Alpha è da annoverare tra le nuove proposte di metal moderno, tramite il quale il gruppo cerca di rendere il sound più adulto possibile, a tratti riuscendoci grazie a passaggi introspettivi e drammatici, mentre non sempre convince nei momenti estremi, troppo vicini alle soluzioni di stampo core.
Debutto in formato ep per il quintetto danese dei NORÐ sotto l’ ala della Inverse Records.
La band ,nata nel 2013, arriva con Alphaall’esordio discografico portando all’attenzione degli appassionati il suo sound che vive di diverse sfumature prese dal variegato mondo del metal.
Metallo progressivo, come sostiene l’etichetta, o un buon mix di diverse atmosfere e generi?
A mio parere l’elemento progressivo si ferma a qualche cambio di ritmo, mentre dall’ascolto di questi quattro brani si evince un buon mix di generi che vanno dal metalcore a quello classico, un uso parsimonioso ma centrato di melodie malinconiche e l’ormai abusata soluzione della doppia voce, in scream e pulita. Alphaè da annoverare, dunque, tra le nuove proposte di metal moderno, tramite il quale il gruppo cerca di rendere il sound più adulto possibile, a tratti riuscendoci grazie a passaggi introspettivi e drammatici (Restless), mentre non sempre convince nei momenti estremi, troppo vicini alle soluzioni di stampo core.
In generale i brani funzionano, Kill The Marshalls, per esempio, è un’opener dall’ottimo impatto tra metallo estremo e melodie tragicamente moderne, ma per un futuro lavoro sulla lunga distanza ai musicisti danesi serve qualche idea in più per non perdersi nei meandri del già sentito.
Un gruppo che sa manipolare la materia progressiva con soluzioni orchestrali sontuose e almeno due o tre brani sopra la media, ma la scelta della lingua madre rischia di limitare le potenzialità di un’opera del genere,
I Tàlesien sono un sestetto galiziano che propone un buon esempio di metal prog: attivi già tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio, tornano con un nuovo lavoro tramite la Suspiria Records dopo tre full length di cui l’ultimo (El Silencio) uscito nel 2012.
Una buona fama raggiunta nel loro paese (anche per l’uso della lingua madre) negli anni li ha portati a dividere il palco con alcuni nome importanti del metal internazionale, ed il nuovo lavoro conferma la buona salute del metal nato in quelle terre.
Lontano dal prog folk dei Mago de Oz, così come dal power di Tierra Santa e Avalanch, il sound del gruppo è da annoverare nel classico metallo progressivo sulle orme lasciate negli anni dai Dream Theater, a cui il gruppo deve molto e da cui si differenzia, oltre che per l’uso dell’idioma, per qualche soluzione melodica più accentuata, specialmente nelle orchestrazioni che a tratti rasentano il musical (Sexta Extinciòn).
Una marcata vena melodica, qualche ritmica più potente e poi, con questo quarto album omonimo, la band vola sulle ali del progressive, con ottimi cambi di tempo nelle ritmiche, solos che non mancano di brillare per tecnica e gusto, chorus azzeccati, una buona prova del vocalist il quale ha molte frecce da scagliare nell’ora di musica a disposizione del gruppo.
I Tàlesien sono una band che sa manipolare la materia progressiva con soluzioni orchestrali sontuose e almeno due o tre brani sopra la media, ma la scelta della lingua madre rischia di limitare le potenzialità di un’opera del genere nei confronti di chi è abituato al più classico idioma britannico, ma se la cosa non crea disturbo Tàlesienrisulterà un buon ascolto.
LINE-UP
P. Javier García – Vocals
Juan Carlos Cotelo – Guitars
Nano Vikendi – Guitarra
M.A. Justo “Macaco” – Bass
Iñigo Uribe – Orchestration
Anxo Silveira – Drums
Un album travolgente, una prova di forza per una delle migliori band europee nel genere, perfetta macchina da guerra tra power metal teutonico ed heavy prog.
Più che recensirlo (termine alquanto antipatico e che sinceramente non rappresenta il mio spirito di semplice narratore della musica che vado ad ascoltare) l’ennesimo album di una band importante come i Firewind di Gus G. va appunto descritto, o meglio raccontato, tanto lo sappiamo tutti che al suo interno troveremo nobile metallo epico, tra power e prog, drammatico, intenso, suonato e prodotto in modo impeccabile.
Apollo Papathanasio è uscito dal gruppo, il suo microfono è stato messo nelle mani del bravissimo Henning Basse che il suo mestiere lo sa fare alla grande, specialmente quando l’atmosfera si fa infuocata e, senza mezzi termini, si fa power heavy metal con gli attributi all’ennesima potenza, d’altronde si parla del tipo che fece fuoco e fiamme sugli album dei Brainstorm e Metalium.
I Firewind per questo lavoro hanno scelto di affrontare l’avventura monotematica del concept album per la prima volta in carriera, ed ovviamente la scelta non poteva che cadere sulla storia del loro paese, culla culturale del Mediterraneo e ricca, nella sua millenaria storia, di battaglie epiche e leggendarie come in questo caso quelle delle Termopili e di Salamina, durante la seconda invasione persiana del 480 a.C. Immortalsè poi stato messo nelle mani di Dennis Ward, che ha produtto, mixato e masterizzato l’abum (prima volta che il gruppo collabora con un produttore esterno), aiutando pure Gus G. nella sua stesura.
Insomma, Immortalsper il gruppo assomiglia tanto ad un nuovo inizio, anche se le avvisaglie di un spostamento del sound verso un più diretto power metal dai rimandi tedeschi si era già intravisto nel precedente lavoro (Few Against Many), qui accentuato dall’epicità del concept, dal notevole lavoro di una sezione ritmica devastante e da un Gus G. che, se i fans me lo permettono, descriverei più diretto nelle sue scorribande chitarristiche da guitar hero (e se attualmente è l’uomo di fiducia di Ozzy, un motivo ci sarà).
Poi su tutti e tutto emerge l’enorme talento del singer tedesco che, senza fare inutili paragoni con il suo storico (per la band ed i suoi fan) predecessore conquista, annienta, stravolge e mette l’ombrellino su questo cocktail da consumare con parsimonia, altrimenti si rischia di uscirne ubriacati dalla pienezza della musica dei Firewind.
Un album travolgente, una prova di forza per una delle migliori band europee nel genere, perfetta macchina da guerra tra power metal teutonico ed heavy prog, tragico ed oscuro come gli attimi più estremi della musica di Michael Romeo ed i suoi Symphony X.
Fin dall’opener Hands Of Time verrete travolti dalla potenza delle battaglie: sangue, orgoglio, epicità, coraggio che la sei corde di Gus G. riesce a rendere reali, mentre Basse sfiora la perfezione, con una prova rabbiosa e colma di fierezza su spettacolari episodi veloci come il vento caldo che spazza i territori dell’antica Grecia, teatro di queste leggendarie imprese. Ode To Leonidas, la successiva Back To The Throne, il mid tempo di Live And Die Bye The Sword sono il cuore pulsante, tenuto in mano e alzato al cielo dal guerriero Basse, di questo notevole lavoro, anche se troverete di che godere per tutta la sua intera durata.
Inutile dire che Immortals è uno dei primi top album di questo inizio 2017, obbligatorio per chiunque ami il genere e in senso lato per chi ama la musica metal in una delle sue più nobili forme.
TRACKLIST
01. Hands Of Time
02. We Defy
03. Ode To Leonidas
04. Back On The Throne
05. Live And Die By The Sword
06. Wars Of Ages
07. Lady Of 1000 Sorrows
08. Immortals
09. Warriors And Saints
10. Rise From The Ashes
LINE-UP
Gus G. – Guitars
Petros Christo – Bass
Bob Katsionis – Keyboards
Johan Nunez – Drums
Henning Basse – Vocals
Daniel Gildenlöw riversa in questo disco tutte le esperienze vissute in questi ultimi anni, mettendosi a nudo di fronte agli ascoltatori e realizzando, con il fondamentale contributo dei suoi compagni d’avventura, il disco forse più maturo e completo dei Pain Of Salvation.
Negli anni a cavallo del nuovo millennio i Pain Of Salvation si palesarono sulla scena musicale come una sorta di inattesa supernova, proponendosi come band capace di rileggere, finalmente in maniera personale, fresca ed esaltante, la materia progressive, ammantandola di una robusta intelaiatura metallica e rifuggendo sempre il pericolo del tecnicismo fine a sé stesso.
Personalmente, dal 1997, anno di uscita dell’album d’esordio Entropia, fino al 2002, quando venne pubblicato Remedy Lane, ho considerato la band di Daniel Gildenlöw la manifestazione più eccitante e luminosa di talento musicale che quegli anni ci avessero regalato, riuscendo nella non facile impresa di lasciar riposare sugli scaffali, per molto più tempo del solito, i dischi dei grandi del passato, prossimo o remoto a seconda della sponda di approdo di ciascuno al prog metal (etichetta di comodo che è sempre stata stretta ai Pain Of Salvation).
Poi, quando tutti attendevano l’annunciata parte seconda del capolavoro The Perfect Element, arrivò invece Be, opera ambiziosa che provocò reazioni contrastanti e che, al di là di chi avesse torto o ragione, segnò l’inizio di una fase musicale sempre di alto livello ma, a mio avviso, meno brillante ed innovativa: seguirono infatti il controverso Scarsick e i due Road Salt, dischi questi ultimi senz’altro riusciti e capaci di portare nuovi estimatori alla band, ma decisamente differenti e in qualche modo dall’impatto meno dirompente rispetto ai primi quattro lavori.
Dopo di che il proscenio venne preso dall‘imprevedibilità della vita, ovvero la malattia gravissima che colpì Daniel nel 2014, seguita, fortunatamente, dalla sua lenta ma definitiva ripresa: un fatto del genere lascerebbe il segno in chiunque, figuriamoci in un artista di rara sensibilità come il musicista svedese. Tutto questo ha contribuito a far maturare, successivamente, un lavoro come In the Passing Light of Dayche, fin dal titolo, è del tutto intriso di tematiche inerenti l’esile confine che separa la vita dalla morte e il concentrato di sensazioni e stati d’animo derivanti: tutti aspetti, questi, che assumono un altro spessore quando a parlarne è qualcuno rimasto sospeso a lungo su quella sottile fune, rischiando seriamente di piombare nel baratro.
Ne consegue che questo atteso album è il più duro e, al contempo, il più cupo tra quelli mai usciti a nome Pain Of Salvation, ritornando stilisticamente ai fasti di The Perfect Element, laddove la robustezza delle partiture metal andavano a sposarsi con naturalezza ad aperture melodiche capaci di commuovere ed imprimersi per sempre nella mente dell’ascoltatore; è anche vero, d’altronde, che a livello di tematiche lo si potrebbe considerare piuttosto l’ideale seguito di Remedy Lane, disco che non a caso viene citato in diversi momenti, soprattutto nei brani conclusivi.
Tutto questo ci conduce, tanto per sgombrare il campo da equivoci ed andare dritti al punto, al primo capolavoro di questo 2017, nonché all’album che, chi aveva amato i Pain Of Salvation nella prima fase della loro carriera, pensava di aver perso definitivamente la possibilità di ascoltare.
Detto questo, è necessaria una doverosa avvertenza: In the Passing Light of Day necessita d’essere ascoltato con la dovuta dedizione più e più volte, e solo dopo almeno 4 o 5 passaggi diverrà oggetto di un loop dal quale difficilmente ci si riuscirà a sottrarre.
L’impatto iniziale non lascia dubbi: l’incipit strumentale di On a Tuesday è metal ai limiti del djent, prima di aprirsi al più familiare riffing di matrice Pain Of Salvation, mentre le prime parole sussurrate da Gildenlöw, idealmente nel suo letto d’ospedale, fanno rabbrividire (sono nato in questo edificio / fu il primo martedì che io avessi mai visto / e se vivo fino a domani / quello sarà il mio martedì numero 2119) rivelando quella che sarà la portata emotiva dell’intero lavoro: la robustezza delle linee sonore si alterna a melodie vocali nelle quali, per la prima volta nella storia della band svedese, il leader si alterna ad un altro componente della band, il chitarrista islandese Ragnar Zolberg, dotato di una timbrica più sottile che ben si integra con quella di Daniel. Tongues of God, che arriva subito dopo, è una traccia notevole e dai toni robusti quanto oscuri, che non possiede però lo stesso carico emotivo di tutti gli altri brani: il primo di questi è Meaningless, per il quale è stato girato anche un video, secondo alcuni di dubbio gusto ma che, in realtà, se si ascoltano con attenzione le parole e lo si inquadra correttamente nel contesto lirico dell’album, appare crudo quanto funzionale alla causa; musicalmente non si rinvengono i crismi canonici del singolo apripista, essendo tutt’altro che una canzone orecchiabile, se si eccettua un chorus reso trascinante dal ricorso alle due voci all’unisono. Silent Gold riporta l’album a toni più riflessivi e poetici, trattandosi di una e vera e propria ballad che prepara il terreno al quarto d’ora più robusto dell’album, rappresentato dalla magnifica Full Throttle Tribe e da Reasons, secondo brano scelto per essere accompagnato da un video: nella prima canzone si possono già cogliere accenni, pur se non troppo espliciti, a Remedy Lane, e riascoltare certe note è una sorta di ritorno a casa per gli estimatori di vecchia data dei Pain Of Salvation, sempre tenendo conto che il tutto non fa venire meno il pathos e la drammaticità dell’album e che l’ultimo minuto e mezzo riversa una dote di violenza degna dei connazionali Meshuggah (non del tutto un caso, se si pensa che l’ottimo bassista Gustaf Hielm ne ha fatto parte dal ’95 al ’98). Reasons riparte come si era chiusa la traccia precedente, rivelandosi alla fine l’episodio più definibile a ragion veduta come prog metal dell’intero album, nel suo alternare sfuriate di matrice djent e stop and go a melodie cristalline e deliziose parti corali.
Qui termina la prima metà dell’album e ne inizia un altra nella quale vengono quasi del tutto abbandonate le pulsioni metalliche, per regalare una mezz’ora abbondante di emozioni a profusione, difficili da descrivere se non dicendo che Angels of Broken Things possiede una tensione sempre sul punto di esplodere fino al prolungato sfogo chitarristico di un eccellente Zogberg, che The Taming of a Beast gode di un crescendo inarrestabile e che If This Is the End è, semplicemente, il brano più drammatico e intenso che i Pain Of Salvation abbiamo mai inciso, beneficiando dell’interpretazione sentita di chi ha vissuto davvero sulla propria pelle tutto quanto viene raccontato, inclusa l’invocazione rabbiosa di Dio, un momento capace di accomunare in certe circostanze atei e credenti, pur se con approcci diametralmente opposti.
Resta da parlare brevemente dell’ultima e lunghissima canzone, la title track, non a caso summa e manifesto sonoro e lirico dell’album, con suoi richiami (ora sì più scoperti) a Remedy Lane: un quarto d’ora in cui i Pain Of Salvation si concedono un lungo quanto gradito congedo, lasciandoci in eredità un nuovo e grande album che li riporta meritatamente nel ristretto novero delle band contemporanee per le quali ogni aggettivo appare superfluo ed ogni paragone fuori luogo.
Daniel Gildenlöw riversa in questo disco tutte le esperienze vissute in questi ultimi anni, mettendosi a nudo di fronte agli ascoltatori e realizzando, così, con il fondamentale contributo dei suoi compagni d’avventura, il disco forse più maturo e completo della storia della sua creatura; anche chi non dovesse trovarsi d’accordo con le mie valutazioni sulle diverse fasi del percorso dei Pain Of Salvation, non potrà fare a meno di approvare questa nuova svolta che non rappresenta, comunque, una completa inversione di marcia, bensì la definitiva forma di coesione tra le diverse espressioni musicali da loro esibite in questi vent’anni.
Mi piace l’idea di chiudere questa recensione riprendendo una dichiarazione di Daniel riportata nelle note di accompagnamento al promo dell’album, utile a capire quanto lo spessore dell’uomo non sia certo inferiore rispetto a quello del musicista : “ … quando sono uscito (dall’ospedale) ho dovuto imparare di nuovo come fare le scale. NON ho imparato, invece, che è necessario trascorrere più tempo con la mia famiglia, NON ho imparato che dovrei sprecare meno tempo della mia vita preoccupandomi o stressandomi, NON ho imparato che la vita è preziosa e che lo è ogni suo singolo secondo. No, io non ho imparato tutte queste cose, semplicemente perché già le conservavo nel mio cuore. Noi tutti lo facciamo. Le nostre priorità non cambiano di fronte alla morte, vengono solo rafforzate …”
Grazie Daniel, anche solo per queste parole …
Tracklist:
1. On a Tuesday
2. Tongue of God
3. Meaningless
4. Silent Gold
5. Full Throttle Tribe
6. Reasons
7. Angels of Broken Things
8. The Taming of a Beast
9. If This Is the End
10. The Passing Light of Day
Line-up:
Daniel Gildenlöw – vocals, guitars, lute, additional keyboards, additional bass, additional drums and percussion, accordion, zither
Ragnar Zolberg – guitars, vocals, additional keyboards, samplers, accordion, zither
Daniel D2 Karlsson – grand piano, upright, keyboards, backing vocals
Gustaf Hielm – bass, backing vocals
Léo Margarit – drums, percussion, backing vocals
Le ottime parti in cui i Tactus abbandonano per pochi minuti il progressive core, dando sfogo alla loro voglia di musica totale, sono troppo poco per fare di Bending Light un disco interessante.
Il progressive metal moderno dai rimandi estremi e core non fa più notizia, i gruppi che si dilettano con questa intricata e molte volte cervellotica musica non si contano più e così, finita la sorpresa, rimane la sola qualità a rendere un prodotto valido o meno.
Sulla tecnica niente da eccepire, i musicisti alle prese con il genere devono per forza avere qualcosa in più, manca molte volte però quel quid in più nelle idee proposte per non passare inosservati, in un mercato che non concede tempo per assimilare i vari prodotti, travolti dalle decine di uscite ogni giorno.
Prendete Bending Light, primo lavoro del gruppo canadese dei Tactus, un album ambizioso che del progressive metal moderno si nutre ma che, seppur suonato molto bene, a tratti appare caotico nel suo continuo cambio di sfumature ed atmosfere.
Si parte dal metal core come base per il sound, lo si seziona a dovere con scariche estreme ad iniziare dallo scream, molto presente ed in coppia fissa con le clean vocals, lo si imbastardisce con interventi jazzati e fughe progressive, pur mantenendo un mood estremo, ed il gioco è fatto.
Un album che gli amanti del genere potrebbero trovare gratificante per la propria voglia di cambi di ritmo, partiture all’apparenza inusuali e quella voglia di stupire che trova sfogo solo a tratti. Bending Light, purtroppo, sa di già sentito e non parlo di influenze e ispirazione, ma di atmosfere ormai abituali ed abusate da tutti i gruppi del genere, e non basta l’ottima tecnica esibita per fare di un album un’opera da ricordare.
Le ottime parti in cui i Tactus abbandonano per pochi minuti il progressive core, dando sfogo alla loro voglia di musica totale, sono troppo poco per fare di Bending Light un disco interessante, con una serie di brani incapaci di decollare e ripiegati su sé stessi, restando così appannaggio dei fans accaniti del genere.
TRACKLIST
1.Anamnesis
2.Aurora
3.Scimitar
4.All Roads
5.Feast or Famine
6.Colossus
7.Goliath
8.Cardinal
9.Red and Ivory
10.King of the Sky
LINE-UP
Jason McKnight – Vocals
Adrian Barnes – Guitar, Vocals
Alec Dobbelsteyn – Guitar
Ben MacLean – Drums
Steve Parish – Bass
Immaginate l’alchimia tra il metal oscuro e drammatico degli Iced Earth e il sound progressivo dei Dream Theater più diretti, ed avrete in mano l’anima di questo lavoro.
Aldilà dell’oceano non si vive di solo mainstream e la tradizione metallica classica è ben consolidata nelle terre del nuovo continente, se poi si guarda verso sud, tra le nazioni in cui il metal è ben radicato non manca certo il Brasile.
A San Paolo, per esempio, nascono nel 2007 i Perc3ption, quintetto dedito ad un power prog metal che alterna con sagacia ritmiche potenti e aggressività heavy metal supportata da una marcata vena progressiva. Once And For All è il secondo lavoro sulla lunga distanza, dopo un primo ep ed un full length uscito nel 2013 (Reason and Faith), un lavoro ambizioso, un’ora di metal progressivo prodotto e suonato molto bene.
Sezione ritmica ben presente, dita che danzano sui manici delle chitarre ed un cantante sontuoso mettono a dura prova i nostri padiglioni auricolari, martoriati da un sound drammatico, orchestrato a dovere e dove finalmente spicca l’heavy metal, duro e puro.
E qui sta il bello, Once And For Allè un album pregno di durezza metallica, in cui le melodie (bellissime) ricamano una serie di brani dall’aura tragica, mentre il gruppo senza degenerare sfoggia tecnica sopraffina.
Immaginate l’alchimia tra il metal oscuro e drammatico degli Iced Earth e il sound progressivo dei Dream Theater più diretti, ed avrete in mano l’anima di questo lavoro, ovviamente non mancano parti più atmosferiche, dove la band concede armonie che fungono da quiete prima della tempesta di suoni che investono l’ascoltatore, tuoni e fulmini metallici, prima che la pioggia di note scenda copiosa e si trasformi in una inondazione power metal.
Accompagnato da una suggestiva copertina alla Savatage, con un maestro di pianoforte che suona il suo strumento nel mezzo di un paesaggio ghiacciato, l’album vive di un feeling drammatico ed emozionale altissimo, con la splendida ed orchestrale Welcome To The End quale picco di un opera da far vostra senza riserve.
TRACKLIST
1.Persistence Makes the Difference
2.Oblivion’s Gate
3.Rise
4.Immortality
5.Braving the Beast
6.Magnitude 666
7.Welcome to the End
8.Extinction Level Event
9.Through the Invisible Horizons
Venti minuti di musica sono pochi per decretare la nascita di una stella, ma si rivelano sufficienti per prevedere, con ragionevole certezza, che ciò potrà accadere in un futuro molto prossimo.
Grazie all’ottimo lavoro di promozione dell’attivo Jon Asher, ci viene offerta ultimamente la possibilità di ascoltare molta buona musica proveniente dal Canada, nazione che, sovente, viene oscurata da quanto prodotto più a sud negli Stases, ma che è terra natia di diverse band che hanno fatto a loro modo la storia (Rush, Annihilator, Voivod, ma ho citato le prime tre che mi sono venute in mente, dimenticandone sicuramente altre).
I Red Cain devono ancora mangiarne di polvere prima di arrivare a quei livelli, ma il loro ep omonimo è il viatico migliore per iniziare questo impervio percorso: i cinque ragazzi provenienti dall’olimpica Calgary si sono cimentati in un’operazione non priva di rischi ma perfettamente riuscita , con il loro tentativo di fondere il power/prog metal con sonorità dark.
Era da tempo, infatti, che non mi capitava di ascoltare qualcosa di così fresco e dirompente in campo heavy metal: i Red Cain sono delle vere e proprie spugne che, dopo aver assorbito tutto quanto di buono è stato prodotto negli ultimi vent’anni, ne hanno filtrato il meglio salvandone sfumature che, se maneggiate con poca cura, avrebbero rischiato di rivelarsi antitetiche.
La voce dell’eccellente Evgeniy Zayarny è il valore aggiunto decisivo, grazie ad una timbrica profonda ma dalla notevole estensione, capace di rendere al meglio i passaggi più oscuri così come quelli più ariosi, ma non è affatto trascurabile il lavoro d’insieme di una band giovane e dall’enorme talento, che non perde mai la bussola di fronte ai frequenti cambi di scenario e, conseguentemente, di umore e di ritmica.
Il sound dei Red Cain guarda indubbiamente verso est, a quell’Europa che alle stesse latitudini è stata culla del power metal più melodico e del gothic più romantico, ma la forte radice americana non viene meno, specie nei momenti maggiormente robusti in cui si stagliano sullo sfondo i migliori Iced Earth e Nevermore. Guillotine è un autentico gioello, disturbato ad arte da screziature elettroniche, un brano trascinante come non se ne sentivano da tempo nel genere, ma non è che le altre canzoni siano da meno, facendo eccezione, paradossalmente, per il singolo prescelto Hiraeth, forse perché viene privilegiata la melodia a discapito dell’impatto drammatico che accomuna il resto della tracklist.
Venti minuti di musica sono pochi per decretare la nascita di una stella, ma si rivelano sufficienti per prevedere, con ragionevole certezza, che ciò potrà accadere in un futuro molto prossimo: sarà il primo full length in uscita nel 2017 a dirimere gli eventuali dubbi residui sul valore effettivo di questi promettentissimi Red Cain.
Tracklist:
1.Guillotine (feat. Wolf of Transylvania)
2.Dead Aeon Requiem
3.Hiraeth
4.Unborn
Provenienti dalla banlieue nord est di Parigi, questi ragazzi al debutto propongono un più che convincente metal fatto di metalcore, prog e djent, con una forte base tecnica e buona capacita compositiva.
Provenienti dalla banlieue nord est di Parigi, questi ragazzi al debutto propongono un più che convincente metal fatto di metalcore, prog e djent, con una forte base tecnica e buona capacita compositiva.
Attualmente molti gruppi cercano di inserirsi nel giro prog metal djent che conta, o nel metalcore più tecnico, ma pochi ne hanno le capacità per appartenervi. I Beneath A Godless Sky, a partire dal bellissimo nome, riescono subito a colpire l’ascoltatore con la loro potenza, ma trovano sempre anche grandi melodie che bilanciano la forza delle loro composizioni. Un gusto moderno per il metal, ma anche un tecnica all’altezza della loro ricerca musicale. Non ci sono ansie e tentativi di raggiungere campi proibiti, ma tutto viene ricondotto alle proprie capacità, in questo caso assai notevoli. Questo ep omonimo è il risultato di anni e anni di gavetta in varie salette musicali, e rispecchia il retroterra di ciascun musicista. L’ep è molto godibile e forte, ed è caldamente consigliato a chi vuole ascoltare metal moderno fatto bene.
Questo live consacra la band come nome cardine di un certo modo di suonare musica progressiva nel nuovo millennio
E giunse per progsters norvegesi Leprous il momento di immortalare la loro musica in un monumentale cd/dvd dove finalmente il loro talento viene nobilitato, sia nel supporto audio che video.
Analizzare un live non è così facile, una volta il classico live album che arrivava per fotografare il periodo di maggior successo di una band era supportato solo dal supporto audio, oggi i live si sprecano, ed i dvd che aggiungono la bellezza virtuale nel vedere lo spettacolo nella sua interezza non fanno più notizia, a meno che non si tralascino le solite band da un dvd all’anno e ci si regali qualcosa di unico come Live at Rockefeller Music Hall dei Leprous.
Quattro capolavori in studio nel giro di sei anni con i primi due assolutamente clamorosi (Tall Poppy Syndrome e Bilateral) e gli ultimi (Coal e The Congregation dello scorso anno) a confermare la maturità artistica e l’enorme talento dell’immenso Einar Solberg e compagni, la band come saprete ha trascorsi estremi e si sente, ancora di più in sede live, dove i suoni (straordinari) sono inevitabilmente induriti e l’atmosfera dark apocalittica di molte composizioni è accentuata nel supporto video dalla scenografia scarna ma spettacolare.
Con due ospiti d’eccezione, come il vecchio batterista Tobias Ørnes Andersen e sua maestà Ihsahn, con cui la band ha collaborato alle opere in studio, lo spettacolo progressivo di questo live tocca vette espressive altissime , altalenando momenti di bellissima musica estrema ad atmosfere dark progressive, ipnotizzati dalla voce fuori categoria di Solberg, un marziano per interpretazione e calore che emana, mentre il freddo glaciale di molti passaggi al limite del black travolgono l’ascoltatore in un turbinio di synth originalmente moderni e la lucida perfezione del battito delle bacchette sulle pelli di Baard Kolstad.
La band dà molto spazio all’ultimo lavoro che viene eseguito in quasi tutta la sua interezza e dove spiccano, nella magia dall’attimo, la stupenda Slave e The Flood che apre il concerto.
Un album perfetto in tutti i dettagli, una performance fuori dagli schemi ed un finale lasciato al capolavoro Contaminate Me, spettacolarizzata dal duetto tra Solberg e Ihsahn e che regala l’ultima della marea di emozioni che i Leprous sanno regalare anche e soprattutto dal vivo.
Questo live consacra la band come nome cardine di un certo modo di fare musica progressiva nel nuovo millennio, ignorare la musica dei Leprous è peccato mortale soprattutto se si è amanti del nuovo progressive, band dal valore qualitativo enorme.
TRACKLIST
Disc 1
1.The Flood
2.Foe
3.Third Law
4.Rewind
5.The Cloak
6.Acquired Taste
7.Red
8.Slave
9.The Price
10.Moon
11.Down
12.The Valley
13.Forced Entry
14.Contaminate Me
Disc 2
1.Behind the Scenes
2.Slave (Lyric Video)
3.Restless (Video Clip)
4.The Cloak (Video Clip)
5.The Price (Video Clip)
6.Leprous at Rockefeller 13 Years Earlier
Un viaggio soprattutto mentale che porta inevitabilmente ad una alternanza tra passaggi intimisti e crimsoniani, e sfuriate death metal tecnicamente ineccepibili.
Nei Campi di Controllo della Mente il tempo sembrava essersi fermato all’ultima Grande Guerra; il progetto di recupero informazioni non era terminato del tutto, la macchina adibita a tale compito era ormai vecchia ed il soggetto collegato ad essa,#6119, cercava di resistere alle allucinazioni causate dagli innesti di falsi ricordi e di false emozioni.
Il debutto dei toscani MindAheaD parte da qui, da questo concept dalla chiara trama sci-fi, ed il sound che accompagna la storia passa agevolmente dal progressive al metal estremo per un ottimo risultato finale.
La Revalve come label e Simone Mularoni ad occuparsi della masterizzazione nei suoi Domination Studios sono sicuramente garanzie di qualità, e la band sfrutta a dovere i suoi jolly con un’opera intrigante e ben congegnata.
Il gruppo fondato dal chitarrista Nicola D’Alessio, con un passato in Hellrage ed Athena nel 2010, dopo alcuni assestamenti nella line up arrivano finalmente al traguardo del primo full length, un concept come nella migliori tradizione progressiva, soluzione in questi anni molto utilizzata pure dai gruppi metal ed estremi.
E di metal si nutre la musica del sestetto, così come di death e prog, riuscendo a far convivere le varie influenze in un unico caleidoscopio di musica e sfumature dai colori scuri, pregni di drammatica follia.
Un viaggio soprattutto mentale che porta inevitabilmente ad una alternanza tra passaggi intimisti e crimsoniani, e sfuriate death metal tecnicamente ineccepibili.
L’uso delle due voci accentua questo scendere e salire sull’ottovolante mentale, disturbato e rabbioso (il growl) delicatamente epico e dai tratti gotici (la voce femminile), mentre la musica dona cangianti sfumature progressive.
Dopo l’intro, l’incedere estremo dei primi tre brani è di assoluto impatto, con Mind Control a prendersi la scena e far risplendere le capacità strumentali dei vari musicisti del gruppo, con la sezione ritmica a dispensare furia metallica e le voci a duettare in una tempesta estrema.
I dieci minuti di Amigdala fungono da sunto della musica del gruppo toscano, parti atmosferiche si danno il cambio a sezioni metalliche più accentuate, la vena progressive infonde nel sound un tocco maturo, adulto, lasciando che le oscure trame musicali si insedino dentro all’ascoltatore.
Ad un ascolto superficiale si potrebbe scambiare facilmente i MindAheaD per un gruppo gothic metal, come i tanti che invadono il mercato odierno, ma non fatevi ingannare dall’uso della voce femminile, la musica del gruppo va oltre ai soliti cliché e si insinua tra i meandri del progressive metal, con la giusta personalità per ritagliarsi un prezioso spazio tra le migliori realtà nostrane.
TRACKLIST
1.Intro: Reflection
2.Remain Intact
3.Mind Control
4…On the Dead Snow
5.Amigdala
a. Anxiety
b. Fear
c. Panic
6.Emerald Green Eyes
7.The Mask Through the Looking Glass
a. Ballad of the Mad Jester
b. The Mask
8.Farewell
9.Three Sides of a Dangerous Mind
a. The Fall in the Subconscious
b. My Dirty Soul
c. Three Are My Faces
10 Outro: Memories
Nell’anima di Cenotaph vivono e si scontrano luce e buio, sogni ed incubi, drammi e speranze, in perfetta e sontuosa armonia
Il prog metal, passata la tempesta Dream Theater tra la metà degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio, si è attestato su un buon livello di popolarità anche grazie alla moltitudine di contaminazioni a cui è andato incontro, soprattutto con il metal estremo.
Le opere che si affacciano sul mercato negli ultimi tempi dimostrano la maturità artistica di chi si approccia al genere, non solo ridotto a scusa per sfoggiare l’indubbia tecnica dei musicisti, ma scrigno di emozioni, molto spesso melanconiche, drammatiche ed intimiste.
La musica progressiva ormai a tutti gli effetti alleata con i suoni metallici è entrata nel nuovo millennio a testa alta, merito anche della scena underground, caldo nido di talenti dalle qualità espressive notevoli.
Il nostro paese, come ci ha ormai abituati, regge il passo delle scene d’oltralpe con gruppi dalle enormi potenzialità, ne è un esempio questo ottimo lavoro di debutto dei padovani The Meaning Under, intitolato Cenotaph.
La band veneta non manca di sorprendere con un lavoro maturo e molto professionale, sei anni dopo il primo ep, Overflow; tra le sue fila si agita l’anima oscura e teatrale di Claude Arcano, vocalist degli industrial gothic A Tear Beyond, qui in coppia con il singer Ben Moro tra bellissime parti pulite e sfuriate in growl, toni gotici e dark che suggellano una prova vocale molto sentita.
Il sound del gruppo si muove tra lo spartito della seconda fase del teatro di sogno, meno metallo classico dunque e più musica intimista, un drammatico ed emozionante viaggio tra il prog metal del nuovo millennio, come già detto molto più attento ad emozionare che non a specchiarsi in inutili ghirigori tecnici.
Il cuore dell’album è, a mio avviso, il più emozionante con almeno due tracce di prog metal dalle tinte dark che non lasceranno indifferenti come Deceaved By A Promise e The Tower Of The One (sulla seconda Arcano torna ai fasti estremi di Maze of Antipodes), mentre la title track riassume il concept lirico dell’album con undici minuti di musica sopra la media e splendidamente interpretata dai due singer.
Un ottimo debutto di un gruppo dalle potenzialità enormi e dalle ottime idee: Cenotaph è un opera tutta da ascoltare, perché nella sua anima vivono e si scontrano luce e buio, sogni ed incubi, drammi e speranze in perfetta e sontuosa armonia.
TRACKLIST
1.The New Perspective
2.Superstructure
3.Command: Abort
4.The End of Civilization
5.Sons of a Lie
6.Deceaved by a Promise
7.The Tower of the One
8.Cenotaph (Buried with No Name)
9.Confession (Of a Dictator)
LINE-UP
Matteo Rosin – Guitars, Bass
Filippo Galvanelli – Keyboards
Claude Arcano – Vocals
Ben Moro – Vocals
Manuel Vendramin – Drums (track 2)
Marco Sanguanini – Drums (tracks 4-5)
Andrea Bevilacqua – Bass (tracks 3, 6)
Alessandro Quarin – Bass (tracks 4-5)
Andrea Cancedda – Bass (track 7)
Andrea Scaramella – Violin
Francesco De Santi – Violin
Laura Giaretta – Viola
Maurizio Galvanelli – Cello
Roxanne Doerr – Vocals (track 2)
Chiara Badon – Vocals (choirs) (track 1)
Paolo Veronese – Drums (tracks 3, 6, 8)
Francesco Tresca – Drums (track 7)
Marco Costa – Bass (track 2)
Un album coraggioso nel non fossilizzarsi su schemi collaudati e perfettamente in grado di reggere il confronto con le altre realtà di una scena nazionale ormai importantissima nello scenario metallico europeo.
Col tempo stanno tornando con i propri nuovi lavori quelle band che, due o tre anni fa, licenziarono una serie di opere sopra la media e delle quali i liguri Lucid Dream fanno sicuramente parte, dopo la pubblicazione bellissimo The Eleventh Illusion.
La band capitanata dall’ axeman Simone Terigi, affiancato dal talentuoso vocalist Alessio Calandriello e dal buon Gianluca Eroico al basso, torna con il proprio terzo album (il primo, Visions From Cosmos11, uscì nel 2011) prodotto dallo stesso Terigi, mixato e masterizzato da Pier Gonella (Necrodeath, Mastercastle) ed accompagnato da un bellissimo digipack, .
Il trio di musicisti liguri (Paolo Raffo non fa più parte della line up sostituito alle pelli dall’ospite Paolo Tixi) riparte con rinnovata verve, cambiando le carte in tavola e lasciando da parte le sfumature hard blues che emergevano sul lavoro precedente, trovando nuove strade dove far viaggiare la propria musica che rimane di altissimo livello. Otherworldyrisulta un lavoro più diretto e metallico, prog hard rock metal d’alta scuola energizzato da una forte impronta heavy che concede, a tratti, qualche rifinitura più moderna sia nelle ritmiche che negli arrangiamenti.
Un disco diverso da predecessore, quindi, ma con il monicker del gruppo ben impresso sul sound, che non è cosa da tutti: le linee melodiche rimangono il piatto forte di Terigi e soci, sempre con un occhio ai Dream Theater e con un Calandriello meno sanguigno ma assolutamente sontuoso dove la melodia prende il sopravvento.
L’album parte diretto e metallico così che, appena lasciata l’intro, veniamo subito presi per il colletto da ritmiche serrate e riff metallici dal gustoso flavour moderno: Buried Treasure e The Ring Of Power riempiono la stanza di metal regale, con la seconda che si nutre del sangue maideniano e risulta la prima traccia da circoletto rosso dell’album. Everything Dies torna a solcare le strade intricate del prog metal, mentre The Stonehunter chiude la prima parte del cd, quella dall’anima aggressiva e metallica, lasciando all’acustica di Terigi il compito di introdurci alla meravigliosa seconda parte, in un crescendo emozionale che inizia dalla splendida Magnitudes, continua con Broken Mirror (brano che evidenzia l’amore del gruppo per il teatro del sogno) e non trova fine, se non all’ultima nota della conclusiva The Theater Of Silence: una tracciastrumentale da brividi che ci consegna una prestazione superba di Terigi alla sei corde, accompagnato sul finire del brano dai violini e dalla viola di Andrea Cardinale, Sylvia Trabucco e Sara Calabria, per un arrivederci alla prossima opera.
Un album che conferma quanto di buono i Lucid Dream avevano dimostrato con il precedente lavoro, coraggioso nel non fossilizzarsi su schemi collaudati e perfettamente in grado di reggere il confronto con le altre realtà di una scena nazionale ormai importantissima nello scenario metallico europeo.
TRACKLIST
01. Intro
02. A blanket of stars
03. Broken mirror
04. Buried Treasure
05. Everything dies
06. Magnitudes
07. The ring of power
08. The stonehunter
09. The theater of silence
Trascurare questo secondo album dei Noveria sarebbe imperdonabile, non solo per gli amanti del prog metal, ma per tutti i cultori della buona musica.
Una band che al debutto licenzia uno straordinario lavoro come Risen (uscito un paio di anni fa e puntualmente recensito sulle pagine di iyezine) crea suo malgrado delle aspettative, almeno per chi ha avuto il piacere di imbattersi nelle evoluzioni power prog metal che il chitarrista Francesco Mattei e compagni aveavno riversato su quel splendido album.
Due anni sno un arco di tempo perfetto per tornare ad incendiare gli impianti stereo dei fans del genere con Forsaken, album che non perde un’oncia dell’alta qualità di cui era rivestita l’opera precedente, anzi: alla perizia tecnica ed il talento compositivo, la band aggiunge un quid emozionale per cui Forsaken vola tra le migliori uscite del genere, almeno nella parte finale di questo drammatico 2016.
E di drammaticità è pregno un lavoro dal concept non facile da trasformare in musica, adulto e maturo, una sfida che la band romana vince alla grande. Forsaken, infatti, tratta dei cinque stadi dell’elaborazione del lutto teorizzati dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross, ed è dedicato ad una ragazza morta per un male incurabile.
I Noveria trasformano queste drammatiche e tragiche tematiche in musica sontuosa, dura, aggressiva, ma assolutamente colma di emozionanti atmosfere intimiste, traumi psicologici, drammi interiori che prendono corpo in un travolgente power prog metal, prodotto e suonato con tutti i crismi della top band.
D’altronde che i Noveria non fossero un gruppo qualunque lo si era abbondantemente riscontrato nel primo album,: Francesco Corigliano conferma d’essere uno tra i migliori vocalist di genere e non solo nel panorama italiano, Mattei con la sei corde entra di forza nel cuore di chi ascolta, mentre le tastiere disegnano travagli interiori ed emozionano accompagnando una sezione ritmica ispiratissima.
Prog metal come nella migliore tradizione, ma con l’asticella emotiva alzata al massimo, questo è Forsaken, con Shock che esplode in fuochi d’artificio metallici, When Everything Falls, che ci delizia con il duetto di Corigliano con la cantante Kate Nord, Hatred che spara missili con sulla fiancata la scritta Symphony X e la conclusiva Archangel, che congeda il gruppo, e ci lascia tra le mani e le orecchie un monumento al metallo potente e progressivo.
Trascurare questo secondo album dei Noveria sarebbe imperdonabile, non solo per gli amanti del prog metal, ma per tutti i cultori della buona musica.
La raffinatezza e l’eleganza delle orchestrazioni e della chitarra immette direttamente The Reins Of Life nel novero delle opere senza tempo.
Esporre un articolo che non ricalchi pensieri ampiamente elaborati in altre occasioni rimane un’impresa, così come essere del tutto originali suonando musica che da anni è una delle più seguite del panorama metallico, ma i Degrees Of Truth sono l’ennesima band nostrana che, con un songwriting di alto livello e una preparazione strumentale adeguata al genere, aggiunge un pizzico di elettronica al symphonic prog metal e consegna agli amanti di queste sonorità un gioiello di valore assoluto.
La band milanese, formata da Gianluca Parnisari solo lo scorso anno, debutta con The Reins Of Life, opera che non delude, ci presenta un altra singer dall’ugola d’oro (Claudia Nora Pezzotta) e ci ammalia con un metal progressivo elegante e raffinato, mai troppo debordante e sinfonico quanto basta per mandare in brodo di giuggiole i fans di orchestrazioni, musica classica ed altre diavolerie.
L’elettronica conferisce al sound un tocco moderno così che l’album possa tranquillamente posarsi sugli scaffali dei negozi, in un millennio in cui il mercato dimentica in fretta band e album, anche quelli che meriterebbero più tempo per essere apprezzati, mentre la raffinatezza e l’eleganza sia delle orchestrazioni che della sei corde immette direttamente The Reins Of Life nel novero delle opere senza tempo.
L’album si presenta con il bellissimo lavoro di Gustavo Sazes (Kamelot, Angra, Arch Enemy, Temperance) sull’artwork, la benedizione della storica label Underground Symphony e un lotto di brani molto belli con picchi qualitativi altissimi, magari leggermente prolisso, ma assolutamente da godere di tutte le sue atmosfere, sfumature e melodie.
Benché l’elettronica tenga l’opera ben salda nel presente, la mia sensazione all’ascolto di brani come la title track, Civilization e Pillar Of Hope è stata quella di entrare in una elegante corte del diciassettesimo secolo, al cospetto di dame eleganti, sfarzose tavole imbandite, signorotti dai modi raffinati e dalle voglie peccaminose, duelli dove il male fa capolino tra i pizzi e merletti (Fine Art Of Havoc, estremizzata dalla voce in growl), in un’apoteosi di suoni progressivi, dove il metal è nobilitato come nella migliore tradizione sinfonica.
Un altra opera tutta made in Italy che non deve essere ignorata.
TRACKLIST
01. Pattern
02. Finite Infinite
03. The Reins Of Life
04. Evolution
05. Civilization
06. Subtle Borderline
07. The World Beneath My Feet
08. Fine Art Of Havoc
09. The Grim Lesson
10. Deep Six
11. Pillar Of Hope
Livores racchiude venticinque minuti di musica di enorme spessore qualitativo e, soprattutto, molto personale, segno che un approccio artistico meno convenzionale spesso può portare frutti prelibati
Il progetto musicale ideato da Hertz Kankarok si rivela anomalo fin da un monicker che, a primo acchito, lascia sensazioni strane, fino a giungere al modus operandi, che vede il nostro comporre brani senza essere di fatto un musicista nel senso vero del termine e, infatti, a parte la voce, tutto il lavoro strumentale è affidato a Dario Laletta.
Ma, come tutto ciò che ultimamente arriva dalla Sicilia in campo rock e metal, c’è da aspettarsi qualcosa di particolare ed anticonvenzionale: Hertz Kankarok con questi tre brani lo conferma, offrendo un compendio di musica a tratti entusiasmante e andando ad esplorare i diversi spettri sonori del metal e non solo.
Se Our Will Injection sembra un ideale incrocio i tra i King Crimson ed il djent (sotto genere del quale non è difficile reperire una ipotetica genesi ascoltando i tre dei dischi frippiani degli anni ottanta) ma con l’enorme pregio di mantenere sempre in primo piano l’aspetto melodico, tenendosi alla larga dallo sterile tecnicismo, We Are the Ghosts sposta la barra su sonorità più cupe ed evocative, esprimendo un robusto prog metal dalla ampie sfumature gothic. Fin qui nulla da eccepire sui due brani, impreziositi dall’indubbio talento esecutivo di Laletta, ben assecondato da un interpretazione vocale molti varia e personale da parte di Kankarok.
A mio avviso, però, il vero fulcro del lavoro è la conclusiva Occvlta Plaga Inferorvm, canzone che racchiude efficacemente non solo il pensiero dell’autore sui temi religiosi, veicolato in lingua italiana tramite un testo magnifico, ma riesce a sintetizzare mirabilmente diversi aspetti del sound, che si fa via via più oscuro e riflessivo, racchiudendo in un colpo solo il gothic doom di tipica scuola italiana (con bagliori degli indimenticabili Cultus Sanguine) e pulsioni cantautorali che non possono non rimandare all’illustre corregionale Franco Battiato (difficile non fare questo accostamento quando Kankarok intona “… in quest’epoca infame e d’acquiescenza …“).
In buona sostanza, Livoresracchiude venticinque minuti di musica di enorme spessore qualitativo e, soprattutto, molto personale, segno che un approccio artistico meno convenzionale spesso può portare frutti prelibati, proprio per una minore propensione ad abusare di schemi consolidati.
L’ep è stato diffuso ormai un anno fa e, benché sia stato accolto in genere con un certo favore, ho la sensazione che non sempre gli sia stato dato quel risalto ancora maggiore che avrebbe meritato. Resta solo da godersi questo ottimo esempio di creatività musicale, in attesa che il misterioso Hertz Kankarok si rifaccia vivo, magari con un lavoro su lunga distanza.
Tracklist:
1. Our Will Injection
2. We Are the Ghosts
3. Occvlta Plaga Inferorvm
Line Up:
Dario Laletta – All instruments
Hertz Kankarok – Vocals, Lyrics
Siamo negli ormai classici territori del prog metal moderno, perciò troverete pane per i vostri denti specialmente se siete fans accaniti di Opeth e Porcupine Tree.
Sempre bilanciata tra progressive rock e post metal moderno, la musica di questo quartetto madrileno arriva a noi come un fiume di note tragiche, dal mood oscuro ed intimista, attraversata da umori metallici che gli conferiscono un buon appeal per gli amanti del prog di ultima generazione.
I Firmam3nt licenziano il loro primo album omonimo e si ritrovano catapultati nel calderone delle ormai tantissime proposte del genere, ma con un po’ di attenzione da parte dell’ascoltatore quest’opera dedicata ai quattro punti cardinali (i brani infatti si intitolano North, East, West, Sud) alla fine vi convincerà.
Un album strumentale è già di per sé alquanto ostico se non si è fans accaniti della musica che racconta, se poi la stessa si riveste di abiti vari che passano dal metal progressivo, al post rock, dal prog tradizionale a puntate elettriche dal gusto estremo, diventa difficile da assorbire completamente.
Il buon songwriting, unito ad una tecnica assolutamente obbligatoria nel genere e una buona produzione, fanno però di Firmamentun lavoro da applaudire, anche per la durata non eccessiva.
I brani scorrono discretamente, le atmosfere plumbee, violentate da rabbiose impennate metalliche e non troppo lunghe pause espressive, lasciano che la musica sgorghi senza trovare grossi intoppi: gli attimi dove il sound risulta di ottima fattura non mancano, mentre le influenze del gruppo giocano a rimpiattino tra lo spartito delle quattro tracce.
Siamo negli ormai classici territori del prog metal moderno, perciò troverete pane per i vostri denti specialmente se siete fans accaniti di Opeth e Porcupine Tree.
Classico album da prendere con le pinze, curarlo e coccolarlo, alla larga amanti del rock usa e getta.
TRACKLIST
1.North
2.East
3.West
4.Sud
LINE-UP
Jorge Santana – Drums & Percussion
Alberto Garcia – Guitars
Txus Rosa – Guitars
Sergio González – Bass
L’album fa la sua figura e merita l’attenzione degli amanti del prog alternativo e moderno.
Nel mondo del progressive metal le sonorità moderne hanno preso il sopravvento su quelle classiche, almeno nelle preferenze degli ascoltatori e come in tutti i generi ad un periodo di moderato successo e popolarità le uscite del genere si moltiplicano così come le nuove band.
I Source sono un terzetto statunitense proveniente dal Colorado, Return To Nothing è il loro debutto licenziato dalla Pavement Entertainment, un’opera lunga ed ambiziosa che, partendo da un concept legato alle esperienze di meditazione, filosofia e yoga ci consegna un’opera matura, elegante e moderna.
I brani, leggermente prolissi a dire il vero, mantengono comunque una buona scorrevolezza, tra metal moderno e prog concettuale, cambi di ritmo, frenesie elettriche ed atmosfere ariose viziate da chiari riferimenti a viaggi mentali e fughe meditative.
Il sound mantiene questa caratteristica per tutta la durata del disco che passa gli ottanta minuti, tanti per far vostra la musica del combo in pochi ascolti.
Infatti l’album va curato senza fretta, le armonie prog si alternano con l’alternative metal di matrice statunitense, i richiami alla musica orientale accentuano l’atmosfera concettuale che il disco emana, una terapia tooliana vera e principale influenza dei Source.
La band di Undertow e Ænima è presente in dosi massicce nel songwriting della band, meno tragico e drammatico e più solare ma sempre specchiato nel gruppo di Maynard James Keenan.
In generale il livello qualitativo si mantiene su livelli alti, i Source non si dimenticano di essere una band metal e quando i brani lo richiedono ci vanno pesante, ma come d’incanto si torna a viaggiare su nuvole disegnate dalla mente che suo malgrado viaggia invitata dal gruppo statunitense ad esplorare gli angoli più reconditi del proprio mondo.
L’opener Forgiveness è probabilmente il brano più diretto di Return To Nothing,ma dalla successiva Memories Of Yesterday si comincia a fluttuare, accompagnati e presi per mano dalle varie The Essence, Return To Nothing e il piccolo gioiello tooliano The Serpent, picco più alto e brano più duro e metallico del disco.
Nel genere l’album fa la sua figura e merita l’attenzione degli amanti del prog alternativo e moderno, a cui va il consiglio di pazientare e lasciare che la musica creata dai Source arrivi piano a toccare le giuste corde, poi non vi lascerà più.
TRACKLIST
01. Forgiveness
02. Memories of Yesterday
03. The Essence
04. The Word Source
05. Return to Nothing
06. Complaisance
07. Consumed
08. The Serpent
09. Quadrant
10. Veil of Doubt (CD Bonus Track)
LINE-UP
Ben Gleason- Vocals, Guitar
Georges Octobous- Drums
Dan Crisafulli- Bass
I While Sun Ends combinano vari elementi della musica estrema e progressiva con buona sagacia, pescando dal metal estremo tradizionale e da quello più moderno
E’ indubbio che il successo del progressive metal dalle contaminazioni death ed estreme abbia portato un po’ di freschezza al movimento e un più considerazione da parte di chi ha sempre visto il progressive come musica altamente nobile e da non provare ad avvicinare agli altri generi che compongono l’universo della musica rock.
L’ottima considerazione di gruppi come gli Opeth, probabilmente la band più conosciuta ed ammirata da parte dei sommi scribacchini di parte e dei fans alquanto altezzosi del progressive, ed un sempre maggior numero di gruppi dediti a queste sonorità, col tempo hanno creato una scena che, anche nel nostro paese, annovera realtà di ottima qualità e prospettive. Terminusdei bergamaschi While Sun Ends ne è un esempio: licenziato dalla label tedesca Wooaaargh, l’album è il secondo sulla lunga distanza del gruppo, succede alla prima opera The Emptiness Beyond uscita cinque anni fa e ad un ep, Knowledge, targato 2013.
I While Sun Ends combinano vari elementi della musica estrema e progressiva con buona sagacia, pescando dal metal estremo tradizionale e da quello più moderno, amalgamandolo ad una vena dark prog e cercando di ritagliarsi un proprio spazio nel mondo della musica estrema più adulta.
E la maturità compositiva infatti è la prima virtù del gruppo, le atmosfere plumbee e darkeggianti, valorizzate dall’interpretazione della vocalist Stefania Torino, lasciano spazio a crescendo di tensione che sfociano in esplosione di metallo progressivo e drammatico, condotto dal growl in un continuo scambio di atmosfere che, se mantengono i colori oscuri del genere, lasciano che il sound rimbalzi tra soluzioni alternative e death metal tout court, ben assortiti da prestazioni ottime a livello tecnico, virtù essenziale per il genere suonato.
Ne esce un buon lavoro, apprezzabile nella sua natura intimista, melodico ed irruente, tormentato e aggressivo con almeno un paio di brani molto belli come Cycles e Seesaw.
Lamb Of God, Katatonia, gli immancabili Opeth e qualche richiamo al rock dark e progressivo dei Tool, sono le ispirazioni su cui si poggia il sound dei While Sun Ends, perciò se siete amanti delle band sopracitate Terminusè altamente consigliato.
E.V.O ha molte frecce da scoccare e come maliziosi cupidi gli Almah centrano i nostri cuori con una serie di tracce d’alta scuola.
Pare davvero di essere tornati ai tempi dei migliori Angra e non solo quelli dell’arrivo di Falaschi nel combo brasiliano, ma a quel gruppo che clamorosamente irruppe sulla scena metallica con i primi stupendi lavori.
Era nell’aria il disco della vita per il gruppo brasiliano, già il precedente Unfold, anche se lasciava entrare nella propria anima qualche soluzione moderna, risultava un grande album metal, con Falaschi convincente e ormai coinvolto al 100% dalla sua nuova avventura.
Sono passati tre anni e l’arrivo di questo nuovo lavoro pone la band brasiliana sul podio dei migliori act alle prese con il power metal dalle sfumature progressive e splendidamente melodico.
Chiusa la parentesi modernista aperta in alcuni frangenti sul lavoro precedente, gli Almah tornano a suonare quello che la loro tradizione dice di saper fare meglio, toccando picchi elevatissimi , difficilmente raggiunti da un po’ di anni a questa parte, anche se la qualità dei loro lavori non è mai scesa sotto un buon livello. E.V.O torna a far risplendere quel tipo di power metal melodico che ha fatto scuola, colmo di soluzione melodiche, ariose aperture orchestrali e quel tocco latino, irresistibile per molti e che ha sempre differenziato la scena sudamericana da quella europea per l’eleganza ed il talento ritmico innate nei musicisti brasiliani.
Basterebbe Age Of Aquarius, opener del disco, un brano arioso, positivo, stupendamente melodico ed impreziosito da orchestrazioni da musical, per prendere il largo e fare il vuoto nelle opere del genere, ma E.V.O ha molte frecce da scoccare e come maliziosi cupidi gli Almah centrano i nostri cuori con una serie di tracce d’alta scuola.
Il giro di piano che trascina Indigo, malinconico e dalle sfumature dark, il power metal di classe di Higher, l’hard rock ruffiano e melodico di Infatuated, l’unica concessione a soluzione moderne nell’aggressiva Corporate War, l’arioso refrain della magnifica Speranza, il power prog colmo di soluzioni raffinate e dall’irresistibile ritornello di Final Warning, sono solo pochi dettagli di un’opera piena di sorprese nel suo comunque essere classicamente metallica.
Gli Almah questa volta hanno messo in campo tutte le loro armi per vincere questa battaglia e ci sono riusciti senza fare prigionieri, album di un’altra categoria, consigliarvelo è il minimo.
TRACKLIST
1.Age Of Aquarius
2.Speranza
3.The Brotherhood
4.Innocence
5.Higher
6.Infatueted
7.Pleased To Meet You
8.Final Warning
9.Indigo
10.Corporate War
11.Capital Punishment
On The Eve Of A Goodbye è un concept autobiografico, un’opera che elargisce emozioni in un caleidoscopio di note ora intimiste, ora metalliche
Tornano gli statunitensi The Reticent, creatura del musicista Christopher Hathcock con il quarto album della loro carriera, confermando quanto di buono il new progressive sta donando a noi, ingordi e mai sazi fruitori di emozioni in musica.
A dispetto dei sempre più obsoleti detrattori della musica contemporanea e che nel genere trova terreno fertile negli amanti dei suoni di estrazione settantiana, il progressive ha ampliato i suoi orizzonti, amoreggiando con sonorità moderne, metalliche ed estreme e, come in questo caso resuscitando per tornare protagonista degli sviluppi futuri della musica in questo nuovo millennio.
I The Reticent come detto arrivano sul finire di quest’anno al quarto lavoro, le opere passate avevano tracciato la strada che ha portato Hathcock a questo immenso lavoro, dopo Hymns For The Dejected del 2006, Amor Mortem Mei Erit del 2008 e Le Temps Detruit Tout, licenziato nel 2012, più la soddisfazione di una nomination ai Grammy. On The Eve Of A Goodbyeè un concept autobiografico, un’opera che elargisce emozioni in un caleidoscopio di note ora intimiste, ora metalliche, fino a raggiungere l’apice in quelle estreme, giocando a modo suo con la musica degli ultimi trent’anni.
Quasi nulle le influenze settantiane, il sound del gruppo si muove sinuoso tra il prog rock dalle tinte dark di Porcupine Tree e Riverside, il metal estremo ed oscuro degli Opeth e quella tragica e teatrale drammaticità tooliana che ha fatto scuola negli ultimi vent’anni.
Le voci, dolce ed intimista la clean , travolgente e drammatica quella estrema, dettano le atmosfere ai vari passaggi dell’album, trasformati in brani dall’alto tasso emotivo, in un sali e scendi di atmosfere adulte, a tratti pesanti, ma sempre mature.
E’ forte il senso di disagio espresso da questa ora abbondante di musica, che chiamare progressive è il modo più facile per uscire dall’impasse che opere del genere creano in noi, sempre pronti ad affibbiare etichette, anche quando l’impresa diventa ardua, travolti dalla tempesta emotiva provocata da brani come The Apology, The Decision o The .
Inutile disquisire su soluzione tecniche che a On The Eve Of A Goodbye stanno strette come al sottoscritto i jeans di qualche anno fa: sappiate per dovere di cronaca che l’album esce per la Heaven & Hell Records ed è stato prodotto da Jamie King (BTBAM, The Wretched, Scale The Summit), fatelo vostro.
TRACKLIST
01. 24 Hours Left
02. The Girl Broken
03. The Hypocrite
04. 19 Hours Left
05. The Comprehension
06. The Confrontation
07. The Apology
08. 10 Hours Left
09. The Mirror’s Reply
10. The Postscript
11. 2 Hours Left
12. The Decision
13. Funeral For A Firefly
14. The Day After
15. For Eve
LINE-UP
Chris Hathcock – All instruments and vocals, except the following:
Narration by Carl Hathcock, Juston Green, and Amanda Caines
Female vocals by Amanda Caines
French Horn by Dr. Nicholas Kenney
Trombone and Trumpet by Matthew Parunak
Tenor Saxophone by Andrew Lovett