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Tag: postmetal

Dronte – Quelque part entre la guerre et la lâcheté

Un disco importante, che sviluppa un progetto inquieto, musicalmente e politicamente molto valido.

Dronte – Quelque part entre la guerre et la lâcheté

Sette musicisti francesi che si uniscono per dare vita ad una creatura musicale onnivora e che gronda rabbia aggirandosi per molti generi diversi.

I Drone hanno, come affermano loro, un gusto estetico metal ma è solo un punto di partenza, perché le canzoni sono schegge impazzite che sono strutturate come se fosse un free jazz metal. Infatti una grossa importanza nella loro proposta musicale è rappresentata dai fiati, vero e proprio contrappunto. Quelque part entre la guerre et la lâcheté è un disco strabordante e totale, un qualcosa che racchiude tante cose da dire e da far sentire, con la lingua francese che viene usata come codice poetico per raccontare qualcosa di molto interessante. Le canzoni qui avanzano impetuose, suonate da un collettivo che è venuto per sovvertire le regole, per raccontare l’assurdità della vita moderna come in Un Vide Confortable, che potrebbe essere il manifesto poetico e politico del gruppo. Qui non si trova quiete o cose rassicuranti, ma solo asperità e ricerca della verità, sulle cose che ci riguardano tutti. I Dronte portano avanti la loro battaglia dal 2012 e coprono molti generi che possono essere utili ai loro scopi, dal post metal al prog, da una certa vicinanza alla musica etnica, ma il risultato è solo merito loro. Un disco come questo scalda il cuore e amplia la mente, perché al centro di tutto c’è lei, la cosa più importante, la musica. Certi discorsi stilistici sono un collante per legare al meglio, come in cucina l’uovo, certe fasi del discorso più alto che è quello musicale. In questo lavoro si coglie bene se lo si ascolta ad occhi chiusi senza stimoli sensoriali esterni, perché è un flusso musicale che porta l’ascoltatore ad un’altra realtà, un medium per un altro significato. I Dronte sono un’orchestra free metal che racconta storie, in definitiva si possono definire così, ma ovviamente se si sente il discorso c’è molto di più, innanzitutto troviamo il motore primo della rabbia, che muove il tutto. E anche una notevole profondità nei testi, che fanno capire come in Francia stiano molto incazzati e con ragione. Un disco importante, che sviluppa un progetto inquieto, musicalmente e politicamente molto valido.

1.Champion en série
2.Théâtre du vacarme
3.Sarcophage du succès
4.Notre grande machine
5.Un orage…
6.Sagesse gardée
7.Escalade en chute libre
8.Un vide confortable
9….et puis plus rien

Nicolas Aubert : guitare
Benoît Bedrossian : contrebasse
Ève-Rosemarie Boulada : saxophone
Frédéric Braud : chant, shruti et bâton de pluie
Lucas de Geyter : batterie
Camille Segouin : vibraphone et percussions
Grégory Tranchant : guitare

Christophe Lasserre : textes

Valère Brisard : son
Maud Villeval : lumière

https://www.facebook.com/dronte.music/

Autore Massimo ArgoPubblicato il 23 Agosto 20197 Agosto 2019Categorie metal, recensioniTag postmetal

Violet Cold – Kosmik

Kosmik si rivela così una buona esibizione in questo specifico ambito musicale e, se vogliamo, il suo problema principale è proprio quello d’essere un po’ dispersivo, nel senso che si fatica ad individuare un nucleo centrale in grado di fungere da elemento compattatore per i diversi ingredienti musicali messi sul piatto.

Violet Cold – Kosmik

Probabilmente in Azerbaigian il cognome Guliyev ben si associa ad un’idea di velocità: il formidabile Ramil (che oggi batte però bandiera turca per motivi prettamente economici) è campione europeo e mondiale in carica dei 200 metri, mentre il qui presente Emin, pur non dedicandosi all’atletica leggera, dimostra una rapidità compositiva da sprinter di razza.

Il musicista azero, dall’avvio della sua avventura solista denominata Violet Cold avvenuta nel 2013, ha infatti pubblicato infatti oltre quaranta lavori tra singoli, ep e album su lunga distanza (in tal senso Kosmik è l’ottavo), senza contare che mentre scriviamo è già uscito un nuovo ep.
Se come sempre resta qualche dubbio sulla capacità di questi stakanovisti delle sette note nel focalizzarsi su ogni singola uscita, in modo da non disperdere il talento che madre natura ha messo loro a disposizione, va anche detto che tale modus operandi appare leggermente meno penalizzante allorché il genere offerto è, come in questo caso, un post black dalle ampie aperture melodiche derivanti da una forte componente post rock e shoegaze.
Kosmik si rivela così una buona esibizione in questo specifico ambito musicale e, se vogliamo, il suo problema principale è proprio quello d’essere un po’ dispersivo, nel senso che si fatica ad individuare un nucleo centrale in grado di fungere da elemento compattatore per i diversi ingredienti musicali messi sul piatto.
Emin possiede un giusto melodico tutt’altro che banale e questo consente alla maggior parte delle sue composizioni di esibire quei passaggi in grado di catturare l’attenzione dell’ascoltatore, ma purtroppo viene più di una volta diluito rischiando di finire compresso tra pulsioni etniche (Contact e Black Sun) e classiche (Ai(R), omaggio a J.S. Bach) condensando il meglio nelle quattro tracce centrali in cui l’anima black si sposa più efficacemente con le aperture atmosferiche, con menzione d’onore proprio per la bellissima title track.
Kosmik è un disco che in qualche modo fa arrabbiare, perché si percepisce chiaramente che con una minore frenesia compositiva, una maggiore cura a livello di produzione e nell’uso della voce e, in definitiva, recuperando quel dono della sintesi di cui sono carenti per definizione i musicisti iperproduttivi, il nome Violet Cold avrebbe tutti i numeri per attrarre, indipendentemente dalla sua provenienza esotica.
Finora così non è, per cui non ci resta che apprezzare quanto di buono ci propone il buon Emin Guliyev, con il rammarico e la consapevolezza che il tutto potrebbe essere di levatura ben superiore.

Tracklist:
1. Contact
2. Black Sun
3. Mamihlapinatapai
4. Space Funeral
5. Ultraviolet
6. Kosmik
7. Ai(R)

Line-up:
Emin Guliyev – Everything

VIOLET COLD – Facebook

Autore adminPubblicato il 24 Giugno 201923 Giugno 2019Categorie black, metal, postmetal, recensioniTag blackmetal, postblack, postmetal, postrock

Atlases – Haar

Gli Atlases trovano la loro personale pietra filosofale unendo come meglio non si sarebbe potuto tutti quegli ingredienti che in mano ad altri divengono solo un coacervo di sonorità messe assieme alla rinfusa: Haar è la dimostrazione pratica di quale risultato possa scaturire quando a maneggiare le sette note troviamo musicisti di talento invece che mediocri assemblatori.

Atlases – Haar

Pori è una citta finlandese che, al di fuori della nazione, immagino sia conosciuta soprattutto per l’annuale organizzazione del rinomato festival jazz che si tiene fin dagli anni sessanta.

Sono di tutt’altro tenore le sonorità offerte dagli Atlases, band che probabilmente non riuscirà a competere con quella manifestazione in termini di popolarità, ma che con il full length d’esordio Haar si propone come una delle più sfolgoranti sorprese dell’anno.
Il quintetto viene catalogato, per non saper né leggere né scrivere, nel calderone post metal ma la verità è che questi musicisti esibiscono una proposta che, forse per la prima volta a mia memoria, è capace di coniugare impulsi moderni con l’afflato melodico ed emotivo del miglior death doom.

Haar è un lavoro che parte ingannevolmente catchy e robusto con una bomba quale Neophyte, canzone che in poco più di cinque minuti fa letteralmente piazza pulita di tutta la teorica concorrenza in ambito modern metal, ma lo scenario cambia con il tenue incipit della successiva Centralis, uno dei brani capolavoro dell’album: qui il post metal interseca con una prodigiosa e melodica fluidità le asprezze del death doom e dall’impatto ne scaturisce qualcosa che, a tratti, raggiunge vette di stupefacente bellezza.
Heathen Colors riporta (come è normale) ai Swallow The Sun più suadenti, ma dal confronto gli Atlases ne escono addirittura rafforzati in quanto si percepisce chiaramente quanto la loro cifra stilistica non possieda alcunché di derivativo.
Le note che delineano il volo dell’alcione nella quarta traccia strumentale (Halcyon) delineano uno scenario commovente e poetico, eppure non disorienta affatto l’avvio degno dei Meshuggah della successiva Monolithe, perché nel sound di questi finlandesi l’afflato dolente e poetico è sempre ben percepibile anche quando viene racchiuso in uno spesso e roccioso involucro.
Ecco il post metal, nella sua accezione più pura e incontrovertibile, nell’altro strumentale Seasons Aligned che, come da copione, cresce come una marea che va a ricoprire per sempre le nostre stanche membra; in questa splendida alternanza tocca a Earth into Ocean far riemergere con tutta la sua dirompente forza quella nervosa modernità che si stempera, infine, in una Moon Pillar che conduce alla malinconica chiusura di un disco splendido, suonato in maniera impeccabile da V-V Laaksonen, Nico Brander, Rami Peltola e Jerkka Perälä, e interpretato vocalmente in maniera superba da Jani Lamminpää.
Gli Atlases, che avevano già preparato il terreno due anni fa con l’ep Penumbra, trovano la loro personale pietra filosofale unendo come meglio non si sarebbe potuto tutti quegli ingredienti che in mano ad altri divengono solo un coacervo di sonorità messe assieme alla rinfusa: Haar è la dimostrazione pratica di quale risultato possa scaturire quando a maneggiare le sette note troviamo musicisti di talento invece che mediocri assemblatori.

Tracklist:
1.Neophyte
2.Centralis
3.Heathen Colors
4.Halcyon
5.Monolithe
6.Seasons Aligned
7.Earth into Ocean
8.Moon Pillar

Line-up:
Jerkka Perälä – Bass
Rami Peltola – Drums
Nico Brander – Guitars
V-V Laaksonen – Guitars
Jani Lamminpää – Vocals

ATLASES – Facebook

Autore adminPubblicato il 13 Giugno 201912 Giugno 2019Categorie alternative, deathdoom, doom, metal, postmetal, recensioniTag deathdoom, modernmetal, postmetal

Rebis – Rebis

I Rebis pescano nel passato, usando bene il presente e guardando decisamente al futuro, con le distorsioni sempre accese e una gran voglia di far rumore, senza rinunciare a buone melodie che fanno sognare in tempi certamente non facili.

Rebis – Rebis

I Rebis sono un gruppo torinese nato nel 2018 per mano del bassista Federico De Leo, ex Know Margaret, e del chitarrista Sabino Matera, ex My Sins Don’t Bother, i quali coinvolgono il batterista Giacomo Fontana, ex Your Anguish, ed il chitarrista cantante Simone Cantino, ex Mu.

Il primo ep è una fusione di tante cose che loro lo definiscono crossover anni novanta, e ciò è calzante, poiché in questo suono convergono il post metal, il post rock e appunto una fascinazione anni novanta, il tutto rielaborato in maniera originale. Le canzoni dell’ep sono tutte ben strutturate, si portano dietro e dentro le passate esperienze sonore dei componenti dei Rebis, usando questo gruppo come un nuovo inizio e l’ep come ideale biglietto di presentazione. Soggettivamente preferisco le canzoni in italiano come Sirene, ma anche quelle in inglese sono molto buone. Il gruppo sa essere spigoloso, nervoso ma anche melodico e sognante: il risultato è fresco e diretto, un buon inizio di qualcosa di nuovo racchiuso in un ep che è la giusta forma, per il momento, con tracce di media durata nelle quali vengono ben sviluppate le diverse direzioni del sound.
I Rebis pescano nel passato, usando bene il presente e guardando decisamente al futuro, con le distorsioni sempre accese e una gran voglia di far rumore, senza rinunciare a buone melodie che fanno sognare in tempi certamente non facili. Un’altra nota del loro stile è una freschezza giovanile e un grande facilità nel creare ottimi ritornelli che sono supportati da solide strofe.

Tracklist
1.Arise
2.The Plunge
3.Ocean Gravel
4.Sirene
5.Mud and Silver

Line-up
Simone Cantino – Vocals, Guitar
Sabino Matera – Guitar
Federico De Leo – Bass
Giacomo Fontana – Drums

REBIS – Facebook

Autore Massimo ArgoPubblicato il 30 Maggio 201928 Maggio 2019Categorie alternative, alternativerock, Made In Italy, metal, postmetal, recensioniTag postmetal, postrock

Déhà – Cruel Words

Cruel Words dimostra quale impatto emotivo devastante possa produrre l’incontro tra il depressive ed il post metal, quando viene composto da quello che non esito a definire uno dei maggiori artefici contemporanei dell’arte musicale nelle sue più dolorose sembianze.

Déhà – Cruel Words

Come ampiamente anticipato parlando del singolo Blackness in May qualche mese fa, non c’era davvero alcun dubbio che il nuovo album solista di Déhà (secondo del progetto che porta semplicemente il suo nome) sarebbe stato l’ennesimo lavoro di livello superiore alla media.

Cruel Words riprende quanto già ascoltato in 4 5 6 e nel citato singolo, amplificandone la durata e quindi il piacere dell’ascolto di un lavoro che rende quanto mai impattante, dal punto di vista emotivo, un genere che ogni tanto tende ad avvitarsi su se stesso come il post metal, in tutte le sue varianti.
Déhà conferma d’aver maturato competenze vocali che gli consentono di utilizzare un timbro pulito impeccabile, che viene comunque alternato alla disperata intonazione per lo più utilizzata nei suoi progetti più estremi, come ad esempio Imber Luminis.
Ed è proprio lì che, volendo, si può trovare la chiave della poetica presente in gran parte della produzione del musicista belga, in quanto al centro di essa nidifica un atteggiamento di rifiuto verso le convenzioni esistenziali e quello che cambia, a seconda del monicker utilizzato, è il veicolo musicale scelto per portare il tutto alle orecchie degli ascoltatori.
In tal senso, con le uscite a nome Déhà prendono forma le pulsioni più tenue e, solo apparentemente, meno abrasive ma non per queste meno coinvolgenti e toccanti nel loro incedere: esemplificativa al massimo al riguardo risulta Dead Butterflies, traccia di rara bellezza che, come spesso accade nella produzione di questo infaticabile artista, si sviluppa come un lungo ed inarrestabile crescendo che sfocia in un finale di parossistica emotività.
Detto delle splendide Blackness in May e I Am Mine to Break (quest’ultima però in una versione ancor più coinvolgente) già ascoltate nel singolo che anticipava l’album, troviamo una più cruda Pain is a Wasteland, traccia in cui il dolore appunto viene espresso senza alcuna mediazione a differenza di Butterflies, dove invece ogni sensazione appare più repressa ed ingabbiata in un dolente involucro melodico.
Chiude questa ennesima gemma partorita da Déhà la title track, altro brano grondante pena ed angoscia che supera i dieci minuti, sorta di quintessenza di quale impatto emotivo devastante possa produrre l’incontro tra il depressive ed il post black, quando viene composto da quello che non esito a definire uno dei maggiori artefici contemporanei dell’arte musicale nelle sue più dolorose sembianze: chi ormai ne conosce a menadito la produzione in tutte le sue diverse vesti continua ugualmente a stupirsi per la qualità costante di ogni uscita, mentre chi ancora non vi si fosse imbattuto può partire proprio da qui per intraprendere un periglioso ma impagabile viaggio musicale all’interno dei meandri più oscuri e reconditi della psiche umana.

Tracklist:
1. I am mine to break
2. Pain is a wasteland
3. Blackness in May
4. Butterflies
5. Dead butterflies
6. Cruel words

DEHA – Facebook

Autore adminPubblicato il 11 Maggio 201910 Maggio 2019Categorie depressive, metal, postmetal, recensioniTag depressive, postblack, postmetal

Autism – Have You Found Peace?

Si rimane incollati al disco e non si può fare a meno di restare spesso a bocca aperta e, soprattutto a cervello aperto, per certe soluzioni molto efficaci e di grande bellezza.

Autism – Have You Found Peace?

Gli Autism sono un gruppo lituano di post metal e post rock e con Have You Found Peace? si collocano fra i migliori in Europa.

Questo concept è composto come se fosse la colonna sonora di un film, e possiede un respiro totalmente cinematografico, arrivando ad altezze vertiginose. Una delle maggior caratteristiche di questo gruppo è quella di creare una notevole tensione spirituale, grazie ad un musica oscura che tende però alla luce. Immaginate una grande tragedia figlia della stupidità adolescenziale, che ha grandissime conseguenze, una vita distrutta, il rimorso, e dietro e dentro a tutto ciò delle vite che cambiano per sempre fino ad un finale sconvolgente. In breve questa è la storia che c’è dietro al disco, ovviamente gli Autism ve la spiegheranno meglio, ma soprattutto lo faranno anche attraverso una musica molto coinvolgente e drammatica. Il gruppo usa prevalentemente come generi il post metal vicino agli Isis e il post rock più cinematografico, ma rimangono comunque nella loro essenza in ambito metal. La loro personale commistione è molto peculiare ed è totalmente funzionale alla drammatizzazione della storia, come fossero due strade che continuano ad incrociarsi per portare ad una meta comune che necessita di entrambe le vie di accesso. Ascoltando Have You Found Peace? si dipanano davanti ai nostri occhi molte immagini, costruite una per una dalla grande capacità degli Autism di creare un qualcosa dalla musica e dalle parole. Ci sono momenti di calma, improvvise tempeste e ripartenze, ma sopra a tutto c’è una radiazione di fondo che è la cifra stilistica di questo gruppo, un incedere deciso e consapevole sotto una fitta pioggia. Si rimane incollati al disco e non si può fare a meno di restare spesso a bocca aperta e soprattutto a cervello aperto, per certe loro soluzioni molto efficaci e di grande bellezza. Un disco molto importante per questa band che si sta affermando a livello europeo e non solo, e ascoltandolo si capisce facilmente il motivo.

Tracklist
1.Rememorari
2.No Word
3.Tremorous Luminance
4. Haunting Recollections
5.Watching the Flame
6.Nycto-
7.No Word (instrumental)

Line-up
Tomhetas – Guitar
Karolis – Guitar
Linas – Bass
Domantas – Drums

GUEST APPEARANCES:
Krzysztof Traczyk (ROSK) – vocals, narration
Mateusz Szymański (ROSK) – drone, ambient on „Rememorari“
Povilas Vaitkevičius (VILKDUJA, OORCHACH) – drone, ambient on „No Word“
Laurynas Jukonis (GIRNŲ GIESMĖS, ORO!ORO!, ANUBI) – drone, ambient on „Nycto-“ and „Tremorous Luminance“
Valdas Voveraitis (ERDVE) – saxophone on „Haunting Recollections“
Evaldas Petkus – cello on „Haunting Recollections“

AUTISM – Facebook

Autore Massimo ArgoPubblicato il 9 Maggio 20199 Maggio 2019Categorie metal, postmetal, recensioniTag postmetal, postrock

Kavod – Wheel Of Time

Wheel Of Time è un disco che, molto semplicemente, è una scintilla che può far scattare molte cose, ma soprattutto è un pezzo di musica unico e bellissimo, puro e da ascoltare assolutamente.

Kavod – Wheel Of Time

Interessante debutto per i Kavod da Perugia, un gruppo che fonde molti istanze musicali in un suono che è decisamente post metal e che guarda al futuro imparando dal passato.

Sul loro bandcamp il disco è ad offerta libera e questi ragazzi scrivono qualcosa di molto semplice, sincero, e allo stesso tempo molto illuminante: i Kavod scrivono e fanno musica per esorcizzare i propri demoni, usando un medium che è la musica per trasfigurarli e vincerli, se possibile. Questo trio già dal nome regala qualcosa di inestimabile all’ascoltatore: la possibilità di intraprendere e di conoscere. E tutto ciò si può ritrovare nel loro suono, che loro stessi definiscono doom meditativo, ma è molto di più, è un dono che potrebbe aiutare ad aprire il nostro terzo occhio ed andare oltre.
Kavod è una parola semitica che ha vari significati, incluso quello che è l’aspetto tremendo della divinità: usando internet per cercare questo termine si apriranno mondi antichi e bellissimi. E aprire mondi è anche ciò che fa la musica dei Kavod, che è minimalista e meditativa, ma che in realtà è una delle vie da intraprendere. Innanzitutto l’ascoltatore verrà rapito da un suono che tesse trame, un ordito che sottolinea il collegamento fra noi è l’universo, quell’energia che fa sì che tutto sia compenetrazione. I Kavod sono una bestia molto strana, un trio che abbassa i battiti del nostro cuore e che fa viaggiare il nostro cervello. L’iniziale Samsara, che è anche il loro primo e notevole video, è un bellissimo discorso sul tempo e sul suo scorrere, e su come esso sia forse la cosa più importante che abbiamo, perché è poco e non sappiamo quanto ne possediamo. Samsara è un altro concetto di un’immensità inusitata, è il tempo ed il mondo materiale, una compenetrazione e contemporaneità di concetti che i Kavod mettono molto bene in musica. La seguente Absolution è un pezzo che deve molto a certi Tool, ed è straniante e ciclico, dolce e tremendo. Chiude questo ep Mahatma, un viaggio etereo e rinfrescante come l’acqua dell’antico Gange. I dischi migliori, o almeno quelli più interessanti, sono quelli che aprono porte sconosciute all’ascoltatore, offrendogli un cammino che deve essere ricerca personale, un viaggio anche solo mentale speciale ed esclusivo. Wheel Of Time è un disco che, molto semplicemente, è una scintilla che può far scattare molte cose, ma soprattutto è un pezzo di musica unico e bellissimo, puro e da ascoltare assolutamente, sperando che il prossimo episodio possa essere più lungo, anche se il tempo non si può forzare.

Tracklist
1.Samsara
2.Absolution
3.Mahatma

Line-up
Edoardo – Guitar, Ebowing Stuff & Incense Sniffer
Francesco – Bass, Tattoos & Vocals
Alessandro – Drum and play loud as hell

KAVOD – Facebook

Autore Massimo ArgoPubblicato il 4 Maggio 20198 Maggio 2019Categorie doom, Free Download, Made In Italy, metal, postmetal, recensioniTag doommetal, medtationdoom, postmetal

Tronos – Celestial Mechanics

Album da maneggiare con molta cura, questa nuova opera firmata da Embury risulta un lavoro di non facile comprensione al primo approccio: i brani spostano gli equilibri del sound tra metal e rock, death, industrial e hardcore, continuando imperterriti in un’altalena di sonorità cangianti.

Tronos – Celestial Mechanics

I Tronos non sono altro che l’ennesimo progetto di uno dei musicisti più importanti nella storia del metal estremo mondiale, Shane Embury.

Celestial Mechanics, un altro lavoro che risulta tutto fuorché facile, vede Embury (alle prese con voce e chitarra) collaborare con il produttore Russ Russell (chitarra, voce e synth) e Dirk Verbeuren (batteria): una formazione a tre aiutata da ospiti di spicco come Dan Lilker, Billy Gould e Troy Sanders (basso), Denis ‘Snake’ Belanger (voce) ed Erica Nockall (voce, violino).
Il sound di Celestial Mechanics è un connubio di generi e suoni che vanno dal metal estremo al post rock, una musica cangiante, in un’atmosfera assolutamente moderna valorizzata da un songwriting di alto livello.
Album da maneggiare con molta cura, questa nuova opera firmata da Embury risulta un lavoro di non facile comprensione al primo approccio: i brani spostano gli equilibri del sound tra metal e rock, death, industrial e hardcore, continuando imperterriti in un’altalena di sonorità cangianti.
Il peso specifico dei musicisti impegnati nel progetto fa sì che tutto abbia un suo perfetto sincronismo, con l’album che a tratti ricorda in qualche particolare i tanti lavori passati del leggendario bassista dei Napalm Death.
L’album va considerato l’ennesimo sfogo del talento inesauribile del nostro, che magari potrà anche non avere un seguito, ma che si colloca perfettamente nell’ambito delle opere di spessore della musica estrema contemporanea.

Tracklist
1. Walk Among The Dead Things
2. Judas Cradle
3. The Ancient Deceit
4. The Past Will Wither And Die
5. A Treaty With Reality
6. Voyeurs Of Nature’s Tragedies
7. Birth Womb
8. Premonition
9. Beyond The Stream Of Consciousness
10. Johnny Blade

Line-up
Shane Embury – Vocals & Guitar
Russ Russell – Vocals, Guitar & Synths
Dirk Verbeuren – Drums

Album Guests:
Additional vocals: Denis ‘Snake’ Belanger and Erica Nockalls (also Violin)
Bass: Billy Gould, Troy Sanders and Dan Lilker.

TRONOS – Facebook

Autore Alberto CentenariPubblicato il 3 Maggio 20192 Maggio 2019Categorie death, metal, postmetal, recensioniTag deathmetal, postmetal

John, The Void – III-Adversa

I John, The Void sono uno dei migliori gruppi post metal italiani e lo dimostrano ampiamente con questo nuovo lavoro, III- Adversa.

John, The Void – III-Adversa

I John, The Void sono uno dei migliori gruppi post metal italiani e lo dimostrano ampiamente con questo nuovo lavoro, III- Adversa.

Il loro stile è un etereo e al contempo pesante incontro fra post rock e post metal, con una forte iniezione di tastiere che rende molto bene alcune atmosfere. Le tracce sono impalcature sonore che vanno oltre il concetto di forma canzone e portano il discorso ad un livello molto alto. In alcuni frangenti, per dare dei parametri, ci si avvicina a quel suono portato avanti dagli Isis, una commistione fra post metal e sludge, con la stessa capacità di avvicinarsi al cielo del gruppo americano. III- Adversa è un disco con molti strati, diversi livelli di lettura e di ascolto, è un qualcosa di molto ricco e vivo, possiede una fisicità eterea, è un click che fa scattare pensieri diversi da quelli normali. In alcuni frangenti si sfiora anche il miglior ambient, il tutto con una grande produzione che lavorando i suoni riesci a farli rendere al meglio. La capacità migliore dei John, The Void è quella di avere molti stimoli, ottimi ascolti e tanta creatività, e di incanalare il tutto al meglio, producendo un ottimo lavoro. Il passo di questo gruppo di Pordenone è di quelli importanti e maestosi, la traiettoria punta verso l’alto e non scende mai. L’ascolto è sempre l’ambito migliore per farsi un’idea e andare a capire cosa sia questo disco, ma basti pensare che in una canzone come Silent Bearer ci sono dentro almeno cinque generi diversi, includendo anche il post black metal, il tutto con grande coerenza e compattezza. Recentemente una persona che capisce molto più di me di musica, mi ha detto una cosa che è abbastanza illuminante, sia per la sua semplicità che per la sua verità: l’underground di oggi è meno potente rispetto a quello di trenta anni fa, ma ci sono cose fantastiche che non avremmo mai potuto né sentire, né conoscere senza la rete e le attuali possibilità. Ecco, il disco dei John, The Void rispecchia benissimo questa situazione, perché è bellissimo ed è alla portata di chi vuole sentirlo.

Tracklist
01. Shapeshifter
02. Dark City 0f Error
03. Adversa
04. Silent Bearer
05. A Cold Becoming
06. Cursed

Line-up
Matteo Burigana – guitar
Marco Verardo – guitar
Enrico Fabris – drum
Andrea Pasianot – bass
Marco Zanella – vocals / electronics

JOHN, THE VOID – Facebook

Autore Massimo ArgoPubblicato il 13 Aprile 201912 Aprile 2019Categorie Made In Italy, metal, postmetal, recensioniTag postmetal, postrock

Il Vuoto – Vastness

Vastness è un lavoro che, per essere apprezzato al meglio, necessità d’essere ascoltato più volte, possibilmente come se fosse un corpo unico senza saltare da un brano all’altro: solo così si potrà godere pienamente della bellezza di quest’opera destinata a divenire un termine di paragone per il genere negli anni a venire, almeno a livello nazionale.

Il Vuoto – Vastness

Torna quattro anni dopo il precedente full length il musicista piacentino Matteo Gruppi (già noto per la sua altra incarnazione atmospheric black Chiral) con Vastness, seconda tappa su lunga distanza del suo progetto funeral doom Il Vuoto.

Se già in Weakness si era potuto costatare quanto la catalogazione in ambito funeral era per certi versi solo indicativa, poiché il sound spesso defluiva verso un avvolgente post metal mostrando un volto ben poco soffocante e privilegiando piuttosto un incedere malinconico, in Vastness tutto ciò viene ulteriormente accentuato, nel senso che la dicotomia tra i drammatici passaggi contraddistinti dal growl e da un potente e rallentato riffing e i momenti più rarefatti ed intimisti è sempre ben presente, ma il tutto appare ancor più concatenato ed organico.
Tutto questo rende il nuovo lavoro de Il Vuoto piuttosto peculiare, se inserito all’interno di un certo contesto, proprio perché il sound non è affatto scontato e porta l’ascoltatore sul terreno voluto da Matteo senza fretta e senza ricorrere a soluzioni di facile presa, lasciando eventualmente al solo lavoro della chitarra solista il compito di catturare l’attenzione tramite magnifici bagliori emotivi.
Vastness è un album magnifico anche per un crescendo emotivo che è ben tangibile, all’interno di un percorso stilistico che non appare mai scontato nel suo riuscito tentativo di mettere i musica i dolori dell’esistenza visti da differenti angolazioni: se la title track si sviluppa seguendo le coordinate più classiche del funeral, con i suoi riff che spiovono sull’ascoltatore abbinati ad un growl che questa volta è opera dello stesso musicista piacentino, la successiva Weakness ne interpreta lo struggimento di fronte all’incapacità di arginare le avversità che inchiodano lo spirito oltre alle membra.
Gli splendidi arpeggi chitarristici ci accompagnano in un microcosmo lattiginoso, entro il quale vengono meno le risorse necessarie ad organizzare una reazione verso un stato delle cose che pare ineluttabile, e questo incedere apparentemente consolatorio prosegue anche in Her Fragile Limbs, traccia in realtà dai contenuti altamente drammatici e commoventi, visto che il tema trattato è il suicidio visto come unica via di fuga possibile da un’esistenza fattasi troppo pesante benché sia di fatto ancora tutta da vivere: qui affiorano anche passaggi di chitarra solista dal mirabile contenuto melodico.
Torniamo ad un più canonico ma non meno avvolgente funeral atmosferico con V (The Fifth Nail), brano che non teme confronti con il meglio prodotto dai maestri del genere per intensità, esecuzione e potenziale evocativo, prima che il lavoro si chiuda con le atmosfere rarefatte della più breve As The Whole World Failed.
Se le precedenti uscite de Il Vuoto avevano fornito l’impressione di trovarsi di fronte ad un progetto di grande spessore ma ancora per certi versi in divenire, Vastness consegna alla scena italiana una realtà che oggettivamente mancava in questo specifico segmento musicale, ovvero qualcuno che fosse in grado di muoversi agevolmente in quell’ideale spettro sonoro che racchiude Mournful Congreation, Ea e tutte le altre band capaci di offrire le sonorità dall’effetto catartico che gli appassionati di funeral ricercano.
Vastness è un lavoro che, per essere apprezzato al meglio, necessità d’essere ascoltato più volte, possibilmente come se fosse un corpo unico senza saltare da un brano all’altro: solo così si potrà godere pienamente della bellezza di quest’opera (non a caso pubblicata da un’etichetta specializzata in sonorità dolenti di elevata qualità come la Hypnotic Dirge) destinata a divenire un termine di paragone per il genere negli anni a venire, almeno a livello nazionale.

Tracklist:
1. Vastness
2. Weakness
3. Her Fragile Limbs
4. V (The Fifth Nail)
5. As The Whole World Failed

Line-up:
Matteo Gruppi – all instruments and vocals

IL VUOTO – Facebook

Autore adminPubblicato il 8 Marzo 20197 Marzo 2019Categorie doom, drone, funeral, Made In Italy, metal, postmetal, recensioniTag doommetal, drone, funeraldoom, postmetal

Noyde – Surface

Questi quattro brani mostrano l’intenzione di proporre il genere in una maniera tra il sognante ed il rarefatto e per far ciò il contributo di una componente post metal diviene inevitabile; l’operazione però convince solo a tratti, perché tale connubio unito ad una voce femminile, invero non troppo incisiva, riesce ad evocare sensazioni di malinconico abbandono così come momenti piuttosto tediosi.

Noyde – Surface

Il duo ucraino Noyde esordisce con questo ep intitolato Surface nel quale vengono convogliate diverse idee, comunque tutte gravitanti attorno all’area doom.

Questi quattro brani mostrano l’intenzione di proporre il genere in una maniera tra il sognante ed il rarefatto e per far ciò il contributo di una componente post metal diviene inevitabile; l’operazione però convince solo a tratti, perché tale connubio unito ad una voce femminile, invero non troppo incisiva, riesce ad evocare sensazioni di malinconico abbandono così come momenti piuttosto tediosi.
È evidente come l’operato dei Noyde sia ancora in divenire e sicuramente da focalizzare: indubbiamente, per esempio, l’opener Vapors è un buon brano, soprattutto nella prima parte di natura strumentale (della quale è fautore il buon Nickolay Romanov, ad esclusione della tastiere) perché gli interventi vocali di Anastasia Lazarenko non convincono come invece avviene nella successiva This Unrest, cover di Siouxsie and The Banshees doomizzata in maniera molto efficace, anche perché la timbrica si rivela appunto più adatta ad un contesto come quello del post punk che non del metal.
Il post metal lagnoso di Languishing e la difficile convivenza tra i ritmi parossistici dell’incipit e l’incedere sognante della parte finale di Wasted segnano una seconda metà dell’ep che lascia diverse ombre sull’operato dei Noyde, anche se la sensazione è che al duo non manchino le idee bensì la capacità di racchiuderle in un contenitore maggiormente compatto e indirizzato verso una direzione ben definita.
A mio avviso i Noyde funzionerebbero molto meglio se si dedicassero ad un post metal strumentale dai tratti oscuri e malinconici, una soluzione per la quale dimostrano d’avere una certa predisposizione in più frangenti nel corso di Surface.

Tracklist:
1. Vapours
2. This Unrest (Siouxsie and the Banshees cover)
3. Languishing
4. Wasted

Line-up:
Anastasia Lazarenko – Synth, Vocals, Lyrics
Nickolay Romanov – Guitars, Drums, Bass

Autore adminPubblicato il 28 Febbraio 201927 Febbraio 2019Categorie doom, EP/Split/Demo, metal, postmetal, recensioniTag doommetal, postmetal

Lumbar – The First and Last Days of Unwelcome

Questa ristampa è un’ottima occasione per ritrovare un demone musicale che ci può essere di grande aiuto e conforto, musica che nasce dalla sofferenza e dalla paura, con lo scopo di farci andare più in alto.

Lumbar – The First and Last Days of Unwelcome

Ogni disco nasce con uno scopo particolare, alcuni ci intrattengono, altri nascono con lo scopo di trasmettere delle sensazioni e delle emozioni, ma pochi nascono per raccontare fedelmente la vita e gli avvenimenti legati ad essa.

Il disco d’esordio e anche ultimo disco dei Lumbar è una dimostrazione di come la musica possa rispecchiare fedelmente le vibrazioni della vita. I Lumbar sono composti da autentiche colonne portanti di un certo modo di fare musica pesante come Aaron Edge, (Ramprasad, Bible Black Tyrant, Rote Hexe, Iamthethorn, Roareth, Phemüt), un certo Mr. Mike Scheidt e basta dire la parola magica Yob, e Tad Doyle (Brothers of the Sonic Cloth, TAD). Come potete vedere non si potrebbe volere un gruppo migliore, e come potete sentire in questa ristampa dell’italiana Argonauta Records, il risultato è di assoluta eccellenza. Ma qui la musica è un mezzo per poter ascendere a qualcosa di nuovo e diverso, usando la sofferenza come combustibile di un processo alchemico che aspira a portare l’uomo ad un livello superiore di conoscenza. Il passo di questo disco è pesante, magniloquente ed usa vari registri musicali per dipingere un quadro iperrealista. Il disco nasce nel primo anno di malattia di Aaron Edge, dopo che gli fu diagnosticata la sclerosi multipla. Dopo cinque anni Aaron è ancora tra noi e suona forte, con i suoi Bible Black Tyrant che sono sempre su Argonauta Records, e con questa ristampa del disco dei Lumbar ci dà l’opportunità di ascoltare questo mostro sonoro con altre orecchie. Ambient, sludge, doom, post metal e soprattutto un groove continuo, uno scavare dentro le nostre vite che non conosce tregua, cercando di capire qualcosa di questo mistero. Il disco è permeato di un senso di sconfitta che pulsa e si muove insieme a noi, perché siamo noi che abbiamo perso, ma non poteva essere altrimenti, la partita era già truccata dall’inizio. The First and Last Days of Unwelcome esprime un’ampia gamma di sentimenti, sublimati da una composizione ed un’esecuzione fuori dal normale, anche perché le persone coinvolte amano e conoscono a fondo ciò che fanno. Questa ristampa è un’ottima occasione per ritrovare un demone musicale che ci può essere di grande aiuto e conforto, musica che nasce dalla sofferenza e dalla paura, con lo scopo di farci andare più in alto.

Tracklist
1 Day One
2 Day Two
3 Day Three
4 Day Four
5 Day Five
6 Day Six
7 Day Seven

Line-up
Mike Scheidt
Tad Doyle
Aaron Edge

LUMBAR – Facebook

Autore Massimo ArgoPubblicato il 15 Febbraio 201914 Febbraio 2019Categorie ambient, doom, metal, postmetal, recensioni, Ristampe, sludgeTag ambient, dark, postmetal, sludge

Déhà – Blackness in May

Un ep splendido in grado di lenire l’attesa per il prossimo full length che, viste le premesse, ci rende facili profeti nel pronosticarlo quale ennesimo gioiello musicale partorito dalla fervida e geniale mente di Déhà.

Déhà – Blackness in May

Oltre che per molte delle sue altre incarnazioni, il 2018 di Déhà è stato ricco di uscite anche per il nuovo progetto che porta semplicemente il suo nome d’arte, con due full length, una raccolta di brani inediti e questo singolo, Blackness in May, propedeutico all’uscita del nuovo lavoro su lunga distanza che sarà intitolato Cruel Words.

Parlare di questa uscita è comunque doveroso, perché come sempre il musicista belga di origini italiane non lesina ai suoi estimatori minuti importanti di grande musica: Blackness in May contiene, infatti, oltre al brano omonimo, la versione acustica di una traccia che farà anch’essa parte del nuovo album (I Am Mine to Break), la cover di Saturnine dei The Gathering ed un brano inedito che dovrebbe fare la sua comparsa solo in tale frangente (Confort Me II), per un fatturato di quasi mezz’ora di grande musica.
La canzone Blackness in May è un mirabile esempio di post metal nell’interpretazione di questo magnifico artista che sorpassa a destra e a sinistra i più noti interpreti di queste sonorità, conferendo al tutto una tensione emotiva ed un afflato melodico pressoché irraggiungibile per la maggior parte di essi.
In I Am Mine to Break il nostro offre l’ennesima prova della sua multidimensionalità, mostrando quali siano stati i suoi progressi come cantante e rivelando, a chi non lo avesse ancora compreso, quanto la sua gamma interpretativa non sia limitata solo al growl utilizzato con gli Slow o lo screaming che rende ancor più drammatici gli Imber Luminis, ma comprenda anche una voce pulita di pari evocatività e soprattutto appropriata ed intonata.
Cimentarsi con un brano cantato nella sua versione originale da una voce femminile iconica come quella Anneke van Giersbergen non è mai semplice, ma Saturnine, nella versione proposta da Déhà, diviene un brano per forza di cose differente ma ancor più spasmodico per intensità e con il pathos finale, già rimarchevole nella versione che i The Gathering presentarono nell’album If_then_else, che viene incrementato all’ennesima potenza.
Per l’intimista Comfort Me II vale quanto detto per I Am Mine to Break, con la differenza che lo screaming qui viene utilizzato ma solo quale controcanto, a rafforzare le fasi più intense della canzone che chiude al meglio un’uscita che possiede ampiamente una vita propria, nonostante la dichiarata veste promozionale.
Un motivo in più, quindi, per far proprio anche questo lavoro, in attesa di un nuovo full length che, viste le premesse, ci rende facili profeti nel pronosticarlo quale ennesimo gioiello musicale partorito dalla fervida e geniale mente di Déhà.

Tracklist:
1.Blackness in May
2.I Am Mine to Break (Reprise)
3.Saturnine (The Gathering Cover)
4.Comfort Me II

Déhà – Facebook

Autore adminPubblicato il 5 Febbraio 20194 Febbraio 2019Categorie atmospheric, doom, EP/Split/Demo, metal, postmetal, recensioniTag atmospheric, doommetal, postmetal

Fiend – Seeress

Fiend – Seeress

Un concentrato di doom metal fatto in un modo mai ovvio, con canzoni che salgono al cielo come spire di un voluttuoso e lento incendio.

Terzo disco per il super gruppo parigino Fiend, che si propone al suo meglio con questo Seeress, un album da ascoltare nota per nota e che rimarrà per molto tempo nei vostri apparecchi di riproduzione e nella vostra testa. I nomi che compongono il gruppo hanno tutti dietro una storia molto interessante, l’ottimo cantante Heitham al Sayed ha militato anche nei Lodestar e che è tuttora negli interessanti Senser (che hanno aperto per i Tool anni fa in Inghilterra), è nato come rapper ed ha una voce molto particolare che rende tantissimo divenendo una delle peculiarità del gruppo. Alla chitarra troviamo Michel Bassin che ha suonato nei fondamentali Treponem Pal, nei Kmfd e nei Ministry, quindi una formazione industrial metal, con buone dosi di elettronica. Al basso troviamo Nico Zivkovich che ha militato nei Les Tigres Du Futur un gruppo space rock, e per finire alla batteria l’ottimo Renaud Lemaitre. Questo disco ha un milione di suoni, i generi si infrangono come onde contro gli scogli e tutto è molto bello e godibile. In alcuni frangenti il loro particolare suono si potrebbe definire doom, ma poi arriva qualcosa che smentisce quanto ascoltato e catalogato poc’anzi e si avanti così, come se le figure di Escher fossero messe in musica generando quello bellissimo straniamento che solo pochi gruppi sanno dare. Si può fare l’esempio dei Tool, non tanto per similitudini musicali ma per quella meraviglia che instillano nell’ascoltatore, e come il gruppo californiano trasmette bellezza e valore ad ogni singola nota, perché questa è musica bella, fluente ed esoterica . Come in alto così in basso, i Fiend fanno corrispondere a ogni costruzione sonora una nostra emozione, con il loro unico e straordinario incedere. Non si possono fare paragoni per questo gruppo, e questo disco è da ascoltare a fondo e con attenzione, ma non vi riuscirà difficile perché ne verrete catturati, almeno quelli di voi che vogliono perdersi in qualcosa. I primi due episodi della loro discografia erano buoni, ma questo è un ulteriore passo in avanti, un qualcosa che fa evolvere la musica pesante e pensante. Una progressione continua, un ricercare senza requie, un suono che va oltre la musica, una luce alla quale aggrapparsi.

Tracklist
1.Morning Star
2.Ancestral Moon
3.Pillars
4.Vessels
5.5th Circuits
6.Crown of Birds
7.The Gate

Line-up
Heitham Al-Sayed: Vocals, guitar
Michel Bassin: Guitar,effects,synthetizers
Nicolas Zivkovich: Bass, organ
Renaud Lemaitre: Drums

FIEND – Facebook

Autore Massimo ArgoPubblicato il 4 Febbraio 20193 Febbraio 2019Categorie doom, metal, postmetal, progressive, recensioniTag doommetal, postmetal, progressive

Forest of Shadows – Among the Dormant Watchers

Among the Dormant Watchers è l’opera di chi conosce alla perfezione la materia ed è in grado di maneggiarla per restituire un prodotto che trasuda depressione e malinconia evocando un senso di ineluttabilità più che di disperazione: un album che in tal senso rasenta la perfezione nel suo rappresentare il lato più “autunnale” dell’esistenza.

Forest of Shadows – Among the Dormant Watchers

E’ davvero una piacevole sorpresa ritrovare ben dieci anni dopo la sua ultima apparizione discografica il bravo Niclas Frohagen ancora alle prese con il suo progetto solista Forest of Shadows.

Nello scorso decennio il musicista svedese si era imposto nella scena melodic death doom con due ottimi lavori come Depature (2004) e Six Waves Of Woe (2018) dopo di che se erano perse le tracce, cosa abbastanza comprensibile per chi magari è oberato da altri impegni professionali e non ha più il tempo e magari neppure l’ispirazione necessaria per rimettersi in gioco, senza avere neppure la spinta decisiva di altri compagni d’avventura.
In questo caso il tempo trascorso si è rivelato utile per il bravo Niclas nell’assimilare nuove pulsioni sonore affermatesi in questi ultimi anni, per inserirle in maniera opportuna all’interno di una struttura sonora che guarda sempre al versante più melodico del doom ma con spiccate derive post rock; quello che ne scaturisce è un album magnifico, in grado di crescere ad ogni passaggio, e anche sufficientemente vario ed incisivo per reggere una durata che supera abbondantemente l’ora.
Among the Dormant Watchers è un lavoro fortemente intriso di melodia, e forse a qualcuno potrà apparire fin troppo zuccheroso in certi frangenti, ma è fuori di dubbio che la capacità di penetrazione di ognuna di queste sette tracce sia elevatissima.
In fondo Frohagen piazza i due brani maggiormente definibili a pieno titolo death doom all’inizio e alla fine del lavoro e, infatti, Self Inflicted Torment e Yours to Devour contengono i passaggi più ruvidi e al contempo rallentati dell’opera, pur non facendo venir meno quella fruibilità che si manifesta in misura maggiore in tracce come Lost Within, Drowned by Guilt, We, The Shameless e Lullaby dove si alternano momenti più rarefatti e delicati, che rimandano ai Lake Of Tears di Forever Autumn, ad altri che sono figli più che legittimi dei Katatonia di Discouraged Ones e Tonight’s Decision; a tutto questo va aggiunta quella componente post rock/shoegaze che senza emergere mai in maniera troppo marcata va a costituire un elemento in più, capace di mutare le coordinate melodiche del lavoro.
Personalmente ritengo, però, che il musicista scandinavo abbia raggiunto il picco di questo album in Dogs of Chernobyl, un viaggio lungo tredici minuti nel quale trovano spazio tutte le sfumature stilistiche convogliate nel lavoro ed inserite, appunto, in una struttura ritmica che rimanda ai due citati capolavori dei Katatonia, con la concessione ad una struggente parte centrale nella quale vengono mirabilmente proposte solenni sonorità tipiche dell’est europeo prima di sfociare in una memorabile e cadenzata chiusura.
Among the Dormant Watchers è l’opera di chi, nonostante una carriera non troppo prolifica, conosce alla perfezione la materia ed è in grado di maneggiarla per restituire un prodotto che trasuda depressione e malinconia evocando un senso di ineluttabilità più che di disperazione: un album che in tal senso rasenta la perfezione nel suo rappresentare il lato più “autunnale” dell’esistenza.

Tracklist:
1. Self Inflicted Torment
2. Drowned by Guilt
3. Lost Within
4. Dogs of Chernobyl
5. We, The Shameless
6. Lullaby
7. Yours to Devour

Line-up:
Niclas Frohagen – Guitars, Keyboards, Programming, Vocals

FOREST OF SHADOWS – Facebook

Inverse Records

Autore adminPubblicato il 31 Gennaio 201930 Gennaio 2019Categorie deathdoom, doom, metal, postmetal, recensioniTag deathdoom, doommetal, postmetal

Varego – I, Prophetic

Con questo disco si gioca ad un livello superiore, dove risiedono pochi gruppi e ciò per l’intensità e la visione musicale che hanno i Varego.

Varego – I, Prophetic

L’uomo in piedi sulla duna di sabbia si guardò intorno, stingendo più forte la presa sulla sua lancia appuntita. Gli era sembrato di aver sentito il richiamo gutturale di un Abzkath, una bestia che si nasconde nella sabbia, la cui carne è molto pregiata e può sfamare una famiglia intera. In quel momento i tre soli cominciarono a scomparire all’orizzonte e l’uomo si mosse verso di loro, in silenzio rimettendosi il cappuccio.

Questa breve immagine fantascientifica potrebbe essere una delle visioni che sono provocate dal terzo disco dei liguri Varego intitolato I, Prophetic. Il gruppo sta compiendo un a parabola musicale pressoché unica in Italia e questo disco è per ora il punto più alto di essa. I, Prophetic racchiude come in uno scrigno molte melodie, mille cambi di tempo e di registro musicale, ponendo al cento di tutto un’idea diversa di musica, ovvero uno sviluppo ora armonioso ora più tormentato di idee originali e che colpiscono l’ascoltatore. Una delle peculiarità più importanti del gruppo ligure è che possiede un suono ben riconoscibile e che in quest’ultimo lavoro è completamente formato. Nei dischi precedenti vi erano in nuce molto idee che ritroveremo qui e che sono fondamentali per il sviluppo del suono. Se l’ascoltatore comincia il suo viaggio dalla prima canzone e la termina con l’ultima, come un vero e proprio album, sentirà che c’è un filo conduttore, un senso di romanzo sonoro, un usare vari codici per trasmettere storie che vagano da una dimensione all’altra. Molti gruppi sono preceduti dalla loro fama, ma quando li si sente sembra di calarsi nella favola del re nudo, nel senso che si è quasi costretti ad essere concordi sul fatto che certi dischi siano ottimi, mentre invece c’è ben poco. Al contrario dentro questo disco frutto del lavoro di persone che come tante altre ritagliano con sacrifici tempo per suonare ci sono mille mondi diversi. Innanzitutto la voce del cantante Davide Marcenaro è definitivamente diventata uno strumento come gli altri del gruppo, ed è fantastica, intona melodie impreziosite poi dall’intervento degli altri compagni. Le chitarre sono sempre state particolari, ma definire riff quello che producono è assai riduttivo, si potrebbe piuttosto dire che creano determinate atmosfere. La batteria di Simon Lepore invece si avvicina alle punte creative e di esecuzione di gruppi come Mastodon e simili, e i suoi è un shakerare le sabbie del tempo. La cosa però più importante di tutte è questo magma sonoro, questo mostro di groove, progressive e matematica musicale, che nel suo passaggio passa in varie case, quella della new wave dilatata all’infinito, il post metal che incontra un prog con inserti metal, persino pezzi di metal classico e poi ancora oltre. Con questo disco si gioca ad un livello superiore, dove risiedono pochi gruppi e ciò per l’intensità e la visione musicale che hanno i Varego. Un grande contributo lo fornisce anche la masterizzazione di Mattia Cominotto dei genovesi Green Fog Studios, il quale ha compreso perfettamente ciò che voleva dire la band gruppo e ciò che vuole rendere. Mondi infiniti fatti di musica fisicamente accelerata con residenza nella provincia dell’impero.

Tracklist
1. Origin
2. The Abstract Corpse
3. I Prophetic
4. Of Dust
5. Silent Giants
6. When the Wolves Howl
7. Duelist
8. Zodiac

Line-up
Davide Marcenaro – Voice/Bass
Alberto Pozzo – Guitar
Gerolamo Lucisano – Guitar
Simon Lepore – Drums

VAREGO – Facebook

Autore Massimo ArgoPubblicato il 27 Gennaio 201926 Gennaio 2019Categorie Made In Italy, metal, postmetal, recensioniTag avantgardemetal, postmetal

Eyelessight – Athazagorafobia

Gli Eyelessight dipingono nella maniera più fedele e dolente un grigio quadro solcato da rivoli scarlatti e regalano un’opera di rara intensità emotiva.

Eyelessight – Athazagorafobia

Dopo la splendida prova offerta con il marchio Angor Animi ritorna Kjiel con gli Eyelessight, quella che è stata la prima band a metterne in luce il talento.

Sei anni dopo il demo I-I e quattro dopo il primo full length Mantra per sopravvivere inutilmente, Athazagorafobia e un’opera ancor più ambiziosa in quanto si svincola in parte dal depressive black, per spingersi verso una forma musicale ed un lirismo che vanno ben oltre i confini talvolta ristretti di questo sottogenere.
La musicista abruzzese per l’occasione rafforza la fruttuosa collaborazione con Déhà, il quale si è occupato della realizzazione del lavoro negli studi di Bruxelles, e con la consolidata presenza di Hk realizza un’opera preziosa, nella quale lo stato depressivo nelle sue tragiche e svariate forme viene affrontato in una forma meno compulsiva e più organica, pur senza smarrire le caratteristiche proprie di questa particolare offerta musicale.
L’athazagorafobia è la paura d’essere abbandonati o, comunque, dimenticati da tutti ed è uno dei molti disturbi che colpiscono le persone più fragili e sensibili, le quali sono naturalmente le più esposte alle varie patologie mentali: gli Eyelessight ci immergono in un mondo in cui le diverse fobie ammorbano esistenze che continuano ad essere connesse alla realtà da un filo sottilissimo, sempre in procinto di spezzarsi irrimediabilmente.
Rispetto al passato il sound è meno estremo e quindi, come detto, meno legato agli stilemi del depressive vero e proprio e in questo diviene determinante anche la crescita come interprete di Kjiel , òa quale si dimostra capace oggi di disimpegnarsi al meglio con la voce pulita, fornendo così un’alternativa alle sue strazianti e sempre funzionali urla di disperazione.
Momenti di pace, con liquide note ad accompagnare voci sussurrate o apparentemente calme, si alternano in un tragico bipolarismo alle sfuriate di matrice black in cui lo screaming di Kjiel e di Hk ci fanno ripiombare nelle pieghe più profonde ed insondabili dell’umana psiche.
Quel che colpisce, come sempre nelle opere di questa musicista, è l’innata capacità di ammantare di struggenti passaggi melodici anche i momenti più drammatici, cosa che in questo lavoro avviene in maniera toccante specialmente in brani come Smarrendo illusioni e Ossessiva Nostalgia.
La Nostomania (paura del ritorno alla propria dimora abituale), la Monofobia (l’ossessione maniacale verso un qualcosa) e l’ancora più temibile Anedonia (l’incapacità di provare interesse o piacere per qualsiasi tipo di attività) sono tutte facce di un stessa medaglia fatta di solitudine, incomunicabilità e dolore, sentimenti spesso celati al mondo circostante da una maschera di convenienza, appiccicata a forza da una società che sempre meno tollera debolezze o fragilità
Gli Eyelessight dipingono nella maniera più fedele e dolente questo grigio quadro solcato da rivoli scarlatti e regalano un’opera di rara intensità emotiva; come sempre questa non può essere musica per tutte le orecchie ma, mai come in questa occasione, si percepisce il valore aggiunto di una sensibilità femminile che ammanta questo disperato grido di dolore rivolto ad un mondo che non sa e non vuole provare a raccoglierlo.

Tracklist:
1. Nostomania
2. Surrealtà
3. Smarrendo illusioni
4. Monofobia
5. Ossessiva nostalgia
6. Anedonia

EYELESSIGHT – Facebook

Autore adminPubblicato il 2 Gennaio 20191 Gennaio 2019Categorie black, depressive, Made In Italy, metal, postmetal, recensioniTag blackmetal, depressiveblack, postblack, postmetal

The Blank Canvas – Vantablack

In questi tempi di estrema fretta, quando un disco, per quanto possa essere buono, dura solo il tempo della promozione attraverso i social media, Vantablack è un lavoro che si propone per quello che è, ovvero un’esplorazione di territori ancora parzialmente inesplorati da parte di musicisti che hanno fatto della ricerca sonora una specialità della casa.

The Blank Canvas – Vantablack

I The Blank Canvas sono una nuova formazione, un agglomerato di rumore nato dall’unione di alcuni elementi militanti in alcuni fra i migliori gruppi della nouvelle vague italiana come Incoming Celebral Overdrive, Deaf Eyes, Karl Marx Was A Broker, SUS, Green Oracle e Watzlawick.

Dall’unione di queste teste votate alla musica pesante e pensante nasce qualcosa di molto interessante, riunito nel loro esordio che si chiama Vantablack, fuori dall’otto dicembre per Drown Within Records, una delle etichette più interessanti dell’underground nostrano. La proposta sonora del gruppo è variegata e spazia da un post metal che si unisce all’elettronica, ad un qualcosa che va nella direzione del noise moderno, il tutto con un’impronta personale ben riconoscibile. La musica dei The Blank Canvas richiede tempo, nel senso che per la coerenza e con le intenzioni che ci mettono dentro non può essere oggetto di un ascolto leggero o che salta qualche parte, il continuum spazio temporale va gustato nel suo insieme. In questi tempi di estrema fretta, quando un disco, per quanto possa essere buono, dura solo il tempo della promozione attraverso i social media, Vantablack è un lavoro che si propone per quello che è, ovvero un’esplorazione di territori ancora parzialmente inesplorati da parte di musicisti che hanno fatto della ricerca sonora una specialità della casa. Ci si immerge in un liquido amniotico musicale che ci avvolge e ci tiene avvinti, un modo diverso di fare musica pesante, un approccio originale a diverse soluzioni sonore. In Italia queste realtà ci sono e hanno una grande importanza se si gratta la superficie dell’ambito alternativo, e gruppi come i The Blank Canvas compiono traiettorie importanti e di grande sostanza, senza mai tralasciare nulla. Addentrandosi nel disco si possono sentire moltissime cose, e questa unione di musicisti provenienti da gruppi diversi possiede un grande amalgama ed un notevole appeal.

Tracklist
1.Ten Knives
2.Vantablack
3.Time is a Lie
4.Obsession is My Passion
5.Ride the Flow
6.The Deepest Fault
7.Saha World
8.Cover the Grudge
9.Black Sun Poetry

Line-up
ALESSIO DUFUR- Vocals
MAURIZIO “PAPPONE” TUCI-Guitars, Synth, fx
MARCO FILIPPI -Bass, Synth, fx
VANNI ANGUILLESI – Drums

THE BLANK CANVAS – Facebook

Autore Massimo ArgoPubblicato il 25 Dicembre 201823 Dicembre 2018Categorie Made In Italy, metal, postmetal, recensioniTag electro, postmetal, postrock

Tangled Thoughts Of Leaving – No Tether

Un’ora di musica strumentale oscura e metallica, progressiva e dinamica, ma tremendamente atmosferica: tragica, introspettiva, drammatica, un lungo dipanarsi di note a tratti ossessive che si stagliano su tappeti dark/ambient.

Tangled Thoughts Of Leaving – No Tether

Post Rock, post metal, avanguardia, jazz …progressive: ecco, quando non troverete più aggettivi per identificare la musica di questo combo australiano, progressive sarà probabilmente la parola più indicativa per poter cogliere il concept dietro al sound di questo bellissimo lavoro strumentale intitolato No Tether.

Loro sono i Tangled Thoughts Of Leaving, quartetto di Perth, al secondo lavoro dopo Yeld To Despair, album di debutto uscito tre anni fa e che fu accolto molto bene da critica e pubblico; ora No Tether alza l’asticella quel tanto che basta per convincere chi ascolta d’essere al cospetto di una band a suo modo geniale.
Un’ora di musica strumentale oscura e metallica, progressiva e dinamica, ma tremendamente atmosferica: tragica, introspettiva, drammatica, un lungo dipanarsi di note a tratti ossessive (King Crimson) che si stagliano su tappeti dark/ambient.
Sette capitoli formano un’unica opera che ha nella suite Signal Erosion il suo cuore, annerito da un’attitudine oscura e pesantissima, mentre il pianoforte detta le coordinate ed i tempi a chitarre dai rimandi metallici, in un crescendo emozionale intenso e drammatico.
Nel genere, la band australiana tocca livelli davvero alti, la sua musica ipnotizza ed entra dentro l’ascoltatore, prima di esplodere in un fragore rabbioso, o regalare ritmiche progressive con chitarre lacerate da un’anima noise in Binary Collapse.
No Tether non è sicuramente un album facile e i Tangled Thoughts Of Leaving non sono un gruppo qualunque, ma una musica come questa, di difficile catalogazione, è un’esperienza da provare per chi è avvezzo con le sonorità elencate in fase introduttiva.

Tracklist
1. Sublunar
2. The Alarmist
3. Cavern Ritual
4. Signal Erosion
5. Inner Dissonance
6. Binary Collapse
7. No Tether

Line-up
Ron Pollard – Piano, Synth
Ben Greene – Drums, Noise
Paul Briggs – Guitar
Luke Pollard – Bass, Samples

TANGLED THOUGHTS OF LEAVING – Facebook

Autore Alberto CentenariPubblicato il 16 Dicembre 201816 Dicembre 2018Categorie metal, postmetal, progmetal, recensioniTag postmetal, progmetal

RITUALS OF THE DEAD HAND – Blood Oath

Blood Oath è un album molto valido, e si capisce dopo poche note che questo, pur trattandosi di un esordio per la band, è in realtà il frutto del lavoro di musicisti di notevole esperienza e conoscenza della materia: tutto ciò lo rende un ascolto caldamente consigliato a chi apprezza queste tipo di sonorità

RITUALS OF THE DEAD HAND – Blood Oath

Anche se parlare di rituale della mano morta può far sorridere, pensando a biechi individui all’opera su autobus o metropolitane affollate, questo Blood Oath è in realtà un serissimo esempio di black doom composto e suonato con tutti i crismi da questo gruppo belga.

I due artefici di tutto questo, Lykaios e Isangrim, sono musicisti attivi in diverse band fiamminghe e li ritoviamo peraltro assieme anche nei validi Hemelbestormer.
Blood Oath si compone di quattro lunghi brani, più un breve intermezzo strumentale, nel corso dei quali i Rituals of the Dead Hand offrono un sound cupo, privo per lo più di sbocchi melodici ma molto compatto, tanto dall’essere assimilabile alla scuola della vicina Germania (i Secrets Of The Moon di Privilegivm sembrano essere a tratti un termine di paragone abbastanza plausibile).
Ovviamente in tale contesto non mancano pulsioni post metal e una densità vicina allo sludge, e tutto questo contribuisce a creare un suono di grande efficacia che, se non si farà ricordare per il suo impatto melodico, trova un suo perché in un ottundente martellamento.
Un brano magnifico come The Scourge spiega tutto molto meglio di molte parole, con il suo incedere soffocante, rallentato, distorto, che appare nella sua prima parte come espressione di una malevola creatura che che ti cinge le caviglie impedendoti di riaffiorare da un liquido denso e stagnante, per poi aprirsi in un più ritmato finale di puro black metal che beneficia anche di una bellissima linea melodica.
Blood Oath è un album molto valido, e si capisce dopo poche note che questo, pur trattandosi di un esordio per la band, è in realtà il frutto del lavoro di musicisti di notevole esperienza e conoscenza della materia: tutto ciò lo rende un ascolto caldamente consigliato a chi apprezza queste tipo di sonorità

Tracklist:
1. Bonderkuil
2. Sworn
3. The Gathering
4. They Rode By Night
5. The Scourge

Line-up:
Lykaios – Bass, Keyboards, Guitars, Vocals
Isangrim – Drums

RITUALS OF THE DEAD HAND – Facebook

Autore adminPubblicato il 12 Dicembre 201811 Dicembre 2018Categorie doom, metal, postmetal, recensioni, sludgeTag doommetal, postmetal, sludge

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