NECRODEATH

Il lyric video di ‘The Whore Of Salem’,dall’album ‘The Age Of Dead Christ’ (Scarlet Records).

Il lyric video di ‘The Whore Of Salem’,dall’album ‘The Age Of Dead Christ’ (Scarlet Records).

I Necrodeath hanno pubblicato il lyric video del brano ‘The Whore Of Salem’, nuovo singolo dal loro nuovo album ‘The Age Of Dead Christ’, in uscita il prossimo 9 marzo su Scarlet Records (Terror From Hell curerà la versione in vinile).

‘The Age Of Dead Christ’ é l’undicesimo capitolo discografico di una delle band che maggiormente ha influenzato la scena estrema europea. Il disco arriva 33 anni dopo l’esordio dei Necrodeath con il demo ormai di culto ‘The Shining Pentagram’, 33 come gli anni di Cristo, un traguardo notevole per una band che proprio con questo lavoro torna alla velocità e alla violenza sonora degli esordi. La stessa copertina é un chiaro omaggio a quelle dei demo degli anni Ottanta, con il vecchio logo della band a farla da padrone.

‘The Age Of Dead Christ’ include il brano ‘The Return Of The Undead’, una nuova versione del classico della band ‘The Undead’ (originariamente incluso nel debutto del 1987 ‘Into The Macabre’), che vede la partecipazione come special guest di un altro grande protagonista della scena metal continentale, ovvero A.C. Wild dei Bulldozer.

Ecco il commento del batterista Peso: “Con questo disco torniamo alle nostre radici più estreme. ‘The Age Of Dead Christ’ é un violento pugno sulla vostra faccia assetata di sangue! Attenzione, perché i Necrodeath sono tornati e non faranno prigionieri!”

Rise Of Avernus – Eigengrau

Eigengrau appare ben focalizzato e soprattutto anche impeccabile per resa sonora, per cui gli otto brani scorrono via senza intoppi offrendo passaggi ora più melodici ora più robusti e mostrando una certa varietà.

Gli australiani Rise Of Avernus arrivano al loro secondo full length all’interno di una storia ancora relativamente breve ma già oggetto di diversi cambiamenti.

Quello più sostanziale riguarda l’uscita dalla formazione della vocalist Cat Guirguis, la quale assieme a Ben VanVollenhoven ha formato il nucleo iniziale della band, provocando in qualche modo uno spostamento del sound verso altri lidi.
E’ così quindi che, da un più classico gothic doom con voce femminile, i Rise Of Avernus sono approdati ad un metal estremo sinfonico /orchestrale che pesca sia dai Dimmu Borgir nei passaggi più vicini al black metal, sia soprattutto dai Septicflesh allorché il sound si sposta verso il death/doom; in tal senso, dice molto anche il fatto d’aver scelto per curare l’artwork del disco lo stesso Seth Siro Anton, frontman dei maestri ellenici.
Dopo l’ep transitorio Dramatis Personæ, i Rise Of Avernus hanno fatto trascorrere tre anni prima di tornare con un full length eloquente riguardo ad una band con le idee chiare nella propria proposta di suoni che se, come abbiamo già detto, non hanno il loro punto di forza nell’originalità, sono senza dubbio carichi di una notevole intensità e ricchi di spunti che saranno sicuramente graditi a chi apprezza il connubio tra le partiture sinfoniche ed il metal estremo.
Eigengrau appare ben focalizzato e soprattutto anche impeccabile per resa sonora (qui i nostri si sono avvalsi di un altro pezzo da novanta come l’ex Machine Head Logan Mader) per cui gli otto brani scorrono via senza intoppi offrendo passaggi ora più melodici ora più robusti, mostrando una certa varietà alla quale contribuisce anche l’utilizzo di diverse gamme vocali che spaziano dal growl allo screaming, con qualche raro ma efficace ricorso alla voce pulita come avviene in quello che è forse il miglior brano dell’album, Gehenna.
Molto belle Mimicry, anche se qui lo spettro dei Septicflesh appare più ingombrante che in altri frangenti, Eigenlicht, dal chorus e dai ritmi davvero trascinanti, e la movimentata traccia conclusiva Into Aetherium, con le sue frequenti ma molto fluide variazioni ritmiche.
Considerando che, per gusto personale, preferisco senza dubbio avere una band gothic doom con voce femminile in meno ed una symphonic death doom in più, non posso che salutare con favore questo più che positivo ritorno dei Rise Of Avernus.

Tracklist:
1- Terminus
2- Ad Infinitum
3- Gehenna
4- Eigenlicht
5- Tempest
6- Forged in Eidolon
7- Mimicry
8 – Into Aetherium

Line-up:
Ben VanVollenhoven – Vocals, Guitar, Orchestrations
Andrew Craig – Drums & Percussion
Mares Refalaeda – Vocals & Keyboard

RISE OF AVERNUS – Facebook

Bhleg – Solarmegin

Seconda mastodontica opera del gruppo svedese dedicata alla celebrazione del Sole,fonte di vita per natura e uomini: black e folk ancestrale creano emozioni intense e dal fascino incredibile.

E’ molto coraggiosa la scelta degli svedesi Bhleg di proporre un doppio album come loro seconda opera in un mondo che vive veloce, che raramente si sofferma nel vivere emozioni, dolori e gioie: due dischi, novantotto minuti di suoni intensi e creativi, rappresentano una sfida di pazienza che molti non vogliono intraprendere.

E’ un peccato che tante note, tanti colori, tante emozioni potranno essere patrimonio di pochi fortunati che non si lasceranno intimorire dalla mole dell’opera; certe forme di black metal, in questo caso miscelate con antichi aromi folk, hanno bisogno di ripetuti ascolti, del giusto mood per poter essere comprese e apprezzate per entrare sotto pelle. Il duo svedese ha impiegato quattro anni per dare seguito al debutto “Draumr ást”, discreto e passato inosservato e ci presenta un’opera dedicata alla celebrazione del Sole visto come fonte di vita per la natura e gli uomini.
I testi in svedese rappresentano sicuramente un ostacolo per la totale comprensione ma la musica, non avanguardistica o sperimentale, traccia emozioni intense creando un percorso frastagliato nella natura dove pulsa una vitalità ancora incorrotta.
Intarsi di folklore ancestrale attraversano tutti i brani e delineano melodie che talvolta emergono nitide e terse, e altre volte rimangono appena percepibili nel tessuto black, sempre modulato su ritmi non particolarmente veloci; lo scream aspro è coinvolgente e mantiene alta la tensione.
I brani sono lunghi, raccontano un rituale e hanno interessanti e malinconiche parti chitarristiche svolte secondo i canoni del genere, mostrando atmosfere rimembranti il gelo e la freddezza della old school scandinava.
Composto durante la stagione estiva, tranne alcune parti durante il solstizio di inverno e registrato durante le ore più luminose del giorno, il disco mantiene alta l’attenzione durante la sua notevole durata a patto di avere il tempo giusto da dedicare; un frettoloso ascolto lascerà del tutto indifferenti e non farà apprezzare fino in fondo il gusto melodico, i chorus evocativi, i suoni creati dagli strumenti antichi utilizzati.
Ogni brano ha qualche caratteristica particolare, i suoni ambient di Skuggspel screziati da un synth immaginifico si aprono nella dolce fierezza di Solvagnens flykt, mentre gli arpeggi folk dell’ opener Alvstrale dimostrano una grande classe e confluiscono nelle note cariche di Sunnanljus di cui esiste anche un video.
In definitiva opera interessante che ricorda in alcune parti gli Ulver del capolavoro del 1995 “Bergtatt”.

Tracklist
Disc 1
1. Alvstråle
2. Sunnanljus
3. Alyr – helgedomen
4. Gudomlig grönska
5. Alstrande sol
6. Livslågans flammande sken
7. Kraftsång till sunna

Disc 2
1. Hymn till skymningen
2. Skuggspel
3. Solvagnens flykt
4. Kärleksrit
5. Frö (Växtlighetens fader)
6. Solens ankomst

Line-up
L – Lyrics & vocals
S – all instruments
Patrick Kullberg – drums

BHLEG – Facebook

Amor – Love VS Logic

Album da evitare se avete già passato la fase adolescenziale, Love VS Logic troverà sicuramente e comunque il suo spazio, ma il rock/metal alternativo e moderno è un’altra cosa.

L’alternative rock/metal da ragazzini ai primi pruriti adolescenziali ha stufato non poco.

Questi album hanno ben poco di rock, figuriamoci di metal, e sono cantati come se dovessero far breccia in qualche festival zuccheroso per bambini, con una leggera brezza travestita da grinta immessa in canzoni pop da classifica e che, nel giro di un mese, finiscono inevitabilmente nel dimenticatoio.
L’urgenza, quel minimo di cattiveria e quel senso di pericolo che di fatto è l’anima del rock (anche quello moderno) sono assolutamente inesistenti per far spazio a vocine che al massimo gridano il disagio di un piede pestato risultando davvero poca cosa, musica usa e getta adatta ai minori di quindici anni.
Difficile recensire un album composto da undici inni al nulla, tutti esattamente uguali, quindi tutti potenzialmente hit da dare in pasto ai ragazzini prima di entrare a scuola, partendo dall’opener Poison Play per finire con la conclusiva The Exit.
Ah, loro sono gli Amor, trio dell’Arizona perfettamente calato nella band da un milione di dollari e Love VS Logic è il loro album pregno di singoli che “innamorare” coppie di giovincelli travestiti da ribelli, tra pop, appena accennate sfumature a quel metalcore plastificato, che per ora fa ancora sfracelli nelle classifiche, e rock radiofonico che tanto fa cool in questo inizio millennio.
Album da evitare se avete già passato la fase adolescenziale, Love VS Logic troverà sicuramente e comunque il suo spazio, ma il rock/metal alternativo e moderno è un’altra cosa.

Tracklist
1. Poison Play
2.Clockwork
3. At Odds With Self
4. Frequency
5. Twice, Again
6. Look Alive
7. Tonight Always
8. Heart Locker
9. Living Lies
10. Collisions
11. The Exit

Line-up
Dillon Conneally
Ryan Daminson
Tre Scott

AMOR – Facebook

Descrizione Breve
Album da evitare se avete già passato la fase adolescenziale, Love VS Logic troverà sicuramente e comunque il suo spazio, ma il rock/metal alternativo e moderno è un’altra cosa.

Brain Distillers Corporation – Medicine Show

Pesante, sanguigno e divertente, Medicine Show non conosce freni e sbavature, parte come un tir e si ferma solo quando l’ultima nota di Syriana ci lascia nel silenzio dopo una tempesta di note nate in una Milano travestita da Seattle, con il clima nebbioso che si trasforma nel caldo secco della frontiera.

La ricetta all’apparenza è semplice : prendete Alice In Chains e Soundgarden, potenziateli con dosi letali di groove e metal dai rimandi southern (Black Label Society e Black Stone Cherry) ed avrete in mano il ricco piatto musicale che i Brain Distillers Corporation hanno preparato per voi.

Sembra facile, perché poi i vari sapori devono essere perfettamente bilanciati per la riuscita di questo piccantissimo piatto che vi farà letteralmente saltare sul tavolo ed attaccarvi al collo di una bottiglia prima che il fuoco vi bruci le budella.
Medicine Show è il secondo album di questa band milanese con l’America nel cuore e la sua musica nella testa: il primo lavoro (Ugly Farm), uscito due anni fa, aveva già mietuto vittime tra i fortunati che si erano imbattuti nel quintetto, ora arriva la conferma con questa nuova raccolta di irresistibili brani che tributa il rock statunitense degli anni novanta.
Grunge, alternative rock e southern metal confluiscono in un sound diretto e coinvolgente, con un’anima blues che veglia su brani assolutamente irresistibile, almeno per chi ama il genere ed il rock a stelle e strisce.
Pesante, sanguigno e divertente, Medicine Show non conosce freni e sbavature, parte come un tir e si ferma solo quando l’ultima nota di Syriana ci lascia nel silenzio dopo una tempesta di note nate in una Milano travestita da Seattle, con il clima nebbioso che si trasforma nel caldo secco della frontiera e con la cover di Man In The Box degli Alice In Chains a confermare le ispirazioni del combo valorizzando una track list perfetta.
La title track, Reaction, The Storm non fanno prigionieri, la pesantezza ritmica e colma di groove prende sotto braccio le melodie e i chorus di scuola grunge riunendosi con le atmosfere southern di cui vive l’album.
I Brain Distillers Corporation proseguono nella loro personale rivisitazione del rock/metal made in Usa, riuscendo in ciò che non riesce a molti, divertire e risultare convincenti.

Tracklist
1. Medicine Show
2. Reaction
3. In The Land Of Colours
4. The Storm
5. Convince Me
6. The Brains in the Van
7. Man in The Box – Alice in Chains Cover
8. Nezara Viridula
9. A Time For Silence
10. What is Real for You
11. Syriana

Line-up
Marco ‘Pascoso’ Pasquariello – Vocals
Matteo ‘Matt’ Bidoglia – Guitar
Francesco ‘Frank’ Altare – Guitar
Luca ‘Tambu’ Frangione – Bass
Fabrizio ‘Thompson’ Ravasi – Drums

BRAIN DISTILLERS CORPORATION – Facebook

Mournful Congregation – The Incubus of Karma

Chiunque, dovendo scegliere se essere accompagnato nell’Ade a forza di bastonate o tenuto per mano da qualche eterea creatura, opterebbe per quest’ultima eventualità, che è in sostanza proprio quanto decidono di fare i Mournful Congregation, i quali non ci risparmiano certo né dolore né disperazione ma veicolano il tutto in maniera meno aspra rispetto al passato.

Nonostante siano tra coloro che più di altri ci ricordano la caducità dell’esistenza, i musicisti dediti al funeral doom normalmente si prendono tutto il tempo per comporre nuovi dischi, quasi che per loro, al contrario, il tempo a disposizione fosse illimitato.

Da questa che se vogliamo è una bizzarra contraddizione, ne scaturiscono comunque puntualmente dischi capaci di segnare gli appassionati del genere per per molto tempo per cui, per assurdo, basterebbe un solo disco all’anno del livello di questo The Incubus of Karma per colmare anche la minima sensazione di vuoto.
L’ultimo full length dei Mournful Congregation, band australiana unanimemente riconosciuta nell’elite del genere, risale addirittura al 2011 (si trattava del magnifico The Book Of Kings), mentre per trovare altro materiale inedito della band bisogna comunque tornare al 2014, con l’ep Concrescence Of Sophia.
Se qualche minima recriminazione può derivare quindi dall’avarizia compositiva di Damon Good e compagni, bastano poche note di The Indwelling Ascent per perdonare loro ogni peccato passato, presente e futuro: tre minuti di dolenti melodie chitarristiche ci avvolgono comunicando che qualcosa nel modus operandi dei Mournful Congregationi è sicuramente cambiato.
Se Whispering Spiritscapes si snoda a lungo in linea con la produzione passata della band è solo per trarci parzialmente in inganno, perché nel finale del brano ritorna una vis melodica che si ritroverà anche nella successiva The Rubaiyat, chiarendo doverosamente che tutti i sostantivi e gli aggettivi utilizzati vanno riparametrati tenendo conto che si parla pur sempre di funeral doom.
Del resto, credo che chiunque, dovendo scegliere se essere accompagnato nell’Ade a forza di bastonate o tenuto per mano da qualche eterea creatura, opterebbe per quest’ultima eventualità, che è in sostanza proprio quanto decidono di fare i Mournful Congregation, i quali non ci risparmiano certo né dolore né disperazione ma veicolano il tutto in maniera meno aspra rispetto al passato.
La chitarra solista è lo strumento dominante dell’album, e anche quando non resta costantemente sul proscenio giungono repentine quelle aperture che forniscono i brividi di commozione ricercati da chi considera il genere la forma d’arte suprema.
Sono trascorsi 40 minuti di rara intensità, sufficienti a chiunque per ringraziare la band australiana per quanto offerto con questo suo ritorno e, invece, ci attendono ancora tre brani per altrettanti momenti di funeral doom al massimo livello, con uno schema tutto sommato simile a quanto ascoltato precedentemente
Arriva quindi la title track, ovvero una più breve traccia strumentale che regala un oasi di pace con un chitarrismo morbido nel suo alternarsi tra soluzioni elettriche ed acustiche, prima che si ripiombi nuovamente nell’episodio più cupo dell’album, Scripture of Exaltation & Punishment, dove ritroviamo i Mournful Congregation maggiormente ripiegati nella propria introspettiva idea di dolore; anche qui, però, le linee melodiche sono ben presenti in una sorta di crescendo emotivo che annichilisce nella sua dolente bellezza.
Stupiti dal livello di un album di rara intensità e con gli occhi ancora inumiditi, non tutti potrebbero essere pronti per accogliere gli oltre venti minuti di A Picture of The Devouring Gloom Devouring the Spheres of Being, altro brano stupefacente che va creare un continuum emotivo rispetto al precedente: di fronte ad una simile esibizione di maestria nel maneggiare il genere si esauriscono ben presto gli aggettivi e non resta, così,  che lasciar fluire dentro di noi questa musica impareggiabile per le sensazioni che riesce ad evocare.
Quando la maggior parte delle band, dopo oltre due decenni di onorata carriera, e con una status acquisito di maestri assoluti nel proprio campo, si limitano spesso ad inserire il pilota automatico per riproporre album magari validi ma inevitabilmente sbiaditi rispetto a quanto già fatto, i Mournful Congregation pubblicano un capolavoro che resterà ovviamente relegato alla ristretta parrocchia del funeral doom e dei suoi fedeli adepti: Damon Good, Justin Hartwig, Ben Newsome e Tim Call hanno deciso di rendere più esplicito il senso di smarrimento, l’angoscia e la percezione della provvisorietà che è insita in ognuno di noi e che si può esprimere in diverse maniere.
Quella scelta da chi suona doom, come i Mournful Congregation, è una catartica quanto malinconica immedesimazione in un dolore universale che solo pochi, quasi fossero dei medium, sono capaci di fare proprio per poi trasmetterlo in un flusso continuo all’ascoltatore, andando a creare così una sorta di interminabile cerchio empatico.

Tracklist:
1) The Indwelling Ascent
2) Whispering Spiritscapes
3) The Rubaiyat
4) The Incubus of Karma
5) Scripture of Exaltation & Punishment
6) A Picture of The Devouring Gloom Devouring the Spheres of Being

Line-up:
Damon Good : Rhythm & lead guitars, vocals, bass guitars
Justin Hartwig : Lead guitars
Ben Newsome : Bass guitars
Tim Call : Drums, backing vocals

MOURNFUL CONGREGATION – Facebook