Esogenesi – Esogenesi

I quattro lunghi brani, inframmezzati da un breve strumentale, testimoniano in ogni frangente lo spessore già ragguardevole raggiunto dagli Esogenesi al loro primo passo, sicuramente non più lungo della gamba in quanto preparato con tempi debitamente lunghi come si conviene a chi si dedica ad un genere per sua natura antitetico a tutto ciò che appare frettoloso o superficiale.

E’ arrivato così il momento di sedersi un’ultima volta davanti a una tastiera cercando di raccontare su MetalEyes, a chi abbia voglia di leggere, tutta la gamma di sensazioni e riflessioni che scaturiscono dall’ascolto di un disco.

Quello in questione è l’esordio dei milanesi Esogenesi, giovane band che sceglie di cimentarsi nel genere più anticommerciale per antonomasia in ambito metal, come è il doom nella sua veste più estrema.
La ricerca di un’espressione artistica “impopolare” conferisce ai nostri quella dose di peculiarità che, per i motivi che ho già spiegato diverse volte, non va ricercata in questa dolente nicchia musicale e, quindi, neppure si evince dal contenuto musicale di un lavoro che trae linfa dalla tradizione del death doom rielaborandone i dettami con una competenza degna dei veterani della scena e con una convinzione ed efficacia che non lasciano mai alcun dubbio sulla riuscita delle operazione.
Infatti Esogenesi è un album roccioso, a tratti crudo, strettamente basato sull’intreccio tra le chitarre ed una base ritmica che viene portata in grande evidenza negli schemi compositivi esibiti dalla band lombarda; se, da un lato, non troviamo particolari concessioni ad aperture atmosferiche, non si rinviene neppure uno sbilanciamento eccessivo verso l’asprezza del death: il risultato è conseguentemente caratterizzato da un magistrale equilibrio delle componenti chiamate in causa, in virtù di un riffing pesante e cadenzato ma non del tutto scevro di una sua idea melodica, sebbene ben racchiusa da uno spesso bozzolo attraverso il quale talvolta si fa spazio tramite notevoli passaggi di chitarra solista (vedere il finale della magnifica Decadimento Astrale) o momenti delicatamente rarefatti (il primo minuto e mezzo di Esilio Nell’Extramondo).
Come si può intuire anche dal titolo del brano appena citato, il concept degli Esogenesi ruota attorno al significato del loro monicker ed è quindi legato a tematiche che che travalicano i confini terreni per veleggiare negli infiniti spazi dell’universo (con testi in italiano violentati dal profondo growl di Jacopo Marinelli); nonostante questo, il death doom proposto non si ammanta di un’aura cosmica o psichedelica, ed è proprio per la sua efficace essenzialità e ortodossia che l’operato del quartetto differisce da quello di altre realtà contigue al genere nella nostra penisola come (Echo), Plateau Sigma, Il Vuoto o Fuoco Fatuo, tutte in un modo o l’altro orientate ad inserire nel proprio sound suggestioni tipiche del post metal oppure pulsioni prossime al funeral (specie gli ultimi).
I quattro lunghi brani, inframmezzati dal breve strumentale …Oltregenesi…, testimoniano in ogni frangente lo spessore già ragguardevole raggiunto dagli Esogenesi al loro primo passo, sicuramente non più lungo della gamba in quanto preparato con tempi debitamente lunghi come si conviene a chi si dedica ad un genere per sua natura antitetico a tutto ciò che appare frettoloso o superficiale: il quintetto milanese si va ad aggiungere ai nomi citati (e ad altri che ho tralasciato) andando a rimpolpare una scena funeral/death doom che in Italia sta finalmente cominciando ad assumere le sembianze di un movimento a tutti gli effetti e non più l’isolato frutto della sensibilità artistica di uno sparuto manipolo di musicisti.

Nota a margine dell’articolo:
Come anticipato nelle prime righe, questa è l’ultima recensione che viene pubblicata sulle pagine virtuali di MetalEyes, e personalmente, mi piace l’idea di aver chiuso questa avventura parlando di una band all’esordio che continua ad alimentare il genere che più amo. Doom on!

Tracklist
1.Abominio
2.Decadimento Astrale
3….Oltregenesi…
4.Esilio Nell’Extramondo
5.Incarnazione Della Conoscenza

Line up
Jacopo Marinelli – Vocals, lyrics
Ivo Palummieri – Lead Guitar
Davide Roccato – Rhythm Guitar
Carlo Campanelli – Bass
Michele Adami – Drums

ESOGENESI – Facebook

Krypts – Cadaver Circulation

Titolo appropriato per un’opera di death doom fangosa, gelida e putrescente.I Krypts, al loro terzo album, si dimostrano ispirati e dannatamente angoscianti.

Il metallo della morte e la Dark Descent proseguono il loro insano rapporto per portare ai nostri padiglioni auricolari quanto di meglio il panorama death mondiale possa proporre; avvicinarsi al catalogo della label americana per un cultore dell’estremo significa rimanere estasiati e sconvolti dalla bontà delle proposte e io non ricordo una solo opera che non mi abbia soddisfatto appieno.

Anche stavolta il piatto proposto è cucinato con ingredienti di alta qualità e i finlandesi Krypts, già dal 2013 attivi per questa etichetta con Unending Degradation, ci riportano in territori death costantemente affogati in putrescenze doom; nessun lato melodico classicamente inteso, qui la materia è carnale,viscerale , la morte si stacca letteralmente da ogni nota e ci fa sentire il suo fetore. Il quartetto finlandese, da sempre guidato dal vocalist e bassista Antti Kotiranta, ci ha sempre nutrito con questa malsana miscela sonora dove la pesantezza e la soffocante lentezza rendono l’aria irrespirabile e priva di luce e anche questa volta ci offrono un trip similare, in cui sono amalgamati ed equliibrati al meglio tutti gli ingredienti usati. Rispetto al precedente e notevolissimo Remnants of Expansion del 2016, forse, ma si tratta di minuzie, la direzione sonora è appena più ragionata, non mancano momenti più classicamente death come l’inizio di Sinking Transient Waters ma la matrice sonora rimane sempre quella sinistra e terrificante del death doom, le cui decelerazioni fangose e glaciali fanno accapponare la pelle e raggelare il sangue.Un brano come Echoes Emanate Forms, con il suo lento e inesorabile incedere, tramortisce ogni resistenza. Questa è musica che ha il compito di aprire portali dove orrori soprannaturali attendono di poter passare; la band conosce molto bene la materia, è sempre ispiratissima e in scarsi quaranta minuti colpisce senza fare prigionieri. Siamo in terre battute in passato da acts quali Incantation e dai greci Dead Congregation nei loro momenti più lenti e riflessivi, il tutto condito da melodie malsane, paludose e ferali come solo in Finlandia riescono a creare (ricordiamoci di Hooded Menace e Swallowed). Sei brani di media lunghezza con punte notevoli in Vanishing, immane allucinazione, e Circling the Between, glaciale e misteriosa nel suo sviluppo. Altra grande conferma per questi artisti finlandesi: bisognerà ricordarsi anche di loro nelle classifiche di fine anno.

Tracklist
1. Sinking Transient Waters
2. The Reek of Loss
3. Echoes Emanate Forms
4. Mycelium
5. Vanishing
6. Circling the Between

Line-up
Jukka Aho – Guitars
Otso Ukkonen – Drums
Ville Snicker – Guitars
Antti Kotiranta – Vocals, Bass

KRYPTS – Facebook

October Tide – In Splendor Below

In Splendor Below è senza dubbio un disco che merita d’essere ascoltato e che, probabilmente, convincerà pienamente più di un ascoltatore ma per quanto mi riguarda l’appuntamento con un nuovo capolavoro, se non all’altezza almeno vicino a Rain Without End, è nuovamente rimandato alla prossima occasione.

Riguardo agli October Tide ho sempre avuto la sensazione di essere al cospetto di una bella incompiuta, almeno prendendo in considerazione gli album pubblicati dopo la reunion del 2010, considerando i due lavori del secolo scorso (in particolare il magnifico Rain Without End) un qualcosa a sé stante.

La band dei fratelli Norrman si è sbarazzata piuttosto in fretta, in questo decennio, del potenziale fardello emotivo del death doom più cupo spingendo il sound verso un death melodico, comunque oscuro, che finisce per restare a metà strada tra le due vie maestre senza optare in maniera decisa per una di esse.
Il risultato non può certo definirsi insoddisfacente perché la risaputa maestria di questi musicisti garantisce appieno riguardo la qualità sonora espressa, però quel che resta alla fine dell’ascolto di In Splendor Below è quella di un album roccioso, ineccepibile a livello formale ma privo sia dei segnanti spunti emotivi del doom sia delle inarrestabili cavalcate tipiche del melodic death.
Stars Starve Me, per esempio, è un brano potente e accattivante ma che, a un certo punto, si avvita invece di proseguire con decisione sulla strada inizialmente intrapresa con quello che è forse il chorus più catchy dell’intero lavoro. Meglio, quindi, una traccia più cupa come We Died in October, il cui diritto di cittadinanza in abito death doom non viene mai messo in discussione grazie a un lavoro chitarristico più dolente e al notevole growl di Alexander Högbom, oppure Our Famine, dai ritmi ben più rallentati che riportano l’album in ambiti più prossimi al passato degli October Tide, o ancora la più dissonante e conclusiva Envy the Moon.
Poi è innegabile che canzoni come I, the Polluter e Guide My Pulse esibiscano quell’impatto tipico del death melodico che non è nelle corde di una band qualsiasi, per cui a livello di consuntivo In Splendor Below non può che essere considerato un lavoro più che mai riuscito e privo di particolari pecche.
L’unico vero appunto che mi permetto di fare a musicisti inattaccabili come i fratelli Norrman è che, ascoltando questo lavoro, non emerge un forte tratto distintivo tale da rendere immediatamente riconoscibile il sound, nonostante si parli di una band che ha raggiunto quasi un quarto di secolo di attività.
Per il resto, In Splendor Below è senza dubbio un disco che merita d’essere ascoltato e che, probabilmente, convincerà pienamente più di un ascoltatore ma per quanto mi riguarda l’appuntamento con un nuovo capolavoro, se non all’altezza almeno vicino a Rain Without End, è nuovamente rimandato alla prossima occasione.

Tracklist:
1. I, the Polluter
2. We Died in October
3. Ögonblick av nåd
4. Stars Starve Me
5. Our Famine
6. Guide My Pulse
7. Seconds
8. Envy the Moon

Line-up:
Fredrik “North” Norrman – Guitars
Mattias “Kryptan” Norrman – Guitars
Alexander Högbom – Vocals
Johan Jönsegård – Bass
Jonas Sköld – Drums

OCTOBER TIDE – Facebook

Marianas Rest – Ruins

Ruins va ben oltre le già elevate aspettative, proiettando i Marianas Rest ai vertici di una scena melodic death doom che, in Finlandia, pare davvero attingere ad un filone aureo apparentemente inesauribile.

Dopo un primo album splendido come Horror Vacui, pubblicato nel 2016, c’era una certa attesa per una sorta di prova del nove che per una band è il secondo full length, quello che ha il compito di consolidare e magari evolvere quanto di buono già mostrato in occasione dell’esordio.

Ruins in realtà va ben oltre le aspettative, proiettando la band finlandese ai vertici di una scena melodic death doom che, nella terra dei mille laghi, pare attingere ad un filone aureo apparentemente inesauribile.
I Marianas Rest si presentano con Kairos, un brano che per ritmica ed interpretazione vocale mostra più di una inclinazione black che ben si sposa con l’incedere ricco di tensione, addolcita con il contributo melodico di un sempre superbo lavoro chitarristico; la successiva canzone, The Spiral, è un’altra delle travi portanti del lavoro, in virtù di uno sviluppo a tratti più pacato ma altamente drammatico.
Dopo aver regalato un quarto d’ora di musica magnificamente intensa il gruppo finnico continua a sciorinare brani che non lasciano spazio ad indugi o riempitivi: i ritmi tendono mediamente ad accelerare senza che, però, il senso di malinconia che pervade l’intero lavoro finisca per essere messo in secondo piano; tra queste tracce spicca una trascinante Unsinkable, che appare l’ideale sintesi di un sound che collega al meglio il tragico incombere dei migliori Swallow The Sun con la vocazione melodica degli Insomnium.
Quando si arriva al termine di un’altra gemma come Restitution, ben più che soddisfatti di quanto già ascoltato, con la traccia conclusiva Omega l’archiviazione di Ruins come ottimo disco viene messa in discussione visto che tale valutazione rischia di apparire persino ingenerosa: il brano capolavoro trova spazio proprio in coda, con il suo crescendo emotivo irresistibile che conduce ad un finale dominato da un lunghissimo e commovente assolo di chitarra.
Come l’aquila, che è il simbolo ed il nome in lingua madre della loro città, Kotka, i Marianas Rest spiccano un maestoso volo verso le vette più altre del genere, sedendosi con pari dignità allo stesso tavolo di quelle band che hanno rappresentato la naturale quanto inevitabile fonte d’ispirazione.

Tracklist:
1. Kairos
2. The Spiral
3. Hole in Nothing
4. The Defiant
5. Unsinkable
6. Shadows
7. Restitution
8. Omega

Line-up:
Harri Sunila – Guitars
Nico Mänttäri – Guitars
Jaakko Mäntymaa – Vocals
Nico Heininen – Drums
Niko Lindman – Bass
Aapo Koivisto – Keyboards

MARIANAS REST – Facebook

Flesh Temple – Fire, Promise…

Nel complesso questo ep deve essere valutato positivamente nella sua veste di prima uscita per i Flesh Temple: i tre brani sono piuttosto efficaci pur se non ancora in grado di lasciare un segno indelebile.

E’ dallo stato dell’Alberta che ci giunge questa nuova proposta all’insegna del death doom: ne è autore Eli Elliott, che fa tutto da solo in occasione di questa prima uscita del suo progetto Flesh Temple.

Il musicista canadese è attivo anche nel duo black metal Mausoleum e, in effetti, certe accelerazioni ritmiche che si ascoltano nel corso di Fire, Promise… sono riconducibili a questo retaggio; tutto ciò rende sicuramente interessante questa prima prova che appare più sbilanciata sul versante estremo del sound rispetto a quello più malinconico e dolente tipico del doom, anche se nella title track l’incedere si fa a tratti più riflessivo lasciando spazio ad apprezzabili passaggi di chitarra solista.
Nel complesso questo ep deve essere valutato positivamente nella sua veste di prima uscita per i Flesh Temple: i tre brani sono piuttosto efficaci pur se non ancora in grado di lasciare un segno indelebile, penalizzati anche da una produzione che in certi frangenti mette troppo in primo piano il suono della batteria finendo per lasciare sullo sfondo gli altri strumenti e la voce.
Comunque le basi poste da Elliott per questa sua nuova avventura appaiono piuttosto solide, per cui non resta che attenderne i futuri sviluppi.

Tracklist:
1.Conduit
2. Tears
3. Fire, Promise

Line-up:
Eli Elliott- All instruments

Amber Tears – When No Trails

When No Trails (Когда нет троп) non delude le aspettative con i suoi cinque brani intensi, emozionanti e rivestiti di quella patina pagan folk che rende sufficientemente peculiare la proposta degli Amber Tears

Dopo nove anni di silenzio tornano i russi Amber Tears (Янтарные Слезы), band che tra il 2006 ed il 2010 regalò agli appassionati di doom due splendidi lavori come Revelation Of Renounced e The Key To December.

When No Trails (Когда нет троп) non delude le aspettative con i suoi cinque brani intensi, emozionanti e rivestiti di quella patina pagan folk che rende sufficientemente peculiare la proposta della band proveniente dalla lontana Penza.
Rispetto agli esordi la line up è rimasta pressoché immutata, fatto salvo il ruolo di bassista che è sempre stato l’unico soggetto a cambiamenti, e questa coesione è percepibile all’interno di un lavoro non troppo lungo e che non mostra punti deboli di sorta.
Come sempre gli Amber Tears si esprimono o lingua madre, così come la grafica e il nome stesso della band e dell’album vengono esibiti in cirillico, ma come da convenzione e per comodità utilizziamo la traslitterazione in inglese, per cui dovendo menzionare i brani chiave di When No Trails non possiamo che citare le due perle intitolate Where I Stayed e Where There Is No Spring, tracce dalla melodie struggenti e solenni che spiccano rispetto ad una scaletta comunque di assoluto livello, nella quale solo Under The Stars Light non raggiunge l’eccellenza distaccandosi forse un po’ troppo dalle coordinate abituali del sound.
Il ritorno di questa ottima band è l’ennesima buona notizia di un 2019 che che sta regalando gioie una dopo l’altra agli appassionati del doom e si può scommettere che non sia affatto finita qui …

Tracklist:
1 Спой Ветер, Спой Ворон (Sing The Wind, Sing The Raven)
2 Где Я Остался (Where I Stayed)
3 В Вихре Прошлых Дней (In The Whilwind Of The Last Days)
4 Под Светом Звезд (Under The Stars LIght)
5 Там, Где Нет Весны (Where There Is No Spring)

Line-up:
Viktor Kulikov – Drums
Dmitry Schukin – Guitars (lead)
Alexey Rylyakin – Guitars (rhythm)
Anton Bandurin – Vocals
Evgeny Zorichev – Bass

Urza – The Omnipresence Of Loss

The Omnipresence Of Loss si rivela un lavoro senz’altro riuscito anche se, per le sue caratteristiche, la durata che supera di poco l’ora ne rende piuttosto impegnativo l’ascolto.

Di norma accogliamo sempre con grande soddisfazione l’apparizione di nuove band dedite al funeral death doom, tanto più poi se al primo full length l’etichetta che ne cura l’uscita è una garanzia come la Solitude.

I tedeschi Urza, come prevedibile, non deludono e si rendono protagonisti di un lavoro decisamente degno della fiducia a loro accordata dalla label russa.
La band berlinese, in effetti, sarebbe attiva già da alcuni anni ma come sempre la gestazione nel doom non è mai breve per definizione, per cui dopo il singolo Path Of Tombs, pubblicato lo scorso anno, arriva ora l’esordio su lunga distanza The Omnipresence Of Loss che, già nell’ultima parola del titolo, porta con sé qualche indicazione utile a inquadrare il sound visto che l’omonima band statunitense è senz’altro uno dei vari punti di riferimento per gli Urza.
Il sound offerto è aspro, dalle poche divagazioni melodiche ma comunque non troppo monolitico né rallentato, offrendo nei limiti delle coordinate del genere una certa varietà ritmica con il ricorso a qualche corrosiva accelerazione così come a più liquidi e rarefatti passaggi.
La già citata Path Of Tombs è decisamente la traccia guida dell’album grazie alla presenza di una linea melodica più definita rispetto al tetragono andamento degli altri quattro brani. D’altronde il background di gran parte degli esperti musicisti coinvolti nel progetto è soprattutto di matrice death (anche se il chitarrista Oliver Schreyer ha fatto parte della line up degli Ophis in occasione del full length d’esordio Stream Of Misery) e questo spiega in parte come il funeral degli Urza appaia più robusto e meno dolente rispetto a quanto siamo abituati ad ascoltare. The Omnipresence Of Loss si rivela un lavoro senz’altro riuscito anche se, per le sue caratteristiche, la durata che supera di poco l’ora ne rende piuttosto impegnativo l’ascolto.

Tracklist:
1 Lost In Decline
2 A History Of Ghosts
3 Path Of Tombs
4 From The Vaults To Extermination
5 Demystifying The Blackness

Line-up:
Marc Leclerc – Bass
Hannes – Drums
Oliver Schreyer – Guitar
Marcus – Guitars
Thomas – Vocals

URZA – Facebook

Caustic Vomit – Festering Odes to Deformity

I Caustic Vomit, rispetto a molti dei validi interpreti del death doom più incompromissorio, mostrano spunti di varietà che ben si inseriscono all’interno di un contesto che, comunque, mette la melodia decisamente in secondo piano a favore dei risvolti più ruvidi del genere.

La Redefining Darkness Records, etichetta specializzata nella ricerca di realtà nascoste nei meandri più reconditi del sottosuolo musicale porta in superficie i russi Caustic Vomit i quali si rendono protagonisti di un demo d’esordio davvero notevole.

Il monicker scelto lascia pochi dubbi sul sound offerto che è un death doom primordiale soffocante, con il growl rantolante tipico delle forme più estreme del genere.
I tre brani si snodano mediamente per una decina di minuti ciascuno con il primo, Immured in Devouring Rot, che pare attingere maggiormente dalla scuola britannica dei primi anni novanta per gli accentuati rallentamenti nel finale, il secondo, Churning Bowel Tunnels, che risulta invece un esempio del più putrido death, ed il terzo, Once Coffined Malformities, che oscilla infine tra queste diverse pulsioni regalando anche intriganti parti di chitarra solista nel finale. I Caustic Vomit, rispetto a molti dei validi interpreti del death doom più incompromissorio, mostrano spunti di varietà che ben si inseriscono all’interno di un contesto che, comunque, mette la melodia decisamente in secondo piano a favore dei risvolti più ruvidi del genere.

Tracklist:
1. Intro / Immured in Devouring Rot
2. Churning Bowel Tunnels
3. Once Coffined Malformities

Line-up:
M. – Bass
L. – Drums, Lyrics
R. – Guitars
S. – Guitars, Vocals

0N0 – Cloaked Climax Concealed

Gli 0N0 sono una band che merita un approfondimento retrospettivo alla luce di quanto offerto in questa concisa ma interessante uscita.

Gli slovacchi 0N0 mi erano fino ad oggi sconosciuti nonostante la loro attività sia piuttosto consistente.

Questo 7″ arriva dopo due full length ed alcune altre uscite di minor minutaggio ed è una buona opportunità per fare la conoscenza di un gruppo che prova ad interpretare la materia death doom inserendovi massicce dosi di industrial, andando così a costruire due brevi quanto incisivi monoliti sonori in cui le due componenti confluiscono in maniera soddisfacente e abbastanza fluida.
Cloaked Climax Concealed non contiene memorabili aperture melodiche o un riffing cadenzato ed avvolgente, bensì offre dieci minuti di austera e gelida incomunicabilità resa al meglio da un buon operato strumentale e da una produzione che evita al tutto di apparire un un’inintelligibile coacervo di suoni.
Il primo brano The Crown Unknown è decisamente più urticante e squadrato mentre nel successivo Hidden In The Trees (Sail this Wrecked Ship) fanno capolino barlumi melodici nel finale, complice un diverso uso della voce rispetto al corrosivo growl offerto fino a quel momento.
Gli 0N0 sono una band che merita un approfondimento retrospettivo alla luce di quanto offerto in questa concisa ma interessante uscita.

Tracklist:
1. The Crown Unknown
2. Hidden In The Trees (Sail this Wrecked Ship)

Line-up:
S – Vocals
A – Guitars, Vocals
T – Guitars, Vocals, Programming

0N0 – Facebook

 

Ataraxie – Résignés

Il funeral death doom qui perde qualsiasi recondita connotazione consolatoria, per lasciare spazio ad un rabbioso disgusto che non rifugge del tutto aperture melodiche volte ad evocare solo disperazione piuttosto che un autoindulgente malinconia.

I francesi Ataraxie si sono ormai consolidati da tempo come una delle più efficaci ed importati band funeral doom europee, in virtù di poche ma mirate uscite disseminate nel corso del nuovo secolo.

Slow Transcending Agony e Anhedonie sono considerati, a ragione, album fondamentali nell’evoluzione del genere, così come anche il successivo in ordine di tempo, L’Être et la Nausée: con tali premesse era più che lecito attendersi una nuova esibizione di forza da parte del gruppo di Rouen.
Dopo aver sviscerato i diversi stati d’animo confluenti in un diffuso malessere esistenziale, gli Ataraxie ci raccontano oggi della rassegnazione di fronte all’ineluttabilità di una fine per certi versi anche auspicata, alla luce di una razza umana che mai come oggi sembra avviata verso una relativamente rapida (e meritata) estinzione.
Il funeral death doom qui perde qualsiasi recondita connotazione consolatoria, per lasciare spazio ad un rabbioso disgusto che non rifugge del tutto aperture melodiche volte ad evocare solo disperazione piuttosto che un autoindulgente malinconia.
People Swarming, Evil Ruling è un brano di rara durezza, grazie al quale i riff squadrati si abbattono come la mannaia del boia sugli sventurati che rassegnati attendono il loro turno, come raffigurato in copertina: la nuova formazione a tre chitarre, in tal senso, porta alle sue estreme conseguenze la potenza di un sound che a tratti assume le sembianze di un minaccioso rombo, come nella title track che sfocia in un crescendo spasmodico nel suo finale, lasciando sul terreno solo macerie bagnate da sangue e lacrime.
L’uscita del membro fondatore Sylvain Esteve ha portato in formazione altri due chitarristi, Julien Payan e Hugo Gaspar, ad affiancare Frédéric Patte-Brasseur, che con Jonathan Thery (basso e voce) e Pierre Senecal (batteria) costituisce oggi il nucleo storico della band, e ciò, se da una parte può aver rallentato il processo compositivo per il nuovo lavoro, d’altra parte ha conferito al sound una robustezza ed una solidità che rasentano la tetragonia; anche in Coronation of the Leeches, che prende avvio con più rarefatti arpeggi, è la possanza dei riff unita all’impietoso growl di Thery la costante di una struttura compositiva che concede i rari passaggi dal più dolente incedere nella conclusiva Les affres du trépas, venticinque minuti che prosciugano dal punto di vista psichico senza concedere illusori barlumi di speranza bensì ammantandosi dell’opprimente solennità che sfocia in un funeral dai connotati quanto mai disperati.
Il senso di vuoto, la rassegnazione, appunto, è tutto ciò che resta agli esseri umani, scadenti comparse di quel film dozzinale dall’impossibile lieto fine che è la loro permanenza sul pianeta: gli Ataraxie, tra i possibili dolenti cantori di questa millenaria tragedia, si confermano in assoluto tra i migliori.

Tracklist:
1.People Swarming, Evil Ruling
2.Résignés
3.Coronation of the Leeches
4.Les affres du trépas

Line-up:
Jonathan Thery – Bass & Vocals
Frédéric Patte-Brasseur – Guitars
Hugo Gaspar – Guitars
Julien Payan – Guitars
Pierre Senecal – Drums

ATARAXIE – Facebook

Chalice Of Suffering – Lost Eternally

Lost Eternally eleva i Chalice Of Suffering ai livelli più alti nel genere: il sound della band statunitense, in virtù del suo incedere più ragionato, sembra davvero differenziarsi dai modelli presi a riferimento i cui contenuti vengono rielaborati  con una cifra stilistica che appare quanto mai personale.

Qualche anno fa, in occasione dell’album d’esordio For You I Die, in sede di recensione mi espressi moto favorevolmente sui Chalice Of Suffering,  nuova creatura dedita al death doom più atmosferico guidata da JohnMcGovern.

La peculiarità della band del Minnesota era quella di essere, in qualche modo, differente dalle altre, in virtù di un approccio atmosferico che, anche grazie al profondo recitato del vocalist, assumeva quasi i contorni di una sorta di dolorosa colonna sonora di un esistenza quanto mai grigia.
Dopo l’uscita di quell’album John ha dovuto affrontare problemi di salute piuttosto seri che, per fortuna, oggi sembrano superati e questo sembra aver ancor più acuito la sua sensibilità artistica: Lost Eternally è un concentrato di atmosfere plumbee e dolenti, melodicamente intense e praticamente quasi mai spinte su versanti estremi sia a livello ritmico che chitarristico (qui la coppia già collaudata nel precedente lavoro, formata da Nikolay Velev e Will Maravelas, si rende protagonista di un ottimo lavoro).
Altro valore aggiunto in questa occasione è quello costituito dalla partecipazione di diversi vocalist in qualità di ospiti e questo, ovviamente, rende ancor più interessante il tutto andando ad integrare al meglio il growl declamatorio di McGovern.
In the Mist of Once Was, traccia d’apertura scelta anche per esser accompagnata da un video, delinea in maniera chiara quale sarà l’impronta del lavoro, anche se qui il tocco in più fornito dal contributo delle bagpipes suonate da Kevin Murphy appare tutt’altro che secondario: il tradizionale strumento a fiato scozzese, infatti, rispetto all’album precedente appare perfettamente coeso con il dolente tessuto sonoro.
Come in buona parte degli altri lunghi brani (che si assestano mediamente sui dieci minuti ciascuno, a parte gli ultimi due relativamente più brevi) il sound sembra snodarsi placido per insinuarsi lentamente nell’immaginario dell’ascoltatore, il quale verrà poi scosso emotivamente da un magnifico crescendo finale; così avviene nella magnifica Forever Winter, che assieme alla successiva title track rappresenta il fulcro centrale di un album che qualsiasi amante del doom più evocativo ed atmosferico non potrà non apprezzare. Con l’eccezione di Miss Me, But Let Me Go, traccia leggermente più sostenuta a livello ritmico che, non a caso, vede la partecipazione di un musicista di estrazione death come l’indiano The Demonstealer, Lost Eternally è un fluttuante viaggio all’interno di sensazioni e turbamenti in grado di minare a turno le certezze di ognuno e che, nella poetica di McGovern, finiscono per fondersi in un unico drammatico sentire.
Lost Eternally eleva i Chalice Of Suffering ai livelli più alti nel genere: il sound della band statunitense, in virtù del suo incedere più ragionato, sembra davvero differenziarsi dagli storici modelli presi a riferimento i cui contenuti vengono rielaborati  con una cifra stilistica che appare quanto mai personale.

Tracklist:
1. In the Mist of Once Was
2. Emancipation of Pain
3. Forever Winter
4. Lost Eternally
5. The Hurt
6. Miss Me, But Let Me Go
7. Whispers of Madness

Line-up:
John McGovern – Vocals
Will Maravelas – Guitars/Keyboards
Aaron Lanik – Drums
Nikoley Velev – Guitars/Keys/Drums (on The Hurt, Lost Eternally, Emancipation of Pain)
Neal Pruett – Bass
Kevin Murphy – Bagpipes (on In the Mist of Once Was)

Guests:
Danny Woe of Woebegone Obscured (on Emancipation of Pain)
Demonstealer of Demonic Resurrection (on Miss Me, But Let Me Go with John)
Giovanni Antonio Vigliotti of Somnent (on Lost Eternally with John)
Justin Buller of Wolvenguard/In Oblivion (on The Hurt)

CHALICE OF SUFFERING – Facebook

Endimion – Latmus

Latmus si dipana per circa un’ora di musica destinata a restare confinata, a livello di ascolti, entro i confini degli appassionati più accaniti del genere i quali, comunque, non resteranno delusi da una prova di buona sostanza.

Ritroviamo i cileni Endimion a ben otto anni dall’uscita del precedente full length che aveva messo in evidenza luci ed ombre di una proposta ancora troppo abbozzata per potersi rivelare competitiva nel contesto del death doom internazionale.

Latmus mostra un naturale quanto auspicato progresso, pur senza smarrire le caratteristiche di un sound ancora volutamente privo di fronzoli e spunti atmosferici.
Il genere, nell’interpretazione di questa band sudamericana, vive di un impatto piuttosto ruvido nel quale il riffing è il growl spingono il tutto verso il lato più estremo del genere; con tutto ciò, però, il sound appare meglio focalizzato e non del tutto scevro di aperture melodiche o acustiche.
L’utilizzo della lingua spagnola fornisce pur sempre una connotazione particolare a un sound che convince molto più che in passato grazie a una maggiore fluidità nell’alternare le diverse componenti.
Palabra vacías è un brano che si rivela abbastanza esaustivo in tal senso, in quanto mostra diversi spunti di pregio che non vengono confermati da una traccia inizialmente piuttosto tetragona per poi aprirsi melodicamente grazie a buon lavoro chitarristico.
Latmus si dipana, così, per circa un’ora di musica destinata a restare confinata, a livello di ascolti, entro i confini degli appassionati più accaniti del genere i quali, comunque, non resteranno delusi da una prova di buona sostanza.
Detto questo gli Endimion, anche nell’ambito di una scena fertile come quella doom cilena, restano un gruppo di seconda fascia ma non per questo meritano d’essere trascurati

Tracklist:
1. Ascenso
2. Palabra vacías
3. Vigilia
4. Espectro
5. Efialtis
6. Arpegios de viento
7. Eones de piedra
8. Naos Katara
9. Orgasmos de Selene
10. Contemplación

Line-up:
Matias Ibañez – Vocals
Francisco Campos – Guitars
Victor Ibañez – Bass
Fabian Alarcon – Drums
Tomas Ibañez – Guitars

ENDIMION – Facebook

Horrisonous – A Culinary Cacophony

Band da non perdere di vista per un auspicato passo avanti verso una personalità più accentuata, gli Horrisonous convincono comunque e si meritano una chance dagli amanti del death/doom di matrice old school.

Si chiamano Horrisonous, vengono dall’Australia e suonano death/doom come si faceva nei primissimi anni novanta, aggiungendo al sound pesantissimo tematiche gore.

Niente di nuovo sotto il sole di Sydney dirà qualcuno, ed effettivamente il quintetto proveniente dalla terra dei canguri si impossessa di una formula consolidata e suona metal estremo con poca fantasia, ma tanta potenza ed impatto.
Piace questo debutto, intitolato A Culinary Cacophony e licenziato dalla Memento Mori, primo full lenght del gruppo dopo l’ep d’esordio uscito nel 2016 (The Plague Doctors), un lavoro che torna a valorizzare quel tipo di sound che dagli inossidabili Asphyx porta agli Incantation ed ai tedeschi Incubator.
Massiccio e senza alcuna possibilità di trovare la minima melodia i più facile ascolto, A Culinary Cacophony ha il pregio di far dimenticare presto la sua totale devozione alle band citate, affascinando dopo pochi ascolti grazie a brani potentissimi e ben strutturati come Perpetual Mincing, Flesh Presented for Orgasmic Torment e la conclusiva The Number of the Feast.
Band da non perdere di vista per un auspicato passo avanti verso una personalità più accentuata, gli Horrisonous convincono comunque e si meritano una chance dagli amanti del death/doom di matrice old school.

Tracklist
1.Kuru Worship
2.The Gavage
3.Perpetual Mincing
4.A Tale of Matriphagy
5.Flesh Presented for Orgasmic Torment
6.Crispy Chunks of the Obese
7.Nourishment Through Excrement
8.The Number of the Feast

Line-up
Bianca Jamett – Bass
Stuart Prickett – Guitars
Dan Garcia – Guitars
Yonn McLaughlin – Vocals
Aled Powell – Drums

HORRISONOUS – Facebook

Onirophagus – Endarkenment (Illumination Through Putrefaction)

Endarkenment possiede le caratteristiche per trascinare chiunque nel gorgo di oscurità che gli Onirophagus riescono a creare, magari senza strabiliare e men che meno mostrando bagliori di novità, ma offrendo con competenza e convinzione quelle sonorità che affondano le loro nodose radici negli anni novanta, con un occhio di riguardo ai primi vagiti della sacra triade albionica.

Endarkenment (Illumination Through Putrefaction) è il secondo full length di questa band catalana dedita ad un death doom piuttosto tradizionale ed equilibrato tra le sue componenti.

Offrire quattro brani per quasi un’ora di musica, come sempre, crea una certa selezione naturale tra i potenziali ascoltatori ma non è certo cosa che possa spaventare o scoraggiare chi ama il genere.
Endarkenment possiede, infatti, tutte le caratteristiche per trascinare chiunque nel gorgo di oscurità che la band di Barcellona riesce a creare, magari senza strabiliare e men che meno mostrando bagliori di novità, ma offrendo con competenza e convinzione quelle sonorità che affondano le loro nodose radici negli anni novanta, con un occhio di riguardo ai primi vagiti della sacra triade albionica.
Con ben tre chitarristi in formazione il riffing degli Onirophagus si rivela molto incisivo ed efficace e, in quei rari momenti in cui viene dato sfogo a passaggi solisti, le melodie che ne scaturiscono sono piuttosto dolenti ed avvolgenti: questo rende tutto l’insieme molto meno ostico da recepire rispetto a quanto prefigurato viste le premesse e le caratteristiche del sound offerto.
Dysthanasia, Book of the Half Men e la lunghissima title track sono tracce più rallentate e pachidermiche, mentre prossima a certo death dai tratto morbosi è Dark River, probabilmente l’episodio di punta in virtù appunto di una maggiore sintesi e varietà ritmica.
Il growl di Paingrinder è quanto serve per dare voce al meglio ad una proposta del genere, che segna il ritorno della band a ben sei anni dal precedente full length con una formazione per metà nuova, il che rende Endarkenment una sorta di ideale ripartenza eseguita con il piede giusto.

Tracklist:
1. Dysthanasia
2. Book of the Half Men
3. Dark River
4. Endarkenment

Line-up:
Paingrinder – vocals
Moregod – guitars
Uretra – drums
Desecrator – guitar
Grindmad – bass
Shogoth – guitar

ONIROPHAGUS – Facebook

Illimitable Dolor – Leaden Light

Il death doom atmosferico degli Illimitable Dolor trova qui la sua ideale sublimazione, grazie ad un songwriting che in ogni suo frammento è finalizzato ad evocare emozioni struggenti, anteponendo l’aspetto melodico a qualsiasi altra sfumatura stilistica.

Quando gli Illimitable Dolor circa due anni fa apparvero sulla scena, nonostante il valore intrinseco del bellissimo album d’esordio, c’era la sensazione che potessero rappresentare solo un estemporaneo progetto parallelo ai The Slow Death, band che forniva buona parte della line up, in virtù anche delle motivazioni che erano alla base della loro formazione, ovvero l’omaggio a quello che fu per anni il vocalist di quella band, Greg Williamson, scomparso nel 2014.

In realtà, l’uscita di diversi singoli e lo split album con i Promethean Misery hanno mantenuto ben attivo il gruppo, cosicché questo nuovo Leaden Light non arriva inatteso ma costituisce ugualmente una piacevole sorpresa.
Infatti il death doom atmosferico degli Illimitable Dolor trova qui la sua ideale sublimazione, grazie ad un songwriting che in ogni suo frammento è finalizzato ad evocare emozioni struggenti, anteponendo l’aspetto melodico a qualsiasi altra sfumatura stilistica.
Ciò che ne deriva sono cinquanta minuti nel corso dei quali il genere viene offerto al suo massimo livello sconfinando sovente nel funeral a livello ritmico e mantenendo sempre al massimo la tensione emotiva.
Leaden Light, in fondo, dimostra che per scrivere un grande disco in ambito doom non serve fare voli pindarici ma è sufficiente incanalare l’ispirazione all’interno di una struttura ben delineata che non lascia spazio a divagazioni, volta com’è ad avvolgere l’ascoltatore in una cappa di malinconia che alla lunga diviene un confortevole approdo.
Gli Illimitable Dolor, che oggi al trio dei fondatori Stuart Prickett (chitarra e voce), Yonn McLaughlin (batteria e voce) e Dan Garcia (basso) aggiungono il tastierista Guy Moore, prendono il meglio delle band europee ed americane dedite al genere, vi inseriscono quella dose necessaria di plumbea drammaticità dei conterranei Mournful Congregaton e da tutto ciò fanno scaturire cinque tacce stupende, commoventi e cullanti, tra le quali spiccano l’opener Armed He Brings The Dawn, la traccia più lunga del lavoro, con la quale gli australiani avviluppano in maniera irrimediabile l’ascoltatore nelle loro spire per poi annichilirlo emotivamente con il capolavoro Horses Pale And Four, semplicemente una delle migliori dimostrazioni di funeral/death doom atmosferico ascoltate negli ultimi tempi.
Leaden Light è l’ennesimo grande disco che il genere sta offrendo in questo periodo e, ovviamente, chi ama simili sonorità non può fare a meno di gioire soprattutto quando proposte di tale livello non provengono dai nomi più noti e consolidati della scena, bensì da band relativamente nuove e sicuramente meno conosciute: la certezza che queste sonorità saranno il nostro consolatorio rifugio anche negli anni a venire, è una delle poche che ci restano di questi tempi, per cui teniamocela ben stretta …

Tracklist:
1. Armed He Brings The Dawn
2. Soil She Bears
3. Horses Pale And Four
4. Leaden Light Her Coils
5. 2.12.14

Line-up:
Stuart Prickett – Guitars, Vocals (The Slow Death, Horrisonous)
Yonn McLaughlin – Drums, Vocals (The Slow Death, Nazxul)
Dan Garcia – Bass (The Slow Death)
Guy Moore – Keyboards (ex-Elysium)

ILLI MITABLE DOLOR – Facebook

Maestus – Deliquesce

Un atmosferico funeral doom è quanto ci offrono gli statunitensi Maestus: imponenti squarci strumentali evocativi,intrisi di romantica oscurità.

Importante e significativa seconda opera degli statunitensi Maestus, band formatasi nel 2013 e autrice nel 2015 del buon debutto Voir Dire; la materia trattata dagli artisti di Portland non è di immediata fruizione e tanto meno veloce assimilazione.

Il funeral doom offre tanto a livello sensoriale, ma come già affermato in passato, ha bisogno di dedizione, di attenzione, di una sensibilità particolare, non è per le masse ma per chi ama ascoltare con il cuore, lasciandosi travolgere da onde emotive di alto livello siano esse nostalgiche, amare, angoscianti e intrise di “extreme darkness”. Il quintetto statunitense, tra cui spicca la figura del bassista dei Pillorian, dimostra di avere buone frecce nel suo arco e in quattro lunghi brani, in media sopra i dieci minuti, propone un suono cangiante, con molte sfumature che esprimono la voglia dei musicisti di accostarsi anche ad altri suoni siano essi black e death. La band è capace di essere aggressiva e potente, ma il lato atmosferico è prevalente, l’amalgama tra le chitarre e le tastiere, suonate magnificamente da Sarah Beaulieu, raggiunge forti livelli di intensità e maestosità mantenendo alta l’attenzione e donanodoci un lavoro significativo. Ampi squarci strumentali ci rammentano quanto sia stata importante l’opera dei seminali Shape of Despair nella formazione musicale dei musicisti; il suono del piano all’inizio e alla fine della title track dona un tocco romantico a un brano estremamente coinvolgente ed evocativo. La capacità di variare l’atmosfera all’interno delle tracce, così come la versatilità dei due fratelli vocalist impreziosisce la struttura sonora mantenendo la tensione sempre alta e ricca di interesse. I cinquanta minuti di Deliquesce rappresentano la quintessenza dell’arte di una band che sta seguendo un proprio percorso, cercando una personalità definita. In definitiva i Maestus sono da seguire con attenzione e sono certo che chi ha a cuore l’ascolto di queste sonorità non mancherà l’appuntamento con la loro arte.

Tracklist
1. Deliquesce
2. Black Oake
3. The Impotence of Hope
4. Knell of Solemnity

Line-up
SP – Guitars, Keyboards, Vocals
KRP – Bass, Vocals
NK – Guitars
SB – Keyboards
CC – Drums

MAESTUS – Facebook

Lysithea – Star-Crossed

Star-Crossed è un lavoro maturo e impeccabile sotto tutti i punti di vista, e potrebbe essere l’opera ideale per portare definitivamente il nome dei Lysithea all’attenzione anche degli appassionati europei.

Nati come progetto solista di natura esclusivamente strumentale del neozelandese Mike Lamb, dal 2014 i Lysithea sono diventati un duo con l’approdo anche alla voce di Mike Wilson, compagno di Lamb negli ottimi Sojourner.

Negli ultimi tre full length, quindi, il death doom melodico della band di Dunedin ha assunto una fisionomia meglio definita ed anche più appetibile per un mercato comunque ristretto come quello riguardante tali sonorità.
Star-Crossed mette in mostra una notevole maestria nel maneggiare la materia in virtù di una serie di brani in cui confluiscono gli insegnamenti delle migliori band di settore, anche se come spesso accade chi proviene dall’Oceania tende a guardare maggiormente alla scuola statunitense piuttosto che a quella europea, ed ecco quindi che sono soprattutto i Daylight Dies a fungere quale ideale punto di riferimento.
È anche vero però che il sound dei Lysithea, in tale commistione, si nutre sovente più del melodic death che non del gothic doom e questo conferisce al tutto una buona fruibilità che non va comunque a discapito di un malinconico incedere, che si accentua a partire dallo strumentale Celeste e che si fortifica con le sue ultime tracce Unearthly Burial
e Fever Dream che vedono un incremento della drammaticità del sound.
Star-Crossed è un lavoro maturo e impeccabile sotto tutti i punti di vista, e potrebbe essere l’opera ideale per portare definitivamente il nome dei Lysithea all’attenzione anche degli appassionati europei.

Tracklist:
1. An Empty Throne
2. Away
3. The Longing
4. Celeste
5. Unearthly Burial
6. Fever Dream

Line-up:
Mike Lamb – All instruments
Mike Wilson – Vocals, All instruments

LYSITHEA – Facebook

Abyssic – High The Memory

Quasi un’ora e venti di musica può sembrare un’enormità, ma non lo è affatto quando viene esibita in maniera così fluida e l’audience possiede il giusto approccio al genere: ciò che meraviglia è appunto il fatto che in un lavoro di tali dimensioni non vi siano cali di tensione, specialmente nei due brani più lunghi che superano entrambi i venti minuti di durata.

Gli Abyssic sono a loro modo una novità in ambito doom, in quanto fondono in maniera mirabile l’incedere rallentato del funeral con gli spunti sinfonici del black metal norvegese.

Non è un caso, del resto, se la band vede quale fondatore Memnoch, già membro oltre che dei notevoli Susperia anche degli Old Man’s Child di Galder, dei quali ha fatto parte anche il ben noto drummer Tjodalv (Dimmu Borgir) che assieme al tastierista Andre Aaslie (Funeral), alla bassista Makhashanah (ex Sirenia) e all’altro chitarrsta Elvorn, anch’egli nei Susperia, va a completare la line-up di quello che potrebbe sembrare a prima vista una sorta di supergruppo black metal e che, invece, è autore di uno degli album più solenni e luttuosi usciti quest’anno.
Quale possibile termine paragone per l’operato degli Abyssic si potrebbe prendere l’ultima opera dei redivivi Comatose Vigil (con il suffisso A.K.) con la differenza sostanziale di un approccio molto meno soffocante, favorito da un lavoro delle tastiere che sposta il sound su un piano atmosferico piuttosto che orrorifico o funereo.
High The Memory va ad aggiungersi allo splendido esordio del 2016 A Winter’s Tale, esaltando come in quell’occasione il tocco di Aaslie e, in generale, di tutta una band composta da musicisti di spessore asserviti alla creazione di brani lunghi, avvolgenti e melodicamente ineccepibili.
Quasi un’ora e venti di musica può sembrare un’enormità, ma non lo è affatto quando viene esibita in maniera così fluida e l’audience possiede il giusto approccio al genere: ciò che meraviglia è appunto il fatto che in un lavoro di tali dimensioni non vi siano cali di tensione, specialmente nei due brani più lunghi come la title track o Where My Pain Lies, che superano entrambi i venti minuti di durata.
Gli Abyssic portano alle estreme conseguenze livello melodico il pathos che sono stati capaci di creare in passato band come gli Ea o i Monolithe; peraltro, proprio con questi ultimi, i norvegesi intraprenderanno in primavera un tour europeo che farà tappa in Italia il prossimo 18 aprile allo Slaughter di Paderno Dugnano: una serata che si preannuncia imperdibile per gli amanti di queste magnifiche sonorità.

Tracklist:
1. Adornation
2. High the Memory
3. Transition Consent
4. Where My Pain Lies
5. Dreams Become Flesh

Line-up:
Memnock – vocals, contrabass
Elvorn – guitars
Andre Aaslie – keys, orchestration
Tjodalv – drums
Makhashanah – bass, additional vocals

ABYSSIC – Facebook

 

A Sad Bada / Infame / Goethya / Aura Hiemis – 4 Ways To Die

4 Ways To Die si rivela uno spaccato attendibile dello stato di salute di una scena che si conferma in grande fermento e ricca di band dal potenziale probabilmente ancora inespresso.

L’etichetta cilena Australis Records sta facendo un gradissimo lavoro begli ultimi tempi, volto a portare alla luce il maggior numero possibile di band che affollano il sottobosco underground delle nazione sudamericana che possiede la scena più attiva in ambito metal estremo.

Il genere trattato in questo 4 Ways To Die è il doom, radicato con forza in un paese che ha dato i natali a realtà seminali quali Ppema Arcanus e Mar de Grises, ad altre affermate come i Procession o in grande ascesa come Mourning Sun e Lapsus Dei, con la proposta che vede raggruppate quattro band capaci di offrire il genere nelle sue diverse sfumature.
Si parte quindi con due brani degli A Sad Bada, con It’s Just My Blood,breve traccia inedita a base di un urticante e pesantissimo sludge, e You Must Know, singolo uscito nel 2017 e qui riproposto nei suoi dodici minuti all’interno dei quali diviene preponderante un’anima post metal sempre opportunamente sporcata da fangosi riff.
Gli Infame appaiono molto più grezzi e meno predisposti ad aperture pseudo melodiche, infatti Putrido Reflejo e Planicies de Locura vengono letteralmente ingerite e poi vomitate da questo duo di Antofagasta che offre il meglio nel secondo dei due brani, in virtù di un sound più avvolgente e rallentato.
Dei Goethya nulla si sa, salvo che il brano proposto è una incompromissoria tranvata di oltre un quarto d’ora il cui titolo (Bilis Negra Sofocante) lascia poco spazio all’immaginazione, anche se non mancano momenti di discontinuità rispetto ad un sound che oscilla tra death e doom ma che nella fase centrale della traccia regala incisivi e reiterati passaggi di chitarra solista.
I più noti del quartetto di band incluse in 4 Ways To Die sono comqune gli Aura Hiemis, alla luce di quindici anni di attività che hanno fruttato quattro full length e del fatto che il leader V. ha fatto parte per un certo periodo dei citati Mar De Grises; quello offerto in questo caso è un più classico ed organico death doom, decisamente meglio prodotto e in generale più curato rispetto ai brani ascoltati in precedenza
Visceral Laments Pt II è un traccia notevole per intensità, varietà ed interpretazione vocale, e lo stesso si può dire anche per Broken Roots; insomma, il livello si alza notevolmente forse anche perché le sfumature del genere si prestano maggiormente ad un sound più organico e ben focalizzato.
Detto ciò, 4 Ways To Die si rivela uno spaccato attendibile dello stato di salute di una scena che si conferma in grande fermento e ricca di band dal potenziale probabilmente ancora inespresso.

Tracklist:
1. A Sad Bada – It’s Just My Blood
2. A Sad Bada – You Must Know
3. Infame – Putrido reflejo
4. Infame – Planicies de locura
5. Goethya – Bilis negra sofocante
6. Aura Hiemis – Visceral Laments Pt II
7. Aura Hiemis – Broken Roots

Line-up:
A Sad Bada
Gastón Cariola – Guitars
Fernando Figueroa – Guitars, Vocals
Roberto Toledo – Bass
Alejandro Ossandon – Drums

Infame
D.A. – Guitars, Drums, Vocals
I.M. – Guitars, Vocals

Aura Hiemis
V. – Bass, Keyboards, Drum programming, Vocals, Guitars

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INFAME – Facebook
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