Mist – Free Me Of The Sun

Free Me Of The Sun è un buonissimo primo passo su lunga distanza per le Mist, alle quali vanno accreditati anche ampi margini di miglioramento in considerazione di un’età media piuttosto bassa, specialmente se rapportata ad un genere per sua natura appannaggio di musicisti ben più maturi anagraficamente.

Mist è il nome di questa band slovena composta da quattro ragazze e solo un elemento maschile, per cui più opportunamente le chiameremo d’ora in poi “le” Mist, a maggior ragione visto che nella sua prima incarnazione la line up era completamente al femminile.

Il genere offerto è un doom quanto mai tradizionale che si snoda nel solco dei Candlemass, così come dei Black Sabbath e dei Pentagram, con la peculiarità che viene ovviamente fornita dalla voce di Nina Spruk, stentorea sacerdotessa alla quale viene demandato il compito di officiare un rito che conosciamo tutti a memoria ma al quale si partecipa sempre molto volentieri.
Free Me Of The Sun è un album che consolida una certa fama acquista con l’ep Inan’ del 2015 ed un’attività live intensa e gratificante, essendo stata svolta sovente i compagnia dei nomi più illustri del genere.
I dieci brani, mai troppo lunghi, testimoniano la competenza e la forza di questo gruppo che non delude le aspettative, offrendo una prova del tutto soddisfacente anche per i palati più esigenti in ambito doom: detto della notevole prova della vocalist, va rimarcato anche il tocco chitarristico tutt’altro che banale del “beato tra le donne” Blaž Tanšek, con tale connubio che offre frutti molto prelibati nella splendida Demonized, mentre la più rarefatta e conclusiva title track fornisce garanzie sulla costante ricerca di spunti evocativi da parte della band.
Free Me Of The Sun è quindi un buonissimo primo passo su lunga distanza per le Mist, alle quali vanno accreditati anche ampi margini di miglioramento in considerazione di un’età media piuttosto bassa, specialmente se rapportata ad un genere per sua natura appannaggio di musicisti ben più maturi anagraficamente.

Tracklist:
1. The Ghoul
2. Ora Pro Nobis
3. White Torch
4. December
5. Altar of You
6. Disembody Me
7. The Offering
8. Demonized
9. Delirium
10. Free Me of the Sun

Line-up:
Neža Pečan – Bass
Mihaela Žitko – Drums
Ema Babošek – Guitars (rhythm), Vocals (backing)
Nina Spruk – Vocals
Blaž Tanšek – Guitars (lead)

MIST – Facebook

2018

Yob – Our Raw Heart

E’ sempre una esperienza spirituale di alto livello l’ascolto di una nuova opera della band statunitense. Un autentico capolavoro capace di rendere la nostra vita migliore!

E’ sempre una esperienza spirituale di alto livello l’ascolto di una nuova opera della band statunitense di Eugene, Oregon; gli Yob giungono all’ottavo album in studio approdando alla Relapse, label sempre attenta al meglio dell’estremo in musica.

Il trio condotto da sempre da Mike Scheidt, nella sua lunga storia (che parte dal 2000), ha portato la musica doom a un livello superiore sfornando opere avvincenti, sempre tese alla ricerca dell’inesplorato, toccando con maestria e ispirazione vette trascendentali e cosmiche; l’ascolto di perle come Catharsis (2003) o di tellurici dischi come Atma (2011), giusto per nominarne un paio, sono necessari per capire al meglio cosa voglia dire suonare puro doom. L’opera attuale, Our Raw Heart, giunge dopo un periodo molto travagliato della vita del gruppo: il leader Mike, a inizio 2017, ha avuto importanti e gravi problemi di salute con un lungo ricovero in ospedale prima di poter affermare di essere nuovamente in forze. Tutta questa situazione ha avuto chiaramente risvolti nella creazione dell’album che dimostra, come sempre, grande ispirazione con i suoi riff massivi e potenti, con le sue ritmiche varie e tonitruanti ma aggiunge anche una sincera e autentica introspezione nelle avvincenti e pensierose linee vocali di Mike, che canta con un trasporto da far accapponare la pelle. Si può cogliere in ogni nota una sincera emozione che spinge il lavoro su lidi forse meno trascendenti, più terreni e diretti. Non mancano di certo i momenti potenti che ci hanno fatto amare la band, vedi l’opener Ablaze, ma The Screen, oscura e ipnotica, alza l’asticella a livelli molto superiori. Sette brani, quasi 75 minuti di musica, dimostrano la grande voglia di scrivere dei Yob, come ad affermare la volontà di sopravvivere evidente nelle note dilatate e notturne di Lungs Reach, che esplode in un rauco e lacerante growl. Le emozioni non mancano ma gli abbondanti sedici minuti di Beauty in Falling Leaves danno il colpo di grazia, con note di chitarra di una delicatezza e dolcezza indicibile, ricordando la sublime Marrow del disco precedente; la voce del protagonista è emozionale, autentica, figlia di una sofferenza profonda prima di esplodere in …your heart brings me home… dove il nostro cuore è ridotto in brandelli dalla carica di un brano che cresce lentamente, portandoci in un mondo di stati d’animo difficili da descrivere. La title track aggiunge ulteriori vibrazioni positive dimostrando una volta ancora che l’arte, quando deriva dalla vita reale raggiunge sublimi sensazioni. Autentico capolavoro capace di rendere la nostra vita migliore.

Tracklist
1. Ablaze
2. The Screen
3. In Reverie
4. Lungs Reach
5. Beauty in Falling Leaves
6. Original Face
7. Our Raw Heart

Line-up
Mike Scheidt – Guitars, Vocals
Travis Foster – Drums
Aaron Rieseberg – Bass

YOB – Facebook

Void Of Silence – The Sky Over

The Sky Over è uno degli album più commoventi ascoltati nell’ultimo decennio e regala quasi un’ora di musica dalla bellezza abbacinante.

Il ritorno dei Void Of Silence, otto anni dopo l’ultimo full length The Grave of Civilization, non può che rappresentare un evento per tutti gli appassionati di doom che attendevano da diversi anni un nuovo album della band romana.

Chi aveva già iniziato a disperare al riguardo ha ottenuto segnali confortanti alcuni mesi fa con l’uscita dei Towards Atlantis Lights, sorta di supergruppo che vedeva all’opera Ivan Zara assieme ad altri illustri esponenti della scena funeral/death doom internazionale, come Kostas Panagiotou e Riccardo Veronese.
Ed è cosi che, come auspicato, la consolidata partnership tra il chitarrista e Riccardo Conforti ha offerto un nuovo funereo lavoro che eguaglia (e a tratti supera anche) per intensità un album celebrato come Human Anthitesis.
Luca Soi (ex-Arcana Coelestia) alla voce, infatti, si rivela il valore aggiunto fondamentale per rendere ancor più evocativo il sound dei Void Of Silence che, forse come mai in passato, trova sfogo in brani intrisi di un afflato melodico dolente ed atmosferico.
Il lungo e inarrestabile crescendo emotivo di The Void Beyond è una prima testimonianza di lacerante struggimento emotivo, nella quale il vocalist raggiunge vette di lirismo incredibili a suggellare le magnifiche intuizioni strumentali di Zara e Conforti.
Fondamentalmente il disco vive di tre momenti chiave corrispondenti ad altrettanti brani di durata superiore al quarto d’ora: la già citata traccia d’apertura e le altre due gemme intitolate The Sky Over e Farthest Shores
La prima rappresenta il momento melodico più alto del lavoro, grazie ad un Ivan Zara che inanella assoli di dolente e cristallina bellezza, mentre la seconda rimane sulle stesse coordinate di evocativa solennità, ideale colonna sonora di un concept dedicato a tutti quei personaggi che, perennemente in bilico su quella sottile linea di confine che divide l’eroismo dall’incoscienza, sfidarono nel primo novecento i ghiacci artici con spedizioni audaci e spesso risoltesi in maniera tragica.
Ecco perché il sound dei Void Of Silence appare più angosciante che drammatico, e non è difficile, immergendosi nell’ascolto di queste note, visualizzare per esempio il tenace peregrinare sul pack alla ricerca di una via di salvezza da parte dei componenti della spedizione di S.A Andrée, ingegnere svedese promotore di un visionario tentativo di sorvolare il Polo Nord a bordo di un’instabile mongolfiera.
The Sky Over è uno degli album più commoventi ascoltati nell’ultimo decennio in ambito doom (anche se poi di fronte ad opere di tale spessore le etichette lasciano il tempo che trovano): prodotto ed eseguito in maniera superba, il lavoro offre quasi un’ora di musica dalla bellezza abbacinante, come lo era la luce che gli esploratori dispersi nelle distese artiche si trovavano sempre dinnanzi sulla linea dell’orizzonte; non a caso è appunto lo splendido strumentale intitolato White Light Horizon a suggellare un’esperienza d’ascolto indimenticabile ed imperdibile.

Tracklist:
1. The Void Beyond
2. Abeona (or Quietly Gone in a Hiatus)
3. The Sky Over
4. Adeona (or Surfaced as Resonant Thoughts)
5. Farthest Shores
6. White Light Horizon

Line-up:
Luca Soi – Vocals
Riccardo Conforti – Drums, Keyboards, Samples
Ivan Zara – Guitars, Bass

VOID OF SILENCE – Facebook

Witchkiss – The Austere Curtains Of Your Eyes

L’atmosfera è la cosa più importante, e gli Witchkiss con il loro suono e la voce femminile riescono a creare una sorta di sospensione spazio temporale che fa stare bene l’ascoltatore, nonostante si viaggi nelle tenebre.

I Witchkiss vengono da Beacon nella valle dell’Hudson, stato di New York, e sono fra le sorprese sonore di questi ultimi tempi.

Il trio propone uno sludge doom lento e possente, come un incedere di demoni che non lasciano scampo alla loro preda. Questo debutto ha impiegato molto tempo per vedere la luce, ma ne è valsa totalmente la pena. Il disco ha una profondità ed una fisicità davvero eccezionali. Si passa da un lenta e devastante pesantezza, a momenti acustici vicini al neofolk, sempre tenendo fede al verbo metallico. I Witchkiss riescono a creare un insieme sonoro davvero profondo e adatto a quel pubblico musicale che chiede molto alla musica che ascolta. Il gruppo è stato fondato da Scott Prater e dalla sua compagna nella vita e qui batterista Amber Burns, ai quali si è aggiunto al basso Anthony Di Blasi, con l’intento di fare qualcosa di pesante ed importante, riuscendoci perfettamente. Il disco ha diversi livelli di ascolto, dato che si snoda su piani differenti. L’atmosfera è la cosa più importante, con il loro suono e la voce femminile riescono a creare una sorta di sospensione spazio temporale che fa stare bene l’ascoltatore, nonostante si viaggi nelle tenebre. Potrebbe sembrare un qualcosa come gli Yob meno statici ma al contempo maggiormente doom. Sicuramente questo disco non è un prodotto comune ma riesce ad arrivare dove pochi arrivano, e garantisce una moltitudine di ascolti. I Witchkiss pubblicano un debutto  notevole, a cui prestare molta attenzione ma soprattutto da ascoltare.

Tracklist
1.A Crippling Wind
2.Blind Faith
3.Death Knell
4.Spirits of the Dirt
5.Seer
6.A Harrowing Solace

Line-up
Amber Burns
Scott Prater
Anthony DiBlasi

WITCHKISS – Facebook

Obsolete Theory – Mudness

Mudness è un lavoro pressoché perfetto nel quale, all’interno di una base black metal, confluiscono death e doom amalgamati da un senso della melodia non comune, capace di rendere ognuno dei cinque lunghi brani altrettanti episodi in grado di nobilitare, da soli, un intero album.

Il full length d’esordio per questa band milanese rappresenta una delle tipiche folgorazioni alle quali si viene periodicamente sottoposti, e che è uno dei motivi (se non IL motivo) per il quale si spende buona parte del proprio tempo nell’ascoltare musica inedita proposta da realtà note a pochi.

Mudness è un lavoro pressoché perfetto nel quale, all’interno di una base black metal, confluiscono death e doom amalgamati da un senso della melodia non comune, capace di rendere ognuno dei cinque lunghi brani (dieci minuti medi di durata) altrettanti episodi in grado di nobilitare, da soli, un intero album.
Il bello è che, oltretutto, gli Obsolete Theory ci offrono un album in costante crescendo, visto che la partenza affidata a Salmodia III e Six Horses Of Death è all’insegna di un black relativamente più canonico, pur se proposto nella sua forma maggiormente atmosferica e ricca di punteggiature di varia natura, fino ad arrivare, attraverso la ruvida Dawn Chant (in qualche modo debitrice dei Forgotten Tomb), alla splendida Sirius’ Blood, maiuscola prova di black doom melodico che è nelle corde solo di chi possiede un talento compositivo superiore alla media, e alla conclusiva The God With The Crying Mask, che si snoda invece tra sfumature post black.
Mudness dimostra come sia ancor possibile muoversi all’interno del genere risultando freschi ed imprevedibili senza per forza spingersi su lidi avanguardistici: la bravura degli Obsolete Theory risiede sostanzialmente nell’essere riusciti a regalare cinquanta minuti di musica intensa, vibrante e in grado di restare impressa anche dopo molti ascolti.
Uno dei migliori album italiani dell’anno, al di là delle suddivisioni in generi o sottogeneri.

Tracklist:
1. Salmodia III
2. Six Horses Of Death
3. Dawn Chant
4. Sirius’ Blood
5. The God With The Crying Mask

Line up:
Ow Raygon: Guitars
Mordaul: Guitars
Tote Arthroeat: Percussions and Glockenspiel
Bolthorn: Bass
Savanth: Drums
Daevil Wolfblood: Vocals

OBSOLETE THEORY – Facebook

Grave Upheaval – Untitled

Un album per pochi, un’opera nera che più che un ascolto diventa esperienza totale, un rituale di morte e profanazione della durata di quasi un’ora in cui tutto quello che avete vissuto e creduto lascia spazio alla paura.

Il duo australiano chiamato Grave Upheaval è da un po’ che circola nella scena estrema di stampo death/doom, anche se un preciso genere per descrivere la musica del misterioso duo proveniente dal Queensland è impresa quasi impossibile.

Attivi da una decina d’anni, i Grave Upheaval hanno dato alle stampe un primo lavoro sulla lunga distanza nel 2013, senza titolo e con una tracklist numerata al posto dei titoli.
Seguendo il primo capitolo, il nuovo album risulta una discesa negli inferi davvero inquietante, i due membri provenienti da Portal, Temple Nightside ed Impetuous Ritual, creano una soffocante atmosfera di morte, descritta dalla marcia lavica di un doom/death al limite, urla e growl provenienti da un abisso di sofferenza e a tratti sferzati da accelerazioni di stampo black.
Occultismo, morte, buio millenario, la paura primordiale si fa spazio in noi, mentre la nostra anima scende sempre più in basso, lascia per sempre la luce e grida la sua disperazione ed il buio perenne inesorabilmente la avvolge.
Untitled è un’opera nera che più che diventa esperienza totale, un rituale di morte e profanazione della durata di quasi un’ora in cui tutto quello che avete vissuto e creduto, lascia spazio alla paura.
E’ molto difficile giudicare un’ opera del genere, potrebbe piacervi e rimanerne affascinati, come rigettarla dopo pochi minuti: un album per pochi, anzi, pochissimi.

Tracklist
1.II-I
2.II-II
3.II-III
4.II-IV
5.II-V
6.II-VI
7.II-VII
8.II-VIII

Line-up
– Guitars, Bass, Vocals
– Drums

GRAVE UPHEAVAL – Facebook

Self-Hatred – Hlubiny

Hlubiny è l’album che consacra i Self-Hatred tra le migliori nuove band in ambito death doom melodico, in virtù di una cifra stilistica che li colloca sulla scia dei protagonisti storici del genere.

Secondo full length per i cechi Self-Hatred, ottima doom band segnalatasi con l’esordio Theia del 2016.

Curiosamente le due band di punta della scena del paese dell’est escono a poco tempo di distanza l’una dall’altra (nonostante la presenza in line up di due membri in comune, il chitarrista Aleš Vilingr ed il batterista Michal “Datel” Rak): ma, mentre gli Et Moriemur hanno intrapreso una strada volta alla ricerca di sonorità quasi liturgiche, i Self-Hatred restano fedeli ad un death doom più atmosferico e diretto.
Questi ragazzi di Plzen si muovono all’interno del genere con una grande disinvoltura e se, inizialmente, sembrano venire meno quei picchi emotivi che erano disseminati nel precedente lavoro, in realtà, ascolto dopo ascolto, tali elementi emergono progressivamente, ponendosi quali indicatori di una profondità compositiva che connota fortemente un sound costantemente pervaso dal giusto grado di tensione ed oscurità.
Anche lo stesso passaggio alle liriche in lingua madre è funzionale al concept e non rappresenta alcun problema (se non di comprensione immediata, ovviamente) consentendo piuttosto ai Self-Hatred di arricchire di maggiori sfumature il loro racconto e aumentandone se possibile, l’impatto drammatico ed emotivo.
La bravura della band ceca risiede proprio nella capacità di comporre un lavoro profondo e convincente senza dover ricercare soluzioni diverse, rischiando di smarrirsi in qualche passaggio interlocutorio di troppo come accaduto in alcuni frangenti ai “cugini” Et Moriemur.
Hlubiny è l’album che consacra i Self-Hatred tra le migliori nuove band in ambito death doom melodico, in virtù di una cifra stilistica che li colloca sulla scia dei maggiori protagonisti del genere, tra i quali i When Nothing Remains, ai quali si avvicinano molto allorché sono struggenti melodie a prendere il proscenio.
L’accoppiata KonecOdraz ed il conclusivo strumentale Epitaf racchiudono alcuni tra i passaggi più toccanti ed esemplificativi della bontà di un lavoro che, da buon concept, va comunque consumato tutto d’un fiato, senza tralasciare di fare le necessarie “ripetute” che consentiranno di cogliere quei momenti preziosi che inizialmente potevano essere sfuggiti.

Tracklist:
1. Konec
2. Odraz
3. Hlubiny
4. Střepy
5. Vzplanutí
6. Apatie
7. Očistec
8. Epitaf

Line up:
Štěpán Eret – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums
Aleš Vilingr – Guitars
Pavel Janouškovec – Guitars
Michal Šanda – Keyboards
Kaťas – Vocals

SELF-HATRED – Facebook

Dopethrone – Transcanadian Anger

Un trionfo in download gratuito di stoner sludge marcio e di inni alla droga e alla violenza, insomma un bellissimo inferno.

Un trionfo in download gratuito di stoner sludge marcio e di inni alla droga e alla violenza, insomma un bellissimo inferno.

Tornano i canadesi Dopethrone, un gruppo che ha sempre regalato gioie a chi ama un certo suono vizioso, che di solito si accompagna a vite altrettanto viziose. Abusi sonori e abusi di sostanze sono sempre andati a braccetto, ma raramente se ne parla con l’ironia che hanno i Dopethrone, come si può vedere anche nel bellissimo video di Killdozer, rilasciato prima del disco contribuendo ad alzarne di molto l’attesa. Transcanadian Anger è musicalmente un disco dei Dopethrone al cento per cento, i nostri sono in formissima e migliorano quanto ci hanno sempre proposto. Il suono è sempre distorto con le chitarre che grattano, la voce è quella di un tossico al suo ultimo delirio, a metà tra growl e raschio, la batteria ed il basso incidono la nostra pelle con suoni inauditi. Una delle maggiori peculiarità della band canadese è quella di riuscire a costruire un groove mostruoso portando l’ascoltatore al centro di una palude che non lascia scampo. Ascoltando appunto Killdozer, che fa parte della loro scuderia di pezzi veloci, non si può non venire catturati da questo incessante giro di chitarre basso e batterie, che si muove senza mai fermarsi. Inoltre i Dopethrone hanno un timbro musicale molto personale e ben riconoscibile anche all’interno di un genere che comprende un numero elevato di band. Questo ultimo disco, distribuito in download libero, ma anche disponibile in formato fisico su cd e vinile della Totem Cat Records, non sposta di una virgola un discorso musicale intrapreso da anni e portato avanti con grande coerenza, ma lo migliora e lo porta ad un livello ulteriore. Nel bandcamp del gruppo potrete trovare tutti i dischi in download gratuito, e questa è una scelta importante per una realtà della portata dei Dopethrone, perché hanno capito l’evolversi dell’industria musicale mettendo la musica al centro, e guadagnando grazie a chi va ai loro grandi concerti, con una proposta sempre  di ottima qualità. Un disco marcio, pesante e divertente come sanno fare solo questi canadesi.

1. Planet Meth
2. Wrong Sabbath
3. Killdozer
4. Scuzzgasm
5. Tweak Jabber
6. Snort Dagger
7. Kingbilly Kush
8. Miserabilist

Line-up
Drums : Shawn
Guit -Vox : Vince
Bass : Vyk

DOPETHRONE – Facebook

Urfaust – The Constellatory Practice

Un viaggio, un rituale, un flusso di coscienza … l’opera conclusiva della trilogia dimostra appieno la personalità unica del duo olandese.

A soli due anni da Empty Space Meditation il duo olandese completa la trilogia e il lungo viaggio iniziato con Apparitions, EP del 2015.

Edito senza particolare preavviso, The Constellatory Practice offre, qualora ce ne fosse ancora bisogno, l’ennesima dimostrazione di come gli Urfaust siano una band senza pari, dotata di ispirazione, personalità, di un mood peculiare capace di creare sempre musica stimolante e affascinante; ogni loro opera, a partire da Geist ist teufel del 2004, ha sempre avuto alti motivi di interesse offrendo un suono black intenso, viscerale, ricco di derive ambient e doom. L’opener esprime un black doom trascendente, con le sue vocals invocative, a iniziare un viaggio verso luoghi inesplorati; il continuo interagire tra la parte strumentale e i reiterati vocalizzi creano un effetto ipnotico straniante e intossicante. Le idee non mancano ai due musicisti (VRDRBR alla batteria e IX alle voci e alla chitarra, da sempre alla guida della band olandese) e ci permettono di assaporare suoni ambient screziati di aromi orientali in Behind the veil of trance sleep, portandoci con la mente in lunghi rituali dal sapore magico. Un forte afflato cosmico e spirituale penetra nelle nostre sinapsi e gangli neuronali con A course in cosmic meditation, prima che il suono di False sensorial impressions ci riporti in claustrofobici abissi , dove rimaniamo attoniti di fronte a minacce imperscrutabili. Colpisce nel suono della band la profonda competenza, la capacità di saper dove colpire per poter lasciare ferite lacere e sanguinanti. Trail of the conscience of the dead ammalia con cadenza blackdoom sopraffina, mentre il particolare vibrato di IX dona un aura mistica e il lavoro chitarristico si insinua lentamente nella nostra sostanza grigia, scavando e lacerando con precisione, stimolando la nostra psiche verso dimensioni acide e visionarie. La parte finale del brano, sommersa di archi e synth, meraviglia e lascia desiderosi di mandare in un loop continuo i dodici minuti di questo brano magnifico. Suggestioni orrorifiche marchiano a fuoco l’ultimo brano con un uso pesante e reiterato di organo e litanie che spaziano in un cosmo profondo e desolato. L’opera cresce in modo smisurato con gli ascolti, non deve essere ascoltata in modo superficiale ma sentita nel profondo. Gli Urfaust lasciano sempre, con la loro arte, sensazioni molto peculiari e come al solito la loro personalità e l’ispirazione sono un unicum nel mondo dell’arte nera.

Tracklist
1. Doctrine of Spirit Obsession
2. Behind the Veil of the Trance Sleep
3. A Course in Cosmic Meditation
4. False Sensorial Impressions
5. Trail of the Conscience of the Dead
6. Eradication Through Hypnotic Suggestion

Line-up
VRDRBR – Drums
IX – Guitars, Vocals

URFAUST – Facebook

Chrch – Light Will Consume Us All

Tre brani immersi in un suono doom e sludge personale e condotto su un interplay chitarristico di alto livello sempre ispirato e carico di tensione.

Liquide e visionarie note ci introducono al secondo full length dei californiani Chrch, quintetto che, dopo un ottimo Unanswered Hymns del 2015, approda alla Neurot Recordings proponendoci tre brani immersi in un suono doom e sludge personale e condotto su un interplay chitarristico di alto livello sempre ispirato e carico di tensione.

Gli abbondanti venti minuti di Infinite Return si spandono placidi, reiterati nei primi cinque minuti con le due chitarre che costruiscono senza fretta l’atmosfera per poi esplodere in furia devastatrice, accompagnate dall’inquietante growl di Eva Rose che strazia le viscere; il lungo intermezzo di quiete che interrompe la furia coinvolge con la sua spiritualità e la sua aura nostalgica, mentre le chitarre tessono trame delicate e le sussurrate vocals di Eva massaggiano dolcemente i nostri padiglioni auricolari suggerendo lunghi viaggi verso una luce trascendente che si suggella in un finale profondo, dove la chitarra solista si erge a protagonista assoluta con un assolo armonioso e disperato. Un brano di altissimo livello che potrebbe marchiare a fuoco la carriera della band che non lesina idee e personalità anche nei due restanti brani: i quindici minuti di Portals hanno un approccio più diretto nel loro lento andamento doom, lacerati sempre dalle litaniche vocals di Eva che si dimostra interprete versatile e capace di variare tonalità ed espressività. Ritmi marziali e ipnotici sono la struttura portante e aromi black ammorbano l’atmosfera spalancando “portali” dove le chitarre esplorano abissi acidi e visionari, mentre vocals inquietanti cercano di riportare un po’ di “light”. La capacità dei musicisti di creare suoni e atmosfera è veramente rimarchevole: nonostante siano attivi solo dal 2015 i Chrch appaiono già molto maturi e consapevoli della loro ispirazione. La tensione rimane sempre alta e i brani, per quanto lunghi, sono profondi e vari nel loro progressivo sviluppo, pur all’interno di un genere come il doom e lo sludge dai canoni ben definiti. Il terzo brano Aether, con il suo andamento solenne ed epico, suggella un gran bel disco offerto da parte di artisti ispirati.

Tracklist
1. Infinite Return
2. Portals
3. Aether

Line-up
Ben Cathcart – Bass
Chris Lemos – Guitars, Vocals (backing)
Eva Rose – Vocals (lead)
Adam Jennings – Drums
Karl – Cordtz Guitars

CHRCH – Facebook

Sadness – Ames De Marbre

La ristampa di quest’album degli svizzeri Sadness, uscito all’inizio degli anni novanta , da una parte fornisce l’occasione di riscoprire una band che all’epoca ottenne una discreta attenzione in virtù di una cifra stilistica anche coraggiosa, ma dall’altra ci fa constatare amaramente come gran parte dei lavori pubblicati poco meno di trent’anni fa fossero penalizzati da produzioni che impedivano loro di apparire ancora oggi attuali.

Questo, ovviamente, è un problema che riguarda sostanzialmente le opere di seconda fascia, come appunto fu Ames de Marbre,  esordio su lunga distanza per la band elvetica, edito nel 1993 e riproposto oggi grazie al meritorio operato dall’etichetta olandese Vic Records, le cui uscite son appunto perlopiù delle ristampe.
I Sadness proponevano un gothic doom che sembrava però suonato e composto con un approccio vicino al post punk, ricco quindi di buone intuizioni ma, col senno di poi, un po’ farraginoso e dai suoni anche troppo scarni; nonostante l’album conservi il suo fascino vintage, frutto anche di una scrittura mai scontata, della quale offrono una buona testimonianza brani magnifici come Lueurs e Red Script, quello che venticinque anni fa appariva alle nostre orecchie indubbiamente interessante oggi si rivela irrimediabilmente datato .
Pregio e difetto essenziale della band di Sion era quello di muoversi con buona padronanza all’interno del metal dalle tonalità più oscure, attingendo liberamente dal death, dal doom e dal gothic, cospargendo il tutto di una certa teatralità: come contraltare, mancava per forza di cose di quell’amalgama che probabilmente si sarebbe riuscita a trovare se le stesse composizioni fossero state affidate ad un produttore con i mezzi e le competenze odierne.
Tutto questo non significa che Ames de Marbre fosse un’opera trascurabile, anzi, credo fermamente che gli estimatori di certe sonorità potranno gradire non poco questa riedizione, che offre anche la possibilità di ascoltare i due demo pubblicati dai Sadness nel 1991 (Y) e nel 1992 (Eodious), utili più a fini di curiosità che altro, alla luce di una resa sonora ai limiti dell’ascoltabilità; non va dimenticato, però, che in quegli stessi tempi uscivano dischi che, pur con gli stesi mezzi tecnici a disposizione, se riascoltati oggi non sono affatto a rischio di obsolescenza (per esempio, Seredenades o Turn Loose The Swans) e questo è tutto ciò che fa la differenza tra album seminali (quelli citati) ed altri validi ma inevitabilmente destinati a restare confinati nella nicchia delle opere di culto ricordate da un numero esiguo di persone.

Tracklist:
1. Ames de Marbre
2. Lueurs
3. Tristessa
4. Opal Vault
5. Tears of Sorrow
6. Red Script
7. Antofagasta
8. Red Script
9. Eodipus
10. Disease of Life
11. Face of Death
12. Y
13. The Lost Colors
14. Outro

Line up:
Gradel – Drums
Steff – Guitars, Vocals
Chiva – Guitars, Piano
Andy – Bass, Vocals (German)

SADNESS – Facebook

Demon Head – The Resistance

Tra il profumo dell’incenso ai piedi di altari innalzati all’occult rock, tornano i danesi Demon Head, gruppo di Diabolic Rock (come amano definirsi) con questo 7′ composto da due soli brani, The Resistance e River Of Mars.

Tra il profumo dell’incenso ai piedi di altari innalzati all’occult rock, tornano i danesi Demon Head, gruppo di Diabolic Rock (come amano definirsi) con questo 7′ composto da due soli brani, The Resistance e River Of Mars.

Per chi non conoscesse ancora questa band del panorama doom nord europeo, i Demon Head sono attivi da sei anni e, oltre a Thunder On The Fields, full length licenziato lo scorso anno, hanno in cascina il primo album Ride the Wilderness uscito nel 2015 ed una manciata di lavori minori tra demo e split.
I due brani che troverete su questo ep non si discostano da quanto ascoltato sul precedente album, quindi siamo ancora su coordinate doom rock anni settanta pervase da profumi ipnotici e rituali diabolici.
Un sound che trova nella voce morrisoniana del vocalist M.F.L. e nella struttura da jam dei brani il suo maggior pregio, aspetto questo più accentuato nella title track, mentre l’atmosfera di Rivers Of Mars è maggiormente diretta e sabbathiana.
The Resistance è un ep che nulla aggiunge e nulla toglie al gruppo danese, un classico lavoro di transizione aspettando un nuovo diabolico full length.

Tracklist
1.The Resistence
2.Rivers Of Mars

Line-up
J.W. – Drums
M.S.F. – Bass
B.G.N. – Guitar
T.G.N. – Guitar
M.F.L. – Vocals

DEMON HEAD – Facebook

Mammoth Weed Wizard Bastard/Slomatics- Totems

Un’uscita che riunisce due tra le migliori realtà sludge doom provenienti dal Regno Unito.

Ad avvalorare la teoria secondo la quale gli split album sono sovente molto di più rispetto ad una semplice operazione discografica volta a mettere assieme due o più band, talvolta estranee l’una dall’altra per stile o status, al fine di ottimizzare tempi e spazi, eccoci a contemplare questa uscita che accoppia due tra le migliori realtà sludge doom provenienti dal Regno Uunito.

Certo, neppure Mammoth Weed Wizard Bastard e Slomatics possono definirsi band del tutto simili, visto il diverso approccio alla materia, ma sicuramente qui non vengono meno contiguità stilistica e comunione d’intenti.
I gallesi Mammoth Weed Wizard Bastard sono di formazione più recente e il loro doom psichedelico è fortemente caratterizzato dalla voce di Jessica Ball, la quale dona un tocco a tratti liturgico al sound della band. I due lunghi brani sono decisamente esaustivi rispetto alle caratteristiche di un’interpretazione davvero peculiare, con The Master and His Emissary che possiede un intrigante incipit elettronico volto ad introdurre, dopo alcuni minuti, le sonorità relativamente più canoniche del doom.
Si cambia facciata e con gli Slomatics in teoria il tutto si normalizza, anche se uno sludge doom come quello offerto dal trio nord irlandese non può essere certo considerato ordinario; qui però, fin da Ancient Architects, si capisce che il sound si appoggia meno sulle suggestioni vocali per volgersi in maniera più decisa all’impatto provocato da riff di enorme presa e potenza, mentre la voce del drummer Marty nella seconda traccia assume sembianze più consone ad una psichedelia che emerge insidiosa dalla spessa fanghiglia sonora.
In entrambi i casi, le interpretazioni delle band evidenziano come tali sonorità, quando vengono maneggiate da band britanniche, assumono toni ben diversi rispetto a ciò che avviene oltreoceano, alla luce di soluzioni relativamente più ricercate e un po’ meno truci.
Totems è, in definitiva, uno split album di una qualità non comune, tale da spingermi a consigliare agli appassionati del genere di non farselo sfuggire per alcun motivo.

Tracklist:
A
1. (Mammoth Weed Wizard Bastard) The Master and His Emissary
2: (Mammoth Weed Wizard Bastard) Eagduru

B
1: (Slomatics) Ancient Architects
2: (Slomatics) Silver Ships Into The Future
3: (Slomatics) Master’s Descent

Line-up:
Mammoth Weed Wizard Bastard
Jessica Ball – Bass, Vocals
James ‘Carrat’ Carrington – Drums
Wez Leon – Guitars, Effects
Paul Michael ‘Dave’ Davies – Guitars, Effects

Slomatics
Chris – Guitars
David – Guitars
Marty – Drums, Vocals

MAMMOTH WEED WIZARD BASTARD – Facebook

SLOMATICS – Facebook

Labyrinthus Noctis – Opting For The Quasi-Steady State Cosmology

Il gruppo milanese fa un disco che commuove e che, come accadeva in alcuni concept prog degli anni settanta, porta l’ascoltatore lontanissimo, ponendo la maggiore distanza possibile fra lui e la Terra, luogo di eterno dolore.

Disco esoterico di gothic prog metal, una magia per ricordarci che non apparteniamo a questa terra, e che questa terra non è la nostra casa, ma siamo fatti per andare oltre, molto oltre, forse verso Marte che è il protagonista di questa terza prova dei milanesi Labyrinthus Noctis, un gruppo che difficilmente sbaglia un disco.

La novità più grossa è l’entrata in formazione della dotatissima cantante Ivy che porta la band ad un livello superiore. Il disco è un viaggio esoterico oltre il nostro pianeta ospitante, verso il pianeta rosso, e ovviamente ciò vale anche per ciò che sta dentro di noi. Il concept è diviso in tre diversi movimenti, e tutti assieme concorrono a descrivere un viaggio cosmico verso e dentro Marte. Quest’ultimo pianeta è una delle mete più anelate dalla razza umana, una delle ultime Thule, un confine anche angusto per le dimensioni dell’universo, ma un passo enorme e forse impossibile per noi umani. Il gruppo milanese ha sempre fuso nel suo stile musicale diversi generi con grande sapienza e gusto, ma qui si supera. Opting For The Quasi-Steady State Cosmology è un disco di gothic prog doom, uno spartito terrestre per musica celestiale, e l’andamento è praticamente cinematografico, come se la musica descrivesse i fotogrammi di un film inquietante ed inquieto, dove tutto si muove, e il moderno si sfasa per copulare con l’estremamente antico, in una fusione che genera diversi multiversi, descritti mirabilmente dai Labyrinthus Noctis. Il gruppo milanese fa un disco che commuove e che, come accadeva in alcuni concept prog degli anni settanta, porta l’ascoltatore lontanissimo, ponendo la maggiore distanza possibile fra lui e la Terra, luogo di eterno dolore. Un gran bel disco che assicura tanti ascolti e molti sospiri di cuore. Il disco si conclude con la cover di Padre Davvero di Mia Martini, una canzone che parla davvero al cuore, che si lega a Marte e che qui è interpretata magistralmente.

Tracklist
Chapter One: DISCUSSION AND CONTROVERSIES IN THE LIGHT OF FURTHER X-RAY
OBSERVATIONS
1. Reaching The Last Scattering Surface
2. Cygnus X-1 (con Chiara Tricarico alla voce)
3. Melancholia
4. Negentropy
Chapter Two: DARK ENERGY EQUATION-OF-STATE (EOS) AND ITS APPLICATIONS
5. Lament Of Melusine
6. Linear A
7. Kosmonaut Vladimir Komarov
8. Amborella Trichopoda
Chapter Three : FROM HYPERSPACE TO MULTI MESSENGER ASTRONOMY
9. Noctis Labyrinthus
10. Hydrocarbon Lakes
11. Kiss The Scorpion, or The Ballad Of Lilith And Mars
12. Wings Of Honneamise
13. Padre Davvero

Line-up
Moreno: Guitars
Ark: Keyboards, Theremin, Effects
Aeb: Drums
Sin: Bass, Backing Vocals
Ivy: Lead Vocals

LABYRINTHUS NOCTIS – Facebook

Haunted – Dayburner

Un sound pesantissimo accompagna la cantante nel buio di un giorno mai iniziato: gli strumenti, drogati e stonati, creano un moloch sonoro che avanza inesorabile, mentre litanie oscure, lunghe e magnetiche sono la colonna sonora della morte ancora prima di nascere della luce.

L’alba, l’inizio di un nuovo giorno ci illude che la luce spazzerà via il buio, mentre tutto torna nell’oscurità e in un attimo siamo avvolti dal nero profondo che, come un’anima dannata, passeggia senza meta tra l’inferno e il purgatorio.

Dayburner, mastodontico secondo lavoro dei doomsters catanesi Haunted, da un attimo prende ispirazione per il suo lungo incedere, risultando un monolito heavy/doom di inumana bellezza.
L’esordio omonimo licenziato due anni fa aveva lasciato ottime impressioni sul gruppo siciliano, ora assolutamente confermata da questa ora abbondante di litanie doom psichedeliche, un lavoro dalla mole enorme, una marcia lenta e liturgica nel corso della quale siamo presi per mano dalla sempre più ipnotica Cristina Chimirri.
Licenziato dalla Twin Earth Records e registrato da Carlo Longo al NuevArte Studio di Catania, Dayburner è stato affidato a Brad Boatright (Sleep, COC, Yob, Obituary e altri) all’Audiosiege Engineering di Portland per il mastering, mentre l’inquietante e misterioso artwork è opera di un’artista irlandese, Deborah Sheedy.
Lavoro dal taglio internazionale dunque, un passo in avanti portentoso e coraggioso per la band siciliana, sempre più immersa in quell’heavy doom che richiama Orange Goblin ed Electric Wizard, ma che ha le sue radici negli anni settanta, tra hard rock e psichedelia.
Un sound pesantissimo accompagna la cantante nel buio di un giorno mai iniziato: gli strumenti, drogati e stonati, creano un moloch sonoro che avanza inesorabile, mentre litanie oscure, lunghe e magnetiche sono la colonna sonora della morte ancora prima di nascere della luce.
Otto brani per quasi settanta minuti di musica fanno capire quanto splendidamente ostico sia questo album e quanta affascinante materia musicale ci sia da comprendere tra le magiche e potenti trame di brani come Mourning Sun, Orphic e Vespertine, le ultime due cuore aperto e grondante sangue nero di questo enorme lavoro.
Gli Haunted sono una delle massime espressioni dell’heavy/doom odierno nate sul nostro territorio, interpreti maturi ed assolutamente personali nel portare avanti una proposta così difficile, in un mondo che fagocita a tempo di record qualsiasi forma d’arte.

Tracklist
01.Mourning Sun
02.Waterdawn
03.Dayburner
04.Communion
05.Orphic
06.Vespertine
07.No Connection With Dust
08.Lunar Grave

Line-up
Francesco Bauso – Guitars
Dario Casabona – Drums
Cristina Chimirri – Vocals
Francesco Orlando – Guitars
Frank Tudisco – Bass

HAUNTED – Facebook

Satori Junk – The Golden Dwarf

Il lavoro denota un notevole miglioramento rispetto al già valido primo disco del 2015, perché qui siamo proprio su un altro livello, con i Satori Junk che mostrano una maggiore consapevolezza dei loro mezzi proponendo una formula arricchita.

Seconda prova sulla lunga distanza per i Satori Junk, gruppo milanese di doom psichedelico e stoner, i quali con questo lavoro si migliorano non poco, proponendosi come uno dei gruppi italiani più interessanti nell’ambito.

Fin dalla bellissima intro recitata si intuisce che sarà una lunga discesa verso gli abissi che abbiamo creato e che culliamo nelle nostre teste. Partendo dallo stile che hanno sempre portato avanti, ovvero musica pesante con tastiere aliene, i Satori Junk rendono maggiormente pesante il loro suono e anche più acido, per lunghe cavalcate sotto piogge sporche, corse sotto relitti di imperi troppo grandi per cadere, e ancora attraverso volti sfigurati da nuove droghe. Quando poi spunta il theremin, la magia dei Satori Junk è ormai compiuta e siete catturati, così ascolterete il disco più e più volte, perché ha un fascino magnetico e maledetto, come tutte le cose veramente belle e gustose. Le canzoni sono tutte di ampio respiro e si fanno apprezzare per la loro tenebrosità ed acidità. Ciò che fa risaltare i Satori Junk rispetto agli altri gruppi è questa commistione di tastiere quasi space rock con un suono corrosivamente lento, in una miscela difficilmente rintracciabile in altri lidi. Come detto tutto il lavoro denota un notevole miglioramento rispetto al già valido primo disco del 2015, perché qui siamo proprio su un altro livello, con i Satori Junk che mostrano una maggiore consapevolezza dei loro mezzi proponendo una formula arricchita. Chiude il disco un’incendiaria e acidissima cover di Light My Fire dei Doors, ma il vero godimento è prima.

Tracklist
1.Intro
2.All Gods Die
3.Cosmic Prison
4.Blood Red Shrine
5.Death Dog
6.The Golden Dwarf
7.Light My Fire (The Doors cover)

Line-up
Luke Von Fuzz – Vocals, Synth, Keys, Theremin, Flute
Chris – Guitars, Analog Synth, Sequencer
Lory Grinder – Bass
Max – Drums

SATORI JUNK – Facebook

Grave Lines – Fed into the Nihilist Engine

Quando la produzione è in mano al mastermind degli Esoteric, Greg Chandler, bisogna prestare parecchia attenzione e non lasciarsi sfuggire l’arte che ne deriva.Un’ora di suoni doom, sludge, darkwave plumbei, oscuri e meritevoli di entrare nella nostra carne e nel nostro cervello.

Quando la produzione è in mano al mastermind degli Esoteric, Greg Chandler, bisogna prestare parecchia attenzione e non lasciarsi sfuggire l’arte che ne deriva.

Anche in questo caso è cosi perché i Grave Lines, quartetto londinese di recente costituzione che nel 2016 ha esordito con Welcome To Nothing, meravigliano con un’opera possente, intensa, abbastanza personale e decisamente pesante. I quattro musicisti provengono tutti da realtà underground britanniche (alcune come Dead Witches, Centurion’s Ghost, Throne) e per l’etichetta New Heavy Sounds, che ci ha fatto conoscere i meravigliosi Mammoth Weed Wizard Bastard, ci regalano un’ora di suoni doom, sludge, darkwave plumbei, oscuri meritevoli della nostra massima attenzione. L’idea di alternare brani lunghi con brani più brevi non è chiaramente la più originale ma crea un’atmosfera intossicante, tesissima e indomabile. L’opener Failed Skin (14 minuti) inquadra il loro suono su coordinate lente, scandite dalla voce decisa di Jake Harding che, per certi toni, può rammentare Michael Gira (Loss/Betrayal), mentre le chitarre lentamente creano il brano che sale, cresce, imponente, maestoso, epico intrecciando tempeste sonore aggrovigliate su tormenti interiori in cerca di uno spiraglio di luce. Siamo solo all’inizio ma le sensazioni sono quelle giuste, la band sembra già matura e conscia del proprio potenziale; i musicisti esplorano la negatività insita nelle nostre relazioni personali e ogni nota è carica di tensione spasmodica come in Silent Salt, dove l’effetto ipnotico indotto dalla reiterazione chitarristica mostra il lento cammino di un io rabbioso incatenato ma voglioso di ribellarsi. Gli artisti riescono, anche all’interno di un genere monolitico, a variare le atmosfere aggrappandosi ad aromi darkwave molto pronunciati, le linee di synth di Loathe/Displace (mi ricordano, ma probabilmente non è voluto, alcune linee di Eyeless in Gaza) disegnano atmosfere stranianti particolari, suggestive, mentre le vocals sono disturbanti nella loro tersa esposizione. La ritmica tribale di The Greae aggiunge altra “darkness” e introspezione, condotta su note di basso insistenti che introducono lentamente le distorte melodie chitarristiche, mentre, dopo la breve parentesi di Guilt/Regret, il tutto si suggella con gli undici minuti di The Nihilist Engin, dove la devozione a certi suoni di matrice Neurosis viene fuori in tutta la sua imponenza, conducendoci per mano verso abissali territori heavy progressive. Una grande sorpresa, grande musica e grandi sensazioni.

Tracklist
1. Failed Skin
2. Shame/Retreat
3. Self Mutilation by Fire and Stone
4. Loss/Betrayal
5. Silent Salt
6. Loathe/Displace
7. The Greae
8. Guilt/Regret
9. The Nihilist Engine

Line-up
Julia Owen – drums,backing vocals,synth,keys
Stgr’n Matt – bass,backing vocals,acoustic guitar
Oliver Irongiant – guitars
Jake Harding – vocals,lyrics

GRAVE LINES – Facebook

Gateway – Boundless Torture

Il funeral death doom offerto dal musicista fiammingo è rumoroso, cupo e ovattato, parco di barlumi di luce o pulsioni misericordiose, e tiene fede a quanto promesso dal titolo.

Boundless Torture è il nuovo lavoro dei Gateway, progetto death doom del musicista belga Robin van Oyen .

Non si tratta però di un nuovo full length, dopo il notevole Scriptures of Grief del 2016, bensì di un breve ep nel corso del quale comunque Van Ojen non lesina la sua tipica interpretazione soffocante del genere.
Il funeral death doom offerto dal musicista fiammingo è rumoroso, cupo e ovattato, parco di barlumi di luce o pulsioni misericordiose, e tiene fede a quanto promesso dal titolo.
Sono note di basso che paiono rimbalzare nel centro della Terra per poi cercare inutilmente uno sbocco attraverso una qualche fenditura sulla superficie , quelle che delineano la title track , ma se ci si aspettano aperture di qualsiasi genere si cade presto in errore, dato che Famished Below continua e prosegue dove era terminata la traccia precedente
L’opera di demolizione targata Gateway prosegue con la brevissima sfuriata Iron Storms, per poi riprendere e finalizzare l’annientamento psico fisico dell’ascoltatore con i dieci minuti di Odyssey of the Bereaved.
Se si ha un uggia il mondo e tutti gli esseri che contribuiscono a renderlo un luogo ancor peggiore di quanto già sia, Boundless Torture è un ascolto consigliato a volumi non convenzionali, immaginando di infliggere tutta la sofferenza che viene evocata a chiunque se lo meriti ed ottenere quell’effetto catartico che, se non può restituire il sorriso e l’ormai del tutto smarrito amore per il prossimo, contribuisce quanto meno a schiarirsi le idee e a squarciare diversi veli che filtrano la realtà.

Tracklist:
1. Boundless Torture
2. Famished Below
3. Iron Storms
4. Odyssey of the Bereaved

Line-up:
Robin van Oyen – Everything

GATEWAY – Facebook

Matalobos – Until Time Has Lost All Meaning

Breve ep per i messicani Matalobos, fautori di un death doom melodico di buona fattura.

Breve ep per i messicani Matalobos, fautori di un death doom melodico di buona fattura.

La band centroamericana ha all’attivo un solo full length, ma decisamente il contenuto di Until Time Has Lost All Meaning fa pensare che i tempi siano maturi per compiere un ulteriore sotto di qualità.
Il lavoro si apre con la traccia più lunga, Of Ghosts and Yearning, un esempio pratico del buon potenziale in possesso del quartetto di Leon, il quale ovviamente si muove lungo le coordinate ben codificate del genere ma mettendoci abbastanza del proprio, tra passaggi acustici, dolenti progressioni melodiche ed un growl incisivo; il secondo più breve brano, In Flesh Engraved, appare più orientato al death metal andandosi a collocare sulla scia dei Novembers Doom in più di un frangente.
Chiude l’ep il sognante strumentale La luz del día muere, episodio che depone a favore anche di un sicuro talento esecutivo.
Se con Arte Macabro i Matalobos avevano posto le basi per arrivare a produrre un death doom di sicuro spessore, con Until Time Has Lost All Meaning arriva quel consolidamento che non può che sfociare in un’opera su lunga distanza in grado di imporre all’attenzione della scena il gruppo messicano, almeno questo è l’auspicio.

Tracklist:
1. Of Ghosts and Yearning
2. In Flesh Engraved
3. La luz del día muere

Line-up:
E. Santamaría – Guitars
Dante – Vocals
De Anda – Bass
C. Escalona – Drums
Germán N. – Guitars, strings

MATALBOS – Facebook

2017