Pagan Altar – The Room Of Shadows

Dopo molti anni, durante i quali si era quasi persa la speranza, ecco tornare quando meno te li aspetti i Pagan Altar, semplicemente un pezzo di storia della NWOBHM.

Fondati nell’ormai lontano 1978, i Pagan Altar, insieme ai Witchfinder General, sono stati uno dei principali gruppi doom all’interno della nuova ondata del metal inglese, negli anni in cjui Britannia dominava i giradischi e gli stadi d’Europa. E tutto ciò avendo inciso solo un demo in quegli anni, ristampato dalla Oracle Records nel 1998 con il titolo Volume 1. Riformatisi nel 2004 grazie alle risposte positive ricevute da pubblico e critica per il disco Lords Of Hypocrisy, gli inglesi hanno continuato con la loro carriera con una buona qualità media, fino ad avere un lungo hiatus tra il 2006 fino all’attuale disco. The Room Of Shadows è un buon album, composto e suonato con eleganza, ricco di ricami barocchi, con forti richiami doom, ma anche una notevole epicità. I Pagan Altar raccontano storie come facevano i menestrelli, musicandole nella maniera giusta per farle arrivare ancora meglio al pubblico. Nel disco si sente molto la loro duplice natura che fa capo sia all’heavy metal classico inglese che al doom, e tutto ciò lo rende piacevolmente fuori dal tempo, perché suona in maniera molto diversa rispetto alle cose che siamo abituati a sentire. Le canzoni scorrono benissimo e si fa davvero fatica a pensare che il lavoro è stato composto tredici anni or sono e che, poi, per mille motivi, non sono riusciti a pubblicarlo se non oggi. E due anni fa è morto vinto dal cancro il cantante Terry Jones, del quale possiamo apprezzare l’ultima performance in questo disco, che acquista inevitabilmente maggiore valore. I Pagan Altar sono un grande gruppo e questo album, molto piacevole e classico in tutti i sensi, conferma la loro bravura. Un ottimo ritorno.

Tracklist
01 Rising Of The Dead
02 The Portrait of Dorian Gray
03 Danse Macabre
04 Dance of the Vampires
05 The Room of Shadows
06 The Ripper
07 After Forever

Line-up
Terry Jones
Alan Jones
Diccon Harper
Andrew Green

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Davide Berardi – Fuochi e Fate

Fuochi e Fate raccoglie ed imprime sullo spartito storie di vita raccontate con l’ausilio della musica, rock/pop nel più ampio senso del termine.

Rock d’autore sulle pagine di MetalEyes con Davide Berardi ed il suo Fuochi e Fate, album che ha potuto vedere la luce per merito del sempre più diffuso crowdfunding, con il quale i musicisti si affidano alla generosità dei propri ascoltatori per la realizzazione dei loro progetti.

Fuochi e Fate è un live registrato negli studi della Joe Black Production dove Berardi, in compagnia di Umberto Coviello (batteria e chitarra), Antonio Vinci (piano e tastiere) e Mino Indraccolo (basso), ci avvolge in un caloroso abbraccio fatto di rock d’autore, ombre jazzate e luci di musica fusion che raccontano undici storie, tra il serio ed il faceto, storie di vita, malinconiche e spiritose, perse nelle vicende quotidiane che potrebbe essere quell di ognuno di noi.
Il gruppo suona con maestria e talento, la musica scivola accompagnando i testi, maturi e sempre con un velo di ironia nascosta anche tra le pieghe più seriose dell’esistenza.
E’ originale la scelta di un live senza il pubblico, di un album in presa diretta con il quale il musicista interagisce con i suoi ascoltatori forte di un lotto di canzoni piacevoli come Bruxelles, Sudamerica e Povero Fesso.
Detto della cover di La Cura, l’immortale capolavoro di Battiato, ricordo che una parte del ricavato della vendita del disco verrà devoluta alla cooperativa sociale Eridanio, fondamentale per la realizzazione dell’opera.
Fuochi e Fate raccoglie ed imprime sullo spartito storie di vita raccontate con l’ausilio della musica, rock/pop nel più ampio senso del termine.

Tracklist
1. Povero Fesso
2. Indescrivibile
3. Bruxelles
4. Supervisionario
5. Mi Sento Una Formica
6. I Piedi E Gli Occhi
7. Roba Da Poco
8. La Cura
9. Che Meraviglia
10. Sudamerica

Line-up
Davide Berardi – Voce, Chitarra
Umberto Coviello – Batteria, Chitarra
Antonio Vinci – Piano, Tastierre
Mino Idraccolo – Basso

DAVIDE BERARDI – Facebook

Demon Head – Thunder On The Field

Diabolic rock come amano definire la propria musica, o semplicemente hard rock debitore dei Black Sabbath, con qualche sfumatura doorsiana che si evince dal tono vocale del singer, fatto sta che Thunder on the Fields risulta un buon lavoro, assolutamente perfetto per chi vive di rock

In piena tradizione settantiana e con uno spirito vintage mai domo arriva tramite The Sign Records il secondo album della hard rock/doom band danese dei Demon Head.

Diabolic rock come amano definire la propria musica, o semplicemente hard rock debitore dei Black Sabbath, con qualche sfumatura doorsiana che si evince dal tono vocale del singer, fatto sta che Thunder on the Fields risulta un buon lavoro, assolutamente perfetto per chi vive di rock che respira incenso, profumo liturgico che si mischia a quello dell’erba bruciata in cartine color canapa.
Band relativamente giovane, fondata solo cinque anni fa, i Demon Head hanno giù stampato una manciata di lavori tra full length e opere minori e la loro proposta si piazza tra il sound dai rimandi mistici e occulti dei primi anni settanta e quello che ricorda realtà con meno anni sulle spalle, come i canadesi The Tea Party folgorati sulla strada del doom.
I ritmi alternano una buona dose di hard rock ad atmosfere più legate alla musica del destino, ottima per esempio la traccia Hic Svnt Dracones, una lunga jam dalle atmosfere cangianti e progressive, mentre su We Are Burning si respira epicità classicamente metal.
Il gruppo canadese lascia il meglio alla fine, così che Gallows Omen e Untune The Sky formano un pezzo di granito doom metal, psichedelico ed avvolgente con la prestazione di M.F.L. al microfono che continua a regalare emozionanti parti evocative e lascivi vocalizzi psych/blues rock, alzando non poco il valore generale di questo Thunder On The Fields, album che, come le opere destinate a durare nel tempo, cresce con gli ascolti.

TRACKLIST
01. Menneskeaederen
02. We are burning
03. Thunder on the fields
04. Older now
05. Hic sunt dracones
06. Gallows omen
07. Untune the sky

LINE-UP
J.W- drums
M.S.F.- bass
B.G.N.- guitar
T.G.N.- guitar
M.F.L.- vocals

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DOMINANZ

II video di Ruins of Destruction

DOMINANZ, black metal band norvegese, presentera’ il pezzo Ruins of Destruction (da cui e’ tratto anche il nuovo videoclip) attraverso un mini tour europeo in ottobre, le cui date verranno svelate a breve.

La band ha gia’ svolto tour con SOLSTAFIR e TAAKE, ed ha avuto come ospite nell’ultimo disco ABBATH.

DOMINANZ (Industrial Silence Production – L’Alchimie Agency)

http://www.facebook.com/dominanzofficial/

Noxious, feat Abbath (Immortal)

La Cuenta – La Confessione di Antonius Block

Un lavoro magnifico, di grande impatto sia dal punto di vita musicale sia da quello prettamente concettuale, e capace di restituire in toto, quasi ne fosse la colonna sonora,  le atmosfere cupe e l’inquietudine magistralmente evocate da Bergman con Il Settimo Sigillo.

Quarto impressionante full length per i fiorentini La Cuenta, autori di uno sludge doom che si muove su binari tutt’altro che scontati, nonostante i concreti rischi che si corrono quando si struttura un lavoro in maniera simile.

Qui, infatti, troviamo un solo brano di circa trentacinque minuti, nel corso del quale la chitarra di Matteo Gigliucci urla e reitera le sue note, ben sostenuta dal violoncello dell’ospite Naresh Ran, creando un tessuto sonoro ossessivo e straniante, ottimamente sorretto dal lavoro percussivo di Nicola Savelli, ma alla resa dei conti, neppure troppo ostico all’ascolto, almeno per orecchie adeguatamente allenate.
Intendiamoci, la musica di immediata fruibilità è tutt’altra cosa, ma in quest’opera on si rinviene un rumorismo dronico fine a sé stesso e neppure una serie di suoni affastellati l’uno sull’altro contro ogni logica, bensì una linea armonica ben distinguibile, specie nella parte iniziale, prima che i campionamenti tratti dal bergmaniano Il Settimo Sigillo (del quale l’Antonius Block del titolo è il protagonista) irrompano, con il personaggio interpretato da Max Von Sydow (qui con la voce del doppiatore Emilio Cigoli) a farsi portavoce di una serie di quesiti destinati a restare irrisolti.
Per almeno una ventina di minuti il flusso sonoro si insinua nell’udito in maniera irresistibile e l’effetto è talmente soffocante che, quando interviene un cambio di registro, il respiro invece di aprirsi si blocca prima di ritrovare qualche particella di ossigeno; poi, quando si ode Block iniziare la sua confessione, a prendere la scena è la spinta sperimentale, anche se la tensione non scema affatto, semplicemente viene alimentata da un impatto più drammatico e solo in apparenza meno nitido, sovrapponendosi a linee guida in precedenza maggiormente identificabili.
Alla fine, del toccante dialogo tra Block con e la Morte, disturbato da un effluvio di effetti e negli ultimi minuti da riff di estrema pesantezza, l’unica frase che risulta perfettamente intelligibile è “non credi che sarebbe meglio morire?”, risultando in qualche modo emblematica della venefica profondità di questo magnifico album, di grande impatto sia dal punto di vita musicale sia da quello prettamente concettuale, e capace di restituire in toto, quasi ne fosse la colonna sonora,  le atmosfere cupe e l’inquietudine magistralmente evocate con il suo film dal regista svedese, tutto questo proprio nell’anno in cui ne ricorre il cinquantennale dell’uscita.

Tracklist:
1. La confessione di Antonius Block

Line-up:
Matteo Gigliucci: chitarra, ampli e pedali.
Nicola Savelli: batteria, macchine e pedali.

Guest:
Narèsh Ran: violoncello

LA CUENTA – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=Q65vxYlOXHI