Skeletal Remains – Devouring Mortality

Devouring Mortality alterna brani più diretti ad altri nei quali il guitar work fugge verso lidi progressivi, regalando scudisciate e ripartenze velocissime, o mid tempo in cui le chitarre ci accompagnano negli abissi più profondi.

La Century Media non si fa scappare questi ottimi deathsters californiani al terzo lavoro sulla lunga distanza, un trio che si dimostra una macchina da guerra old school, chiaramente dal sound che guarda al genere suonato in terra statunitense negli anni novanta.

La band nasce dunque nel 2011, ed in appena sette anni rilascia tre album ed un live, non male per un gruppo odierno: Devouring Mortality va a confermare l’ottimo momento dei deathsters californiani in fase di songwriting.
L’album è in toto un lavoro vecchia scuola, il growl a tratti ricorda quello di John Tardy degli Obituary con i brani che si susseguono devastanti, dalle ritmiche importanti sotto l’aspetto tecnico e le ispirazioni che vanno dai Death ad un po’ tutta la scena che girava intorno ai mostri sacri del genere.
Devouring Mortality alterna brani più diretti ad altri nei quali il guitar work fugge verso lidi progressivi, regalando scudisciate e ripartenze velocissime, o mid tempo in cui le chitarre ci accompagnano negli abissi più profondi.
I brani spingono senza pietà e la band, grazie ad una produzione in linea con l’attitudine old school, risulta perfetta per far tornare i fans all’epoca d’oro del metal estremo di stampo death.
Catastrophic Retribution, il bombardamento a tappeto della title track, le strade progressive intraprese da Torture Labyrinth prima che un potente mid tempo si impossessi della sua anima, e il massacro attuato da Mortal Decimation non concedono tregua e sviluppi diversi dai canoni del genere: gli Skeletal Remains in questo senso sono una sicurezza e l’album un ascolto gradito per i deathsters ispirati dal sole californiano.

Tracklist
1. Ripperology
2. Seismic Abyss
3. Catastrophic Retribution
4. Devouring Mortality
5. Torture Labyrinth
6. Grotesque Creation
7. Parasitic Horrors
8. Mortal Decimation
9. Lifeless Manifestation
10. Reanimating Pathogen
11. Internal Detestation
Bonus track on Special Edition Digipak:
12. Hung, Drawn And Quarted (CANCER – cover)

Line-up
Adrian Marquez – Bass
Chris Monroy – Vocals & Guitars
Mike De La O – Guitars

Johnny Valles – Drums (on “Devouring Mortality”)
Adrian Obregon – Guitar (on “Devouring Mortality”)
Carlos Cruz – Drums (live)

SKELETAL REMAINS – Facebook

Construct Of Lethe – Exiler

Consigliato agli amanti del death metal tecnico, Exiler è l’album esemplare di una band da seguire e da annoverare nei gruppi migliori del genere.

Construct Of Lethe è la creatura estrema creata dal chitarrista e bassista Tony Petrocelly, ex Dead Syndicate ed un’altra manciata di band, dal 2010 attivo con questa oscura meraviglia death metal, tecnicamente fuori categoria tanto da essere considerata una technical death metal band, ma che a ben sentire regala molto di più che tecnica fine a se stessa.

Un full length già edito un paio di anni fa (Corpsegod) ed un ep (The Grand Machination ) erano finora quello che Petrocelly e compagni (Dave Schmidt alla voce, Patrick Bonvin alla chitarra solista e Kevin Paradis alla batteria) avevano lasciato ai posteri prima che un macigno sonoro dal titolo Exiler arrivasse a rimettere in gioco il terzetto statunitense nell’underground estremo.
E’ un death metal progressivo e suonato splendidamente, oscuro e colmo di cambi di tempo e dissonanze, quello che troviamo nel nuovo lavoro dei Construct Of Lethe, musicisti di valore assoluto che oltre a giocare con la tecnica imprimono ai brani un feeling pazzesco.
I Morbid Angel di Covenant, i Death e gli Immolatiion sono i punti di riferimento, e riff su riff, cambi di tempo, ritmi e solos al limite dell’umano caratterizzano brani non facilissimi da assimilare ma perfetti nel loro estremismo sonoro, il che rende l’album, fin dalle prime battute dell’iniziale Rot Of Augury,  un’altalena impazzita.
Rallentamenti doom potenziano Soubirous, valorizzata da un solo classico che strappa le carni: la chitarra soffre e lancia urla disarmanti e disperate, mentre la sezione ritmica comanda le operazioni, rallentando e accelerando capricciosa ed estrema.
A Testimony Of Ruin Terraces Of Purgation sono brani di pura violenza controllata, oscura e chirurgica, davvero impressionanti per potenza d’impatto.
Consigliato agli amanti del death metal tecnico, Exiler è l’album esemplare di una band da seguire e da annoverare nei gruppi migliori del genere.

Tracklist
1.Rot of Augury
2.A Testimony of Ruin
3.The Clot
4.Soubirous
5.Fugue State
6.Terraces of Purgation
7.Fester in Hesychasm

Line-up
Dave Schmidt – Vocals
Tony Petrocelly – Guitars, Bass
Patrick Bonvin – Lead Guitar
Kevin Paradis – Drums

CONSTRUCT OF LETHE – Facebook

Order Ov Riven Cathedrals – Göbekli Tepe

Fin dalle prime battute, l’universo e lo spazio profondo sono i territori in cui si muove il sound del duo italiano, che atterra nell’antico Egitto come in uno stargate musicale che ricorda non poco i capolavori degli statunitensi Mechina, insieme ai Nile i due gruppi che più si avvicinano al dirompente e devastante tsunami estremo creato dagli Order Ov Riven Cathedrals.

Di questa band si sa poco o nulla, quindi siamo ancora una volta alle prese con un misantropico progetto estremo, formato da due individui riconoscibili come 12, alle prese con tutti gli strumenti, ed En Sabar Nur, al microfono e responsabile in toto dei testi incentrati su tematiche affascinanti come l’antico Egitto, la storia della Mesopotamia e lo studio dell’astronomia.

Göbekli Tepe è il secondo album, licenziato a distanza di un anno dal precedente The Discontinuity’s Interlude, un mastodontico lavoro incentrato su un death metal ferocissimo, tecnico ed epicizzato da opprimenti parti orchestrali che formano, con il growl brutale del singer, un terrificante e apocalittico pezzo di granito metallico.
Fin dalle prime battute, l’universo e lo spazio profondo sono i territori in cui si muove il sound del duo italiano, che atterra nell’antico Egitto come in uno stargate musicale che ricorda non poco i capolavori degli statunitensi Mechina, insieme ai Nile i due gruppi che più si avvicinano al dirompente e devastante tsunami estremo creato dagli Order Ov Riven Cathedrals.
Worship Ov Abduction, From Neptune Towards Assyria, Revelation Ov A Neutron Swarm passano da atmosfere di epico metallo oscuro di stampo death dall’aura spaziale a sfumature orientali, in un contesto estremo ed orchestrale da brividi, formando all’unisono un’opera coinvolgente, valorizzata da sinfonie dove le voci di dee si sovrappongono come sirene, al devastante turbinio di note che formano l’opera.
Invocation Ov The Kavod è l’ultima perduta sinfonia estrema prima che l’outro 29.9792458 Hymns To Complete Disintegration concluda questo mirabolante viaggio tra lo spazio sconosciuto e le antiche civiltà di un passato remoto che rivive nella musica degli order Order Ov Riven Cathedrals e, forse, su altri lontanissimi pianeti.

Tracklist
1.Heretica Speedlight 299.792458
2.Worship Ov Abduction
3.Adoration Ov The Spherical Trigonometry
4.Wrath Of A Photon God
5.From Neptune Towers Assyria
6.Glorification Ov The Divine Fallout
7.Revelation Ov A Neutron Swarm
8.The Fury Algorithm
9.Invocation Ov The Kavod
10.29.9792458 Hymns To Complete Disintegration

Line-up
12 – All Instruments
En Sabar Nur – Vocals, Lyrics

Hertz Kankarok – Make Madder Music

Hertz Kankarok conferma e rafforza le impressioni destate in occasione dell’esordio, offrendo con questo nuovo ep intitolato Make Madder Music un’altra mezz’ora abbondante di sonorità fresche e imprevedibili.

Dopo un ep sorprendente come Livores, datato 2015, ritorna Hertz Kankarok con la sua proposta trasversale, inquieta e lontana dalla banalità.

Il musicista siciliano conferma e rafforza le impressioni destate in occasione dell’esordio, offrendo con questo nuovo ep intitolato Make Madder Music un’altra mezz’ora abbondante di sonorità fresche e imprevedibili, in quanto anche quando può sembrare che siano le ritmiche nervose del djent a prendere il sopravvento, in realtà troviamo sempre una linea melodica ben definita a guidarci nel labirinto musicale ideato da Hertz Kankarok, il quale, come nel precedente lavoro, si dedica esclusivamente ad una versatile interpretazione vocale lasciano ad Andrea Cavallaro (nei primi tre brani) e a Dario Laletta (nel quarto) l’onere di occuparsi dell’intera parte strumentale e degli arrangiamenti.
Per quanto anomali, questi connubi funzionano a meraviglia e questo nuovo ep si dimostra l’ulteriore sviluppo di un sound che era già apparso ampiamente evoluto in Livores: forse nel complesso la struttura dei brani è leggermente più arcigna, ma i cambi di scenario, talvolta repentini, che fanno approdare il sound su lidi molto più ariosi ed atmosferici, avvengono sempre con magistrale fluidità.
Nei quattro brani che vanno a comporre questo ep non c’è un solo momento di stasi, con i suoni che si rivelano ottimali sia quando al proscenio salgono riff secchi e taglienti sia quando il tutto assume connotati più melodici od evocativi.
Del resto, ascoltando più volte Make Madder Music, mi sono reso conto di quanto sia complesso provare a descrivere i brani, anche per la difficoltà oggettiva nell’individuare un termine di paragone o di ispirazione ben definita: volendo esemplificare al massimo, nel corso del lavoro di volta in volta si manifestano richiami che vanno  da Meshuggah a King Crimson, dai Nevermore ai Tiamat, dai Nine Inch Nails per giungere perfino ai Devil Doll, ma sono citazioni del tutto soggettive e che i,n quanto tali lasciano il tempo che trovano. Ma la cosa che maggiormente conta è il consuntivo finale, rappresentato in questo caso da un lavoro che convince e, in più di un passaggio, entusiasma, passando dalle nervose ruvidezze di una Cargo Cult alla stupefacente solennità del capolavoro Who Is Next, e con le irrequiete Deceive Yourself! e The Great Whirlpool (la cui seconda metà rappresenta la chiusura ideale per qualsiasi disco) a mostrare la capacità di cambiare veste in maniera vorticosa senza soluzione di continuità come i migliori dei trasformisti.
Hertz Kankarok per lavoro ha viaggiato molto ed ha vissuto in diversi paesi, anche extraeuropei: questa sua indole cosmopolita influisce nel suo percorso compositivo non tanto in maniera diretta, perché nella sua musica le pulsioni etniche appaiono ma non in maniera preponderante, quanto nella naturalezza con la quale i vari impulsi vengono assimilati e poi trasformati in sonorità che, pur non offrendo uno stabile punto di riferimento, non appaiono mai dispersive od ancor peggio ridondanti.
Tutto questo consente di affermare, senza tema di smentita, che questo musicista atipico è stato nuovamente in grado di offrire, a distanza di qualche anno, un’ulteriore testimonianza di una sound innovativo e progressivo nel senso più autentico del termine, con il decisivo valore aggiunto di una scrittura ficcante e sempre ben lontana da una sterile esibizione di tecnica, nonostante la possibilità di avvalersi di due compagni d’avventura di eccezionale bravura come Cavallaro e Laletta.
Resta solo da ottenere, per Hertz Kankarok, la consacrazione a questi livelli con un full length, auspicabilmente con l’aiuto decisivo di una label capace di promuoverne a dovere la musica.

Tracklist:
1. Deceive Yourself!
2. Cargo Cult
3. Who Is Next?
4. The Great Whirlpool

Line-up:
Hertz Kankarok – Vocals
Andrea Cavallaro – Guitars, bass, Synths on 1.2.3.
Dario Laletta – Guitars, bass, Synths on 4.

HERTZ KANKAROK – Facebook

Cardiac Arrest – A Parallel Dimensions Of Despair

Sempre coerente con una proposta classica, il gruppo di Adam Scott, unico superstite della formazione originale, è una band che se non regala grosse sorprese, sicuramente non delude le attese degli amanti del death metal vecchia scuola di ispirazione americana, ed il nuovo album in questo senso è una sicurezza.

I Cardiac Arrest, pur rimanendo in secondo piano rispetto alle band storiche del death metal statunitense, possono essere considerati ormai come dei veterani della scena estrema dai rimandi old school, essendo attivi dal lontano 1997 e con una discografia numericamente importante.

A Parallel Dimensions Of Despair infatti è il sesto full length nella lunga storia del gruppo di Chicago, che si somma ad un buon numero di lavori minori, dal 2004 (anno di uscita dell’ep Heart Stopping Death Rot) ai giorni nostri.
Sempre coerente con una proposta classica, il gruppo di Adam Scott, unico superstite della formazione originale, è una band che se non regala grosse sorprese, sicuramente non delude le attese degli amanti del death metal vecchia scuola di ispirazione americana, ed il nuovo album in questo senso è una sicurezza.
Cliché ben in mostra, soluzioni tradizionali e struttura dei brani che appoggia le sue basi su un approccio che più puramente di genere non si può, offrono agli ascoltatori un altro ennesimo e pesantissimo lavoro, tutto cuore e violenza.
La band passa con disinvoltura da mid tempo monumentali a devastanti ripartenze, in un’atmosfera di pesante metallo di morte, classico e pregno di quelle sfumature che celano odori ammuffiti di tombe spalancate e terra smossa.
Tre sono i brani per cui vale la pena procurarsi questo lavoro: When Murder Is Justified, mid tempo potente che avvicina il sound ai suoni doom, raggiunti dalla monumentale This Dark Domain e la conclusiva Voices From The Tomb che con i suoi otto minuti mostra tutti i lati del sound dei Cardiac Arrest, passando da passaggi velocissimi a rallentamenti catacombali.
Un buon lavoro di genere che accontenterà i fans del gruppo, non riuscirà probabilmente a conquistarne di nuovi, ma credo che al gruppo di Chicago importi poco.

Tracklist
1.Immoral And Absurd
2.Become The Pain
3.Unforgiving….Unrelenting
4.When The Teeth Sink In
5.When Murder Is Justified
6.Drudge Demon
7.Rotting Creator
8.It Takes Form
9.This Dark Domain
10.Professional Victim
11.Voices From The Tomb

Line-up
Adam Scott – Vocals, Guitars
Dave Holland – Bass, Vocals
Tom Knizner – Guitars, Vocals
Nick Gallichio – Drums

CARDIAC ARREST – Facebook

My Haven My Cage – Sweet Black Path

Sweet Black Path è il nuovo album della one man band italiana chiamata My Haven My Cage, un ottimo esempio di thrash/death vecchia scuola contaminato dalla musica popolare spagnola e normanna, creando interessanti e particolari atmosfere tra irruenza ed epici momenti folk.

Uscito lo scorso anno ed arrivato a MetalEyes solo oggi, Sweet Black Path è il secondo album della one man band siciliana My Haven My Cage.

Il musicista Mauro Cardillo ha dato vita alla sua creatura qualche anno fa, con il primo lavoro intitolato The Woods Are Burning del 2016, che viene dunque seguito da queste nuove otto tracce che, se lasciano ancora per strada qualcosa per quanto riguarda la produzione, offrono non poco a livello artistico, il sound infatti si basa su di un thrash/death con affascinanti inserti di musica folk normanna e spagnola.
Ovviamente il mastermind sa il fatto suo, sia tecnicamente che a livello compositivo, e già dall’opener Abyss I Am l’impressione di essere al cospetto di un album interessante e a suo modo originale è forte.
Immigrant Song e Delirium mostrano che la strada compositiva intrapresa dai My Haven My Cage è quella giusta: passaggi heavy/thrash vengono impreziositi da lunghe parti strumentali in cui atmosfere folk ricamano momenti di musica totale, la voce cartavetrata ed in linea con il genere viene accompagnata da linee corali dal flavour epico, mentre Hope viene introdotta da una suggestiva atmosfera semiacustica prima che la furia estrema riprenda il sopravvento.
Lamb Of God (Aleppo) è un brano che segue strade progressive, così come la folk/thrash/prog/death Werther Dies, traccia che lascia spazio alla conclusiva title track, che suggella un lavoro molto intenso.
Da migliorare sicuramente la produzione che rimane a mio avviso il tallone d’Achille di questo nuovo lavoro firmato My Haven My Cage, gradita sorpresa ed ulteriore gioiellino dall’underground tricolore.

Tracklist
1.Abyss I am
2.Immigrant Song
3.Delirium
4.Hope
5.Peaceful
6.Lamb of God (Aleppo)
7.Werther Dies
8.Sweet Black Path

Line-up
Mauro Cardillo – All Instruments

MY HAVEN MY CAGE – Facebook

Sangue Infetto – Slaughterhouse Corpse Party

Mortal Repulsion e le altre tre devastanti tracce non conoscono compromessi, i ritmi sono allucinanti, e le immagini che ci appaiono all’ascolto di questo manifesto di brutalità sono di un massacro senza soluzione di continuità.

Metal estremo in arrivo da Roma, città che ha una notevole scena brutal e grind core.

Questa volta parliamo di Sangue Infetto, one man band del musicista Michael Massimiliani, creatore di questo abominio in musica nel 2015 e con alle spalle già tre lavori autoprodotti.
Slaughterhouse Corpse Party è il nuovo ep di quattro brani licenziato dalla Hellbones Records: quattro spari brutal/grind, quattro violentissimi episodi che se ancora mostrano qualche pecca per quanto riguarda la produzione, convincono per la brutalità e l’impatto notevoli.
Il musicista capitolino è autore di una sorta di mattanza musicale: Mortal Repulsion e le altre tre devastanti tracce non conoscono compromessi, i ritmi sono allucinanti, e le immagini che ci appaiono all’ascolto di questo manifesto di brutalità sono di un massacro senza soluzione di continuità.
La batteria è un po’ troppo in evidenza rispetto agli altri strumenti, ma è una sorta di Gatling che spara migliaia di cartucce distruggendo tutto davanti a sé,  in un delirio di morte con l’aggiunta di un rantolante e micidiale growl.
Miscreation Of God, Hematophiliac ed Aborted Raw sono putride ferite dalle quali fuoriesce … Sangue Infetto.

Tracklist
1.Mortal Repulsion
2.Miscreation Of God
3.Hematophiliac
4.Aborted Raw

Line-up
Michael Massimiliani – Everything

SANGUE INFETTO – Facebook

Abolishment of Flesh – The Inhuman Condition

Assolutamente senza compromessi, il lavoro segue le coordinate dei gruppi storici del genere, personalizzandolo con una matrice death/black foriera di oscure atmosfere luciferine:  The Inhuman Condition per sua natura è un album che alla lunga perde qualcosa in termini d’attenzione, ma in generale si può certo considerare una prova di un certo impatto.

Debuttano sulla lunga distanza i deathsters texani Abolishment Of Flesh, creatura estrema nata nel 2006 come Abolishment e dal 2008 in giro a far danni con il nuovo monicker.

The Inhuman Condition si muove all’interno del death metal old school, principalmente di stampo americano ma con qualche puntatina nel death/black di provenienza europea, ed il risultato non può che essere un armageddon di suoni maligni e votati alla distruzione.
Il duo americano non le manda certo a dire, parte in quarta, sgomma sui nostri padiglioni auricolari e ci massacra con l’opener Inhuman Anatomy.
Blast beat a velocita della luce, una serie di ritmiche velocissime, due tipi di toni vocali, con il growl a scambiarsi il microfono con uno scream infernale e The Inhuman Condition, con tutto ciò, può sicuramente definirsi un inno a quel mondo estremo fatto di guerra, violenza ed una forte attitudine antireligiosa.
La band non concede il minimo cedimento e va dritto al traguardo distruggendo senza pietà con armi letali come Servitude of Endless Suffering, Lack of EmotionsWake of Depridation, ma è tutto l’album a risultare un massiccio assalto frontale.
Assolutamente senza compromessi, il lavoro segue le coordinate dei gruppi storici del genere, personalizzandolo con una matrice death/black foriera di oscure atmosfere luciferine:  The Inhuman Condition per sua natura è un album che alla lunga perde qualcosa in termini d’attenzione, ma in generale si può certo considerare una prova di un certo impatto.

Tracklist
1.Inhuman Anatomy
2.Reborn Abomination
3.Servitude of Endless Suffering
4.Slaves of Animosity
5.Morbid Imagery
6.Lack of Emotions
7.Weeping for the Decayed
8.Wake of Depridation
9.Mass Execution
10.The Suffering
11.Throne of Deception

Line-up
Ramon Cazares – Guitar, Vocals, Drums
Izaak Chavez – Guitar

ABOLISHMENT OF FLESH – Facebook

At The Gates – To Drink From The Night Itself

Un lavoro molto bello, magari avaro di quella ferocia e violenza che caratterizzava opere estreme divenute storiche come The Red in the Sky Is Ours o lo storico Slaughter Of The Soul, ma maturo e ricco di melodie oscure, tramutate in tre quarti d’ora di melodic death metal dalla classe immortale.

Per le persone che il death metal melodico lo hanno visto nascere e crescere fin dagli albori, il ritorno degli At The Gates diventa un appuntamento aspettato con l’ansia di chi è consapevole della bravura del combo svedese e dell’importanza che ha avuto sullo sviluppo di tali sonorità.

Tomas “Tompa” Lindberg e compagni arrivano al sesto lavoro, pochi in quasi trent’anni di carriera, specialmente se paragonati ai loro colleghi, ma si sa che la band è stata ferma un ventennio ed il ritorno con At War with Reality è targato 2014.
I primi anni novanta sono lontani, un periodo da archiviare nella storia del rock/metal mondiale, mentre i gruppi che formarono una delle scene più importanti che la storia del genere ricordi sono ormai delle icone, guardate con rispetto ed aspettate al varco ogni volta che se ne presenta l’occasione.
Ecco quindi che un nuovo lavoro degli At The Gates, come dei Dark Tranquillity o degli In Flames (tanto per fare un paio di esempi illustri) si tramuta in un gioco a chi la spara più grossa, quasi come se lo scritto fosse più importante della musica.
Tompa e compagni hanno regalato un lavoro molto bello, magari avaro di quella ferocia e violenza che caratterizzava opere estreme divenute storiche come The Red in the Sky Is Ours o lo storico Slaughter Of The Soul, ma maturo e ricco di melodie oscure, tramutate in tre quarti d’ora di melodic death metal dalla classe immortale.
To Drink From the Night Itself dimostra il talento di cui gli At The Gates e le band nate nel nord Europa dispongono e utilizzato per suonare metal estremo ricco di armonie melodiche fuori dal comune; non me ne voglia tutto il resto del mondo metallico, ma questi musicisti continuano a distanza di anni ad alzare l’asticella di un genere che, se ha detto tutto in termini compositivi, lascia al talento il compito di fare la differenza.
E gli At The Gates di talento ne hanno da vendere, distribuito in tutti questi anni con altri monicker, ed ora tornati con una raccolta di brani che fanno da sunto a tutto quanto scritto fin qui se si parla di death metal melodico.
L’inizio è da pelle d’oca, con la malinconica intro che sfocia in un trittico di tracce spettacolari (la title track, A Stare Bound In Stone e Palace Of Lepers), melodie e sfuriate death/thrash incalzano sull’ascoltatore, il lavoro chitarristico è di prim’ordine così come quello ritmico, il growl di Lindberg è inciso sul vangelo del metal estremo e i brani, sull’onda entusiasmante delle prime tracce, risultano perfette nel seguire le regole imposte dal gruppo anni fa.
In conclusione, To Drink From the Night Itself è l’album che ogni fan del death metal melodico avrebbe dovuto attendersi da un gruppo di tale importanza che, senza snaturare il proprio credo stilistico, è ancora oggi dopo trent’anni un punto di riferimento per chiunque ascolti o suoni questo tipo di musica.

Tracklist
01. Der Widerstand
02. To Drink From The Night Itself
03. A Stare Bound In Stone
04. Palace Of Lepers
05. Daggers Of Black Haze
06. The Chasm
07. In Nameless Sleep
08. The Colours Of The Beast
09. A Labyrinth Of Tombs
10. Seas Of Starvation
11. In Death They Shall Burn
12. The Mirror Black

Line-up
Tomas Lindberg – Vocals
Jonas Björler – Bass
Adrian Erlandsson – Drums
Martin Larsson – Guitars
Jonas Stålhammar – Guitars

AT THE GATES – Facebook

Barbarian Prophecies – Origin

Il death sta tornando ad una nuova e vigorosa giovinezza, dopo la crisi di qualche anno fa, ed il merito è senza dubbio dell’underground e di band come i Barbarian Prophecies, outsider di lusso nel panorama internazionale.

Dopo il sontuoso XIII, album licenziato cinque anni fa per la Wormholedeath e l’ep Remains of Existence uscito nel 2015, tornano i deathsters spagnoli Barbarian Prophecies con l’ennesimo mastodontico lavoro all’insegna della vecchia scuola estrema.

Origin non lascia scampo ed entra subito nel vivo, confermando il valore del gruppo galiziano, maestro nel saper riportare le atmosfere guerresche dei maestri Bolt Thrower in un contesto estremo che non manca di blasfemie alla Morbid Angel ed attimi nei quali il sound guarda al Nord Europa come terra di conquista.
Origin è composto da brani medio lunghi dove non mancano passaggi acustici e pacate atmosfere a stemperare una tempesta di suoni estremi:  il growl della vocalist è quanto di più bestiale troverete in giro per la scena death metal e le ritmiche accompagnano chitarre ispiratissime e dai coinvolgenti solos melodici (Path Of The Soul).
Il resto è quanto di più devastante troverete in ambito old school, in un genere che sta tornando ad una nuova e vigorosa giovinezza, dopo la crisi di qualche anno fa, ed il merito è senza dubbio dell’underground e di band come i Barbarian Prophecies, outsider di lusso nel panorama internazionale.
L’album regala preziosi gioielli estremi come Beyond The Threshold e Fourth Dimension, due brani tratti da lavori precedenti (Embrace Of Insanity, dal bellissimo XIII, e Remember The Fallen, title track dell’album uscito nel 2011) a formare un monolitico esempio di death metal battagliero e old school che vi esploderà tra le mani come una vecchia mina antiuomo.

Tracklist
1.Multiple
2.The Visitor
3.Beyond The Threshold
4.Reincarnation
5.Path Of The Soul
6.Architects Of The Unknown
7.Slaves
8.Fourth Dimension
9.KOMM SUBER TOD
10.Primal
11.Embrace Of Insanity XVII
12.Remember The Fallen XVII

Line-up
Óscar Besteiro-Guitar &Vocals
Manuel Riguera -Bass
Julio G. Valladares-Drums
Arnt Bünz-Lead Guitar
Alicia -Vocals
Oscar Insua jumpin’ -Guitars (Guest collaborator)

BARBARIAN PROPHECIES – Facebook

Mefitica – Vessazione Cronica

La rabbia non tracima, in alcuni casi c’è sempre, basta osservare le nostre vite e ci sono due scelte: ti incazzi e ascolti i Mefitica o pieghi la testa.

La rabbia non tracima, in alcuni casi c’è sempre, basta osservare le nostre vite e ci sono due scelte: ti incazzi e ascolti i Mefitica o pieghi la testa.

I Mefitica mettono la loro rabbia in musica, ed è un bel massacro.
Le coordinate musicali sono quelle del grindcore crust in italiano, cosa di cui abbiamo una delle poche tradizioni di cui andare fieri. Il gruppo della provincia romana, che partorisce sempre un bella rabbia dall’hc al crust passando per l’oi, si è formato con due quarti dei defunti Adirata e con l’aggiunta di un terzo elemento. Con Vessazione Cronica sono alla seconda prova sulla lunga distanza e si pongono fra i gruppi più interessanti nell’ambito crust grind italiano. Nel loro suono la tradizione hc italiana è molto presente, infatti in molti momenti si rimembrano gruppi del passato come i Wretched, brandendo una nera bandiera di ribellione. Musicalmente sono molto variegati e hanno diverse soluzioni sonore, tutte funzionali al loro disegno musicale. Il disagio qui ci viene sbattuto in faccia e Vessazione Cronica è un disco da far sentire a chi spera ancora che la fine non sia stata decisa tempo fa, o che chiusi nella nostra macchina possiamo salvarci dalla falciatrice che c’è là fuori. Più che critica sociale possiamo trovare in questi testi uno squartamento dell’essere umano, dove si recidono certezze mostrandoci per ciò che siamo : merdine piuttosto modeste sul pavimento della storia. Il cantato maschile e femminile, che si alternano, generano un ottimo effetto e si può dire che il disco sia una delle migliori produzioni italiane degli ultimi tempi.

Tracklist
1.Iride di cripta
2.Sangue di latte
3.Ossessione perpetua
4.Vessazione cronica
5.Miasmi
6.Lo spreco
7.Cleptocrazia
8.Il contagio
9.Mefitica
10.Coltan
11.Suicidium
12.Rivivi il male
13.Senza ritorno

Line-up
Antonio Camomilla: Basso & Growl
Ireful Pam : Chitarra e Scream Isterico
Fast Fondi: Batteria & Cori

MEFITICA – Facebook

Sadness – Ames De Marbre

La ristampa di quest’album degli svizzeri Sadness, uscito all’inizio degli anni novanta , da una parte fornisce l’occasione di riscoprire una band che all’epoca ottenne una discreta attenzione in virtù di una cifra stilistica anche coraggiosa, ma dall’altra ci fa constatare amaramente come gran parte dei lavori pubblicati poco meno di trent’anni fa fossero penalizzati da produzioni che impedivano loro di apparire ancora oggi attuali.

Questo, ovviamente, è un problema che riguarda sostanzialmente le opere di seconda fascia, come appunto fu Ames de Marbre,  esordio su lunga distanza per la band elvetica, edito nel 1993 e riproposto oggi grazie al meritorio operato dall’etichetta olandese Vic Records, le cui uscite son appunto perlopiù delle ristampe.
I Sadness proponevano un gothic doom che sembrava però suonato e composto con un approccio vicino al post punk, ricco quindi di buone intuizioni ma, col senno di poi, un po’ farraginoso e dai suoni anche troppo scarni; nonostante l’album conservi il suo fascino vintage, frutto anche di una scrittura mai scontata, della quale offrono una buona testimonianza brani magnifici come Lueurs e Red Script, quello che venticinque anni fa appariva alle nostre orecchie indubbiamente interessante oggi si rivela irrimediabilmente datato .
Pregio e difetto essenziale della band di Sion era quello di muoversi con buona padronanza all’interno del metal dalle tonalità più oscure, attingendo liberamente dal death, dal doom e dal gothic, cospargendo il tutto di una certa teatralità: come contraltare, mancava per forza di cose di quell’amalgama che probabilmente si sarebbe riuscita a trovare se le stesse composizioni fossero state affidate ad un produttore con i mezzi e le competenze odierne.
Tutto questo non significa che Ames de Marbre fosse un’opera trascurabile, anzi, credo fermamente che gli estimatori di certe sonorità potranno gradire non poco questa riedizione, che offre anche la possibilità di ascoltare i due demo pubblicati dai Sadness nel 1991 (Y) e nel 1992 (Eodious), utili più a fini di curiosità che altro, alla luce di una resa sonora ai limiti dell’ascoltabilità; non va dimenticato, però, che in quegli stessi tempi uscivano dischi che, pur con gli stesi mezzi tecnici a disposizione, se riascoltati oggi non sono affatto a rischio di obsolescenza (per esempio, Seredenades o Turn Loose The Swans) e questo è tutto ciò che fa la differenza tra album seminali (quelli citati) ed altri validi ma inevitabilmente destinati a restare confinati nella nicchia delle opere di culto ricordate da un numero esiguo di persone.

Tracklist:
1. Ames de Marbre
2. Lueurs
3. Tristessa
4. Opal Vault
5. Tears of Sorrow
6. Red Script
7. Antofagasta
8. Red Script
9. Eodipus
10. Disease of Life
11. Face of Death
12. Y
13. The Lost Colors
14. Outro

Line up:
Gradel – Drums
Steff – Guitars, Vocals
Chiva – Guitars, Piano
Andy – Bass, Vocals (German)

SADNESS – Facebook

Inferi – Revenant

Revenant è un lavoro che farà la gioia dei fans del death/black melodico, e mostra un gruppo dalla tecnica invidiabile ma che non perde mai le briglie del songwriting e, anche per questo, meritevole di un plauso.

Un oscuro ed impietoso vento estremo si abbatte su di noi: la tempesta nasconde, tra le sue nubi minacciose, demoni che porteranno morte e distruzione non con la forza del brutal death metal, ma con la tecnica invidiabile al servizio di un tornado musicale come il nuovo lavoro degli statunitensi Inferi, band originaria di Nashville/Tennessee, cittadina famosa per ben altri suoni.

Gli Inferi letteralmente si aprono e spunta Revenant un lavoro di metal estremo, tecnicissimo, progressivo, oscuro e melodico, un death/black dotato di una forza sovrumana per impatto ed atmosfere.
Siamo arrivati al quarto album per la band statunitense, in una discografia iniziata nel 2007 con l’uscita di Divinity In War e proseguita con The End of an Era, un paio di anni dop,o e The Path of Apotheosis licenziato nel 2014, ma la furia tempestosa sommata ad una buona intuitività per le melodie non è scomparsa e Revenant risulta così un lavoro riuscito e a tratti travolgente.
Quasi un’ora sotto la tempesta di note estreme che gli Inferi ci fanno cadere addosso, dall’alto tasso tecnico ma con una forma canzone che non lascia spazio all’ego dei musicisti ma sfrutta le loro capacità, per regalare un buon compromesso tra intricati passaggi tecnico/progressivi e bombardamenti a tappeto di death/black metal melodico.
Revenant è composto da nove brani medio lunghi e vari il giusto per tenere sempre viva la voglia di continuare l’ascolto fino alla fine, lasciando che le atmosfere cangianti siano dettate dal cambio di tonalità del canto che rimane estremo, passando dal growl allo scream e duettando sopra ad un tappeto di metal estremo veloce e cattivo, nel quale  le chitarre donano ghirigori melodici in tracce come Condemned Assailant, Through the Depths (con James Malone degli Arsis in veste di ospite), la magnifica Thy Menacing Gaze, attraversata da suggestive parti di tastiere, e la conclusiva Behold the Bearer of Light, che vede come ospite Trevor Strnad dei The Black Dahlia Murder.
Revenant è un lavoro che farà la gioia dei fans del death/black melodico, e mostra un gruppo dalla tecnica invidiabile ma che non perde mai le briglie del songwriting e, anche per questo, meritevole di un plauso.

Tracklist
1.Within the Dead Horizon
2.Condemned Assailant
3.A Beckoning Thrall
4.Through the Depths
5.Enraged and Drowning Sullen
6.Thy Menacing Gaze
7.Malevolent Sanction
8.Smolder in the Ash
9.Behold the Bearer of Light

Line-up
Malcolm Pugh – Guitars
Mike Low – Guitars
Joel Schwallier – Bass
Spencer Moore – Drums
Sam Schneider – Vocals

INFERI – Facebook

Amorphis – Queen Of Time

Queen Of Time è l’ideale suggello di una carriera che si sta approssimando ai trent’anni, per un gruppo la cui spinta propulsiva sembra ancora ben lungi dall’essersi esaurita.

Gli Amorphis appartengono a quel novero di gruppi che godono di uno status collocabile a metà strada tra il mainstream e l’underground, trattandosi di una band dalla storia lunga che, magari, non raccoglie consensi oceanici ma comunque in grado di attrarre un numero importante di appassionati, sovente anche al di fuori degli abituali fruitori del metal.

Quello della band finlandese è ormai un trademark consolidato, qualcosa che per qualcuno potrà anche apparire ripetitivo ma che, alla luce della qualità media dei dischi pubblicati, alla fine riduce tutti questi discorsi a semplice aria fritta.
Indubbiamente l’ingresso di un cantante versatile come Tomi Joutsen, a partire da Eclipse nel 2006, ha contribuito a stabilizzare il sound in un death melodico dai richiami epici e folk, perfettamente oliato e incapace di deludere.
Ad ogni buon conto, anche per cercare di tacitare i critici per partito preso, gli Amorphis con questo loro ultimo Queen Of Time hanno provato con un certo successo ad inserire qualche elemento nuovo nel loro sound, pur senza stravolgerlo: ne consegue, così, un lavoro vario nel quale troviamo parti di sax, aperture corali e sinfoniche, duetti con voci femminili, il tutto all’interno di brani che, in diversi chorus, rimandano ai fasti di Eclipse e Silent Waters.
Varietà nella continuità è, quindi, ciò che in sintesi propone il gruppo finnico, il quale, recuperato lo storico bassista Olli Pekka Laine (di recente protagonista anche con i suoi Barren Earth) mantiene un assetto consolidato che consente di sfornare a getto continuo riff e chorus trascinanti, di presa immediata ma non banali, sintomatici di una classe superiore alla media.
Ne scaturiscono dieci brani intensi ed orecchiabili, ruvidi e melodici nel contempo, e interpretati da uno Joutsen ineccepibile (nella speciale classifica combinata clean vocals/growl, oggi Tomi è superato forse dal solo Jon Aldarà), con il supporto di una band precisa come un orologio svizzero e gratificata da un sound di rara pulizia.
Posto che ai campioni del calcio non chiediamo di segnare solo di tacco e in rovesciata, o a quelli del ciclismo di fare le salite su una ruota, così da quelli della nostra musica mi pare lecito che si esigano solo belle canzoni e questo compito essenziale, ma certo non banale, viene assolto al meglio dagli Amorphis, in virtù di una tracklist di rara solidità, priva di punti deboli e con almeno quattro brani meravigliosi: l’opener The Bee, a suo modo un classico, Daughter of Hate, dal refrain indimenticabile all’interno di una struttura piuttosto cangiante, la superhit Amongst Stars, con il duetto tra Joutsen e la divina Anneke van Giersbergen, e la conclusiva Pyres on the Coast, traccia che non è affatto tipica per gli Amorphis, in quanto va ad intrecciare modernismi a pulsioni sinfoniche senza mai smarrire la bussola.
Concludo facendo notare che non è così scontato trovare band capaci di fornite simili prove di efficienza alla quattordicesima prova su lunga distanza, all’interno di una discografia pressoché priva di passi falsi (forse il solo Far From The Sun appare, a posteriori, più debole degli altri lavori): questo splendido Queen Of Time è, quindi, l’ideale suggello di una carriera che si sta approssimando ai trent’anni, per un gruppo la cui spinta propulsiva sembra ancora ben lungi dall’essersi esaurita.

Tracklist:
1. The Bee
2. Message in the Amber
3. Daughter of Hate
4. The Golden Elk
5. Wrong Direction
6. Heart of the Giant
7. We Accursed
8. Grain of Sand
9. Amongst Stars
10. Pyres on the Coast

Line-up:
Tomi Joutsen – Vocals
Esa Holopainen – Guitar
Tomi Koivusaari – Guitar
Olli-Pekka Laine – Bass
Santeri Kallio – Keyboards
Jan Rechberger – Drums

AMORPHIS – Facebook

+Mrome+ – Noetic Collision On The Roof Of Hell

Il duo polacco mette in scena un album che sembra un sorta di bignami di gran parte del metal estremo e non, ricco com’è di brani dalle sfumature differenti ma, magicamente, tutti assolutamente coerenti e funzionali alla resa finale del lavoro.

Benchè sia il loro full length d’esordio, si capisce fin dalla prima nota di questo Noetic Collision On The Roof Of Hell che gli +Mrome+ sono musicisti in possesso di solide basi che provengono da un attività iniziata addirittura alla fine del secolo corso (infatti, l’unica uscita precedente con questo monicker raccoglie tracce demo edite tra il ’97 ed il ’99).

Il duo polacco mette in scena un album che sembra un sorta di bignami di gran parte del metal estremo e non, ricco com’è di brani dalle sfumature differenti ma, magicamente, tutti assolutamente coerenti e funzionali alla resa finale del lavoro.
Death, thrash, black, a tratti anche sludge, vanno a confluire in una tracklist che convince proprio perché, nonostante la sensibile differenza di fondo che si può riscontrare tra un brano e l’altro, utilizza un collante formidabile come la capacità di scrittura e una tecnica solida e al servizio di una forma canzone sempre ben delineata.
Infatti, Noetic Collision On The Roof Of Hell non è il classico lavoro sperimentale con il quale musicisti estrosi saltabeccano senza preavviso da una genere all’altro spiazzando anche l’ascoltatore più scafato: le varie pulsioni stilistiche confluiscono normalmente all’interno dei singoli brani senza che questo vada a frammentare il risultato d’insieme, così le sfuriate thrash hardcore di Locust Follows Words hanno lo stesso diritto di cittadinanza dello sludge di Piss & Laugh o del death di Colors, e convivono al meglio con la cover di How the Gods Kill di Danzig.
Ecco, una delle cartine di tornasole della creatività di una band è il metodo utilizzato per coverizzare brani altrui: la maggior parte esegue una versione piuttosto aderente all’originale accelerandola o rallentandola, indurendola o conferendo comunque un qualcosa attinente allo stile musicale praticato; i +Mrome+, invece, stravolgono una delle brani simbolo del nerboruto statunitense facendolo diventare una traccia completamente nuova e differente, mantenendo di fatto il solo testo e, sia pure sufficientemente deviato, il riff che segue il chorus.
Credo che tutto questo basti per incuriosire il giusto chi ha voglia di scoprire nuovi nomi, e il passo successivo è quello di fare una capatina sulla pagina bandcamp dei +Mrome+ per farsi un’idea della loro proposta, che risulta sufficientemente originale pur senza ricorrere a sperimentalismi cervellotici.

Tracklist:
1.Colors
2.Crush the Moon
3.Migration Cult
4.How the Gods Kill (Danzig cover)
5.Trust
6.Generation Anthem
7.Piss & Laugh
8.Locust Follows Word
9.Magister Figurae Morte
10.The Arsonist

Line-up:
Key V – vocals, guitars
P – drums

Fractal Gates – The Light That Shines

Ospiti importanti come Jari Lindholm (Enshine, ex-Slumber, ex-Atoma) e Ben Ellis (Scar Symmetry) e il lavoro di Swanö, impegnato nella masterizzazione e nel missaggio, non fanno che valorizzare un album già di per sé ottimo sotto tutti gli aspetti, non ultimo quello di risultare un album melodic death metal dalla denominazione di origine controllata.

The Light That Shines è il nuovo album dei transalpini Fractal Gates, band attiva da una decina d’anni  che, sotto la supervisione del guru svedese Dan Swanö,  licenzia questo bellissimo esempio di death metal melodico che vi farà tornare al tempo in cui il genere consegnava le sue opere più riuscite.

Il sound moderno, ma che non ha nulla a che fare con la frangia “americana” guidata dagli ultimi In Flames e Soilwork, una produzione di livello assoluto, tappeti tastieristici che seguono il mood sci-fi del disco senza compromettere l’attitudine tradizionale del genere ed un ottimo songwriting, fanno di The Light That Shines un lavoro imperdibile, straordinariamente melodico, affascinante e ricco di suggestive atmosfere space.
Ospiti importanti come Jari Lindholm (il vocalist della band transalpina, Sébastien Pierre, è suo partner negli Enshine) e Ben Ellis (Scar Symmetry), e il lavoro di Swanö, impegnato nella masterizzazione e nel missaggio, non fanno che valorizzare un album già di per sé ottimo sotto tutti gli aspetti, non ultimo quello di risultare un album melodic death metal dalla denominazione di origine controllata.
Qualche inevitabile riferimento ai primi In Flames ed ai tanti progetti di Swanö (specialmente nell’uso di qualche stop & go e del suono dei tasti d’avorio) conferiscono ai brani un appeal davvero notevole, e la tracklist riserva uno serie di piccoli gioielli death metal, nei quali la melodia, oltre che negli arrangiamenti, vive nei solos tornando come una volta a far parlare di metal classico riferendosi all’approccio solistico della chitarra.
Breath Of Life (con quel riff che tanto sa di Edge Of Sanity), Infinity, la progressiva Faceless e la straordinaria Reborn, sono i brani più rappresentativi di un album che non uscirà tanto facilmente dai lettori degli amanti del melodic death metal, qui riportato su ottimi livelli dalla band francese.

Tracklist
01. Visions X
02. Breath of Life
03. Chasing the Line
04. Infinity
05. Bound by Time
06. Dreams Apart
07. Visions XI
08. Faceless
09. Arise
10. Reborn
11. The Light That Shines

Line-up
Stéphane Peudupin – Guitars and composition
Sébastien Pierre – Vocals, keyboards and composition
Arnaud Hoarau – Guitar
Antoine Verdier – Bass
Jeremy Briquet – Drums

FRACTAL GATES – Facebook

Last Resistance – A World Painted Grey

Un EP all’insegna del decadentismo, che crea sensazioni angoscianti senza mancare di potenza.

Secondo lavoro per i Last Resistance, il gruppo di Brindisi fondato nel 2013 che si presenta al pubblico come una band Metalcore e che porta alla luce questo A World Painted Grey, un EP composto da 4 tracce che di certo non delude le aspettative dell’ascoltatore. La potenza non manca, la sostanza nemmeno.

A differenza di Last Resistance (l’EP pubblicato alla fine del 2014), la band si lascia trasportare verso un metalcore probabilmente più adatto ai temi trattati nei testi. Nonostante siano molto chiari i riferimenti a gruppi come Drowning Pool e Killswitch Engage, il sound porta con sé anche moltissimi elementi del ben più cupo melodic death metal: in svariati momenti si possono sentire melodie decadenti, che richiamano le sonorità tipiche di gruppi come Solution 45 e In Mourning e non mancano i momenti oscuri, che creano ansia e senso di distruzione nell’ascoltatore.
Un EP carico di anguste emozioni decadentiste che richiamano inesorabilmente i poeti maledetti della Belle Époque francese, quando la società portava alla ricerca dell’individualismo, dell’egoismo e dell’alibi per non affrontare una realtà grigia e senza stimoli.
D’altronde la tematica dell’album è proprio la distruzione della società, causata dagli stupidi comportamenti umani che l’hanno portata alla deriva e con cui ci si deve trovare a fare i conti. Tutto l’EP è curato nei minimi dettagli, persino la copertina rappresenta la situazione che viene poi espressa nei testi: il fronte rappresenta una città grigia ed anonima mentre il retro ne rappresenta la sua vera faccia, in rovina ed ormai irrecuperabile.
I Last Resistance insomma convincono e lasciano poco spazio a commenti negativi. Ci auguriamo che possano tornare presto sulla scena con un album completo che ci racconti il nefasto futuro che la società odierna ci riserva.

Tracklist
1. Karma Violence
2. Misfortune
3. Point of No Return
4. Enslaved

Line-up
Vito Mingolla – Voce
Lorenzo Valentino – Chitarra
Luca Greco – Chitarra
Andrea Caiulo – Basso
Mino Mingolla – Batteria

LAST RESISTANCE – Facebook

Dystersol – The Fifth Age Of Man

The Fifth Age Of Man è il secondo album degli austriaci Dystersol, primo per la Wormholedeath, un esempio riuscito e coinvolgente di melodic death metal sinfonico ed epico.

The Fifth Age Of Man è il secondo lavoro degli austriaci Dystersol, il primo sotto le grinfie della Wormholedeath, label  che di sonorità estreme se ne intende non poco.

L’album è il successore del debutto autoprodotto uscito quattro anni fa, intitolato Welcome the Dark Sun.
Il sound prodotto dal quintetto viene descritto come modern metal, ed in parte qualche sfumatura moderna affiora tra le trame orchestrali ricamate dal combo, ma dall’ascolto affiorano ispirazioni melodic/thrash su un tappetto di arrangiamenti epico/sinfonici.
Il cantato cattivissimo e le ritmiche sostenute ne fanno un macigno estremo, valorizzato da cascate di melodie e mid tempo alternati ad accelerazioni tipiche del genere.
La musica segue il concept basato sulla mitologia greca, ne consegue un’atmosfera epica che pervade tutto l’album fin dalla title track, posta come opener e che mostra fin da subito il potenziale dei Dystersol.
I brani si susseguono, violenti ed oscuri, le sinfonie su cui si poggia il sound del gruppo creano oscure atmosfere, le chitarre affrontano l’età del ferro come armi per uccidere in un’atmosfera apocalittica, e si inseguono tra riff e solos di estrazione death/thrash, mentre lo scream feroce richiama il death metal melodico di scuola scandinava (Children Of Bodom).
Bal Sagoth, Nightfall e la citata band finlandese sono sicuramente gruppi che hanno ispirato la band austriaca, che ci mette del suo in quanto a songwriting, così da tenere l’ascoltatore incollato alle cuffie, rapito da una track list che non conosce pause.
The Fifth Age Of Man è un ottimo lavoro, magari non originalissimo ma che nella sua interezza cattura e coinvolge,  e direi che non è affatto poco.

Tracklist
01.Fifth Age of Man
02.Life amongst the Ruins
03.Down to Nothing
04.End of the Fall
05.Winterking
06.Tragedy of the gifted Ones
07.Night of the Hunter
08.Children of the Wasteland
09.Beyond Blood
10.Olimpia
11.Comforting the Soulless
12.PsychoPath
13.Danse Macabre
14.End Game

Line-up
Lue – Vocals/Synths
Matthias – Bass, Vocals
Gernot – Drums, Backgound-Vocals
Lukas – Guitar
Gerhard – Guitar

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Iron Harvest – Iron Harvest

Metal estremo, dissonanze ed intricate progressioni, di questo si compone l’omonimo album degli Iron Harvest, da maneggiare con cura prima di finire soffocati dalla tela che vi si stringerà intorno al collo.

Difficile parlarvi di album dissonanti questo degli Iron Harvest, quintetto proveniente da Utrecht, che arriva al debutto sulla lunga distanza dopo un demo vecchio di ormai quattro anni.

Questo album omonimo ci presenta una band dal sound progressivo, inglobato in un metal estremo di natura old school, nervoso ed intricato come la ragnatela di un ragno impazzito.
Un lavoro ritmico allucinante in un crescendo di contro tempo e cambi repentini, fanno da tappeto a chitarre che sanguinano riff estremi tra il death e lo sludge, mentre il growl si inerpica su per questa montagna di note.
Mezzora trattati male da un sound che non lascia nulla alla melodia, a tratti avvicinandosi pericolosamente al grind, in un delirio di difficile assimilazione.
I musicisti sanno suonare e si sente a più riprese, ma è tangibile da parte del quintetto la voglia di andare oltre, in un’esperienza d’ascolto senza compromessi, tra death, grind, progressive e sludge.
Tra le intricate trame della sua ragnatela, veniamo imprigionati dal letale aracnide e da brani come The Holy Mountain e Make A Change… Fuck Yourself.
Metal estremo, dissonanze ed intricate progressioni, di questo si compone l’omonimo album degli Iron Harvest, da maneggiare con cura prima di finire soffocati dalla tela che vi si stringerà intorno al collo.

Tracklist
1.Enter the Void
2.May the Earth Open Up and Consume My Body
3.The Holy Mountain
4.The Perfect Storm
5.Make a Change… Fuck Yourself
6.The Beast I Worship
7.Rave Like It’s the Third World
8.Rape the World
9.A Hound-and-Horny Look of Evil

Line-up
Rev. Screamin’ K – Vocals
Michiel van der Werff – Guitar
Ruben Schmidt – Guitar
Matthias Ruijgrok – Bass
David Schermann – Drums

IRON HARVEST – Facebook

Dying Awkward Angel – Absence Of Light

Il death metal del quintetto, di ispirazione old school, amalgama e alterna con sagacia le ispirazioni provenienti dalle due scuole estreme, usando a proprio piacimento le melodie classiche del death scandinavo su una struttura che in molti casi si ispira alla scena della Bay Area.

La Rockshots pubblica il secondo full length dei torinesi Dying Awkward Angel, gruppo attivo da vent’anni ma falcidiato da problemi legati soprattutto alla line up che ne hanno frenato la carriera nel mondo del metal estremo.

Un paio di demo un ep, l’album Waiting for Punishment licenziato nel 2013 e ora il nuovo lavoro intitolato Absence Of Light, che arriva a far circolare ancora una volta il nome del gruppo nella scena estrema tricolore, grazie ad un sound che, se pesca come da tradizione della band dal death metal scandinavo, non rinuncia ad ispirazioni che giungono dagli States.
Absence Of Light risulta quindi un buon lavoro, nel quale il quintetto amalgama e alterna con sagacia le ispirazioni provenienti dalle due scuole estreme, usando a proprio piacimento le melodie classiche del death scandinavo su una struttura che in molti casi si ispira alla scena della Bay Area.
Dying Awkward Angel si distinguono per un songwriting efficace, i brani convincono non cedendo in quanto ad impatto e regalando armonie e melodie perfettamente inserite in un contesto estremo che ricorda At The Gates e Morbid Angel, In Flames e Slayer, in un susseguirsi di cambi di tempo ed atmosfere.
L’opener Blood Of Your Blood, Dolls, Sancta Sanctorum, la conclusiva Killing Floor, formano insieme alle altre tracce un lavoro personale, suggestivo e saggiamente bilanciato tra aggressività e melodie, facendo di Absence Of Light un album consigliato e dei Dying Awkward Angel un gruppo da seguire con molta attenzione.

Tracklist
01. Blood of Your Blood
02. Death Coach
03. Isaiah
04. Shade
05. Dolls
06. Sancta Sanctorum
07. Absence of Light
08. Maldita Seas
09. The Dust Devil
10. T.U.S.K.
11. The Killing Floor

Line-up
Edoardo Demuro – Guitars
Luca Pellegrino – Drums
Lorenzo Asselli – Guitars
Davide Onida – Bass
Michele Spallieri – Vocals

DYING AWKWARD ANGEL – Facebook