Aeon, magnifico per la potente drammaticità che riesce ad evocare nel corso del suo quarto d’ora di funesto incedere.
I modelli presi ad esempio dai Monads sono importanti ed ingombranti ma il quintetto belga non sfigura affatto nel confronto, in virtù di una proposta la cui essenzialità non va mai a discapito della costruzione di un sound aspro e, nel contempo, intriso di una malinconia che resta per lo più soffusa ma ugualmente percepibile. IVIIV si rivela così un esordio su lunga distanza di assoluto livello, a conferma della qualità esibita in maniera puntuale dalle band facenti parte del roster della Aestethic Death.
Tracklist:
1. Leviathan as My Lament
2. Your Wounds Were My Temple
3. To a Bloodstained Shore
4. The Despair of an Aeon
Desolate Grief è un lavoro ottimo, che rafforza nei Faal lo status di band di spessore ed emblema di una maniera coerente, efficace e non scontata di interpretare la materia funeral/death doom.
Gli olandesi Faal appartengono ad una scena che, in ambito funeral/death doom, conta su una tradizione consolidata.
L’ultima uscita della band di Breda risale al 2015, quando occupò la seconda meta di uno split album in compagnia degli Eye Of Solitude.
Il brano offerto in quell’occasione, Shattered Hope, era piuttosto rappresentativo del sound dei Faal, una band che, seppure ascrivibile a pieno titolo all’interno del funeral melodico, non rinuncia a a proporre spunti più robusti ed aspri, rendendo sicuramente meno prevedibile la proposta.
Restano però quale fulcro del lavoro le dolenti armonie che i Faal, mai come questa volta, riescono a rendere nel migliore dei modi, avvolgendo l’ascoltatore di una cappa di tristezza che non sfocia mai nella disperazione, lasciando spazio ad una malinconia che si sublima in una brano magnifico come Grief. No Silence, invece, è esempio lampante di quanto il gruppo olandese riesca a fare quando aumenta i giri del motore, mantenendo alta la tensione e senza smarrire la componente melodica che sarà nostra fedele compagna fino al termine di Desolate Grief: è bellissimo in questa traccia (vicino ai dieci minuti così come le altre tre, escludendo l’intro) il lavoro chitarristico che punteggia prima un notevole crescendo emotivo e poi si lascia andare a quelle litanie funebri, che tanto amano gli appassionati del genere.
Una buona ma meno intensa (nonostante il titolo) Evoking Emotions fa da cuscinetto prima della degna conclusione dell’album con The Horizon, con il growl di William Nijhof che fa vibrare anche le casse, mentre fanno capolino gradite sfumature post metal che vanno ad intrecciarsi con ritmiche ingannevolmente rallentate, visto che a metà brano arriva una sfuriata che rappresenta un ultimo sussulto, quasi una reazione scomposta all’ineluttabile e penosa discesa agli inferi coincidente con la fine di un lavoro ottimo, e che rafforza nei Faal lo status di band di spessore ed emblema di una maniera coerente, efficace e non scontata di interpretare la materia funeral/death doom.
Tracklist:
1. Intro
2. Grief
3. No Silence
4. Evoking Emotions
5. The Horizon
Line-up:
William Nijhof – Vocals
Gerben van der Aa – Guitars
Pascal Vervest – Guitars
Remco Verhees – Drums
Vic van der Steen – Bass
Cátia Uiterwijk Winkel-André Almeida – Synths
Riedizione in formato cd, da parte della Aesthetic Death, del demo d’esordio degli Esoteric, rimasterizzato dallo stesso Greg Chandler e rivestito di una nuova veste grafica: come si vede, non mancano i motivi di interesse per gli appassionati di doom.
Se ogni tanto la riedizione dei primi passi discografici di una band può risultare superflua se non addirittura fuorviante, sia a causa di suoni non ottimali sia perché poco rappresentativa dello stile musicale sviluppato in seguito, di certo lo stesso non si può dire riguardo alla riproposizione in formato cd del primo demo degli Esoteric, intitolato Esoteric Emotions – The Death Of Ignorance.
E’ stata una serie di favorevoli coincidenze, tra le quali la ricorrenza del venticinquesimo anno di attività della band e l’unità di intenti da parte di Greg Chandler e Stu Gregg (proprietario della Aesthetic Death), a rendere nuovamente disponibile sul mercato un lavoro che ormai era reperibile solo sotto le sembianze di bootleg dallo scadente rapporto qualità/prezzo, offrendolo al contrario in un formato curato anche dal punto di vista grafico e sonoro.
Al di là della bontà dell’opera, che per assurdo andrebbe ascoltata senza conoscere la successiva produzione di uno dei gruppi monumento del doom, in modo da poterla apprezzare senza subire una percezione distorta del suo valore, preme rimarcarne l’importanza storica, dato che uscì in un periodo, l’inizio degli anni novanta, nel quale diverse band stavano cominciando a proporre quella forma diluita e rallentata all’inverosimile di death metal che sarebbe poi divenuta il funeral.
A differenza di molti altri musicisti, Greg Chandler non rinnega affatto quanto composto e pubblicato agli inizi della carriera e, nonostante gli Esoteric sia siano con il tempo trasformati in una band giustamente oggetto di culto per la sua interpretazione del genere che ne rifugge gli stilemi tipici , la scelta di riproporre il demo in versione rimasterizzata dimostra più di tante parole quanto egli stesso ritenga quella prima uscita un passo importante, non solo dal punto di vista storico, ma anche da quello dello sviluppo futuro del sound del suo gruppo.
D’altra parte Esoteric Emotions – The Death of Ignorance non appare neppure oggi così obsoleto, a ben vedere, perché non di rado capita di ascoltare lavori di band che si rifanno senza troppe remore a quelle sonorità, a tratti crude ed essenziali, che racchiudono i prodromi di quel funeral doom dei quali gli Esoteric, assieme a Thergothon, Skepticism, Evoken, Mournful Congregation e Disembowelment, hanno dettato alcune delle principali linee guida.
Per chi nutrisse qualche dubbio, l’ascolto di due brani magnifici come Scarred e Eyes of Darkness (non a caso i due più lunghi e “funerei” dell’opera) dovrebbe dissipare ogni residua perplessità, rendendo l’acquisto di questo frammento di storia del metal estremo qualcosa in più di un semplice atto dovuto.
Tracklist:
1. Esoteric
2. In Solitude
3. Enslavers of the Insecure
4. Scarred
5. Eyes of Darkness
6. Infanticidal Fantasies
7. Expectations of Love
8. The Laughter of the Ignorant
Line-up:
Original line-up
Bryan Beck – Bass
Stuart – Guitars
Gordon Bicknell – Guitars, Keyboards
Greg Chandler – Vocals
Darren Earl – Drums
Simon Phillips – Guitars