Nasty Ratz – First Bite

I Nasty Ratz trasformano le strade dell’austera capitale della Repubblica Ceca nel Sunset Boulevard della città degli angeli.

Dalla Los Angeles degli anni ottanta alla Praga del 2015 il passo sembra più lungo di quanto si possa credere.
D’altronde perché non trasformare le strade dell’austera capitale della Repubblica Ceca nel Sunset Boulevard della città degli angeli?

Ci riescono alla grande i Nasty Ratz, giovane gruppo ceco, con questo buon lavoro, che dello street, hard rock, glam ne ha fatto la sua missione, quella di riportare gli sgargianti colori del metal americano dei splendidi anni ottanta non solo nel nuovo millennio, ma nell’Europa dell’est.
Con alle spalle un ep e tanti concerti in giro per il vecchio continente, in compagnia, tra gli altri, di Adam Bomb e Crazy Lizz, la band debutta sulla lunga distanza con First Bite, classico esempio di cosa si suonava negli anni in cui pantaloni di pelle, bandane, mascara e belle figliole erano il pane dei rockers di mezzo mondo che, come mecca, guardavano agli eccessi della Los Angeles delle promesse, molte volte disilluse di fama e successo.
Rock’n’roll travestito da metalliche iniezioni di street e hard rock, attitudine glam e tanta voglia di divertirsi e abbordare, erano la ricetta per l’ottimo pranzo dei gruppi storici, di cui i Nasty Ratz se ne fanno una scorpacciata, tra brani grintosi e super ballatone strappa lacrimuccia, suonate più per far colpo sulla biondona prosperosa che vero momento di nostalgico malessere esistenziale o amoroso.
Il gruppo è formato dall’ottimo singer Jake Widow, anche chitarra ritmica, mentre la solista, tutta fuoco e fiamme, è di Stevie Gunn con la sezione ritmica composta da Tommy Christen al basso e Rikki Wild alle pelli.
Non troppo lungo ma assolutamente compatto e divertente, First Bite, nel genere, è un buon esordio: certo siamo perfettamente in linea con le produzioni dei vari monumenti al rock stradiolo come Motley Crue, Poison, Ratt e compagnia di delinquenti dagli occhi truccati e la rissa facile, ma se siete ancora in botta per le reunion dei Crue o aspettate come il messia quella dei Gunners, brani che schiumano rock’n’roll come Love At First Fight, Made Of Steel e Snort Me vi faranno tornare sulla via losangelina e chiudendo gli occhi vi ritroverete in fila davanti al Whisky A Go Go, ad aspettare il vostro turno, sperando che questa volta sia quella buona per entrare.
Nostalgico? No, solo molto divertente e suonato sufficientemente bene per risultare un buon ascolto. Stay rock!

TRACKLIST
1. Love At First Fight
2. Made Of Steel
3. I Don’t Wanna Care
4. Morning Dreams Come True
5. Snort Me
6. Angel In Me
7. N.A.S.T.Y.
8. I’ll Cut You Off
9. Sharize
10. If You Really Love Me

LINE-UP
Jake Widow – rhytm guitar, vocals
Stevie Gunn – lead guitar, vocals
Tommy Christen – Bass guitar, vocals
Rikki Wild – drums, vocals

NASTY RATZ – Facebook

Foundry – Foundry

Foundry supera abbondantemente la sufficienza; come detto la bravura dei musicisti, sommata alla loro indiscussa esperienza, tiene sempre alta la tensione così che l’album, complice la durata che supera di poco la mezz’ora, non abbia grossi cedimenti

La Sleaszy Records, etichetta ellenica che annovera ottime band nel suo rooster, specialmente per quanto riguarda i suoni hard rock, fa il botto con i Foundry, gruppo proveniente da Las Vegas che licenzia il suo debutto omonimo, supportato da un dispiegamento di forze niente male.

Al microfono troviamo infatti Kelly Keeling, di recente sul mercato con un album solista, ex singer dei Baton Rouge e coinvolto in molti progetti gravitanti nel pianeta del rock duro in compagnia di MSG, John Norum, King Kobra, Heaven And Earth, George Lynch, Alice Cooper, Blue Murder, Dokken, Trans-Siberian Orchestra e molti altri, insomma il gotha della nostra musica preferita.
Ad accompagnare prezzemolino Keeling, una band di tutto rispetto, con la sei corde di James Fucci a sparare riff duri come l’acciaio, le pelli del drummer Marc Brattin a formare una sezione ritmica dal groove micidiale insieme al basso di Jason Ebs, che ha suonato nel disco, ma non risulta nella formazione ufficiale.
Detto di Erik Norlander, Scott Griffin e Stoney Curtis come special guests, il vero fiore all’occhiello di Foundry è rappresentato dal guru Steve Thompson al mixer ed alla produzione dell’album, un signore che ha messo a disposizione il suo talento per bands come Guns’n’Roses, Metallica, KISS e Soundgarden.
Con queste premesse ammetto che la curiosità era tanta, ed in parte l’album non delude, l’hard rock made in U.S.A, dalle chiare influenze street, valorizzato dalla voce ruvida del singer, che non disdegna una clamorosa impronta blues, riesce nell’intento di procurare brividi, specialmente a chi ama il rock americano, potenziato da ritmiche che imbottiscono di groove il sound del gruppo.
Il gruppo varia le atmosfere dell’album e si passa cosi da brani dal piglio tradizionale, ad altri molto più moderni, in un’alternanza tra i suoni hard rock classici e molti che sconfinano nel rock anni novanta, vicino all’alternative, in poche parole troppe songs si avvicinano al sound degli Alice In Chains (Rolling Stoned, Calling Allah) perdendo non poco in personalità.
Poco male, i brani risultano ottimi e suonati alla grande, ma è indubbio che da un gruppo di musicisti di tale esperienza, ci si aspettava qualcosa in più che una raccolta di tracce suonate con mestiere.
A mio parere Foundry offre il meglio di se nelle songs che pur conservando un piglio moderno, mantengono i piedi ben saldi nell’hard rock classico (Hell Raiser e Get Over It) e dove il singer estrae dal cilindro quel timbro bluesy che ancor oggi procura pelle d’oca a profusione.
Foundry supera abbondantemente la sufficienza; come detto la bravura dei musicisti, sommata alla loro indiscussa esperienza, tiene sempre alta la tensione così che l’album, complice la durata che supera di poco la mezz’ora, non abbia grossi cedimenti, ma rimane solo un po’ di amaro in bocca per qualche traccia troppo derivativa.

TRACKLIST
1. Blinded
2. Mind Radio
3. Get Over It
4. Rolling Stoned
5. Calling Allah
6. Hell Raiser
7. Shake
8. False Alarm
9. Television
10. Vegas Baby!
11. Vegas Baby! (bonus video, exclusive only on the Sleaszy Rider’s edition!)

LINE-UP

CURRENT LINE-UP
Kelly Keeling – vocals
Marc Brattin – drums
James Fucci – guitar

RECORDING LINE-UP
Kelly Keeling – vocals
Marc Brattin – drums
James Fucci – guitar
Jason Ebs – bass

FOUNDRY – Facebook

Seventh Veil – Vox Animae

Complice una produzione da top album, il suono esce pieno ed avvolge e stritola in una cascata di hard rock, come deve essere suonato nell’anno di grazia 2016.

Ormai è un fatto, l’Italia in questi ultimi anni sta letteralmente scalando, a livello qualitativo, le posizioni nella classifica delle nazioni dove l’underground metal/rock produce realtà notevoli, ormai giocandosela alla pari con i più produttivi paesi del nord europa.

Vero che qui da noi continua a mancare una cultura per il rock, che in altre nazioni è consolidata da anni ma, mentre i media continuano ad ignorare e far spallucce a questa invasione, il nostro sottobosco musicale si arricchisce di ottime band e grandi lavori in tutti i generi e sottogeneri che vanno a comporre l’universo della nostra musica preferita.
Nell’hard rock, genere che solo pochi anni sembrava essere scomparso e che ha trovato nuova linfa con il successo delle band scandinave da una parte, ed il ritorno sulle scene di molti nomi storici dello street rock ottantiano dalla’altra, i gruppi nati su e giù per lo stivale protagonisti di ottimi album non si contano più e i veronesi Seventh Veil si aggiungono alla lunga lista con questo secondo lavoro sulla lunga distanza dal titolo Vox Animae.
Il debutto del 2012 Nasty Skin ed il primo full length White Thrash Attitude del 2013, indicavano il gruppo veneto come una buona street rock band, influenzata dai suoni della Los Angeles del Sunset Boulevard e dagli eroi di degli anni d’oro del rock’n roll ipervitaminizzato e trasgressivo, colonna sonora di una vita al limite con sex, drugs and rock’n’roll come parola d’ordine.
Vox Animae sposta di non poco le coordinate stilistiche della band, sempre hard rock dalle sfumature stradaiole, ma molto più moderno, cancellando definitivamente quella patina nostalgica che i detrattori del genere sottolineano a più riprese quando si parla di street rock.
Niente paura, i Seventh Veil continuano a suonare hard rock, ma nel loro sound entra prepotentemente un mood moderno e se vogliamo alternativo, che rende i brani di questo Vox Animae freschi, al passo coi tempi e dall’appeal molto elevato.
Diciamolo, un brano come Devil in Your Soul, suonato da un gruppo nato aldilà dell’oceano sarebbe in rotazione su Rock Tv ogni quarto d’ora, così ben bilanciato tra tradizione e modernità, colmo di groove e con un refrain che entra in testa spaccandola in due.
Complice una produzione da top album (Oscar Burato ed i suoi Atomic Stuff studio, qui aiutato da Andrea Moserle , sono una garanzia di qualità), il suono esce  pieno ed avvolge e stritola in una cascata di hard rock come deve essere suonato nell’anno di grazia 2016.
L’inizio di Living Dead richiama Sixx A.M e Beautiful Creatures, le ritmiche di Together Again portano ad una via di mezzo tra lo street rock e l’alternative metal, mentre il bravissimo singer Lorenzo “Steven” Bertasi si avvicina terribilmente al Corey Taylor versione Stone Sour, mentre saltano le membrane degli altoparlanti sotto il bombardamento ritmico di una modernissima Broken Promises.
Si viaggia su queste coordinate per tutto l’album, la qualità rimane alta, a tratti i toni si fanno delicati con la super ballatona Dad, bissata da Nothing Lasts Forever, mentre SMS chiude l’album con suoni più vicini all’hard rock classico.
In definitiva un album molto accattivante, professionalmente ineccepibile in tutte le sue parti, orgogliosamente italiano pur avendo tutti i crismi di una produzione top made in U.S.A.

TRACKLIST
1. Vox Animae/rEvolution
2. Devil in Your Soul
3. Living Dead
4. Together Again
5. Broken Promises
6. Song For M
7. Dad
8. Noway Train
9. Begging for Mercy
10. No Pain No Gain
11. Nothing Lasts Forever
12. Sms

LINE-UP
Filippo “Jack” Zardini – lead guitars
Lorenzo “Steven” Bertasi – vocals
Davide “Pio” Viglio – drums
Marco “Jeff Lee” Sangrigoli – bass

SEVENTH VEIL – Facebook

Heart Attack – Heart Revolution

L’album piace al primo giro e sono convinto che gli Heart Attack si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea: farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, nemmeno a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati.

Dalla scena ellenica alla conquista del continente, per conquistare i cuori degli amanti del rock melodico e dalle atmosfere AOR.

Heart Revolution è il debutto degli Heart Attack, melodic rockers dal sound che guarda tanto alla scena americana degli anni ottanta quanto a quella del vecchio continente, non dimenticando la scuola neoclassica di matrice nord europea.
Fondata da due musicisti di provata esperienza della scena melodica del loro paese, come come George Drimilis (ex Raging Storm) e Nikos Michalakakos (Spitfire), la band conquista con questo confetto di dolcissimo hard rock, dalle ritmiche pulsanti e dai refrain catchy, dove non mancano riff grintosi, chorus da arena rock e tastiere che riempiono il suono di melodie ariose e dall’ottimo appeal.
Prodotto da Bob Katsionis (Firewind, Outloud), mixato e masterizzati nientemeno che da Tommy Hansen (Pretty Maids, Helloween, Rage) ai Jailhouse Studios in Danimarca, Heart Revolution (tralasciando la copertina invero bruttina e che non rende giustizia alla musica del gruppo) è un bell’esempio di hard rock melodico, dal songwriting ispirato, cantato alla grande da un Drimilis che fa strage di cuori metallici, aiutato nei cori dalla tastierista Lila Moka, brava con il suo strumento, ed energizzato da ottimi solos dell’axeman Stefanos Georgitsopoulos, elegante e raffinato, nonché grintoso il giusto quando la musica del gruppo si elettrizza per donare attimi dal piglio dinamico e coinvolgente.
Il disco può certamente essere diviso in due parti, la prima vede il gruppo cimentarsi in song dal taglio più melodico ed Aor, che arrivano al cuore dell’ascoltatore e lo ammalia con ariosi refrain e delicati ed eleganti chorus ( Falling Apart, Stalker, le strepitose Chine Blue e Tell Me), mentre nella seconda parte l’hard rock prende il sopravvento, la sei corde spara le sue cartucce e ne escono brani dal piglio più aggressivo come in Heart Attack e nell’inno Hellenic Forces, bonus track che vede la partecipazione di un folto gruppo di ospiti della scena, per un brano dal taglio neoclassico ed avvincente.
Le influenze sono evidenti e riscontrabili nei maestri del genere, su tutti gli Scorpions più melodici, Tyketto, Pretty Maids e personalmente ci aggiungerei i finlandesi Brothers Firetribe, progetto hard rock del chitarrista dei Nightwish Emppu Vuorinen.
L’album piace al primo giro e sono convinto che gli Heart Attack si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea: farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, nemmeno a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati.

TRACKLIST
01. Falling Apart
02. Under Your Spell
03. Stalker
04. Playing With Fire
05. China Blue
06. Living A Lie
07. Tell Me
08. (You’re A) Nightmare
09. Chase The Dream
10. Heart Attack
11. Hellenic Forces

LINE-UP
George Drimilis-Vocals
Steve G.-Guitars
Lila Moka-Keyboards/Backing vocals
Nikos Michalakakos-Bass
Jim K.-Drums

HEART ATTACK – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
Gran bella sorpresa questa band greca, l’album piace al primo giro e sono convinto che si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea, farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, anche a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati, provare per credere.

Hell In The Club – Shadow Of The Monster

il nuovo album continua a fare la voce grossa nella scena hard rock, confermando il respiro internazionale che gli Hell In The Club hanno raggiunto in così poco tempo

Letteralmente irresistibile, pura dinamite hard, street rock’n’roll fatta esplodere in questo inizio 2016 dalla nostrana Scarlet che, a distanza di poco più di un anno dal precedente e folgorante Devil On My Shoulder, torna a dar fuoco alle polveri con il nuovo album di questa banda di fenomenali rockers, al secolo Hell In The Club.

Come ben saprete il gruppo nostrano è composto da un nugolo di musicisti della scena nazionale che, con le loro band di origine( Elvenking, Secret Sphere e Death SS) hanno regalato perle metalliche di assoluto valore nobilitando la scena tricolore, poi unitisi in questo combo arrivando al terzo album facendo filotto, con un tre su tre, davvero entusiasmante.
Tre album a distanza di appena cinque anni, uno più bello dell’altro, partendo dal debutto Let The Games Begin, esordio del 2011, passando per Devil On My Shoulder, magnifico parto uscito sul finire del 2014 ed arrivando a questo mostruoso (è il caso di dirlo) Shadow Of The Monster.
Registrato, mixato e masterizzato ai Domination Studios da Simone Mularoni, il nuovo album continua a fare la voce grossa nella scena hard rock, confermando il respiro internazionale che gli Hell In The Club hanno raggiunto in così poco tempo: difficile, infatti, trovare un sound così perfetto come quello creato dal gruppo italiano, un mix di street, hard rock che guarda al passato ma mantiene un taglio moderno, portando il rock’n’roll esplosivo delle grandi band degli anni ottanta/novanta nel nuovo millennio ed aggiungendo valanghe di melodie dall’appeal enorme.
Forse, ancora più che in passato, il sound di questo lavoro guarda oltreoceano, facendo di Shadow Of The Monster l’opera più americana del gruppo, un mix riuscito tra i Guns’n’Roses di Slash ed i Jon Bon Jovi, che escono prepotentemente quando l’elettricità si fa leggermente meno ruvida e viene accompagnata da linee melodiche scritte per mano di talenti smisurati.
Il burattinaio in copertina, sempre diabolico ma ispiratore di un sound che vi farà innamorare al primo ascolto di questo straordinario pezzo di musica rock, domina menti e corpi e ci fa sbattere teste, scalciare come cavalli impazziti, letteralmente drogati dall’adrenalina che scorre all’ascolto di Dance!, opener dell’album e dall’inno Hell Sweet Hell.
Impossibile non cantare il refrain della title track,bonjoviana fino al midollo, così come una moderna ballatona da arena rock si rivela The Life & Death of Mr. Nobody.
Appetite for destruction? No solo Appetite, ma l’effetto è lo stesso, hard rock irrefrenabile, ruvido, che aggredisce con schiaffoni street metal, senza perdere un’oncia in melodia.
Anche questo album rimane su di un livello altissimo in tutta la sua durata, regalando ancora due spettacolari hard rock song, Le Cirque des Horreurs e l’irresistibile Try Me, Hate Me, canzone che in sede live sarà la colpevole di poghi irrefrenabili, ammucchiate paurose, malattie mentali e croniche ubriacature, insomma rock’n’roll all’ennesima potenza.
Hell In The Club, in un mondo ideale, sarebbe il nome più gettonato tra i rockers, ancora troppi legati a dinosauri estinti o ridotti a cover band di se stessi, non mi rimane quindi che ribadire l’assoluto valore di questo album e lasciarvi con una citazione…….CI SCAPPA DEL ROCK CICCIO !!!! Approfittatene.

TRACKLIST
01. DANCE!
02. Enjoy the Ride
03. Hell Sweet Hell
04. Shadow of the Monster
05. The Life & Death of Mr. Nobody
06. Appetite
07. Naked
08. Le Cirque des Horreurs
09. Try Me, Hate Me
10. Money Changes Everything

LINE-UP
Andrea “Andy” Buratto – Bass
Federico “Fede” Pennazzato – Drums
Andrea “Picco” Piccardi – Guitars (lead)
Davide “Dave” Moras – Vocals

HELL IN THE CLUB – facebook

Fungus – The Face of Evil in the Sealed Room

Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete

Cominciamo con un mea culpa: nonostante siano miei concittadini ho scoperto l’esistenza dei Fungus solo in seguito ad una loro breve esibizione risalente alla scorsa estate, in occasione del Festival delle Periferie in quel di Genova Cornigliano.

Vero è che la scena progressive/rock la seguo ormai da tempo un po’ a macchia di leopardo, ma la lacuna resta, specie in questi tempi bizzarri, nei quali magari si finisce per conoscere vita morte e miracoli di gruppi della Papuasia ma si ignora l’esistenza di chi vive ed opera a pochi chilometri da casa tua, nel senso vero del termine se pensiamo che uno dei primi parti discografici dei Fungus è la registrazione di un concerto tenutosi nel 2005 a Murta, amena frazione collinare del comune di Genova limitrofa a quella dove risiedo.
Detto questo, mi concedo un ultimo (spero) luogo comune piazzando un bel “meglio tardi che mai”: per fortuna l’arte non conosce prescrizione ed avvalersi della bellezza di un disco come The Face of Evil, a due anni abbondanti dalla sua uscita, non sminuisce affatto il piacere dell’ascolto e della scoperta.
L’occasione per parlarne deriva dalla pubblicazione in doppio vinile dell’album in questione, arricchito del lungo brano The Sealed Room, uno degli ultimi lasciti dell’indubbio genio compositivo di Alejandro J Blissett, chitarrista e fondatore della band, prematuramente scomparso nel 2014.
Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete: se vogliamo fare un parallelismo, magari audace, con una band dei giorni nostri, qualche similitudine la si può trovare con i Bigelf, rispetto ai quali le sonorità sono sicuramente meno robuste a fronte di affinità notevoli nel saper maneggiare con gusto ed inventiva certi suoni del passato (in primis quelli tastieristici).
E’ chiaro che hard rock, progressive ed una spruzzata di folk sono gli ingredienti di base di una ricetta vincente, che potrà scontentare solo chi pensa che volgere lo sguardo all’indietro sia esclusivamente una soluzione nostalgica e priva di sbocchi: nulla di più falso, la bravura dei Fungus nell’elaborare il tutto in maniera piuttosto personale è innegabile e se qualcuno li vorrà snobbare trovandoli derivativi o eccessivamente retrò è affar suo.
In realtà ogni brano nasconde sviluppi ben poco prevedibili e direi che questo compensa non poco qualsiasi altra perplessità che possa sorgere nei confronti del lavoro: certo, magari The Sun (brano conclusivo della versione originale di The Face Of Evil) non è forse la traccia ideale per chiudere un album così impegnativo, a causa dei suoi continui cambi di scenario conditi di improvvisazioni e sperimentalismi vari, uniti ad una lunghezza considerevole, e la stessa bonus track, di durata ancor più corposa, nulla aggiunge alla bontà di un’opera che vede altrove i suoi picchi. Al termine dell’ascolto, infatti, a restare impresse sono soprattutto la magnifica Rain, con la chitarra di AJ Blissett a livelli di assoluta eccellenza, la folkeggiante The Key of the Garden, ma anche Better Than Jesus e la title track, senza dimenticare la delicata Gentle Season, traccia che ricorda non poco il Peter Hammill più intimista.
Detto dello scomparso chitarrista e della bontà del suo operato, da rimarcare il tocco tastieristico del bravissimo Claudio Ferreri e le doti interpretative di Dorian Deminstrel, vocalist magari non dotato di un’estensione fuori dal comune, ma sicuramente versatile e, soprattutto, capace di trasmettere adeguatamente all’ascoltatore le sensazioni e le emozioni connesse ad una proposta musicale decisamente affascinante, benché talvolta intricata.
Senz’altro un bella (ri)scoperta in attesa del prossimo lavoro con il quale, peraltro, andrà verificato come i Fungus siano riusciti a metabolizzare, sia dal punto di vista compositivo che da quello prettamente personale, una perdita pesante come quella del loro compagno di avventura.

Tracklist:
1. The Face of Evil
2. Gentle Season
3. The Great Deceit
4. Rain
5. The Key of the Garden
6. Shake Your Suicide III
7. Angel with No Pain
8. Better than Jesus
9. Requiem
10. The Sun
11. The Sealed Room

Line-up:
Dorian Deminstrel – voce, chitarre acustiche
Alejandro J Blissett – chitarre, theremin
zerothehero – basso, flauto
Claudio Ferreri – tastiere
Caio – batteria

FUNGUS – Facebook

Tarot – The Warrior’s Spell

Un disco per chi ha ancora nelle orecchie il rock duro vecchia scuola, una stupefacente macchina del tempo che porta indietro negli anni fino ai primi settanta, per risalire di un po’ ma senza superare i primi anni del decennio successivo.

The Warrior’s Spell è una compilation che riassume, in quasi settanta minuti di musica, il credo del musicista australiano, conosciuto come The Hermit, che in questa mastodontica opera di hard rock d’ispirazione purpleiana, raccoglie i suoi tre mini cd usciti finora per la Heavy Chains Records.

Non solo profondo porpora, ma Rainbow ed Uriah Heep, sono le fonti primarie da cui il musicista si abbevera, costruendo su di loro un sound totalmente devoto alla causa del rock dal sapore vintage.
Un disco per chi ha ancora nelle orecchie il rock duro vecchia scuola, una stupefacente macchina del tempo che porta indietro negli anni fino ai primi settanta, per risalire di un po’ ma senza superare i primi anni del decennio successivo.
Produzione ad hoc per non scendere a compromessi e via tuffandosi in questo trip temporale che vi porterà tra i solchi di In Rock o Salisbury, Machine Head o Rising, imprigionati in questa gabbia di suoni che anche le band citate non suonano più da anni.
Rimane l’alto fascino che una proposta del genere suscita, almeno in chi queste avventure musicali le ha più o meno vissute e con un po di nostagia ritrova quei suoni che poi sono i colpevoli dell’amore incondizionato per la musica dura e tutto il rock in generale.
Certo è che il polistrumentista australiano ci sa fare, ed i brani sono molto belli e non si fatica ad arrivare in fondo alla tracklist, seguendo percorsi musicali che se non portano a camminare sulla Starway To Heaven, seguono arcobaleni di Blackmoriana memoria, in un susseguirsi di suoni capitanati da tasti d’avorio lordiani e perle che da Very’eavy Very’umble, primo straordinario lavoro degli Uriah Heep, prendono linfa vitale.
Non manca una certa vena psichedelica, che rende le songs una bellissima colonna sonora per tirare fuori dal vecchio sacchetto in pelle, cartine ed un po di quella vecchia erba rinsecchita, ormai dimenticata, ma compagna di lunghe serate in compagnia di questi suoni, vecchi amici ed ispiratori di una ribellione intima che non muore neanche dopo tanto tempo, risvegliata dalle note di Eyes In The Sky, Leaving This Place, Life And Death, inni ad un’era passata e da molti dimenticata.
Un’opera che aldilà del valore musicale è un tributo ad uno dei periodi più fruttosi a livello qualitativo della storia del rock, ascoltatelo.

TRACKLIST
1. The Watcher’s Dream
2. Twilight Fortress
3. The Wasp
4. Eyes in the Sky
5. The Warrior’s Spell
6. Street Lamps Calling
7. Leaving This Place
8. Mystic Cavern
9. Dying Daze
10. Life and Death
11. Sound the Horn
12. Vagrant Hunter
13.Take A Look Around
14. Leaving This Place

LINE-UP
The Hermit Vocals, Guitars, Organ, Keyboards

Haunted By Destiny – Aria For An Angel

Aria For An Angel piace al primo ascolto e fa innamorare: come con le sirene di Ulisse, i più deboli finiranno nelle grinfie degli Haunted By Destiny e saranno perduti.

Non credo che questi ragazzi rimarranno per tanto dentro ai confini dell’uderground, troppo appeal sprigiona la loro musica, così ricca di melodie pop/metal/rock da far muovere il fondo schiena di una statua.

Esordio dunque che più riuscito di così non si può, un perfetto e patinato esempio di hard rock moderno ed irresistibile, tremendamente radiofonico forse anche troppo.
Intendiamoci, Aria For An Angel è il classico disco rock che può tranquillamente far strage di cuori, anche quelli poco avvezzi a sonorità colme di elettricità, la band ha tutto per sfondare, dal songwriting esagerato, colpevole di un lotto di brani indiscutibilmente accattivanti, una bella e brava vocalist e quell’amalgama riuscita in pieno di varie sonorità, che vanno dal metal, al pop, passando a salutare l’alternative in voga in questi ultimi anni.
Il gruppo svedese punta tutto sulla voce splendida e perfetta per il genere proposto di Evelina Eliasson e su di essa costruisce un sound che pesca dal symphonic rock, come dal metal alternative, divagazioni elettroniche, ed un gusto pop da classifica che è il colpevole dell’appeal esagerato di queste dodici canzoni.
Da Healthy Girl, opener dell’album è un susseguirsi di melodie vincenti, ottimi inserti elettronici, e chitarre che all’occorrenza sanno graffiare, mantenendo una media potenza e dando spazio, molto, alla voce che grintosa e suadente si insinua nella testa dell’ascoltatore per non lasciarla più.
Brani da cantare sotto la doccia, chorus che creano dipendenza, tutto costruito per piacere in modo smisurato, lasciando poco all’istinto ed è qui che Aria For An Angel perde qualche punto, perdendo in spontaneità quello che acquista in appeal.
Un dettaglio discutibile senz’altro e che molti di voi non troveranno, persi in questo arcobaleno di melodie che alla lunga tendono ad assomigliarsi in tutta la durata dell’album, ma che sicuramente piacciono.
Difficile trovare una songs che spicca sulle altre, la media è alta e su questo non ci piove, sappiate che tra le note di questa raccolta di brani c’è tanto del metal/rock degli ultimi anni, Evanescence, Lacuna Coil, un pizzico di Halestorm nelle parti più grintose e tanto pop.
Aria For An Angel piace al primo ascolto e fa innamorare: come con le sirene di Ulisse, i più deboli finiranno nelle grinfie degli Haunted By Destiny e saranno perduti.

TRACKLIST
01. Healthy Girl
02. Turning Pages
03. For You
04. Freakshow
05. The Road
06. Gravity
07. Follow
08. Tear (It’s dead)
09. Stand My Ground
10. Someone to die for
11. Secret delight
12. Aria for an angel

LINE-UP
Johan Söderhielm-Guitar
Simon Weston-Guitar
Evelina Eliasson-Vocals
Christian Gardefuhr-Drums
Marcus Karlsson-Johansson-Bas

HAUNTED BY DESTINY – Facebook

Lola Stonecracker – Doomsday Breakdown

Non fatevi mancare l’ascolto di Doomsday Breakdown, regalatevi un po’ di divertimento, ogni tanto ….

Eccoci al cospetto di un’altra band made in Italy dalle potenzialità enormi, una macchina rock’n’roll senza freni che, pescando dall’hard rock degli ultimi trent’anni, rifila una serie di hit esagerati e confezionando un album divertente, passionale, stradaiolo e dannatamente cool.

Nati come cover band dei Guns’n’Roses, i Lola Stonecracker hanno debuttato nel 2011 con un Ep omonimo e da allora incendiano i palchi europei e nostrani in compagnia di nomi altisonanti del rock’n’roll più energico come Faster Pussycat, Reckless Love, la band di Steven Adler (ex drummer dei migliori gunners) e le maestà John Corabi e Gilby Clarke.
Doomsday Breakdown regala un’ora abbondante di street, hard rock a tratti grungizzato da ritmiche grasse, un viaggio saltando dagli eightees al decennio successivo, tra brani di trascinante rock che non dimentica la melodia e neanche i suoni del nuovo millennio.
Quindici brani sono tanti ma l’adrenalina scorre a fiumi in questa raccolta di canzoni che bombardano l’ascoltatore, elettrizzato e sconvolto dal proprio corpo che si dimena suo malgrado, sotto l’effetto dell’opener Jigsaw, Witchy Lady e Generation On Surface, tre brani che scaraventano al tappeto e dai quali in parte ci si rialza con Secret Of The Universe, semi ballad che mi ha ricordato non poco i Candlebox.
Si riparte sull’ottovolante Lola, per altri quattro brani da infarto su cui la title track spicca alla grande, ed è già tempo di riposarci con un’altra incantevole semiballad, All This Time.
Space Cowboys invita al rodeo forte di un riff in slide e c’è ancora tempo, tra le altre, per la cover di Relax, storico hit degli anni ottanta ad opera dei Frankie Goes To Hollywood e Shine, una classica ballad in Bon Jovi style, tanto per ribadire la varietà dei nostri nel miscelare così tante influenze sotto la bandiera dell’hard rock.
Forti di un vocalist (Alex Fabbri) personale e bravissimo nell’interpretare le varie sfumature di un lavoro che definire vario è un eufemismo, i Lola Stonecracker stupiscono, spaziano, si divertono e fanno divertire miscelando le varie influenze e risultando a loro modo originali.
Nel frattempo la band ha fIrmato un accordo con la Atomic Stuff, punto di riferimento per l’hard rock tricolore, che si occuperà della promozione dell’album dando vita ad una partnhership che promette scintille.
Non fatevi mancare l’ascolto di Doomsday Breakdown, regalatevi un po’ di divertimento, ogni tanto ….

Tracklist:
01. Jigsaw
02. Witchy Lady
03. Generation On Surface
04. Secret For A Universe
05. Perils For A Man From The Past
06. Jekyll & Hyde
07. Doomsday Breakdown
08. Mc Kenny’s Place
09. All This Time
10. Space Cowboys
11. Psycho Speed Parade
12. Mistery Soul Maverick
13. Relax
14. Shine
15. Using My Tricks

Line-up:
Alex Fabbri – Vocals
Lorenzo Zagni – Guitars
Giovanni Taddia – Guitars
Diego Quarantotto – Bass
Christian Cesari – Drums

LOLA STONECRACKER – Facebook

Armonight – Who we really are

Come ripartenza non c’è male, i nuovi Armonight vanno a rimpinguare il nutrito numero di band hard rock di spessore del panorama nazionale

Strano il modo del metal/rock, così vario e colmo di strade da intraprendere, tutte non facili sia chiaro, ma stimolanti specialmente per chi sa apprezzare ogni sfumatura che questo meraviglioso mondo riesce a regalare.

Come un cubo di Rubik ogni faccia si interseca perfettamente a quello che dovrebbe per tutti essere lo spirito giusto: fare musica, lasciando da parte disquisizioni superficiali su generi e atmosfere che questa crea per arrivare al cuore della gente ovunque essi siano.
Ecco che una realtà, partita come symphonic gothic band, negli anni si trasforma, cambia pelle, ma il risultato non cambia, buona musica per chi ha orecchie per sentire, più semplice di così!
I vicentini Armonight attivi dal 2007 e con tre album alle spalle, lasciano definitivamente la strada intrapresa ad inizio carriera per rinascere completamente trasformati in una rock’n’roll band.
Per il gruppo è sicuramente un nuovo inizio, per noi ascoltatori dovrebbe essere probabilmente, la scoperta dell’anima finora nascosta degli Armonight, quella più sfacciatamente stradaiola, dove esce tutta la carica e la grinta di cui i musicisti del gruppo sono capaci e a colpi di hard rock ottantiano e americanizzato ci fanno partecipi in questa quarantina di minuti di musica del diavolo a tratti davvero coinvolgente.
Hard rock, blues e tanta attitudine rock’n’roll che sprigiona da questi dodoci brani adrenalinici, dalla voce tremendamente rock della vocalist Sy e dai riff corposi di Fjord e Lara creati dove nasce il Mississipi e sul letto del grande fiume, in viaggio verso il delta si trasformano in incendiarie scale hard rock.
Frens al basso e Hokuto alle tastiere completano la line up e Who We Really Are è pronto per riempire una cinquantina di minuti circa della vostra vita con una raccolta di buone songs, che si rincorrono sulle superstrade americane per un album che trasuda on the road da tutti i pori.
Enorme il riff che introduce Staggering Drunk, ottimo il refrain di The Luck Of Heroes, enorme l’atmosfera blueseggiante della micidiale My Best friend, divertente il rock di Stray Dog Blues e perfetto il solo sul singolo Gypsy Girl, insomma la nuova veste di questa band convince e diverte, lasciando che le ispirazioni per il proprio sound facciano serenamente capolino tra i solchi dei brani( AC/DC, Aerosmith e il dirigibile zeppeliniano sopra a tutti).
Come ripartenza non c’è male, i nuovi Armonight vanno a rimpinguare il nutrito numero di band hard rock di spessore del panorama nazionale, non mi rimane che consigliarvelo e augurare il meglio al gruppo vicentino.

TRACKLIST
1. Boring day
2. Staggering drunk
3. Waiting for tonight
4. The luck of heroes
5. My best friend
6. The stray dog blues
7. Keep out the darkness
8. Gypsy girl
9. So stupid
10. Stay away from me
11. Don’t waste your time
12. Who we really are

LINE-UP
Sy: Vocals
Fjord: Guitar
Lara: Guitar
Frens: Bass
Hokuto: K-board

ARMONIGHT – Facebook

Skip Rock – Take it or Leave it

Un album tra alti e bassi, che si fa ascoltare nelle sue vesti più hard rock oriented e lascia qualcosa indietro quando scende nel mito della frontiera

Duri a morire, il film del regista Sam Raimi, vedeva un nutrito numero di pistoleri duellare in un fantomatico torneo ad eliminazione in una imprecisata cittadina di confine, tra polvere sudore, cowboy dalla mano veloce e palloni gonfiati dalla fine segnata.

Al primo tocco di campana le pistole fumavano ed il risultato era sempre lo stesso, un morto in più e il vincitore che passava il turno in un susseguirsi di confronti da dead or alive.
La colonna sonora di questo western che richiamava non poco la tradizione tutta italiana nel genere, conosciuta come spaghetti western, avrebbe potuto essere tranquillamente questo album, il secondo dei tedeschi Skip Rock, hard rock band che unisce il genere di estrazione classica alla AC/DC e richiami al southern rock e alla tradizione western.
Il gruppo tedesco si definisce metal cowboys, ed in effetti la loro musica richiama le colonne sonore dei film di genere, rafforzata da ruvide iniezioni di rock’n’roll direttamente dalla terra dei canguri e classiche atmosfere southern.
Una Band da raduno, musica per rudi bikers di frontiera, portatori di un’attitudine che fonda le sue radici nella libertà e nella cultura on the road, quaranta minuti da ascoltare con il boccale sempre pieno e la bottiglia di whiskey per finire di bruciare gole arse dal fumo e dalla polvere, sopravvissute a chilometri macinati sulle calde strade di frontiera.
Molto più divertente e scorrevole quando il gruppo ci va pesante, alzando il volume dei propri strumenti( Death or Glory, Motorcycle Man II, Hell Is On Fire) meno quando il sound guarda troppo all’ovest e la musica si avvicina pericolosamente al puro southern rock ( non basta un richiamo al nostro Morricone, o semplici e poco emozionali semiballad, per suonare ottima musica southern/western).
Insomma un album tra alti e bassi, che si fa ascoltare nelle sue vesti più hard rock oriented e lascia qualcosa indietro quando scende nel mito della frontiera, una buona band da da raduni tra omaccioni barbuti, donzelle borchiate, birra a fiumi e colt sempre cariche.

TRACKLIST
1. Intro
2. Tell me why
3. Death or Glory
4. Jesse James
5. Outlaws
6. Motorcycle Man II
7. Rich’n’Nazty
8. Hell is on Fire
9. Too Young
10. Take it or leave it

LINE-UP
Marc Terry – Vocals
Darius Dee – Guitars
Patrick Paul – Bass
Jan Skirde – Drums

SKIP ROCK – Facebook

Reds’ Cool – Press Hard

Siamo al cospetto di una band onesta, ottima erede del sound dei gruppi che hanno fatto la storia dell’hard rock melodico, con uno di quei dischi che non cambieranno la storia del rock, ma che sa farsi piacere, colmo di melodia e ruvida elettricità.

Per chi ha troppi capelli bianchi sulla lunga chioma, o addirittura gli anni hanno lasciato il segno con larghe stempiature al posto dei riccioli neri, sa che anni fa era praticamente impossibile parlare di rock o metal guardando ad est dell’Europa.

Le prime band che si affacciarono sul mercato, furono viste con curiosità e molte volte ironia, uno scherzo parlare di musica del diavolo proveniente dalla madre Russia, o dagli stati vicini, il rock era americano o, al massimo anglosassone, certamente non figlio della steppa.
Le cose negli ultimi anni sono cambiate notevolmente e i paesi dell’est ormai tutti globalizzati, hanno cominciato a sfornare gruppi, molti davvero bravi, in ogni genere di cui il rock ed il metal si nutrono, passando agevolmente da ottime realtà estreme a gruppi di rockers dal riff facile.
I Reds’Cool, fanno parte di quella grossa fetta di musicisti immersi totalmente nell’hard rock, pescando a piene mani dalle due scuole tradizionali; quella americana e quella britannica e confezionando un buon album, chiaramente poco originale, ultra conservatore, ma splendido a livello di sound, piacevole, melodico e sanguigno il giusto per essere consigliato a tutti i fans dell’hard rock classico.
All’ascolto di questa raccolta di brani, confezionati dal quintetto di San Pietroburgo, vi passeranno davanti almeno una trentina d’anni di musica dura, sempre in bilico tra durezza e melodie, ottime songs dall’andamento cadenzato e sanguigni voli verso l’America, facendo scalo in Gran Bretagna, tra Whitesnake, Great White, UFO e compagnia di rockers.
D’altronde quando il lettore comincia a riprodurre le varie  Dangerous One, Brand New Start e Strangers Eyes, il senso di deja’vu è forte, ma viene ben bilanciato dalla buona vena dei musicisti e dall’ottima performance del vocalist, perfetto singer di razza, forgiato alla scuola dei migliori interpreti del genere(Slava Spark).
Siamo al cospetto di una band onesta, ottima erede del sound dei gruppi che hanno fatto la storia dell’hard rock melodico, con uno di quei dischi che non cambieranno la storia del rock, ma che sa farsi piacere, colmo di melodia e ruvida elettricità.
Press Hard merita senz’altro l’interesse dei rockers dai gusti old school, a cui va il mio invito all’ascolto.

TRACKLIST
1.Dangerous One
2.My Way
3.The Way I Am
4.Brand New Start
5.Strangers Eyes
6.Call Me
7.One Night
8.Love Behind
9.No More

LINE-UP
Slava Spark: vocals
Sergey Fedotov: guitar
Ilya “Lu” Smirnov: guitar, backing vocals
Dmitry “Dee” Pronin: bass, backing vocals
Andrey Kruglov: drums

REDS’ COOL – Facebook

Mad Hornet – Would You Like Something Fresh?

Nel genere, i Mad Hornet sono una band dalle potenzialità enormi, davvero bravi quando sputano fuoco dai loro strumenti, eleganti ed emozionali nelle classiche ballad

Andiamo con ordine: i rockers pugliesi Mad Hornet, tra split e reunion sono attivi da quasi dieci anni, un passato demo ne aveva iniziato l’attività per poi, bloccarsi fino a due anni fa e riprendere le danze con una formazione rinnovata, che gira intorno al chitarrista Salvatore Destratis alias Ken Lance.

I ragazzi dell’Atomic Stuff, come falchi a caccia di prede, non si sono fatti sfuggire l’occasione di averli nella loro famiglia e così, questo ottimo esordio sulla lunga distanza, esce sotto l’etichetta bresciana, come sempre molto attenta alle realtà hard rock dalle buone potenzialità.
E il gruppo di Maruggio, paesino in provincia di Taranto, non delude con la sua proposta fatta di tanto hard rock statunitense sempre in bilico tra grinta e melodia, molto anni ottanta, ma fresco come il cocktail raffigurato in copertina, ultimo ricordo di un’estate ormai lontana, ed un inverno che Would You Like Something Fresh? scalderà a colpi hard rock.
Un’esplosione di watts e riff trascinanti si scambiano il testimone con ariose melodie, proprio come il genere vuole e noi non possiamo che sbattere la testa a ritmo delle dinamitarde Your Body Talks, Free Rock Machine e Game Of Death o innondare di lacrime nostalgiche il nostro viso con le bellissime Walking With You (In The Afternoon) e la conclusiva Roses Under The Rain, il tutto suonato alla grande e cantato con passione e bravura dall’ottimo Mic Martini.
Il gruppo ci sa fare, la sei corde di Lance, infiamma cuori e produce energia come un vulcano in eruzione, quando decide che è il momento di rockare, mentre la sezione ritmica il suo lavoro lo fa egregiamente, precisa e senza sbavature la prova del motore della band (El Piamba al basso e Neats Frank alle pelli).
Le influenze sono tutte da riscontrare nel periodo d’oro per i suoni hard & heavy d’oltreoceano, nel decennio ottantiano, anni di pantaloni di pelle che fasciavano ragazze dalle chiome leonine, e quel rock style mai dimenticato, frutto di vite vissute pericolosamente sul Sunset Strip.
Nostalgici? Forse, ma il feeling prodotto da songs come Blue Blood, o la carica di brani alla nitroglicerina come Raise’N’ Do It e la Van Halen oriented Pink Pants School sono patrimonio da conservare gelosamente per ogni rocker degno di questo nome.
Nel genere, i Mad Hornet sono una band dalle potenzialità enormi, davvero bravi quando sputano fuoco dai loro strumenti, eleganti ed emozionali nelle classiche ballad.
Rimane la soddisfazione di incontrare realtà nostrane sempre più sul pezzo quando si tratta di suoni hard rock classici, bravi!

TRACKLIST
1. Would You Like Something Fresh?
2. Your Body Talks
3. Dyin’ Love
4. Blue Blood
5. Free Rock Machine
6. Game Of Death
7. Raise ‘N’ Do It
8. Walking With You (In The Afternoon)
9. Pink Pants School
10. What Is Love [Haddaway cover]
11. Roses Under The Rain

LINE-UP
Mic Martini – Voice
Beats Frank – Drums
El Piamba – Bass
Ken Lance – Guitars

MAD HORNET – Facebook

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Ten – The Dragon And Saint George

Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Dopo moltissimi anni dall’ep che portava come titolo “Fear The Force”, opener del capolavoro “Spellbound” del 1999, i Ten dopo i due ottimi full length, usciti a distanza di sei mesi tra il 2014 e quest’anno (“Albion” e “Isla De Muerta”), confermano una ritrovata voglia di riprendersi lo scettro di regnanti sul melodic hard rock, tornando con questo altro lavoro breve, che ha il suo perno in The Dragon And Saint George, stupendo brano tratto dall’ultimo album.

Il nuovo lavoro è composto da sette tracce, di cui tre inediti, la title track e altri brani usciti come bonus sugli ultimi due album.
La nostra attenzione non può che cadere sulle nuove canzoni, che impreziosiscono e danno un senso a questa operazione, dall’alto della qualità superiore della musica composta dal buon Gary Hughes, tornato ai fasti dei primi lavori in quanto al valore del songwriting.
Musketeers: Soldiers Of The King sembra uscita dalle sessions di The Robe: epica, melodica, interpretata alla grande da uno Hughes stratosferico, tanto che mi chiedo come possa essere stata lasciata per un’uscita “minore”.
Hard rock dalle ritmiche grintose risulta Is There Anyone With Sense, dove Hughes entra con la sua calda voce, prima che uno dei ritornelli più belli degli ultimi anni alzi centimetri di pelle d’oca sulle braccia dell’ascoltatore.
Le chitarre (Dann Rosingana, Steve Grocott e John Halliwell) sono le protagoniste dei nuovi brani ed anche l’ultimo inedito (The Prodigal Saviour) lascia ad un riff fuso nell’acciaio, i primi secondi del brano, che risulta ritmicamente vario, prima che un refrain AOR torni all’hard rock ipermelodico, dove i Ten non trovano avversari.
Le altre tracce riempiono di splendida musica rock, questa mezzora scarsa di hard rock melodico tornato a risplendere nello spartito del gruppo britannico, una band fuori dal comune, anche quando la magia folk/epica di Albion Born (dal penultimo “Albion”) ci disegna nella mente verdi colline, dove guerrieri impavidi riposano le membra dopo una lunga giornata di battaglia, tra castelli a guardia di cristallini laghi persi nella bruma.
Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Tracklist:
1.The Dragon And Saint George
2.Musketeers: Soldiers Of The King
3.Is There Anyone With Sense
4.The Prodigal Saviour
5.Albion Born
6.Good God In Heaven What Hell Is This(12 inch Picture Disc exclusive)
7.We Can Be As One (European Exclusive track to Isla De Muerta)

Line-up:
Gary Hughes – vocals, guitars, backing vocals
Dann Rosingana – Lead guitars
Steve Grocott – Lead guitars
John Halliwell – Rhythm Guitars
Darrel Treece-Birch – keyboards, Programming
Steve Mckenna – Bass guitar
Max Yates – drums and percussion

TEN – Facebook

Motörhead – Bad Magic

Una raccolta di brani che richiamano il tema del diavolo e della magia nera, convogliato in un sound che si fa leggermente più oscuro rispetto alle abitudini del gruppo, rimanendo ancorato però a quell’hard rock strafatto di rock’n’roll e sconvolto da un’attitudine punk che è il marchio di fabbrica dei Motorhead.

Difficile, se non impossibile, parlare di una band storica come i Motörhead di mister Lemmy Kilmister senza cadere nel banale o nel già scritto.

Troppi anni ad incendiare palchi e licenziare album (quest’anno ricorre il 40° anniversario della nascita del gruppo), troppe righe scritte su un uomo sempre in bilico sulla “sottile linea bianca”, ma probabilmente vera ed indiscussa icona del vivere rock’n’roll.
Eppure solo pochi mesi fa sembrava che il buon Lemmy dovesse lasciare le scene, il troppo stroppia anche per lui ed invece, a quasi settantanni, radunata la banda, torna con un nuovo lavoro.
Bad Magic è il ventiduesimo album dei Motörhead, con la coppia Campbell – Dee ad affiancare Lemmy in quello che probabilmente è l’album più riuscito degli ultimi anni.
Prodotto da Cameron Webb nei NRG Studios, l’album parte alla grande con Victory Or Die e non si ferma più, un razzo di rock’n’roll dinamitardo, un pugno in faccia che stordisce, come ai vecchi tempi, grazie a brani travolgenti e dall’impronta live.
Sarà dura per il gruppo scegliere le canzoni da lasciar fuori dalla scaletta dell’imminente tour mondiale, che vedrà il trio di questi inesauribili vecchietti prima girare gli States e poi sbarcare in Europa a novembre, vista la qualità complessiva di Bad Magic.
I primi otto brani sono cavalcate hard & roll tremendamente efficaci e bisogna arrivare alla semi-ballad Till The End per riuscire a tirare un po’ il fiato; Lemmy, con la sua voce sporcata da una vita al limite, continua a dispensare carisma ed i suoi degni compari lo seguono in questa nuova avventura, anche loro in forma splendida,(Phil Campbell è protagonista di un lavoro disumano alla sei corde, mentre Mikkey Dee si conferma picchiatore inesauribile).
L’ospite Brian May sulla roboante The Devil e l’omaggio agli Stones con la cover dell’immortale Sympathy For The Devil, sono le novità di un album dal sound nuovamente votato all’impatto live che ha caratterizzato i migliori lavori di una band che sembra essere rinata dopo un paio di opere zoppicanti come “The Wörld Is Yours” (2010) e “Aftershock”, di due anni fa.
Una raccolta di brani che richiamano il tema del diavolo e della magia nera, convogliato in un sound che si fa leggermente più oscuro rispetto alle abitudini del gruppo, rimanendo ancorato però a quell’hard rock strafatto di rock’n’roll e sconvolto da un’attitudine punk che è il marchio di fabbrica dei Motörhead.
C’è da divertirsi e tanto tra i solchi di Bad Magic, stravolti e cotti da canzoni dinamitarde come Thunder & Lightning, Electricity, l’oscura e “diabolica” Choking On Your Screams e l’esplosiva When The Sky Comes Looking For You.
Dopo un’estate passata a riempire le tasche a bolsi fenomeni da baraccone, è l’ora di tornare a fare sul serio: Bad Magic riconcilia il sottoscritto con i troppi gruppi storici ormai diventati patetiche cover band di se stessi e rifila una lezione di rock’n’roll a cui dovete assolutamente assistere … lunga vita a Lemmy Kilmister.

Tracklist:
1.Victory Or Die
2.Thunder & Lightning
3.Fire Storm Hotel
4.Shoot Out all of Your Lights
5.The Devil
6.Electricity
7.Evil Eye
8.Teach Them How To Bleed
9.Till The End
10.Tell Me Who To Kill
11.Choking On Your Screams
12.When The Sky Comes Looking For You
13.Sympathy For The Devil

Line-up:
Lemmy Kilmister – Bass, Vocals
Phil Campbell – Guitars
Mikkey Dee – Drums

Motörhead – Facebook

Psychedelic Witchcraft – Black Magic Man

Questo 10″ è una carezza, un profondo atto d’amore verso un certo tipo di musica e di retaggio culturale che va dai Black Sabbath a Lucio Fulci, passando per pupille senza colore e sguardi alla volta celeste.

Un salto indietro nel tempo, un disco di razza per una grande cantante ed un gruppo molto valido.

Le atmosfere sono quelle rarefatte e fumose degli anni settanta, con un doom rock in stile Jex Thoth, ma con un’anima maggiormente aperta allo spettro di quegli anni.
Non è un’operazione vintage, ma l’espressione di una grande cultura musicale unita ad una passione fuori dal comune, che è quella di Virginia Monti, giovane donna che sa molto ciò che vuole, e ci porta per mano in un immaginario pagano che è assai più vero e calzante di quello che ci viene propinato ogni giorno.
Questo 10” è una carezza, un profondo atto d’amore verso un certo tipo di musica e di retaggio culturale che va dai Black Sabbath a Lucio Fulci, passando per pupille senza colore e sguardi alla volta celeste.
La produzione rende pienamente merito a questo disco che è senz’altro l’inizio di una grande carriera. Non si può non rimanere impressionati dalla potenzialità di Virginia e del suo gruppo, che sembrano già consumati veterani.
Black Magic Man non ha bisogno di essere gridato o suonato a mille, ha soltanto un vitale bisogno di girare sul vostro giradischi, mentre interrompete lo stupro perpetrato ai vostri danni dalla vita moderna e vi lasciate guidare da Virginia.
Non ci saranno difficoltà ad immergersi in un piacevole liquido, dove il femmineo la farà da padrone, come è giusto che sia, riportando a casa ciò che è nostro e che ci è stato negato da almeno duemila anni.
Bello, piacevole ed è un ep che uscirà questa estate.

Tracklist:
1 Angela
2 Lying on Iron
3 Black Magic Man
4 Slave of Grief

PSYCHEDELIC WITCHCRAFT – Facebook

Graal – Chapter IV

Chapter Iv è il quarto bellissimo lavoro dei romani Graal, uno splendido viaggio tra hard rock, progressive e metal.

Questo bellissimo album è la risposta perfetta a chiunque mi dovesse chiedere quali siano le origini della mia smisurata passione per la musica rock/metal: più di trentacinque anni di una fiamma che dentro di me continua ad ardere, a dispetto delle primavere che passano inesorabili e dei mille problemi che la vita porta con sé.

Lo dico da sempre, le persone che hanno la fortuna di innamorarsi della sublime arte non saranno mai sole e hanno qualcosa in più, se poi questa meravigliosa dipendenza li porta a confrontarsi con svariati generi ancora meglio, perché riusciranno ad assaporare e fare proprie le virtù insite in ogni stile musicale.
E’ così che, passate più di tre decadi a confrontarmi con tutti i generi che l’hard rock e l’heavy metal hanno regalato, davanti ad un lavoro come Chapter IV dei romani Graal è come tornare tra le braccia di una vecchia amante mai dimenticata, passionale, calda e bellissima musa ispiratrice di sogni ora romantici, ora carnali ma tremendamente autentici.
La band romana, al quarto album, festeggia dieci anni di uscite discografiche avendo licenziato il primo lavoro “Realm Of Fantasy” nel 2005, seguito da “Tales Untold” del 2007 e “Legends Never Die” del 2011.
Maturità compositiva ed assoluta padronanza del genere suonato arrivano, con quest’opera, al massimo del loro splendore e ci offrono uno spaccato di musica che miscela metal, hard rock e progressive a cavallo tra ‘70-‘80, trasportandolo nel nuovo millennio per lasciarlo finalmente libero di regalare emozioni mai sopite , tra fughe tastieristiche, chitarroni heavy, ricami folk ed una vena prog entusiasmante.
Cori perfettamente inseriti in canzoni di estrema eleganza, riff e assoli elettrici di scuola heavy britannica, tasti d’avorio che fanno il bello e cattivo tempo, come negli anni in cui spadroneggiavano signori delle keys come Jon Lord e Rick Wakeman, e gustosi inserti folk, sono il ripieno di questi undici confetti musicali che non tralasciano una vena epica e fiera tipica di cavalieri e custodi del Santo Graal.
Un Graal che forse non è una coppa come tutti credono, ma uno spartito dove racchiuse ci sono le note di brani fuori dal tempo come Pick Up All The Faults, Revenge, l’accoppiata capolavoro The Day That Never Ended / Stronger, riassunto compositivo della band dove troverete tracce di Rainbow, Uriah Heep, Yes, con qualche richiamo al blues del serpente bianco era Lord ed un’attitudine heavy sempre presente e mai doma.
L’album continua il suo viaggio tra emozioni e brividi e si arriva così alla celestiale Goodbye, altra canzone capolavoro, dove a fare capolino sono i Genesis di Peter Gabriel, sempre con un taglio da ballad metal ma marchiata a fuoco dalla discografia settantiana della band inglese.
Viviamo in tempi in cui, purtroppo, anche la musica risente della vita frenetica che la società moderna ci impone, sempre alla ricerca del nostro Graal, che poi altro non è che una pace interiore, un attimo per concederci qualcosa che aiuti a sognare: io l’ho trovato, il suo nome è Chapter IV.

Tracklist:
1.Little Song
2.Pick Up All The Faults
3.Shadowplay
4.Revenge
5.The Day That Never Ended
6.Stronger
7.Guardian Devil
8.Lesser Man
9.Last Hold
10.Goodbye
11.A Poetry For A Silent Man
12.Northern Cliff

Line-up:
Andrea Ciccomartino – Voce, Chitarra Rtimca e Acustica
Francesco Zagarese – Chitarra Solista
Michele Raspanti – Basso
Danilo Petrelli – Tastiere
Alex Giuliani – Batteria

GRAAL – Facebook

Bastian – Among My Giants

Riedizione a cura della Underground Symphony del bellissimo album per Sebastiano Conti,che, con il monicker Bastian, raccoglie una manciata di stelle del metal mondiale per regalrci un lavoro sulla scia di Black Sabbath,Dio e Rainbow.

Lo scorso anno uscì, autoprodotto, questo bellissimo lavoro di metal classico e hard rock ottantiano ad opera del chitarrista siciliano Sebastiano Conti che, con il monicker Bastian, riunì un manipolo di stelle come vocalist del calibro di Mark Boals e Michael Vescera, entrambi ex Malmsteen, e batteristi di pari fama quali Vinnie Appice (Black Sabbath e Dio), John Macaluso (Riot, James Labrie, Malmsteen, TNT) e Thomas Lang (Paul Gilbert, Glenn Hughes).

Impreziosito dalla chitarra e dal talento compositivo del musicista nostrano, Among My Giants esplodeva in tutto il suo splendore, una splendida opera che riproponeva i fasti dell’hard rock di metà anni ’80: un tributo al metal più nobile, di cui fu il cordone ombelicale e che portò la nostra musica preferita a viaggiare tra i decenni successivi fino ai giorni nostri.
Un sogno per Sebastiano che si realizzò, circondandosi di musicisti leggendari di cui lui è stato ed è un fan, unendoli sotto il programmatico titolo Among My Giants: un lavoro mastodontico, nel quale Conti si prese cura di tutti i dettagli, regalando ai fortunati ascoltatori più di un’ora di musica immortale.
Purtroppo, senza il concreto supporto di una label alle spalle, l’album rischiava di passare inosservato, annegato nel mare di uscite che ogni giorno si affacciano sul mercato discografico, poco incline alla qualità e molto affascinato dai generi più cool.
Finalmente qualcuno che non sia una piccola ‘zine come la nostra si è accorto di quest’opera: la Underground Symphony, storica label nostrana, ha messo nelle mani di Sebastiano una penna per la firma sul contratto ed è così che Among My Giants esce completamente rinnovato nella sua veste grafica, ma soprattutto lo si potrà trovare in qualsiasi negozio di musica, in modo che chiunque possa avere la possibilità di far suo questo splendido lavoro.
Si potranno assaporare quindi le atmosfere dell’opener Odissey, in pieno stile Black Sabbath era Tony Martin, la fantastica performance del chitarrista su brani come Hamunaptra, Magic Rhyme e Mother Earth, il blues rock di Justify Blues, jam strumentale in compagnia di Giuseppe Leggio alle pelli e Corrado Giardina al basso, le atmosfere cangianti che passano dal metallo epico di Rainbow/Dio, ai ritmi più stradaioli di Sexy Fire e che rendono il lavoro molto vario, toccando vette emozionali altissime nelle due ballad The Fisherman e An Angel Named Jason Becker, dedicata al chitarrista americano.
Un lavoro enorme, un sogno che si è realizzato per il musicista nostrano e che vede i propri sforzi ulteriormente premiati da un contratto e dal vedere la propria opera finalmente a disposizione di tutti gli amanti di queste sonorità.
Non avete più scuse, fate vostro questo album ed anche voi vi troverete “tra i giganti”.

Tracklist:
1.Odyssey
2.Mother Earth
3.Hamunaptra
4.Tamburine Song
5.Secret and Desire
6.Sexy Fire
7.Lights and Shadows
8.Justify Blues
9.Magic Rhyme
10.The Beach
11.The Fisherman
12.Song of the Dream
13.Soul Hunters
14.An Angel Named Jason Becker

Line-up:
Sebastiano Conti – Guitars
Guests:
Michael Vescera – Vocals
Mark Boals – Vocals
Vinnie Appice – Drums
Thomas Lang – Drums
John Macaluso – Drums
Giuseppe Leggio – Drums
Corrado Giardina – Bass

BASTIAN – Facebook

Breakin Down – Judas Kiss

Un altro album da sbattere sul muso di chi afferma che il rock è morto, e questo in particolare, in virtù del suo valore, fa davvero male, molto male.

Che in questi ultimi anni l’hard rock stia vivendo una seconda giovinezza (a livello qualitativo) non è un mistero: dai suoni classici a quelli più moderni il genere sta regalando album in linea con le produzioni passate; certo, le band ai primi posti delle classifiche come negli anni d’oro sono un ricordo, ma le varie reunion e gli ottimi ultimi lavori dei nomi storici, sommato ad una scena underground più che mai viva e di qualità, fanno sperare almeno in uno stabilizzarsi del genere su livelli di popolarità sufficienti per non andare a cercare album tra le edizioni giapponesi, come accadeva negli anni novanta e all’inizio del nuovo millennio.

Via uno, sotto l’altro, ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi in gruppi usciti con lavori esaltanti: i nomi sono tanti, specialmente nella scena nazionale, a cui si aggiungono i sardi Breakin Down con il loro ultimo lavoro dal titolo Judas Kiss.
Nati nell’ormai lontano 1999 da un’idea della coppia Simone Piu (voce e basso) e Francesco Manna(chitarra), iniziano a calcare i palchi della regione come cover band, ma scrivere pezzi propri è un passo obbligatorio, così come assestare la line-up che, nel corso degli anni, vede avvicendarsi vari musicisti della scena isolana.
Il primo lavoro del gruppo esce nel 2011, quando la band vola negli states e con Fabrizio Simoncioni (Ligabue, Litfiba, Negrita tra gli altri) alla produzione incidono Miss California, che li porta in tour per l’Europa calcando inoltre palchi in compagnia di Pino Scotto, Stef Burns, Paolo Bonfanti ed Eric Sardinas.
Veniamo a Judas Kiss: l’album è uno splendido concentrato di hard rock americano, un riassunto di quello che laggiù è stato offerto negli ultimi quarant’anni di musica rock racchiuso in poco più di mezzora di suoni stradaioli, ipevitaminizzati da ritmiche adrenaliniche, watts elargiti a profusione ed un’anima southern che, quando prende il sopravvento, impreziosisce i brani, che siano nati sulle strade assolate della Sardegna o sulle route americane, poco importa.
Da sentire tutto d’un fiato, il lavoro tiene l’ascoltatore in pugno per tutta la sua durata, rapito dal tono sporco e sanguigno di Simone Piu, dalle sei corde grintose che inanellano ritmiche e solos che definirle trascinanti è un eufemismo (Francesco Manna e Mauro Eretta), e stordito dai colpi sul drumkit di Fabrizio Murgia.
Potrei parlarvi dello straordinario rock’n’roll di Babylon Rock City, del riff d’apertura del lavoro su Diamonds And Bitches, brano dal groove micidiale, delle tastiere settantiane nella semiballad The Long Goodbye, delle ritmiche stoner di Liver And Lovers e Rock’N’Roll Is Dead (Kyuss), ma in realtà non c’è una sola canzone, in questo disco, che non meriterebbe una particolare menzione.
Judas Kiss raccoglie l’eredità di Lynyrd Skynnyrd, Rolling Stones, Motorhead, senza dimenticare che siamo ormai nel nuovo millennio, ed allora i Breakin Down lo ammantano di sonorità desertiche alla Kyuss, ottenendo per un risultato stupefacente.
Un altro album da sbattere sul muso di chi afferma che il rock è morto, e questo in particolare, in virtù del suo valore, fa davvero male, molto male.

Tracklist:
1.Diamonds And Bitches
2.Judas Kiss
3.Dangerous Rose
4.Blood And Blood
5.The Long Goodbye
6.Home Sweet Hell
7.Babylon Rock City
8.Liver And Lovers
9.Woman
10.Sometimes
11.Rock’n’Roll Is Dead
12.Texas Radio

Line-up:
Simone Piu- Basso Voce
Francesco Manna-Chitarra
Mauro Eretta-Chitarra
Fabrizio Murgia-Batteria

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Nightraid – Nightraid

Demo d’esordio per i rockers umbri Nightraid.

I ternani Nightraid arrivano al demo d’esordio con il loro convincente hard rock cantato in italiano: fondati dall’ottimo vocalist Andrea, con un passato nel death metal, dopo aver trovato nel chitarrista Alessandro il partner giusto per portare avanti il progetto, la band nasce per fare rock’n’roll con gli attributi, in due parole hard rock.

Il duo nel frattempo diventa un quintetto, cambiando diversi elementi nella line-up e girando per i locali suonando cover di Ozzy, Motorhead e Pino Scotto, l’influenza maggiore sui brani di questo demo.
Al gruppo si aggiungono infine Andrea alla chitarra, Leonardo al basso e Filippo alle pelli, ed è con questa formazione che incidono i brani racchiusi in questo composto da quattro brani di hard rock senza compromessi e dall’ottimo groove.
Pino Scotto fa da ideale padrino alle canzoni, sia musicalmente sia per l’ugola sporca e grintosa del vocalist, ottimo interprete di botte d’adrenalina come Stand By, Nightraid e Misteri, ma tra i solchi delle tracce affiorano riff rimembranti i fratelli Young e ritmiche motorheadiane per un risultato trascinante, specialmente nei primi tre brani.
Il lavoro si chiude con l’ottima semiballad Indians, heavy nel bellissimo solo e interpretata con piglio guerresco dal frontman, risultando il brano top della band, per niente ruffiana ma intensa nel suo incedere ed impreziosita dall’ottimo testo.
Un inizio niente male per il combo umbro: con passione ed attitudine da vendere ed una manciata di buone canzoni da portare in giro, questo demo si può considerare un ottimo inizio.

Tracklist:
1.Stand By
2.Nightraid
3.Misteri
4.Indians

Andrea – voce
Alessandro – chitarra
Leonardo – basso
Andrea – chitarra
Filippo – batteria

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