In Flames – I, The Mask

Ribadire quanto grandi fossero gli In Flames di The Jester Race, Whoracle e Colony risulta ormai quantomeno superfluo, perché la band continua imperterrita per la sua strada e a noi tutti non resta che prenderne atto e decidere se seguirla o rivolgerci altrove.

Non era certo un’impresa per gli In Flames riuscire a pubblicare un album più convincente del precedente Battles, che aveva deluso fans e addetti ai lavori per una eccessiva atmosfera nu metal che cancellava completamente le ultime scorie melodic death.

I, The Mask risolleva in parte le sorti dello storico gruppo svedese grazie ad un sound che, se rimane assolutamente “americano”, vede comunque in una scaletta di buone canzoni l’arma per riscattarsi.
Sia chiaro una volta per tutte: la band che negli anni novanta, contribuì a mettere a ferro e fuoco l’Europa amalgamando lo swedish death con il metal classico ed inventando di fatto uno dei generi più popolari tra le truppe metalliche, non esiste più da quasi vent’anni e la separazione con il suo fondatore (Jesper Strömblad) è stato lo strappo definitivo con tutto quello che il gruppo ha rappresentato fino al masterpiece Clayman.
Gli In Flames odierni sono un gruppo in continua evoluzione, per assurdo più rock che metal, capitanato da un Anders Fridén diventato probabilmente il miglior cantante in circolazione nei confini dell’alternative metal.
Lo screaming/growl è una garanzia e le clean fanno piazza pulita dei vocalist alle prese con la doppia voce in giro per il circuito: Fridén si è calato completamente nei nuovi In Flames che ha contribuito in maniera importante a modellare, insieme ai chitarristi Björn Gelotte e Niclas Engelin.
Il nuovo lavoro è dunque un passo avanti in termini qualitativi, la band questa volta ha azzeccato tutto o quasi, completando una tracklist che convince dall’inizio alla fine, con una serie di brani che vivono di melodie ruffiane inserite in un metal alternativo che non dovrebbe trovare ostacoli aldilà dell’oceano, anche se ha un’impronta leggermente meno nu metal rispetto al suo predecessore.
Ci sono brani dove ritornelli rock la fanno da padrone, altri in cui le chitarre alzano la testa, addirittura tre ballad ed un’atmosfera radiofonica che riempie di appeal le varie Voices, (This Is Our) House, In This Life e Stay With Me.
Ribadire quanto grandi fossero gli In Flames di The Jester Race, Whoracle e Colony risulta ormai quantomeno superfluo, perché la band continua imperterrita per la sua strada e a noi tutti non resta che prenderne atto e decidere se seguirla o rivolgerci altrove.

Tracklist
1. Voices
2. I, The Mask
3. Call My Name
4. I Am Above
5. Follow Me
6. (This Is Our) House
7. We Will Remember
8. In This Life
9. Burn
10. Deep Inside
11. All The Pain
12. Stay With Me

Line-up
Anders Fridén – Vocals
Björn Gelotte – Guitars
Bryce Paul – Bass
Niclas Engelin – Guitars
Joe Rickard / Tanner Wayne – Drums

IN FLAMES – Facebook

Afraid of Destiny – S.I.G.H.S.

S.I.G.H.S. può rappresentare per gli Afraid Of Destiny una sorta di compendio definitivo dei primi 5-6 anni di carriera, propedeutico alla creazione di nuovo materiale inedito in grado di consolidare il nome di questa realtà dal grande potenziale non ancora del tutto espresso.

Il depressive black in Italia è un sottogenere magari non diffusissimo ma sicuramente esibito a livello per lo più ottimo dai suoi interpreti, tra i quali rinveniamo gli Afraid of Destiny, tipico esempio di band nata come progetto solista e poi evolutasi nel corso del tempo in una realtà più composita e, soprattutto, in grado di proporre anche  dal vivo la propria musica.

L’attività degli Afraid of Destiny è stata piuttosto intensa in questi sei anni decorsi dal demo d’esordio, così, oltre a diverse uscite minori, troviamo tre full length dei quali l’ultimo è questo S.I.G.H.S., uscito per Talheim Records, anche se di fatto il lavoro comprende per buona parte la rivisitazione di brani composti dal fondatore Adimere quando era ancora neppure maggiorenne.
In effetti, le prime tracce dell’album sembrerebbero mostrare più un gruppo dedito ad un black atmosferico e ragionato, per quanto cupo, ben rappresentato dalla buonissima Shells, sulla quale offre un gran bel contributo chitarristico Thomas Major dei Deadspace, ma è nella seconda metà del lavoro che prende campo un incedere più malinconico e ripiegato su una negatività di fondo, che vede quale suo ideale prologo Tutto Ciò che Sento, un dialogo tratto dal film “Lei” sul quale si incastonano struggenti note pianistiche.
Il lungo strumentale I’m Crying (proveniente dal primo full length Tears Of Solitude, così come la conclusiva Killed By Life) rappresenta un bellissimo intermezzo ricco di atmosfere e melodie che mostrano un volto più malinconico e struggente che non disperato, introducendo al meglio il dolente sentire acustico di Cursed and Alone e l’interludio pianistico Malinconica Venezia, prima che la già citata Killed By Life, traccia molto lunga (ancor più di quanto non lo fosse nella sua prima stesura grazie ad un’appendice strumentale) quanto intensa, chiuda in maniera ottimale l’album descrivendo il vortice di sensazioni disseminate lungo il percorso che conduce ad un’ineluttabile quanto tragica conclusione.
S.I.G.H.S. (che è peraltro l’acronimo di Still I Gently Hide Sadness) è un’opera che si snoda lungo vari sentieri stilistici come è  prevedibile quando i brani in esso contenuti sono stati composti in diverse epoche e quindi a qualche anno di distanza l’uno dall’altro: troviamo così episodi di black tout court come Take Me Home, Death assieme a malinconici affreschi acustici che riconducono a sonorità di matrice dark doom, ma il tutto comunque convive senza troppe forzature; almeno in quest’occasione il sentire depressivo viene veicolato musicalmente (e anche a livello di interpretazione vocale da parte di R.F. Sinister)  più con un senso di rassegnazione che non di rabbia impotente: questo consente agli Afraid Of Destiny di risultare graditi, oltre agli ascoltatori gravitanti in ambito black, anche da chi ama farsi cullare da sonorità cupe e a tratti intimiste.
Considerando che un po’ tutta la storia della band è stata, fino ad oggi, caratterizzata da uscite volte anche al riassemblaggio o al recupero di brani dalla genesi più datata e che il compositore principale Adimere è ancora molto giovane, mi piace pensare che S.I.G.H.S. possa essere per gli Afraid Of Destiny una sorta di compendio definitivo dei primi 5-6 anni di carriera, propedeutico alla creazione di nuovo materiale inedito in grado di consolidare il nome di questa realtà dal grande potenziale non ancora del tutto espresso.

Tracklist:
1 – Timor Mortis
2 – Take Me Home, Death
3 – Shells
4 – Tutto Ciò che Sento
5 – I’m Crying (Tears of Solitude MMXIX)
6 – Cursed and Alone
7 – Malinconica Venezia
8 – Killed by Life

Line-up:
R.F. Sinister: vocals
Adimere: rhythm guitars, bass, laments on ‘Shells’

M.S. (ex member): solo guitars
N. (Blaze of Sorrow): session drums
B.M. (Skyforest, ex Annorkoth): session piano
Thomas Major (Deadspace): guest solo on Track 3
Laura Zaccagnini: guest lyrics on Track 6

AFRAID OF DESTINY – Facebook

Mechanical God Creation – The New Chapter

La The Goatmancer Records si è presa cura del nuovo album targato Mechanical God Creation e la bestia estrema torna ad annichilire con una dozzina di esplosioni sonore che, tra ripartenze death/thrash, frenate di scuola classica e melodie strepitose, segnano questa prima metà dell’anno, almeno per quanto riguarda le nuove uscite del genere.

Nella scena death metal tricolore ormai da anni si viaggia su livelli qualitativamente alti, con il metal estremo che permette agli artisti di sfogare tutta la loro creatività in sonorità dalle atmosfere lontane tra loro ma facenti parte di un unico straordinario modo di concepire e suonare musica dura.

Dalle atmosfere progressive a quelle swedish death, dalle influenze statunitensi a quelle black/death della scena est europea, per gli amanti del buon vecchio death metal c’è solo l’imbarazzo della scelta, senza dimenticare (come nel caso dei Mechanical God Creation) il death/thrash.
Il quintetto lombardo attivo dal 2006, arriva con questo nuovo macigno sonoro al terzo full length, sei anni dopo il precedente Artifact of Annihilation e nove dal debutto licenziato nel 2010 ed intitolato Cell XIII.
Si cammina in un mondo distrutto, sulle ceneri di un’umanità collassata e la colonna sonora della fine del mondo non può che essere un death/thrash metal dalle atmosfere apocalittiche, tecnicamente sopra la media, pregno di melodie chitarristiche che tradiscono ispirazioni melodic death si una struttura classica che accomuna il death metal statunitense, con la furia slayerana che ricorda monumenti estremi come Season In The Abyss.
A raccontare di questa fine annichilente è il growl disumano di Luciana “Lucy” Catananti, una delle migliori vocalist del genere in senso assoluto, straordinaria interprete delle devastanti tracce che compongono questo The New Chapter, nuovo capitolo di una band rimasta in silenzio troppo tempo.
Oltre alla cantante segnaliamo il gran lavoro di tutta la band, che vede Mirko e Francesco alle chitarre, Jesus al basso e Carlo alla batteria, autrice di una serie di brani che rendono imperdibile questo gioiellino estremo come I Am The Godless Man, la devastante e tecnicissima Till the Sun Is No Longer Black, la monumentale Overlord (PT II) e la melodica Bow To Death.
La The Goatmancer Records si è presa cura del nuovo album targato Mechanical God Creation e la bestia estrema torna ad annichilire con una dozzina di esplosioni sonore che, tra ripartenze death/thrash, frenate di scuola classica e melodie strepitose, segnano questa prima metà dell’anno, almeno per quanto riguarda le nuove uscite del genere.

Tracklist
1.The New Chapter
2.I Am the Godless Man
3.Till the Sun is No Longer Black
4.Walking Dead (pt.I)
5.Before the Dawn
6.Overlord (pt.II)
7.What Remains (pt.III)
8.Black Faith
9.Dark Echoes
10.Bow to Death
11.Warface
12.Red Blood on White Snow

Line-up
Lucy – Vocals
Jesus – Bass
Francesco – Guitar
Mirko – Lead Guitar
Carlo – Drums

MECHANICAL GOD CREATION – Facebook

Slot – 200 кВт

200 кВт è composto da una dozzina di brani che ripercorrono l’alternative nu metal in tutti i suoi cliché, animati dalla giusta grinta e da una Nookie indomabile, con titoli e testi rigorosamente in lingua madre e un impatto da band navigata.

La Sliptrick Records, dopo il best of con il meglio dei sette album pubblicati dalla band, licenzia il nuovo album degli Slot, gruppo alternative metal capitanato dalla cantante Nookie, famosa in patria per aver partecipato con successo alla versione russa di The Voice, nonché leader della band che porta il suo nome.

Il nuovo album, intitolato 200 кВт, vede sempre la talentuosa singer duettare con il suo alter ego Cache in quaranta minuti che si specchiano nel nu metal di matrice statunitense, un modern che si allontana dal metalcore di moda in questo periodo per tornare a suonare rock su parti campionate, accenni rap e groove a palla.
Nookie è ancora una volta l’arma in più del quintetto russo, una tigre dalla versatilità sorprendente, una vera calamita per l’ascoltatore, comunque tenuto per le palle da un sound elettrizzante, moderno, melodico, cattivo e graffiante il giusto per non restare ad appannaggio di fans under quattordici.
200 кВт è composto da una dozzina di brani che ripercorrono l’alternative nu metal in tutti i suoi cliché, animati dalla giusta grinta e da una Nookie indomabile, con titoli e testi rigorosamente in lingua madre e un impatto da band navigata.

Tracklist
01. 200 кВт
02. Кукушка
03. ЗОЖ
04. Я выберу солнце
05. Естественный отбор
06. Сколько денег
07. На марс!
08. Не все равно
09. #ЯЩЕТАЮ
10. Система
11. Ильич (Son Of A Bitch)
12. Вселенная

Line-up
Nookie – Female Vocal
Cache – Male Vocals, Programming
ID – Guitar
Vasiliy GHOST Gorshkov – Drums
Nikita Muravyov – Bass

SLOT – Facebook

Svartelder – Pits

Underground sempre in fermento creativo con gli Svartelder,che con personalità ci immergono in un trip multidimensionale offrendoci un’ulteriore sfaccettatura del suono norvegese.

Underground sempre in fermento creativo con i norvegesi Svartelder, che giungono al loro secondo full dopo Pyres del 2016; black, sempre black, ma con una decisa personalità, trattandosi di band composta da musicisti non alle prime armi e attivi in molte altre band.

Malethoth, il bassista e compositore di tutte le musiche, ha un passato nei Den Saakaltde e un presente in act interessanti, come Horizon Ablaze e Pantheon I, mentre il singer Doedsadmiral lancia il suo scream sinistro e luciferino nei più noti Nordjevel, senza dimenticare Enepsigos e Doedsvangr. Non sono da meno Spektre, drummer nei Gaahls Wyrd, prossimi al debutto discografico, e Renton alle keyboards nei Trollfest. La band non suona live ma si concentra solo sul lavoro in studio e considera la propria musica “as a painting”, dove si riversano tutte le idee che non trovano spazio nelle altre avventure sonore; non ci sono barriere nello sviluppo creativo e l’ascolto dei sette brani di Pits dimostra la veridicità di tale affermazione. Black, memore si della old school, del resto siamo in Norvegia, ma ricco di sfumature dovute sia al lavoro chitarristico spesso “weird” alternato a momenti più suadenti, sia al drumming molto articolato soprattutto nei midtempo, mentre le tastiere sullo sfondo caricano la struttura con melodie scure e apocalittiche. Lo scream “accarezza” come una tagliente lama, le atmosfere malate create dal bassista a formare un tutt’uno particolare e dal sicuro fascino. La band non si lascia andare a sterili dimostrazioni tecniche o ad avanguardismi inutili, i brani sono compatti e come in tutte le opere di qualità necessitano di molteplici ascolti per un grande appagamento; la parte oscuramente melodica non è in primo piano ma è intessuta nelle trame fitte che accompagnano tutti i brani, immergendoci in un trip multidimensionale personale creato da musicisti liberi da schemi prefissati e con una grande voglia di suonare musica per offrirci un altro lato del suono norvegese. Ottima proposta per ascoltatori “open minded”.

Tracklist
1. Part I
2. Part II
3. Part III
4. Part IV
5. Part V
6. Part VI
7. Part VII

Line-up
Doedsadmiral – Vocals
Maletoth – Guitars, Bass
Spektre – Drums
Renton – Keyboards

SVARTELDER – Facebook

Queensrÿche – The Verdict

The Verdict è un ritorno più che valido e che permette al gruppo di affrontare nuovi tour con la consapevolezza di essere ancora una band con molto da dire e non una sorta di auto-cover band come appaiono tanti reduci dagli anni ottanta.

La curiosità rispetto a come avrebbe suonato il nuovo album di una delle band più influenti del metallo progressivo mondiale non era poca, a quattro anni di distanza dall’ultimo lavoro che, per un gruppo con quasi quarant’anni di carriera sulle spalle, possono diventare un’eternità.

Ed invece The Verdict risulta un album fresco e potente, in cui le sfumature progressive sono meno in risalto che in passato e dove il mestiere del nuovo vocalist (ed in questo caso anche batterista, per la defezione dello storico Scott Rockenfeld) si fa sentire eccome.
Attenzione ho parlato di mestiere e non di talento, volutamente, e non perché Todd La Torre non ne abbia, anzi, ma è indubbio che la sua prova vocale copre il buco lasciato da Geoff Tate definitivamente, tirando fuori grinta e quel poco di personalità che forse mancavano nei due lavori precedenti, richiamando quando lo si richiede il leggendario singer, mettendosi in gioco pure come batterista e facendo il suo egregiamente, senza far gridare al miracolo in tutti e due i casi.
The Verdict dunque è un album in cui la parte del leone la fanno le canzoni, potenti e metalliche, valorizzate da una produzione moderna e cristallina, con refrain e chorus dal tasso melodico di categoria superiore, anche se ovviamente l’olimpo del metal progressivo non è più cosa per lo storico gruppo di Seattle.
L’album, se lo si prende per quello che è, non delude: l’errore di paragonare il nuovo corso della band con il passato remoto sarebbe troppo facile e non darebbe il giusto risalto ad una tracklist che se, invece, la si confronta con tante opere odierne, merita un posto di rilievo.
Blood Of The Levant, brano che parla della guerra in Siria ed apertura epico drammatica per uno degli album più U.S. power dell’intera discografia dei Queensrÿche, mette subito in chiaro l’atmosfera che regna in The Verdict: Light-Years, la potentissima Propaganda Fashion, lo splendido mid tempo di Bent sono le gemme metalliche che fanno di questo nuovo album un ottimo motivo per tornare a parlare del gruppo, ormai saldamente in mano al chitarrista Michael Wilton.
The Verdict è un ritorno più che valido e che permette ai Queensrÿche di affrontare nuovi tour con la consapevolezza di essere ancora una band con molto da dire e non una sorta di auto-cover band come appaiono tanti reduci dagli anni ottanta.

Tracklist
1. Blood of the Levant
2. Man the Machine
3. Light-years
4. Inside Out
5. Propaganda Fashion
6. Dark Reverie
7. Bent
8. Inner Unrest
9. Launder the Conscience
10. Portrait

Bonus Disc (European Box Set Edition Only)
1. I Dream in Infrared (Acoustic)
2. Open Road (Acoustic)
3. 46° North
4. Mercury Rising
5. Espiritu Muerto
6. Queen of the Reich – Live 2012
7. En Force – Live 2012
8. Prophecy – Live 2012
9. Eyes Of A Stranger – Live 2012

Line-up
Todd La Torre – Vocals, Drums
Michael Wilton – Guitar
Parker Lundgren – Guitar
Eddie Jackson – Bass

QUEENSRYCHE – Facebook

Illimitable Dolor – Leaden Light

Il death doom atmosferico degli Illimitable Dolor trova qui la sua ideale sublimazione, grazie ad un songwriting che in ogni suo frammento è finalizzato ad evocare emozioni struggenti, anteponendo l’aspetto melodico a qualsiasi altra sfumatura stilistica.

Quando gli Illimitable Dolor circa due anni fa apparvero sulla scena, nonostante il valore intrinseco del bellissimo album d’esordio, c’era la sensazione che potessero rappresentare solo un estemporaneo progetto parallelo ai The Slow Death, band che forniva buona parte della line up, in virtù anche delle motivazioni che erano alla base della loro formazione, ovvero l’omaggio a quello che fu per anni il vocalist di quella band, Greg Williamson, scomparso nel 2014.

In realtà, l’uscita di diversi singoli e lo split album con i Promethean Misery hanno mantenuto ben attivo il gruppo, cosicché questo nuovo Leaden Light non arriva inatteso ma costituisce ugualmente una piacevole sorpresa.
Infatti il death doom atmosferico degli Illimitable Dolor trova qui la sua ideale sublimazione, grazie ad un songwriting che in ogni suo frammento è finalizzato ad evocare emozioni struggenti, anteponendo l’aspetto melodico a qualsiasi altra sfumatura stilistica.
Ciò che ne deriva sono cinquanta minuti nel corso dei quali il genere viene offerto al suo massimo livello sconfinando sovente nel funeral a livello ritmico e mantenendo sempre al massimo la tensione emotiva.
Leaden Light, in fondo, dimostra che per scrivere un grande disco in ambito doom non serve fare voli pindarici ma è sufficiente incanalare l’ispirazione all’interno di una struttura ben delineata che non lascia spazio a divagazioni, volta com’è ad avvolgere l’ascoltatore in una cappa di malinconia che alla lunga diviene un confortevole approdo.
Gli Illimitable Dolor, che oggi al trio dei fondatori Stuart Prickett (chitarra e voce), Yonn McLaughlin (batteria e voce) e Dan Garcia (basso) aggiungono il tastierista Guy Moore, prendono il meglio delle band europee ed americane dedite al genere, vi inseriscono quella dose necessaria di plumbea drammaticità dei conterranei Mournful Congregaton e da tutto ciò fanno scaturire cinque tacce stupende, commoventi e cullanti, tra le quali spiccano l’opener Armed He Brings The Dawn, la traccia più lunga del lavoro, con la quale gli australiani avviluppano in maniera irrimediabile l’ascoltatore nelle loro spire per poi annichilirlo emotivamente con il capolavoro Horses Pale And Four, semplicemente una delle migliori dimostrazioni di funeral/death doom atmosferico ascoltate negli ultimi tempi.
Leaden Light è l’ennesimo grande disco che il genere sta offrendo in questo periodo e, ovviamente, chi ama simili sonorità non può fare a meno di gioire soprattutto quando proposte di tale livello non provengono dai nomi più noti e consolidati della scena, bensì da band relativamente nuove e sicuramente meno conosciute: la certezza che queste sonorità saranno il nostro consolatorio rifugio anche negli anni a venire, è una delle poche che ci restano di questi tempi, per cui teniamocela ben stretta …

Tracklist:
1. Armed He Brings The Dawn
2. Soil She Bears
3. Horses Pale And Four
4. Leaden Light Her Coils
5. 2.12.14

Line-up:
Stuart Prickett – Guitars, Vocals (The Slow Death, Horrisonous)
Yonn McLaughlin – Drums, Vocals (The Slow Death, Nazxul)
Dan Garcia – Bass (The Slow Death)
Guy Moore – Keyboards (ex-Elysium)

ILLI MITABLE DOLOR – Facebook

Nekrofilth – Worm Ritual

Mezz’ora di violenza sonora senza compromessi, un aggressione sonora senza soluzione di continuità è quello che ci propone il trio, quindici brani che di media non superano i due minuti, altrettante mitragliate old school tra Venom, e thrash teutonico.

Dall’underground estremo statunitense arrivano i Nekrofilth, terzetto di thrashers che tra l’Ohio ed il Colorado da una decina d’anni mettono a ferro e fuoco i padiglioni auricolari dei fans con il loro death/thrash old school che ha prodotto una marea di split e demo ed un paio di full length: Devil’s Breath licenziato nel 2013 e questo nuovo assalto sonoro intitolato Worm Ritual.

Thrash metal vecchia scuola si diceva, ed infatti nelle quindici tracce che compongono l’album la band glorifica il genere, aggiungendo un’attitudine black che li avvicina ai Venom (coverizzati con il brano Poison).
Mezz’ora di violenza sonora senza compromessi, un aggressione sonora senza soluzione di continuità è quello che ci propone il trio, quindici brani che di media non superano i due minuti, altrettante mitragliate old school tra Venom, e thrash teutonico.
I Nekrofilth sparano le loro cartucce con un impatto notevole e non sono pochi i brani che convincono (Vomit Dog, Night Of The Leech e la conclusiva Horror From The Crypt su tutti), la produzione regge bene e l’infernale caos che il gruppo riversa sull’ascoltatore risulta perfettamente leggibile.
Una band che nel genere dice sicuramente la sua, consigliata ai fans del thrash primordiale e maligno.

Tracklist
1.Ready to Defile
2.Dead Brain
3.Rot with the Dead
4.Vomit Dog
5.Repulsed at Birth
6.Night of the Leech
7.Cruel Addiction
8.Feast of the Rats
9.Gutter Oil
10.Severed Eyes
11.They Took My Skin
12.Unbirthed
13.Worm Ritual
14.Poison [Venom cover]
15.Horror of the Crypt

Line-up
Zack Rose – Vocals, Guitars
Disgustin’ Justin – Bass
Shaggy – Drums

NEKROFILTH – Facebook

Rotting Christ – The Heretics

The Heretics è tutt’altro che un lavoro scialbo e trascurabile , perché in più di un brano si riconoscono i tratti avvolgenti e corrosivi dei tempi migliori, abbinati ad altre tracce gradevoli ma di maniera, rese comunque interessanti dal ricorso a voci salmodianti o recitanti e da riferimenti lirici mai banali.

Tornano con il loro tredicesimo album su lunga distanza i Rotting Christ, icona del metal ellenico la cui storia ormai ultratrentennale è costellata da alcuni capolavori, da ottimi dischi e da altri buoni ma certo non epocali.

A questo novero appartengano sostanzialmente tutti i lavori sopraggiunti dopo Theogonia, quello che almeno personalmente ritengo il vero ultimo e indiscutibile squillo discografico della band dei fratelli Tolis.
Negli anni Sakis ha lodevolmente provato a rendere più vario il sound inserendovi elementi etnici o ricorrendo anche ad ardite sperimentazioni (vedi la collaborazione con Diamanda Galas in Aealo), ma questo ha fatto smarrire d’altro canto quel dono della sintesi esibito di norma tramite il caratteristico riffing, essenziale ma assolutamente trascinante nel suo crescendo.
E così era più che lecito pensare che anche The Heretics fosse soprattutto il pretesto per i Rotting Christ per intraprendere un nuovo tour, in compagnia degli altri campioni del metal sudeuropeo come i Moonspell, con il rischio di una frettolosa archiviazione a favore dei grandi lavori incisi a cavallo tra i due secoli.
Ma The Heretics, in realtà, è tutt’altro che un lavoro scialbo e trascurabile, perché in più di un brano si riconoscono i tratti avvolgenti e corrosivi dei tempi migliori, abbinati ad altre tracce gradevoli ma di maniera rese comunque interessanti dal ricorso a voci salmodianti o recitanti e da riferimenti lirici mai banali; se è vero che la freschezza compositiva degli anni migliori è ormai un ricordo e che i momenti rimarchevoli del disco, alla fin fine, riconducono a quegli schemi che chi ama i Rotting Christ conosce a menadito, non si può negare che canzoni come In The Name of God, Heaven and Hell and Fire, Fire God And Fear e The Raven siano efficaci, coinvolgenti e sicuramente in grado di surriscaldare adeguatamente l’atmosfera dei locali che vedranno prossimamente la band greca esibirsi dal vivo.
Considerando le voci che avevano anticipato l’uscita del lavoro definendolo fiacco e privo di motivi di interesse, unito al fatto che, almeno per certa critica, vi sono band di nome (in compagnia dei nostri citerei per esempio i Dream Theater) che oggi, anche che riscrivessero la bibbia del metal riceverebbero delle stroncature a prescindere, sono stato piacevolmente sorpreso da The Heretics, che non è certo reato considerare un’opera degna della fama di Sakis e soci a condizione di non attendersi che ogni volta venga pubblicato un nuovo Non Serviam.
D’altra parte l’album tende a crescere dopo ogni ascolto, un sintomo che spesso si rivela indicativo dell’effettivo valore di un disco, e francamente, se quella manciata di brani che ho citato fossero stati scritti da una band all’esordio se ne parlerebbe con ben altra enfasi; per cui, a fronte della contrapposizione tra chi riterrà The Heretics una delusione ed altri che ne canteranno le lodi in eterno, senza voler fare un facile esercizio di “cerchiobottismo” mai come questa volta si può tranquillamente affermare che la verità sta esattamente nel mezzo.

Tracklist:
1. In The Name of God
2. Vetry Zlye (Ветры злые)
3. Heaven and Hell and Fire
4. Hallowed Be Thy Name
5. Dies Irae
6. I Believe (ΠΙΣΤΕΥΩ)
7. Fire God And Fear
8. The Voice of the Universe
9. The New Messiah
10. The Raven

Line-up:
Sakis Tolis: vocals, guitar
Themis Tolis: drums
Vangelis Karzis: bass
George Emmanuel: guitar

Guest Musicians:
Irina Zybina (GRAI): Vocals on ‘Vetry Zlye’
Dayal Patterson: Intoning on ‘Fire God and Fear’
Ashmedi (MELECHESH): Vocals on ‘The Voice of the Universe’
Stratis Steele: Intoning on ‘The Raven’

ROTTING CHRIST – Facebook

S91 – Along The Sacred Path

Along The Sacred Path è un lavoro di grande spessore musicale, un esempio di musica metallica progressiva che, alla tecnica dei musicisti ed alla splendida voce della protagonista femminile, aggiunge un songwriting sopra la media ed una facilità d’ascolto sorprendente per un contesto così maturo e complesso, sia musicalmente che concettualmente.

Non solo demoni, diavoli ed entità oscure, ma anche le epiche vicende della storia cristiana possono diventare ispirazione per creare musica rock/metal di altissima qualità.

Gli S91 sono un gruppo toscano arrivato, con questo bellissimo lavoro dal titolo Along The Sacred Path, al terzo full lenght di una carriera iniziata dieci anni fa e che l’ha visto esordire con l’album Volontà Legata nel 2011, seguito da Behold The Mankind, licenziato tre anni fa.
Il concept è incentrato su diversi personaggi che hanno contribuito alla storia del cristianesimo e alla diffusione del messaggio evangelico, diventato il tessuto della moderna società occidentale.
Accompagnato da una splendida ed oscura copertina, Along The Sacred Path è un lavoro di grande spessore musicale, un esempio di musica metallica progressiva che, alla tecnica dei musicisti ed alla splendida voce della protagonista femminile, aggiunge un songwriting sopra la media ed una facilità d’ascolto sorprendente per un contesto così maturo e complesso, sia musicalmente che concettualmente.
L’album attira l’attenzione dalle prime note dell’opener Constantine The Great, mettendo subito in risalto la componente metallica, a tratti supportata da atmosfere moderne, altre volte più in linea con il prog metal di Shadow Gallery, Dream Theater e Vanden Plas e facendo da contraltare alla voce della cantante in un saliscendi di sfumature evocative ed epiche esaltate una eleganza compositiva ed interpretativa notevole.
Non esistono passaggi a vuoto, i brani si susseguono uno più intenso dell’altro, parlando di grandi personaggi della storia in un clima di grande musica progressiva, dura come l’acciaio, spiazzante per tecnica esecutiva, perfetta nel saper alternare la durezza del metal (Olaf II Haraldsson) ad atmosfere più pacate ma ugualmente epiche drammatiche (Joan Of Arc, Martin Luther).
Along The Sacred Path si rivela così un lavoro da non perdere per gli amanti del metal progressivo: le band di riferimento sono quelle citate, ma si tratta di esili paragoni che nulla tolgono in fatto di personalità e sagacia compositiva al lavoro degli S91.

Tracklist
1.Constantine the Great
2.Saint Patrick
3.Pope Gregory I
4.Olaf II Haraldsson
5.Godfrey of Bouillon
6.Joan of Arc
7.Martin Luther
8.John Williams
9.Dietrich Bonhoeffer

Line-up
Maria “Marì” Londino – Lead vocals
Francesco “Frank” Londino – Keyboards
Francesco “Franz” Romeggini – Guitars, lead and backing vocals
Giacomo “Jack” Manfredi – Bass
Giacomo “Giachi” Mezzetti – Drums and percussions

S91 – Facebook

Innero – ChaosWolf

Il black metal offerto dagli Innero è offerto in maniera piuttosto tradizionale senza aderire però pedissequamente ai modelli nordici orientandosi, piuttosto, verso un approccio più epico e melodico.

Dalle note biografiche degli Innero salta subito all’occhio il fatto che la band è stata fondata da tre ex membri dei Màlnatt, il che potrebbe indurre in errore pensando di poter ritrovare nel black metal offerto dal gruppo bolognese parte della dissacrante e folle inventiva che ha sempre contraddistinto l’operato della creatura di Porz.

In realtà gli Innero, per assurdo, sorprendono semmai in virtù di una certa ortodossia perché qui il genere è offerto in maniera piuttosto tradizionale senza aderire però pedissequamente ai modelli nordici orientandosi, piuttosto, verso un approccio più epico e melodico.
In tal senso, appare eloquente una taccia come Durum in Armis Genus, dai connotati che riportano con decisione ai Primordial, con tanto di voce stentorea in stile Averill utilizzata al posto dello screaming evidenziato nei primi tre brani; d’altra parte, se un modello si doveva scegliere, quello della band irlandese è senz’altro di grande spessore e il fatto che non siano moltissimi i gruppi che l’hanno eletta quale punto di riferimento contribuisce a rendere il sound non troppo inflazionato.
In effetti, è proprio nella seconda metà dell’album che gli Innero paiono esplorare con maggiore profondità ed efficacia questo versante sonoro che interpretano sicuramente in modo coinvolgente, conferendo al tutto anche un’aura drammatica riscontrabile in Open Eyes, traccia che beneficia di una splendida introduzione per poi snodarsi nervosa con l’alternanza di accelerazioni e passaggi evocativi dalla notevole enfasi epica.
Questo è senza dubbio il volto migliore degli Innero, i quali dovrebbero spingere ancor più in questa direzione senza temere d’essere considerati poco originali perché, come già detto in più occasioni, chiunque suoni oggi black metal ha un suo punto di riferimento riscontrabile in maniera più o meno esplicita, per cui la differenza la fa il saperne reinterpretare la lezione introducendovi il giusto livello di pathos e convinzione.

Tracklist:
1.Among Wolves
2.The Shaman
3.Unbowed, Unbent, Unbroken
4.Durum in Armis Genus
5.Alone
6.Open Eyes
7.Under the Moon We Gather

Line-up:
Fuscus – Bass
Crassodon – Drums
Arctos – Guitars
Alces – Vocals

INNERO – Facebook

Iron Fire – Beyond The Void

Descrizione Breve Gli Iron Fire hanno dato vita ad un ottimo esempio di power metal come non se ne sentiva da tempo e perderselo sarebbe un peccato mortale.

Tornano con un nuovo potentissimo lavoro i danesi Iron Fire, band che debuttò nell’anno zero del nuovo millennio.

Sorta di ventata di aria fresca in una scena che stenta a tornare a livelli di una ventina d’anni fa, l’ormai trio di Copenaghen licenzia un album possente di true power metal alla Rage, band che più si avvicina al sound che ha sempre contraddistinto i lavori targati Iron Fire. Dopo otto album con cui il gruppo ha attraversato vent’anni di storia metallica, Beyond The Void vede la band nella formazione a tre, con Martin Steene al basso e voce, Kirk Backarach alla chitarra e Gunnar Olsen alla batteria pronti a distribuire potente metal classico, dall’impatto di un elefante in mezzo ad una cristalliera. Spaccano tutto gli Iron Fire, diretti e rocciosi ma con brani che, quando vengono attraversati da input melodici, si trasformano in salmi scritti nella sacra bibbia dell’heavy/power metal. L’album è stato mixato e masterizzato da Tue Madsen (The Haunted, Dark Tranquillity) e licenziato dall’ottima Crime Records, una garanzia per i suoni classici, risultando un lavoro imperdibile per i defenders sparsi per l’Europa. Gli Iron Fire danno una lezione di come si suona il power metal, senza orpelli sinfonici o elucubrazioni progressive, ma spingendo sulla potenza in contesto heavy metal, epico, roccioso, oscuro e duro come l’acciaio. Martin Steene si conferma un singer di genere, maschio, ruvido ma melodico all’occorrenza, un po’ come Peavy Wagner (e si torna a parlare di Rage) e, grazie ad una sezione ritmica tellurica ed una raccolta di brani massicci, tra cui spiccano le bellissime Beyond The Void, Cold Chains Of The North e Old Habits Die Hard, il nuovo album risulta una mazzata power metal da non perdere. Gli Iron Fire hanno dato vita ad un ottimo esempio di power metal come non se ne sentiva da tempo e perderselo sarebbe un peccato mortale.

Tracklist
1. Intro
2. Beyond the Void
3. Final Warning
4. Cold Chains of the North
5. Wrong Turn
6. Bones and Gasoline
7. Old Habits Die Hard
8. Judgement Day
9. To Hell and Back
10. One More Bullet
11. The Devils Path
12. Out of Nowhere

Line-up
Martin Steene – Vocals & Bass
Kirk Backarach – Guitar
Gunnar Olsen – Drums

IRON FIRE – Facebook

The Scars In Pneuma – The Paths Of Seven Sorrows

Un debutto potente e che marca in maniera possente il territorio e soprattutto un buon disco di black metal melodico con intarsi death ed epic.

Epico, mastodontico, un monolite sonoro che possiede bellissime trame sonore, esaltando il senso più autentico del black metal.

Saturazione dello spazio, l’aria si restringe mentre esce dalle casse il debutto dei bresciani The Scars In Pneuma. Da più parti questo suono è definito melodic black metal, ed in un certo qual senso è una definizione azzeccata, perché qui la melodia ha uno spazio importante, ma non aspettatevi un qualcosa di melenso, anzi. La melodia ed il black metal qui si incontrano per dare vita ad una proposizione molto epica del nero metallo e il pathos raggiunge alti livelli. I The Scars In Pneuma non sono più giovanissimi e, grazie all’esperienza, condensano in questo lavoro molte delle loro idee musicali e delle loro influenze sonore. The Paths Of Seven Sorrows è un disco molto ben bilanciato e con canzoni notevoli, lo spirito dell’amante del black metal viene appagato in maniera esaustiva grazie anche ad alcuni momenti che si avvicinano al death metal. Il progetto nacque nel dicembre 2019 come esercizio solista del chitarrista, bassista e cantante Lorenzo Marchello e durante il 2017 sono entrati gli altri due validi elementi come Francesco Lupi e Daniele Valseriati. Da quel momento si è lavorato per scrivere ed incidere il presente lavoro, hanno impiegato il tempo necessario ed il risultato è qui fra noi. Grazie a questo lavoro si possono vivere varie e vive emozioni, e si sente in maniera molto distinta che chi ha scritto questo album ha un grande amore per il metal e per il black in particolare, oltre che molte storie da raccontare. Una opus molto densa ed appagante, che ci mostra come la nostra vita sia sia epica che molto fragile, ed in questa forbice ci stiamo noi. Un debutto potente e che marca in maniera possente il territorio e soprattutto un buon disco di black metal melodico con intarsi death ed epic.

Tracklist
1.Devotion
2.Souls Are Burning
3.Spark To Fire To Sun
4.All The Secrets That We Keep
5.Dark Horizons Ahead
6.The Glorious Empire Of Sand
7.Constellations

Line-up
Lorenzo Marchello – vocals, guitars, bass
Francesco Lupi – guitars, keyboards
Daniele Valseriati – drums

THE SCARS IN PNEUMA – Facebook

Phobonoid – La Caduta Di Phobos

La peculiarità delle opere targate Phobonoid era già in pectore nei lavori precedenti, ma qui trova una sua importante conferma e se l’unica difficoltà nell’ascolto de La Caduta di Phobos risiede nel suo fluire come se si trattasse di una sola traccia, non c’è dubbio che i quaranta minuti necessari per ascoltare l’intero lavoro si riveleranno decisamente ben spesi.

A quattro anni dal primo full length omonimo, e a sei dall’ep di esordio Orbita, si rifà vivo il progetto Phobonoid, interessante realtà creata da Lord Phobos.

La più grande delle due lune di Marte è un riferimento costante in tutto l’immaginario poetico e musicale creato dal musicista trentino e non sorprende, quindi, che il concept continui a seguire quelle coordinate accompagnato da un sound in cui convergono pulsioni industrial, black e doom. Come nei lavori precedenti il contributo della voce viene confinato sullo sfondo dalla produzione ma, fondamentalmente, il fulcro dell’operato di Lord Phobos risiede in una parte musicale che è sempre contraddistinta da un naturale incedere cosmico che, volendo esemplificare al massimo, riporta ai Mechina sul versante industrial black e ai Monolithe per quanto riguarda quello doom.
Tutto ciò contribuisce a rendere il sound nervoso, solenne e al contempo minaccioso, del tutto adeguato al racconto di un viaggio interstellare che il protagonista intraprende per trovare rifugio dopo la distruzione di Phobos; proprio il suo essere sorretto da un’idea ben precisa, anche dal punto di vista concettuale, rende il sound decisamente personale e in grado di emanare un suo oscuro fascino, distribuito in maniera equa lungo tutte le dieci tracce presenti nell’album, nel corso delle quali il passaggio tra le varie sfumature sonore avviene in maniera quanto mai fluida.
La peculiarità delle opere targate Phobonoid era già in pectore nei lavori precedenti, ma qui trova una sua importante conferma e se l’unica difficoltà nell’ascolto de La Caduta di Phobos risiede nel suo fluire come se si trattasse di una sola traccia, non c’è dubbio che i quaranta minuti necessari per ascoltare l’intero lavoro si riveleranno decisamente ben spesi.

Tracklist:
1.26.000 al
2.La Caduta di Phobos
3.Titano
4.TrES-2b
5.CoRot-7b
6.GU Psc b
7.KOI-1843 b
8.WASP-17b
9.MOA-192b
10.A-Crono

Line-up:
Lord Phobos

PHOBONOID – Facebook

To The Rats And Wolves – Cheap Love

Ascoltare Cheap Love dei tedeschi To The Rats And Wolves e rimanere fermi è impossibile.

Ascoltare Cheap Love dei tedeschi To The Rats And Wolves e rimanere fermi è impossibile.

I ragazzi da Essen sono attivi dal 2012 e hanno all’attivo un ep e due dischi sulla lunga distanza. Si autodefiniscono electro metalcore, ma in realtà sono un notevole gruppo pop. Canzone dopo canzone sfornano ritornelli dolci e che ti si attaccano alla testa senza staccarsi più, grazie anche alla bella voce di Dixi Wu che concatena bene le mosse della band. Ci sono dei momenti più grintosi ma il tutto è molto melodico ed armonioso, con l’elettronica che ha un ruolo importante. Le chitarre metalcore compaiono abbastanza spesso, specie nella seconda parte del disco, ma le cose migliori appaiono quando si vira decisamente sul pop. In campo metalcore i To The Rats And Wolves sono bravi ma si perdono nelle schiere dei gruppi che fanno questo sottogenere del metal, mentre quando uniscono metalcore, elettronica e pop sono assai notevoli e spiccano su tutti. Come detto poc’anzi, ascoltare il disco e non muoversi è davvero difficile. Le canzoni che compongono Cheap Love sono quelle che canterete sotto la doccia vergognandovi un po’, perché ne potrebbe risentire la vostra fama di metallaro duro e puro, invece non potete farne a meno ed è molto divertente. Qui alla base di tutto c’è il groove, una forma di melodia che pervade il tutto e nella quale questi ragazzi sono molto bravi. Chi cerca il metal qui forse rimarrà deluso, ma chi cerca un qualcosa per divertirsi e ballare questa è la festa giusta. Ci sono momenti di illuminazione pop come non si sentiva da tempo, e questa è una sintesi molto moderna di qualcosa che parte da lontano e che alcuni giovani di oggi hanno sintetizzato molto bene. Tendenzialmente chi ha più di trent’anni tende a catalogare come pessima questa musica senza nemmeno sentirla, ma questo disco è valido e va ascoltato. Per farvi un’idea il singolo Down rende bene cosa faccia questo gruppo, provate a non cantarne a squarciagola il ritornello…

Tracklist:
01 – Cheap Love
02 – Therapy
03 – All the Things
04 – Never Stop
05 – Friendz
06 – Look What You Made Us Do
07 – True (feat. Trevor Wentworth)
08 – Cure
09 – Famous
10 – B.I.C.
11 – Down

Line-up
Dixi Wu – vocals
Nico Sallach – vocals
Danny Güldener – guitars
Marc Dobruk – guitars
Stanislaw Czywil – bass
Simon Yildirim – drums

TO THE RATS AND WOLVES – Facebook

Alexandra Zerner – Opus 1880

Opus 1880 si rivela un lavoro monumentale, consigliato agli amanti delle opere di Lucassen e agli ascoltatori del metal/rock progressivo.

Alexandra Zerner è una chitarrista e polistrumentista di origine bulgara, e questo mastodontica opera progressiva dal titolo Opus 1880 è il suo terzo album di una carriera solista iniziata nel quattro anni fa con il debutto 9 Stories e proseguita con il successivo Aspects.

Conosciuta e rispettata nell’ambiente shred, la Zerner ha collaborato ad una miriade di progetti prima di dedicarsi alla sua musica che arriva con questo lavoro alla consacrazione.
Due ore di musica divisa in due cd seguendo la storia di una donna in cerca dell’amore, un lungo viaggio in una linea temporale parallela iniziato appunto nel 1880.
Sci-Fi e prog metal non sono una novità essendo un connubio già sviluppato ampiamente da Arjen Anthony Lucassen con il suo progetto Ayreon, al quale la musicista di Sofia si ispira non poco, anche se le tante sinfonie orchestrali negli album del folletto olandese sono sostituite dai momenti in cui la chitarra prende il sopravvento e ci investe con parti strumentali dalla tecnica sopraffina.
Considerare Opus 1880 il classico album del talentuoso musicista di turno risulta però una colossale cantonata: i brani, nelle due lunghe ore di musica, si fregiano di splendide aperture progressive, atmosfere pregne di melodie e di raffinato metallo, per cui l’ascolto è consigliato soprattutto agli amanti dei suoni progressivi.
L’enorme mole di musica prodotta dalla Zerner merita sicuramente di non passare inosservata, essendo per di più valorizzata da una manciata di ospiti che aiutano la chitarrista in questa nuova e splendida avventura.
Sul primo cd una menzione particolare la meritano le bellissime Quest Of Light e Pinch Of Time, mentre passando al secondo supporto è The Other Side Of The Sky Part 2 a deliziarci con melodie progressive di stampo settantiano.
Opus 1880 si rivela un lavoro monumentale, consigliato agli amanti delle opere di Lucassen e agli ascoltatori del metal/rock progressivo.

Tracklist
Disc 1
1.Overture
2.Chaos of Cards
3.The Oracle
4.Mirrors
5.Quest of Light
6.The Sound of Dreaming
7.Questions
8.Letter to Nowhere
9.Diamind
10.Pinch of Time
11.The Missed Dance

Disc 2
1.Desaturation Point
2.Master of Lightning
3.The Other Side of the Sky, Pt. 1
4.Unfairlytale
5.Cumulonimbi
6.Dolphins
7.Electric Kisses
8.Sensosphere
9.Five Gardens
10.The Other Side of the Sky, Pt. 2
11.Youtopia

Line-up
Alexandra Zerner – Guitars, Bass, Keyboards, Mandolin, Drum programming

ALEXANDRA ZERNER – Facebook

Hell’s Guardian – As Above So Below

Anche questo nuovo lavoro è promosso a pieni voti, ora resta solo da supportare una band che nel genere suonato lancia il guanto di sfida alle realtà che giungono da oltre confine, vincendo per freschezza compositiva, impatto diretto e senza fronzoli ed una nuova vena orchestrale che rende raffinate atmosfere e sfumature.

Tornano gli Hell’s Guardian con il secondo lavoro sulla lunga distanza, successore di Follow Your Fate, debutto licenziato nel 2014.

La band bresciana si ripresenta sul mercato con un album che in parte riconferma la propria proposta, anche se nel nuovo As Above So Below trovano più spazio sfumature orchestrali che rendono più raffinato un sound rodato e dalle influenze che guardano come sempre alle terre del nord Europa.
Il gruppo, con il nuovo bassista Claudio Cor al basso ed una manciata di ospiti che danno il loro importante contributo su alcune tracce, come Marco Pastorino (Temperance, Light & Shade), Adrienne Cowan (Seven Spires, Winds of Plauge, Light & Shade), Ark Nattlig Ulv (Ulvedharr), Fabrizio Romani (Infinity) e Mirela Isaincu, convince con un album che porta qualche novità senza stravolgere la propria idea di metal melodico ed estremo, con un lavoro che non mancherà di trovare estimatori tra gli amanti del death metal melodico così come in quelli dai gusti classicamente power.
Ottimo il lavoro chitarristico di scuola Amorphis (Blood Must Have Blood, 90 Days), l’atmosfera symphonic power è presente ma non invadente come in altre realtà
e lo stesso vale per l’epica oscurità classica del death metal melodico, che ovviamente fa la differenza aiutata da un growl possente stemperato a tratti da evocativi interventi delle voci pulite (la title track, My Guide My Hunger).
Anche questo nuovo lavoro è promosso a pieni voti, ora resta solo da supportare una band che nel genere suonato lancia il guanto di sfida alle realtà che giungono da oltre confine, vincendo per freschezza compositiva, impatto diretto e senza fronzoli ed una nuova vena orchestrale che rende raffinate atmosfere e sfumature.

Tracklist
1.Over The Line
2.Crystal Door
3.As Above So Below
4.Blood Must Have Blood
5.Waiting… For Nothing
6.90 Days
7.Lake Of Blood
8.Jester Smile
9.My Guide My Hunger
10.I Rise Up
11.Colorful Dreams

Line-up
Cesare Damiolini – Vocals, Guitars
Freddie Formis – Guitars
Claudio Cor – Bass
Dylan Formis – Drums

HELL’S GUARDIAN – Facebook

Saor – Forgotten Paths

Forgotten Paths rafforza lo status acquisito dai Saor senza apportare particolari novità, se non per la presenza di ospiti importanti, ma effettivamente non c’era alcuna necessità di modificare uno schema compositivo che sta continuando a dare ottimi frutti.

Ci ritroviamo a parlare di questo interessante progetto solista proveniente dalla Scozia, ad un anno di distanza dal precedente full length Guardians.

Andy Marshall è riuscito meritatamente a costruirsi un buon seguito, essendo sostanzialmente uno dei principali fautori della commistione tra il folk scozzese ed il black metal.
Forgotten Paths, quarto lavoro su lunga distanza con il marchio Saor, rafforza lo status acquisito dal musicista di Glasgow senza apportare particolari novità, se non per la presenza di ospiti importanti, tra i quali Neige, ma effettivamente non c’era alcuna necessità di modificare uno schema compositivo che sta continuando a dare ottimi frutti.
Infatti, nei tre lunghi brani più lo strumentale posto in chiusura, rinveniamo le atmosfere epiche ed ariose alle quali Marshall ci ha piacevolmente abituato in passato e delle quali, francamente, non ci si stanca quando sono proposte con tale maestria. Se vogliamo, l’unica zavorra che non è ancora stata eliminata dal contesto Saor è la voce, perché tra le molte doti riconosciute al nostro di sicuro non c’è quella di uno screaming efficace ed interpretativo, ma in fondo la cosa appare non così rilevante alla luce dell’approccio stilistico che privilegia di gran lunga le parti strumentali.
Se la title track è un brano valido ma nella media, nonostante l’ospitata di Neige che, inconsapevolmente o meno, contribuisce ad “alcestizzare” il tutto, è la successiva è sognante Monadh ad offrire il volto migliore dei Saor, ovvero quello capace di emozionare evocando i tipici scenari naturalistici della terra scozzese.
Bròn è invece una traccia che alterna sfuriate sempre sorrette da un’impalcatura melodica e passaggi più rarefatti, tra i quali fa la sua comparsa la voce femminile fornita dalla meravigliosa Sophie Rogers.
Il più breve episodio acustico Exile chiude un album che non fa gridare al miracolo ma che convince, comunque, in ogni sua parte, grazie alla consolidata capacità dimostrata da Marshall nel far convivere al meglio le due componenti fondamentali del sound dei Saor.

Tracklist:
1. Forgotten Paths
2. Monadh
3. Bròn
4. Exile

Line-up:
Andy Marshall – All instruments, Vocals

Guests:
Carlos Vivas – Drums
Neige – Vocals (additional, track 1)
Kevin Murphy – Bagpipes (track 3)
Lambert Segura – Violin
Sophie Rogers – Vocals (female, track 3)
Glorya Lyr – Everything (track 4)

SAOR – Facebook

Maestus – Deliquesce

Un atmosferico funeral doom è quanto ci offrono gli statunitensi Maestus: imponenti squarci strumentali evocativi,intrisi di romantica oscurità.

Importante e significativa seconda opera degli statunitensi Maestus, band formatasi nel 2013 e autrice nel 2015 del buon debutto Voir Dire; la materia trattata dagli artisti di Portland non è di immediata fruizione e tanto meno veloce assimilazione.

Il funeral doom offre tanto a livello sensoriale, ma come già affermato in passato, ha bisogno di dedizione, di attenzione, di una sensibilità particolare, non è per le masse ma per chi ama ascoltare con il cuore, lasciandosi travolgere da onde emotive di alto livello siano esse nostalgiche, amare, angoscianti e intrise di “extreme darkness”. Il quintetto statunitense, tra cui spicca la figura del bassista dei Pillorian, dimostra di avere buone frecce nel suo arco e in quattro lunghi brani, in media sopra i dieci minuti, propone un suono cangiante, con molte sfumature che esprimono la voglia dei musicisti di accostarsi anche ad altri suoni siano essi black e death. La band è capace di essere aggressiva e potente, ma il lato atmosferico è prevalente, l’amalgama tra le chitarre e le tastiere, suonate magnificamente da Sarah Beaulieu, raggiunge forti livelli di intensità e maestosità mantenendo alta l’attenzione e donanodoci un lavoro significativo. Ampi squarci strumentali ci rammentano quanto sia stata importante l’opera dei seminali Shape of Despair nella formazione musicale dei musicisti; il suono del piano all’inizio e alla fine della title track dona un tocco romantico a un brano estremamente coinvolgente ed evocativo. La capacità di variare l’atmosfera all’interno delle tracce, così come la versatilità dei due fratelli vocalist impreziosisce la struttura sonora mantenendo la tensione sempre alta e ricca di interesse. I cinquanta minuti di Deliquesce rappresentano la quintessenza dell’arte di una band che sta seguendo un proprio percorso, cercando una personalità definita. In definitiva i Maestus sono da seguire con attenzione e sono certo che chi ha a cuore l’ascolto di queste sonorità non mancherà l’appuntamento con la loro arte.

Tracklist
1. Deliquesce
2. Black Oake
3. The Impotence of Hope
4. Knell of Solemnity

Line-up
SP – Guitars, Keyboards, Vocals
KRP – Bass, Vocals
NK – Guitars
SB – Keyboards
CC – Drums

MAESTUS – Facebook