Lucifer’s Fall – Tales From The Crypt

L’album è di fatto è una raccolta di brani già licenziati in passato dai Lucifer’s Fall con l’aggiunta di alcun cover: non imprescindibile, ma quanto meno utile per farsi un’idea di quello che propongono questi doomsters australiani.

Sono passati un paio d’anni da quando ci occupammo degli australiani Lucifer’s Fall, quintetto di Adelaide attivo dal 2013 e al terzo lavoro sulla lunga distanza.

Tales From The Crypt nulla toglie e nulla aggiunge a quanto scritto in passato: la band offre agli amanti del genere un heavy doom classico, alternando brani più heavy a lenti passaggi sabbathiani.
Una proposta old school, ad iniziare dalla produzione che tanto sa di cripta maleodorante (come suggerisce il titolo), dove riti antichi risvegliano dal sonno millenario cadaveri rinsecchiti, poveri resti condannati a vagare sulla terra all’arrivo della notte; i primi due brani (Trapped In Satan’s Chains e Dirty Shits) fanno parte dell’anima hard & heavy del gruppo, con un rock duro ispirato alle band storiche e dall’attitudine settantiana che lascia poi spazio a jam classic doom come Deceiver e Cursed Priestess. L’album è di fatto è una raccolta di brani già licenziati in passato dai Lucifer’s Fall, con l’aggiunta di alcun cover che si rifanno alle discografie di Reverend Bizarre, Exciter ed Angel Witch: non imprescindibile, ma quanto meno utile per farsi un’idea di quello che propongono questi doomsters australiani.

Tracklist
1.Trapped in Satan’s Chains
2.Dirty Shits
3.Unknown Unnamed
4.Deceiver
5.Die Witch Die
6.Death of the Mother
7.Cursed Priestess (rehearsal)
8.Damnation (rehearsal)
9.The Mountains of Madness (rehearsal)
10.(Fuck You) We’re Lucifer’s Fall
11.Cromwell (partial unrehearsed jam) (Reverend Bizarre cover)
12.Stand Up and Fight (barely rehearsed version) (Exciter cover)
13.Angel Witch (Live 3D Radio) (Angel Witch cover)

Line-up
Deceiver – Bass, Guitars, Vocals
Unknown and Unnamed – Drums
Cursed Priestess – Bass
The Invocator – Guitars (lead)
Heretic – Guitars (rhythm)

LUCIFER’S FALL – Facebook

Ataraxie – Résignés

Il funeral death doom qui perde qualsiasi recondita connotazione consolatoria, per lasciare spazio ad un rabbioso disgusto che non rifugge del tutto aperture melodiche volte ad evocare solo disperazione piuttosto che un autoindulgente malinconia.

I francesi Ataraxie si sono ormai consolidati da tempo come una delle più efficaci ed importati band funeral doom europee, in virtù di poche ma mirate uscite disseminate nel corso del nuovo secolo.

Slow Transcending Agony e Anhedonie sono considerati, a ragione, album fondamentali nell’evoluzione del genere, così come anche il successivo in ordine di tempo, L’Être et la Nausée: con tali premesse era più che lecito attendersi una nuova esibizione di forza da parte del gruppo di Rouen.
Dopo aver sviscerato i diversi stati d’animo confluenti in un diffuso malessere esistenziale, gli Ataraxie ci raccontano oggi della rassegnazione di fronte all’ineluttabilità di una fine per certi versi anche auspicata, alla luce di una razza umana che mai come oggi sembra avviata verso una relativamente rapida (e meritata) estinzione.
Il funeral death doom qui perde qualsiasi recondita connotazione consolatoria, per lasciare spazio ad un rabbioso disgusto che non rifugge del tutto aperture melodiche volte ad evocare solo disperazione piuttosto che un autoindulgente malinconia.
People Swarming, Evil Ruling è un brano di rara durezza, grazie al quale i riff squadrati si abbattono come la mannaia del boia sugli sventurati che rassegnati attendono il loro turno, come raffigurato in copertina: la nuova formazione a tre chitarre, in tal senso, porta alle sue estreme conseguenze la potenza di un sound che a tratti assume le sembianze di un minaccioso rombo, come nella title track che sfocia in un crescendo spasmodico nel suo finale, lasciando sul terreno solo macerie bagnate da sangue e lacrime.
L’uscita del membro fondatore Sylvain Esteve ha portato in formazione altri due chitarristi, Julien Payan e Hugo Gaspar, ad affiancare Frédéric Patte-Brasseur, che con Jonathan Thery (basso e voce) e Pierre Senecal (batteria) costituisce oggi il nucleo storico della band, e ciò, se da una parte può aver rallentato il processo compositivo per il nuovo lavoro, d’altra parte ha conferito al sound una robustezza ed una solidità che rasentano la tetragonia; anche in Coronation of the Leeches, che prende avvio con più rarefatti arpeggi, è la possanza dei riff unita all’impietoso growl di Thery la costante di una struttura compositiva che concede i rari passaggi dal più dolente incedere nella conclusiva Les affres du trépas, venticinque minuti che prosciugano dal punto di vista psichico senza concedere illusori barlumi di speranza bensì ammantandosi dell’opprimente solennità che sfocia in un funeral dai connotati quanto mai disperati.
Il senso di vuoto, la rassegnazione, appunto, è tutto ciò che resta agli esseri umani, scadenti comparse di quel film dozzinale dall’impossibile lieto fine che è la loro permanenza sul pianeta: gli Ataraxie, tra i possibili dolenti cantori di questa millenaria tragedia, si confermano in assoluto tra i migliori.

Tracklist:
1.People Swarming, Evil Ruling
2.Résignés
3.Coronation of the Leeches
4.Les affres du trépas

Line-up:
Jonathan Thery – Bass & Vocals
Frédéric Patte-Brasseur – Guitars
Hugo Gaspar – Guitars
Julien Payan – Guitars
Pierre Senecal – Drums

ATARAXIE – Facebook

Open Door Of Doom – Open Door Of Doom

L’esordio degli Open Door Of Doom non è nulla di epocale ma sicuramente conserva sapori ed aromi di un tempo, sempre graditi a chi ama queste sonorità.

Gli Open Door Of Doom sono una band nata dalla collaborazione del trio australiano Eldritch Rites (Shayne Joseph, Trevor Scott e Adam Holmes) ed il cantante britannico Craig Capps (Cloak Of Shadows).

Ovviamente il monicker prescelto, al di là del background dei protagonisti, non lascia dubbi sul genere offerto, ovvero una doom che attinge alla tradizione del genere prendendo quali dichiarati punti di riferimento i Reverend Bizarre e i Pagan Altar.
L’operazione, risalente alla scorsa primavera e riproposta oggi formato digitale dalla Loneravn Records,  riesce piuttosto bene a questo inedito quartetto, visto che l’innesto della particolare voce di Craig (che in altri contesti esibisce anche un cognome d’arte come Osbourne, tanto per non lasciare dubbi di sorta sulle sue fonti di ispirazione) si rivela più funzionale ad un contesto che ripropone in maniera efficace la quintessenza del doom rispetto a quanto avvenuto recentemente con i meno convincenti Cloak Of Shadows.
In effetti, il trio australiano dimostra la sua competenza in materia ed in particolare un brano come Buried Alive sorprende con un finale incalzante, dopo essersi trascinato indolente per nove dei suoi tredici minuti e passa di durata, ma anche Deemed a Sinner tiene altra la soglia di attenzione dell’ascoltatore in virtù del buon lavoro chitarristico di Joseph.
Il nostro emulo di Ozzy non è sicuramente il miglior vocalist del pianeta ma in questo specifico ambito ci sta benissimo, forse perché la sua timbrica ben si inserisce in un contesto che rifugge qualsiasi idea di modernità per privilegiare un sound essenziale ma piuttosto efficace, soprattutto quando trova sfogo in repentine cavalcate oppure nei momenti in cui, come nel finale di These Confessions, prende piede un’indole psichedelica.
L’esordio degli Open Door Of Doom non è nulla di epocale ma sicuramente conserva sapori ed aromi di un tempo, sempre graditi a chi ama queste sonorità.

Tracklist:
1. Buried Alive
2. Ode2m
3. Deemed a Sinner
4. These Confessions

Line-up:
Trevor Scott – Bass
Adam Holmes – Drums
Shayne Joseph – Guitars
Craig Osbourne – Vocals

Liles/Maniac – Darkenig Ligne Claire

Il lavoro è un’esperienza sonora che ottiene un software differente usando due codici sorgenti diversi, quello del black metal e quello dell’elettronica libera.

Dimenticate totalmente il concetto di musica tradizionale, perché qui non è affatto presente.

Questa è musica totalmente sperimentale e di avanguardia, un uso di due linguaggi musicali differenti da fondere assieme e da ampliare ulteriormente in una maniera inedita. Sven Erik Fuzz Kristiansen aka Maniac è un veterano della scena black norvegese, ha anche cantato nei Mayhem durante i periodi 1986-88 e 1995-2004, quando il batterista Hellhammer decide di far rivivere i Mayhem dopo la morte dei membri Euronymous e Dead. Ha poi collaborato con Wurdalak e Bomberos, per poi fondare il gruppo Skitliv con Kvarforth, meglio conosciuto come Shining. L’altra metà di questo disco è il produttore polistrumentista nonché rumorista accanito Andrew Liles, che nella sua lunga carriera ha collaborato con i Nurse With Wound, i Current 93 e tantissimi altri, impossibile menzionarli tutti qui. Questo lavoro non è la prima collaborazione fra i due, dato che si incontrano per la prima volta durante l’edizione 2008 del Roadburn Festival curata da David Tibet (sempre lui), Liles viene successivamente invitato a unirsi alla line up dei Sehnsucht, una band fondata da Kristiansen, Ingvar e Vivian Slaughter. Una traccia di questa esperienza è l’album Wurte, registrato nel 2010. Liles e Kristiansen mantengono vivo il loro dialogo creativo fondando la band Svart Hevn e occasionalmente suonando dal vivo sia come Svart Hevn che come duo Liles/Maniac. Darkening Ligne Claire è tante cose diverse ma fondamentalmente è un disco di droni creati rimaneggiando la voce di Maniac, suoni elettronici totalmente disarmonici quassi fosse un dub in ecstasy del black metal. Il tutto nasce dalla visione delle fotografie di Christophe Szpajdel: qui la melodia non esiste e la furia del black si disperde negli eoni di una narrazione che è ancora più paranoica di quella originale. Il tutto è molto interessante e potrebbe essere la migliore colonna sonora possibile per un videogioco come Quake, con atmosfere tenebrose ma anche spaziali. Il lavoro è un’esperienza sonora che ottiene un software differente usando due codici sorgenti diversi, quello del black metal e quello dell’elettronica libera. Un mondo che viene scoperto da Liles e da Maniac e che è ancora da esplorare totalmente.

Tracklist
I – EMPEROR
II – ENTHRONED
III – FLAGELLUM DEI
IIII – SLAUGHTER MESSIAH
IIIII – SOULBURN
IIIIII – WOLVES IN THE THRONE ROOM
IIIIIII – NOCTUARY

Chalice Of Suffering – Lost Eternally

Lost Eternally eleva i Chalice Of Suffering ai livelli più alti nel genere: il sound della band statunitense, in virtù del suo incedere più ragionato, sembra davvero differenziarsi dai modelli presi a riferimento i cui contenuti vengono rielaborati  con una cifra stilistica che appare quanto mai personale.

Qualche anno fa, in occasione dell’album d’esordio For You I Die, in sede di recensione mi espressi moto favorevolmente sui Chalice Of Suffering,  nuova creatura dedita al death doom più atmosferico guidata da JohnMcGovern.

La peculiarità della band del Minnesota era quella di essere, in qualche modo, differente dalle altre, in virtù di un approccio atmosferico che, anche grazie al profondo recitato del vocalist, assumeva quasi i contorni di una sorta di dolorosa colonna sonora di un esistenza quanto mai grigia.
Dopo l’uscita di quell’album John ha dovuto affrontare problemi di salute piuttosto seri che, per fortuna, oggi sembrano superati e questo sembra aver ancor più acuito la sua sensibilità artistica: Lost Eternally è un concentrato di atmosfere plumbee e dolenti, melodicamente intense e praticamente quasi mai spinte su versanti estremi sia a livello ritmico che chitarristico (qui la coppia già collaudata nel precedente lavoro, formata da Nikolay Velev e Will Maravelas, si rende protagonista di un ottimo lavoro).
Altro valore aggiunto in questa occasione è quello costituito dalla partecipazione di diversi vocalist in qualità di ospiti e questo, ovviamente, rende ancor più interessante il tutto andando ad integrare al meglio il growl declamatorio di McGovern.
In the Mist of Once Was, traccia d’apertura scelta anche per esser accompagnata da un video, delinea in maniera chiara quale sarà l’impronta del lavoro, anche se qui il tocco in più fornito dal contributo delle bagpipes suonate da Kevin Murphy appare tutt’altro che secondario: il tradizionale strumento a fiato scozzese, infatti, rispetto all’album precedente appare perfettamente coeso con il dolente tessuto sonoro.
Come in buona parte degli altri lunghi brani (che si assestano mediamente sui dieci minuti ciascuno, a parte gli ultimi due relativamente più brevi) il sound sembra snodarsi placido per insinuarsi lentamente nell’immaginario dell’ascoltatore, il quale verrà poi scosso emotivamente da un magnifico crescendo finale; così avviene nella magnifica Forever Winter, che assieme alla successiva title track rappresenta il fulcro centrale di un album che qualsiasi amante del doom più evocativo ed atmosferico non potrà non apprezzare. Con l’eccezione di Miss Me, But Let Me Go, traccia leggermente più sostenuta a livello ritmico che, non a caso, vede la partecipazione di un musicista di estrazione death come l’indiano The Demonstealer, Lost Eternally è un fluttuante viaggio all’interno di sensazioni e turbamenti in grado di minare a turno le certezze di ognuno e che, nella poetica di McGovern, finiscono per fondersi in un unico drammatico sentire.
Lost Eternally eleva i Chalice Of Suffering ai livelli più alti nel genere: il sound della band statunitense, in virtù del suo incedere più ragionato, sembra davvero differenziarsi dagli storici modelli presi a riferimento i cui contenuti vengono rielaborati  con una cifra stilistica che appare quanto mai personale.

Tracklist:
1. In the Mist of Once Was
2. Emancipation of Pain
3. Forever Winter
4. Lost Eternally
5. The Hurt
6. Miss Me, But Let Me Go
7. Whispers of Madness

Line-up:
John McGovern – Vocals
Will Maravelas – Guitars/Keyboards
Aaron Lanik – Drums
Nikoley Velev – Guitars/Keys/Drums (on The Hurt, Lost Eternally, Emancipation of Pain)
Neal Pruett – Bass
Kevin Murphy – Bagpipes (on In the Mist of Once Was)

Guests:
Danny Woe of Woebegone Obscured (on Emancipation of Pain)
Demonstealer of Demonic Resurrection (on Miss Me, But Let Me Go with John)
Giovanni Antonio Vigliotti of Somnent (on Lost Eternally with John)
Justin Buller of Wolvenguard/In Oblivion (on The Hurt)

CHALICE OF SUFFERING – Facebook

Ewigkeit – DISClose

James Fogarty è un musicista in possesso di un grande talento che con il monicker Ewigkeit viene espresso in maniera compiuta e senza alcun filtro.

Ewigkeit è il progetto solista di James Fogarty, alias Mr. Fog, musicista attivo nella scena metal da oltre un ventennio nel corso del quale ha fatto parte di diverse band di spicco, tra le quali risalta di gran lunga l’ultima in ordine di tempo, i leggendari In The Woods.

La riuscita di un album come DISClose è motivata anche dal versatile lavoro vocale di Fogarty, uno di quei cantanti capaci di passare con disinvoltura da tonalità aspre ad evocative clean vocals senza lasciare spazio a perplessità di sorta.
Il primo full length a nome Ewigkeit risale addirittura al 1997 e quello in questione è il decimo della serie, considerando la riedizione nel 2017 dell’esordio Battle Furies in occasione del suo ventennale.
Il black metal che forniva la base stilistica dei primi lavori si è stemperato nel tempo in un metal decisamente melodico, pur se a tratti sempre doverosamente aspro, e così DISClose gode di una certa orecchiabilità che ne rende sicuramente l’ascolto non tropo arduo, a fronte comunque di una certa irrequietezza stilistica.
Questo se vogliamo rappresenta due facce della medaglia di un’opera valida in ogni sua fase, ma poco connotata in uno specifico genere per ritagliarsi magari un audience dedicata: il vantaggio, che va ben oltre ogni altra considerazione, è comunque rappresentato dal fatto che Fogarty in tal modo tiene ben lontano il rischio di annoiare gli ascoltatori con un sound eccessivamente ripetitivo. Le aperture verso sonorità più moderne ci sono ma avvengono in maniera molto fluida e senza snaturare un sound caleidoscopico che unisce melodia e note estreme in maniera esemplare.
DISClose offre grandi aperture melodiche inserite all’interno di strutture che, per lo più, di estremo hanno soprattutto lo screaming (anche se in questo caso avrei preferito per gusto personale un più frequente ricorso anche all’efficace growl che James ha sicuramente nelle sue corde), veleggiando tra progressive death, gothic doom, black avanguardistico e alternative rock/metal senza mai restituire il sound in una forma frammentata.
Ogni brano vive di squarci memorabili, sotto forma di chorus di grande impatto ed esaltati per lo più dall’evocativa voce pulita che Fogarty esibisce in maniera magistrale.
Disclosure e Resonance sono le due tracce del loto che preferisco, ma il bello di DISClose è che ognuno potrà trovare un proprio brano ideale che non deve necessariamente coincidere con quelli prediletti da altri: James Fogarty è un musicista in possesso di un grande talento che con il monicker Ewigkeit viene espresso in maniera compiuta e senza alcun filtro.

Tracklist:
1 – 1947
2 – Disclosure
3 – Oppenheimer’s Lament
4 – Guardians of the High Frontier
5 – Resonance
6 – KRLLL
7 – Moon Monolith

Line-up:
James Fogarty

EWIGKEIT – Facebook

Mammoth Weed Wizard Bastard – Yn Ol I Annwyn

Si conclude la trilogia iniziata nel 2015: cosmic doom per i gallesi Mammoth Weed Wizard Bastard, band personale con una forte identità.

Si chiude la trilogia, intrapresa nel 2015 con “Noec Ac Anoeth” e proseguita nel 2017 con “Y Proffwyd Dwyll” e i gallesi Mammoth Weed Wizard Bastard dimostrano, ancora una volta, di essere una band unica, capace di sedurre e ammaliare con il loro cosmic doom proiettato verso spazi oscuri e ancora insondati.

La band si è creata una propria identità nell’arco di breve tempo, quattro anni, e oggi con la nuova opera conclude il suo viaggio intergalattico regalandoci più di un’ora di suoni potenti, misteriosi variando la struttura degli otto brani, rendendoli assolutamente coinvolgenti. I cinque musicisti creano arte a un livello superiore immergendoci totalmente nel liquido amniotico delle loro influenze, siano esse atmosfere da “soundscapes” di immaginari film siano essi delicati abbozzi acustici, siano essi infiniti viaggi galattici; potenza, capacità melodica e fascino sono miscelati sublimamente e sono sovrastati dalla incredibilie e “otherwordly” voce di Jessica Ball, che con arti seduttive magiche è capace di penetrarti nel cuore e nel cervello senza più uscirne: le atmosfere incantate di Fata Morgana ci conducono in paesaggi fiabeschi e rilassanti, prima che le chitarre di Davies e Leon ristabiliscano tensione e potenza. La varietà di strutture ci porta ad assaporare lati melodici finora inediti della band che con i quattro minuti di Du bist jenzt nicht in der zukunft propone con affascinanti keyboards e suoni di archi un lato diversamente “pop” straniante e algido. L’uso abbastanza costante di moog e cello “colorano” le strutture dei brani ammorbidendo l’atmosfera che rimane comunque sempre tesa e viscerale; la ritmica incalzante e ipnotica della title track ci ricorda che la band, pur variando i suoni, ha ben chiaro in mente cosa vuol ottenere, un articolato e coinvolgente cosmic space doom. I brani sono molto ben suonati, mostrano una evoluzione lenta e costante e anche in uno strumentale lungo, come Katyusha, dall’incedere maestoso e sinistro, i musicisti mantengono grande convinzione e rendono i tredici minuti un lungo trip multidimensionale. Influssi del suono Hawkwind sono ormai perfettamente intessuti nei brani e un’ attitudine prog permea l’atmosfera generale; la band dichiara di non essere affatto interessata alla scena doom attuale, preferendo evolvere un suono che ora rappresenta completamente la loro identità. A detta del chitarrista Paul Davies l’eventuale sviluppo futuro del suono potrebbe essere un synth album, una soundtrack per un immaginario film, senza chitarre: progetto affascinante sicuramente ma spero ugualmente che la trilogia non ponga fine a questo progetto unico e assai affascinante.

Tracklist
1. Tralfamadore
2. The Spaceships of Ezekiel
3. Fata Morgana
4. Du bist jetzt nicht in der Zukunft
5. Yn Ol I Annwyn
6. Katyusha
7. The Majestic Clockwork
8. Five Days in the Abyss

Line-up
Jessica Ball – Vocals
James Carrington – Drums
Paul Michael Davies – Guitars, Effects
Wes Leon – Guitars, Effects
Stuart Sinclair – Bass

MAMMOTH WEED WIZARD BASTARD – Facebook

Teverts/El Rojo – Southern Crossroads

Southern Crossroads è uno split da non perdere per gli amanti dello stoner doom rock che vogliono approfondire la conoscenza della scena tricolore.

Questo split curato dalla Karma Conspiracy Records ci presenta due realtà psych/stoner provenienti dalle calde terre del sud Italia, Teverts ed El Rojo.

I due gruppi ci invitano ad una passeggiata nelle aride terre dove si respira l’afosa atmosfera del deserto americano che tanto ha ispirato le band storiche del genere.
I Teverts, con più di dieci anni di attività, un paio di lavori pubblicati ed una esperienza live che li ha portati a dividere il palco con nomi importanti della scena stoner/doom nazionale, ci ipnotizzano con il loro stoner rock venato di psichedelia.
Road to Awakeness ipnotizza con le sue sfumature che evidenziano una vena pinkfloydiana su un tappeto di rock duro proveniente dagli angoli più remoti della Sky Valley.
Un sound lavico, un sinuoso discendere lungo aridi crinali come micidiali serpi, questo risulta lo stoner rock dei Teverts.
Gli El Rojo arrivano dalla provincia di Cosenza, hanno pubblicato il loro debutto lo scorso anno (16 Inches Radial) e con The Longest Ride si avvicinano di più al doom classico rispetto ai loro compagni di split.
Un doom chiaramente pregno di umori stonati, potente, pachidermico, venato da ispirazioni settantiane e dalle band di casa Hellhound Records, è quello che troviamo in The Longest Ride, magnifico brano che in coppia con il precedente vanno a formare uno split da non perdere per gli amanti del genere che vogliono approfondire la conoscenza della scena tricolore.

Tracklist
01. Road to Awakeness (Teverts)
02. The Longest Ride (El Rojo)

Line-up
Teverts :
Phil – Guitars/voices
Mario – Bass
Angela – Drums

El Rojo:
Evo Borruso – Vocals
Luigi Grisolia – Guitar 2016 – 2018
Fabrizio Miceli – Guitar 2019 – now
Fabrizio Vuerre – Guitar
Pasquale Carapella – Bass
Antonio Rimolo – Drums

TEVERTS – Facebook
EL ROJO – Facebook

Endimion – Latmus

Latmus si dipana per circa un’ora di musica destinata a restare confinata, a livello di ascolti, entro i confini degli appassionati più accaniti del genere i quali, comunque, non resteranno delusi da una prova di buona sostanza.

Ritroviamo i cileni Endimion a ben otto anni dall’uscita del precedente full length che aveva messo in evidenza luci ed ombre di una proposta ancora troppo abbozzata per potersi rivelare competitiva nel contesto del death doom internazionale.

Latmus mostra un naturale quanto auspicato progresso, pur senza smarrire le caratteristiche di un sound ancora volutamente privo di fronzoli e spunti atmosferici.
Il genere, nell’interpretazione di questa band sudamericana, vive di un impatto piuttosto ruvido nel quale il riffing è il growl spingono il tutto verso il lato più estremo del genere; con tutto ciò, però, il sound appare meglio focalizzato e non del tutto scevro di aperture melodiche o acustiche.
L’utilizzo della lingua spagnola fornisce pur sempre una connotazione particolare a un sound che convince molto più che in passato grazie a una maggiore fluidità nell’alternare le diverse componenti.
Palabra vacías è un brano che si rivela abbastanza esaustivo in tal senso, in quanto mostra diversi spunti di pregio che non vengono confermati da una traccia inizialmente piuttosto tetragona per poi aprirsi melodicamente grazie a buon lavoro chitarristico.
Latmus si dipana, così, per circa un’ora di musica destinata a restare confinata, a livello di ascolti, entro i confini degli appassionati più accaniti del genere i quali, comunque, non resteranno delusi da una prova di buona sostanza.
Detto questo gli Endimion, anche nell’ambito di una scena fertile come quella doom cilena, restano un gruppo di seconda fascia ma non per questo meritano d’essere trascurati

Tracklist:
1. Ascenso
2. Palabra vacías
3. Vigilia
4. Espectro
5. Efialtis
6. Arpegios de viento
7. Eones de piedra
8. Naos Katara
9. Orgasmos de Selene
10. Contemplación

Line-up:
Matias Ibañez – Vocals
Francisco Campos – Guitars
Victor Ibañez – Bass
Fabian Alarcon – Drums
Tomas Ibañez – Guitars

ENDIMION – Facebook

Horrisonous – A Culinary Cacophony

Band da non perdere di vista per un auspicato passo avanti verso una personalità più accentuata, gli Horrisonous convincono comunque e si meritano una chance dagli amanti del death/doom di matrice old school.

Si chiamano Horrisonous, vengono dall’Australia e suonano death/doom come si faceva nei primissimi anni novanta, aggiungendo al sound pesantissimo tematiche gore.

Niente di nuovo sotto il sole di Sydney dirà qualcuno, ed effettivamente il quintetto proveniente dalla terra dei canguri si impossessa di una formula consolidata e suona metal estremo con poca fantasia, ma tanta potenza ed impatto.
Piace questo debutto, intitolato A Culinary Cacophony e licenziato dalla Memento Mori, primo full lenght del gruppo dopo l’ep d’esordio uscito nel 2016 (The Plague Doctors), un lavoro che torna a valorizzare quel tipo di sound che dagli inossidabili Asphyx porta agli Incantation ed ai tedeschi Incubator.
Massiccio e senza alcuna possibilità di trovare la minima melodia i più facile ascolto, A Culinary Cacophony ha il pregio di far dimenticare presto la sua totale devozione alle band citate, affascinando dopo pochi ascolti grazie a brani potentissimi e ben strutturati come Perpetual Mincing, Flesh Presented for Orgasmic Torment e la conclusiva The Number of the Feast.
Band da non perdere di vista per un auspicato passo avanti verso una personalità più accentuata, gli Horrisonous convincono comunque e si meritano una chance dagli amanti del death/doom di matrice old school.

Tracklist
1.Kuru Worship
2.The Gavage
3.Perpetual Mincing
4.A Tale of Matriphagy
5.Flesh Presented for Orgasmic Torment
6.Crispy Chunks of the Obese
7.Nourishment Through Excrement
8.The Number of the Feast

Line-up
Bianca Jamett – Bass
Stuart Prickett – Guitars
Dan Garcia – Guitars
Yonn McLaughlin – Vocals
Aled Powell – Drums

HORRISONOUS – Facebook

Tankograd – Totalitarian

Questi quattro polacchi si insinuano con il loro sound nel nostro immaginario quasi di soppiatto, e quello che ad un primo ascolto può sembrare un disco di doom come tanti, a lungo andare continua a ronzare in testa sotto forma di squarci melodici ed intuizioni da band di ottimo livello: un buon motivo per prestare attenzione ad un lavoro davvero intrigante.

L’esordio dei polacchi Tankograd è all’insegna di un doom aspro, essenziale e poco incline a svolazzi atmosferici che male si addicono a tematiche sempre ostiche come quelle inerenti la guerra.

I racconti di natura bellica proposti dalla band di Varsavia sono volti ad esibire il volto più cupo e anche squallido dei conflitti, nulla a che vedere quindi con la narrazione di gesta eroiche o di epiche battaglie. Il cantato, sempre in lingua madre, ad eccezione di Arkhangelsk, non è affatto monocorde ma cerca d’essere espressivo in ogni frangente e per far questo Herr Feldgrau adotta uno stile che dal pulito giunge sino ad un harsh neppure troppo spinto; tale buona varietà è strettamente connessa all’andamento del lavoro, che mantiene un’oscurità solo venata di malinconia, comunque lontana da derive troppo estreme con la band che preferisce lasciare fluire il sound in maniera ossessiva quanto lineare, senza disdegnare aperture soliste di buona fattura (Żelazne trumny).
Considerando anche che il doom non è certo il genere più sviluppato in terra polacca, Totalitarian è a suo modo un lavoro sorprendente per qualità, convinzione ed un’interpretazione non così scontata (in effetti, proprio volendo cercare un termine di paragone, in prima battuta vengono in mente i grandi KYPCK, ma i Tankograd perseguono una poetica tutta loro).
Questi quattro polacchi si insinuano con il loro sound nel nostro immaginario quasi di soppiatto, e quello che ad un primo ascolto può sembrare un disco di doom come tanti, a lungo andare continua a ronzare in testa sotto forma di squarci melodici ed intuizioni da band di ottimo livello: un buon motivo per prestare attenzione ad un lavoro davvero intrigante.

Tracklist:
1. Ostatni sen Joachima
2. Arkhangelsk
3. Lot do kraju
4. Żelazne trumny
5. Mir

Line-up:
Herr Schnitt – Bass
Herr Doktor – Drums
Herr Berg – Guitars
Herr Feldgrau – Guitars, Vocals

TANKOGRAD – Facebook

Onirophagus – Endarkenment (Illumination Through Putrefaction)

Endarkenment possiede le caratteristiche per trascinare chiunque nel gorgo di oscurità che gli Onirophagus riescono a creare, magari senza strabiliare e men che meno mostrando bagliori di novità, ma offrendo con competenza e convinzione quelle sonorità che affondano le loro nodose radici negli anni novanta, con un occhio di riguardo ai primi vagiti della sacra triade albionica.

Endarkenment (Illumination Through Putrefaction) è il secondo full length di questa band catalana dedita ad un death doom piuttosto tradizionale ed equilibrato tra le sue componenti.

Offrire quattro brani per quasi un’ora di musica, come sempre, crea una certa selezione naturale tra i potenziali ascoltatori ma non è certo cosa che possa spaventare o scoraggiare chi ama il genere.
Endarkenment possiede, infatti, tutte le caratteristiche per trascinare chiunque nel gorgo di oscurità che la band di Barcellona riesce a creare, magari senza strabiliare e men che meno mostrando bagliori di novità, ma offrendo con competenza e convinzione quelle sonorità che affondano le loro nodose radici negli anni novanta, con un occhio di riguardo ai primi vagiti della sacra triade albionica.
Con ben tre chitarristi in formazione il riffing degli Onirophagus si rivela molto incisivo ed efficace e, in quei rari momenti in cui viene dato sfogo a passaggi solisti, le melodie che ne scaturiscono sono piuttosto dolenti ed avvolgenti: questo rende tutto l’insieme molto meno ostico da recepire rispetto a quanto prefigurato viste le premesse e le caratteristiche del sound offerto.
Dysthanasia, Book of the Half Men e la lunghissima title track sono tracce più rallentate e pachidermiche, mentre prossima a certo death dai tratto morbosi è Dark River, probabilmente l’episodio di punta in virtù appunto di una maggiore sintesi e varietà ritmica.
Il growl di Paingrinder è quanto serve per dare voce al meglio ad una proposta del genere, che segna il ritorno della band a ben sei anni dal precedente full length con una formazione per metà nuova, il che rende Endarkenment una sorta di ideale ripartenza eseguita con il piede giusto.

Tracklist:
1. Dysthanasia
2. Book of the Half Men
3. Dark River
4. Endarkenment

Line-up:
Paingrinder – vocals
Moregod – guitars
Uretra – drums
Desecrator – guitar
Grindmad – bass
Shogoth – guitar

ONIROPHAGUS – Facebook

Even Vast – Warped Existence

Warped Existence risulta un’opera imperdibile per gli amanti dei suoni doom/sludge ma non solo: la natura estremamente eterogenea di brani come I Know, Somebody o Upon Deaf Ears, costituisce una risorsa per entrare nelle corde degli ascoltatori più attenti e liberi dalle catene che imprigionano la musica nelle buie celle dei generi.

Gli Even Vast tornano dopo dodici anni dall’ultimo lavoro con una line up rinnovata ed un sound che, abbandonate le spoglie dark/gothic, si riveste di doom/sludge di matrice britannica (Cathedral, Orange Goblin): una montagna che si sgretola a colpi di riff pesantissimi, convincente in ogni passaggio, che non lascia vuoti e ci investe con tutta la sua potenza.

Luca Martello, chitarrista e fondatore del gruppo, costruisce una diga sonora su cui vanno ad infrangersi onde sludge/rock che ricordano fragori alternative, in un incontro/ scontro tra la tradizione anglosassone e quella statunitense e con la presenza qua e là di un sax che ne sottolinea l’alta personalità della proposta.
Entrare in sintonia con un lavoro del genere non è impresa facile perché la band, senza soluzione di continuità, ci investe e ci aggredisce con un bombardamento sonoro potentissimo, per poi ricamarci sopra tendenze che vanno dallo stoner al doom, dall’alternative all’hard rock, in un sorta di sabba al cui centro danzano Danzig, Life Of Agony e Kyuss, mentre Lee Dorrian è il sacerdote folle che lo officia.
Warped Existence risulta un’opera imperdibile per gli amanti dei suoni doom/sludge ma non solo: la natura estremamente eterogenea di brani come I Know, Somebody o Upon Deaf Ears, costituisce una risorsa per entrare nelle corde degli ascoltatori più attenti e liberi dalle catene che imprigionano la musica nelle buie celle dei generi.

Tracklist
1.Warped Existence
2.I Know
3.Imaginary Friend
4.I Wish
5 Somebody
6.How Long
7.Same Old Story
8.Inside Your Head
9.Upon Deaf Ears
10.Be There

Line-up
Luca Martello – guitars
Chris Taylor – lead vocals
Nicholas Mark Roe – drums
Steve Kilpatrick – bass
Alessandro D’Arcangeli – sax/chorus

EVEN VAST – Facebook

Illimitable Dolor – Leaden Light

Il death doom atmosferico degli Illimitable Dolor trova qui la sua ideale sublimazione, grazie ad un songwriting che in ogni suo frammento è finalizzato ad evocare emozioni struggenti, anteponendo l’aspetto melodico a qualsiasi altra sfumatura stilistica.

Quando gli Illimitable Dolor circa due anni fa apparvero sulla scena, nonostante il valore intrinseco del bellissimo album d’esordio, c’era la sensazione che potessero rappresentare solo un estemporaneo progetto parallelo ai The Slow Death, band che forniva buona parte della line up, in virtù anche delle motivazioni che erano alla base della loro formazione, ovvero l’omaggio a quello che fu per anni il vocalist di quella band, Greg Williamson, scomparso nel 2014.

In realtà, l’uscita di diversi singoli e lo split album con i Promethean Misery hanno mantenuto ben attivo il gruppo, cosicché questo nuovo Leaden Light non arriva inatteso ma costituisce ugualmente una piacevole sorpresa.
Infatti il death doom atmosferico degli Illimitable Dolor trova qui la sua ideale sublimazione, grazie ad un songwriting che in ogni suo frammento è finalizzato ad evocare emozioni struggenti, anteponendo l’aspetto melodico a qualsiasi altra sfumatura stilistica.
Ciò che ne deriva sono cinquanta minuti nel corso dei quali il genere viene offerto al suo massimo livello sconfinando sovente nel funeral a livello ritmico e mantenendo sempre al massimo la tensione emotiva.
Leaden Light, in fondo, dimostra che per scrivere un grande disco in ambito doom non serve fare voli pindarici ma è sufficiente incanalare l’ispirazione all’interno di una struttura ben delineata che non lascia spazio a divagazioni, volta com’è ad avvolgere l’ascoltatore in una cappa di malinconia che alla lunga diviene un confortevole approdo.
Gli Illimitable Dolor, che oggi al trio dei fondatori Stuart Prickett (chitarra e voce), Yonn McLaughlin (batteria e voce) e Dan Garcia (basso) aggiungono il tastierista Guy Moore, prendono il meglio delle band europee ed americane dedite al genere, vi inseriscono quella dose necessaria di plumbea drammaticità dei conterranei Mournful Congregaton e da tutto ciò fanno scaturire cinque tacce stupende, commoventi e cullanti, tra le quali spiccano l’opener Armed He Brings The Dawn, la traccia più lunga del lavoro, con la quale gli australiani avviluppano in maniera irrimediabile l’ascoltatore nelle loro spire per poi annichilirlo emotivamente con il capolavoro Horses Pale And Four, semplicemente una delle migliori dimostrazioni di funeral/death doom atmosferico ascoltate negli ultimi tempi.
Leaden Light è l’ennesimo grande disco che il genere sta offrendo in questo periodo e, ovviamente, chi ama simili sonorità non può fare a meno di gioire soprattutto quando proposte di tale livello non provengono dai nomi più noti e consolidati della scena, bensì da band relativamente nuove e sicuramente meno conosciute: la certezza che queste sonorità saranno il nostro consolatorio rifugio anche negli anni a venire, è una delle poche che ci restano di questi tempi, per cui teniamocela ben stretta …

Tracklist:
1. Armed He Brings The Dawn
2. Soil She Bears
3. Horses Pale And Four
4. Leaden Light Her Coils
5. 2.12.14

Line-up:
Stuart Prickett – Guitars, Vocals (The Slow Death, Horrisonous)
Yonn McLaughlin – Drums, Vocals (The Slow Death, Nazxul)
Dan Garcia – Bass (The Slow Death)
Guy Moore – Keyboards (ex-Elysium)

ILLI MITABLE DOLOR – Facebook

Phobonoid – La Caduta Di Phobos

La peculiarità delle opere targate Phobonoid era già in pectore nei lavori precedenti, ma qui trova una sua importante conferma e se l’unica difficoltà nell’ascolto de La Caduta di Phobos risiede nel suo fluire come se si trattasse di una sola traccia, non c’è dubbio che i quaranta minuti necessari per ascoltare l’intero lavoro si riveleranno decisamente ben spesi.

A quattro anni dal primo full length omonimo, e a sei dall’ep di esordio Orbita, si rifà vivo il progetto Phobonoid, interessante realtà creata da Lord Phobos.

La più grande delle due lune di Marte è un riferimento costante in tutto l’immaginario poetico e musicale creato dal musicista trentino e non sorprende, quindi, che il concept continui a seguire quelle coordinate accompagnato da un sound in cui convergono pulsioni industrial, black e doom. Come nei lavori precedenti il contributo della voce viene confinato sullo sfondo dalla produzione ma, fondamentalmente, il fulcro dell’operato di Lord Phobos risiede in una parte musicale che è sempre contraddistinta da un naturale incedere cosmico che, volendo esemplificare al massimo, riporta ai Mechina sul versante industrial black e ai Monolithe per quanto riguarda quello doom.
Tutto ciò contribuisce a rendere il sound nervoso, solenne e al contempo minaccioso, del tutto adeguato al racconto di un viaggio interstellare che il protagonista intraprende per trovare rifugio dopo la distruzione di Phobos; proprio il suo essere sorretto da un’idea ben precisa, anche dal punto di vista concettuale, rende il sound decisamente personale e in grado di emanare un suo oscuro fascino, distribuito in maniera equa lungo tutte le dieci tracce presenti nell’album, nel corso delle quali il passaggio tra le varie sfumature sonore avviene in maniera quanto mai fluida.
La peculiarità delle opere targate Phobonoid era già in pectore nei lavori precedenti, ma qui trova una sua importante conferma e se l’unica difficoltà nell’ascolto de La Caduta di Phobos risiede nel suo fluire come se si trattasse di una sola traccia, non c’è dubbio che i quaranta minuti necessari per ascoltare l’intero lavoro si riveleranno decisamente ben spesi.

Tracklist:
1.26.000 al
2.La Caduta di Phobos
3.Titano
4.TrES-2b
5.CoRot-7b
6.GU Psc b
7.KOI-1843 b
8.WASP-17b
9.MOA-192b
10.A-Crono

Line-up:
Lord Phobos

PHOBONOID – Facebook

Maestus – Deliquesce

Un atmosferico funeral doom è quanto ci offrono gli statunitensi Maestus: imponenti squarci strumentali evocativi,intrisi di romantica oscurità.

Importante e significativa seconda opera degli statunitensi Maestus, band formatasi nel 2013 e autrice nel 2015 del buon debutto Voir Dire; la materia trattata dagli artisti di Portland non è di immediata fruizione e tanto meno veloce assimilazione.

Il funeral doom offre tanto a livello sensoriale, ma come già affermato in passato, ha bisogno di dedizione, di attenzione, di una sensibilità particolare, non è per le masse ma per chi ama ascoltare con il cuore, lasciandosi travolgere da onde emotive di alto livello siano esse nostalgiche, amare, angoscianti e intrise di “extreme darkness”. Il quintetto statunitense, tra cui spicca la figura del bassista dei Pillorian, dimostra di avere buone frecce nel suo arco e in quattro lunghi brani, in media sopra i dieci minuti, propone un suono cangiante, con molte sfumature che esprimono la voglia dei musicisti di accostarsi anche ad altri suoni siano essi black e death. La band è capace di essere aggressiva e potente, ma il lato atmosferico è prevalente, l’amalgama tra le chitarre e le tastiere, suonate magnificamente da Sarah Beaulieu, raggiunge forti livelli di intensità e maestosità mantenendo alta l’attenzione e donanodoci un lavoro significativo. Ampi squarci strumentali ci rammentano quanto sia stata importante l’opera dei seminali Shape of Despair nella formazione musicale dei musicisti; il suono del piano all’inizio e alla fine della title track dona un tocco romantico a un brano estremamente coinvolgente ed evocativo. La capacità di variare l’atmosfera all’interno delle tracce, così come la versatilità dei due fratelli vocalist impreziosisce la struttura sonora mantenendo la tensione sempre alta e ricca di interesse. I cinquanta minuti di Deliquesce rappresentano la quintessenza dell’arte di una band che sta seguendo un proprio percorso, cercando una personalità definita. In definitiva i Maestus sono da seguire con attenzione e sono certo che chi ha a cuore l’ascolto di queste sonorità non mancherà l’appuntamento con la loro arte.

Tracklist
1. Deliquesce
2. Black Oake
3. The Impotence of Hope
4. Knell of Solemnity

Line-up
SP – Guitars, Keyboards, Vocals
KRP – Bass, Vocals
NK – Guitars
SB – Keyboards
CC – Drums

MAESTUS – Facebook

Lysithea – Star-Crossed

Star-Crossed è un lavoro maturo e impeccabile sotto tutti i punti di vista, e potrebbe essere l’opera ideale per portare definitivamente il nome dei Lysithea all’attenzione anche degli appassionati europei.

Nati come progetto solista di natura esclusivamente strumentale del neozelandese Mike Lamb, dal 2014 i Lysithea sono diventati un duo con l’approdo anche alla voce di Mike Wilson, compagno di Lamb negli ottimi Sojourner.

Negli ultimi tre full length, quindi, il death doom melodico della band di Dunedin ha assunto una fisionomia meglio definita ed anche più appetibile per un mercato comunque ristretto come quello riguardante tali sonorità.
Star-Crossed mette in mostra una notevole maestria nel maneggiare la materia in virtù di una serie di brani in cui confluiscono gli insegnamenti delle migliori band di settore, anche se come spesso accade chi proviene dall’Oceania tende a guardare maggiormente alla scuola statunitense piuttosto che a quella europea, ed ecco quindi che sono soprattutto i Daylight Dies a fungere quale ideale punto di riferimento.
È anche vero però che il sound dei Lysithea, in tale commistione, si nutre sovente più del melodic death che non del gothic doom e questo conferisce al tutto una buona fruibilità che non va comunque a discapito di un malinconico incedere, che si accentua a partire dallo strumentale Celeste e che si fortifica con le sue ultime tracce Unearthly Burial
e Fever Dream che vedono un incremento della drammaticità del sound.
Star-Crossed è un lavoro maturo e impeccabile sotto tutti i punti di vista, e potrebbe essere l’opera ideale per portare definitivamente il nome dei Lysithea all’attenzione anche degli appassionati europei.

Tracklist:
1. An Empty Throne
2. Away
3. The Longing
4. Celeste
5. Unearthly Burial
6. Fever Dream

Line-up:
Mike Lamb – All instruments
Mike Wilson – Vocals, All instruments

LYSITHEA – Facebook

Planet Of Zeus – Live In Athens

Live In Athens è un ottimo supporto per fare la conoscenza dei Planet Of Zeus o comunque per per saggiarne le potenzialità on stage.

Dopo dieci anni dall’uscita del debutto Eleven The Hard Way, i greci Planet Of Zeus immortalano una loro perfomance su dischetto ottico.

Trattasi del concerto tenutosi al Gagarin205 di Atene lo scorso 12 maggio, raccolto in un doppio cd a riassumere la fin qui una onorata carriera di un gruppo molto popolare nel proprio paese.
Per chi non conoscesse la band ed il suo sound, questo è un ottimo modo per riempire la lacuna data l’ottima resa live dei brani pescati dai vari lavori che hanno visto i Planet Of Zeus alle prese con un metal moderno dai rimandi stoner.
Ruvida il giusto senza perdere quall’appeal melodico che fa la differenza, la band ellenica dà vita ad un buon concerto, molto seguito dal pubblico di casa, sciorinando una forma invidiabile e diciotto brani per cento minuti di musica rock dal buon piglio, battente bandiera a stelle e strisce e quindi rivolta ai fans dei nomi più noti provenienti dal deserto americano.
I Planet Of Zeus non inventano nulla, suonano metal/rock, pesante e melodico e lo fanno alla grande, coinvolgendo gli astanti con le pesanti scariche stoner di brani come Macho Libre, A Girl Named Greed, Devil Calls My Name, Leftlovers e i due brani che concludono lo show, la massiccia The Beast Within e il rock’n’roll di Vigilante.
La band gira come una macchina perfettamente oliata, il pubblico si diverte e il live man mano che passano i minuti prende sempre più le sembianze dell’evento, almeno per chi sta sopra e sotto il palco.
Live In Athens è un ottimo supporto per fare la conoscenza dei Planet Of Zeus o comunque per per saggiarne le potenzialità on stage.

Tracklist
CD1 :
1.Unicorn without a horn
2.Macho Libre
3.Doteru
4.The Great Dandolos
5.A Girl Named Greed
6.Loyal To The Pack
7.Devil Calls My Name
8.Something’s Wrong
9.Them Nights
10.Your Love Makes Me Wanna Hurt Myself
11.Little Deceiver
CD2 :
12.Stab Me
13.No Tomorrow
14.Leftovers
15.Woke Up Dead (William H. Bonney)
16.Vanity Suit
17.The Beast Within
18.Vigilante

Line-up
Serafeim “Syke” Giannakopoulos – Drums, backing vocals
Babis “Bizen” Papanikolaou – Vocals, guitar
Stelios “Yog” Provis – Guitar, backing vocals
Giannis “JV” Vrazos – Bass

PLANET OF ZEUS – Facebook