Dee Calhoun – Go To The Devil

Oltre al blues qui c’è una grande anima ed al contempo aleggia molto forte lo spirito americano, quell’american folk che si può fare solo nella terra oltre l’Atlantico.

Torna il bardo barbuto che risponde al nome di Dee Calhoun, il cantante dell’ottima doom band Iron Man.

Questo Go To The Devil è il suo secondo lavoro solista, dopo Rotgut del 2016 uscito sempre su Argonauta Records come questo. Il nostro non si discosta molto dal disco precedente, narra le sue storie con l’ausilio di chitarra acustica, qualche percussione e con il fido socio degli Iron Man Louis Strachan al basso. Il risultato è persino migliore del già buon disco precedente. In tanti hanno si mettono dietro alla chitarra acustica per narrare storie, ma la struttura minimale di questa scelta musicale fa vedere chi può farlo e chi no, e Dee è un maestro in questo. Con relativamente poco riesce a creare delle bellissime atmosfere, pregne di blues, di asfalto e di vita vissuta, di cicatrici e soprattutto di come si procurano. Oltre al blues qui c’è una grande anima ed al contempo aleggia molto forte lo spirito americano, quell’american folk che si può fare solo nella terra oltre l’Atlantico. Dee possiede una grande maturità e ha un piglio da cantautore blues, anche se ,a ben sentire, le canzoni sono sempre costruite con una forte ossatura rock se non metal, e sarebbero già pronte ad essere eseguite da un gruppo. La voce di Calhoun è calda, potente, come un fuoco che sa di esserlo, ma che si è anche bruciato da par suo prima di diventarlo. Non è facile fare un disco acustico e renderlo interessante e Go To The Devil vi terrà incollati alle cuffie o alle casse per molto tempo, perché ha anche vari livelli. Giubbotti neri e barbe lunghe che significano, oltre all’aspetto esteriore, una grande esperienza di vita, andando oltre le ferite che le inevitabili cadute portano. La musica come questa serve sia a chi la fa per espellere il veleno che quotidianamente ingoiamo, sia a chi la ascolta e viene riscaldato da tante sensazioni. Andare al diavolo a volte è l’unica soluzione possibile.

Tracklist
1. Common Enemy
2. Bedevil Me
3. Born (One-Horse Town)
4. The Final Stand of the Fallen
5. Go to the Devil
6. Me Myself and I
7. The Lotus Field is Barren
8. Jesus, the Devil, the Deed
9. The Ballad of the Dixon Bridge
10. Your Face
11. Dry Heaves & Needles

DEE CALHOUN – Facebook

Overhung – Moving Ahead

Forse la scaletta di questo lavoro andava distribuita meglio, fatto sta che gli Overhung alternano piccoli candelotti di dinamite glam rock a brani che soffocano l’atmosfera da party selvaggio, un difetto che il gruppo saprà sicuramente correggere in futuro.

La lontana e misteriosa India non si fa notare solo in ambito estremo, grazie ad ottime realtà che si dedicano a generi classici come l’heavy metal e l’hard rock.

Questo album di glam rock proveniente da Mumbai, ma con natali nel Sunset Boulevard, si intitola Moving Ahead, uscì originariamente nel 2016 e viene ristampato dalla Test Your Metal per la distribuzione in Nord America.
La band portatrice di cotanta attitudine rock’n’roll si chiama Overhung, alle spalle ha solo un ep del 2012 (Extended 4Play) e Moving Ahead risulta così il suo unico lavoro sulla lunga distanza, formato da dieci brani ispirati al glam rock anni ottanta con impennate hard rock e street che ne fanno un’opera piacevole, anche se qualche difettuccio non manca e il già sentito (se non si è fans sfegatati del genere) è di casa, ma il genere questo è quindi, prendere o lasciare.
L’album parte benissimo con l’hit Sex Machine, brano che sembra pescato da uno dei primi lavori dei Crue, con ritmiche di scuola Young a rendere il brano una vera bomba.
Qui andava sparata un’altra street song per far carburare al meglio l’ascoltatore, invece la band piazza Insane, un mid tempo di sei minuti che spezza l’atmosfera adrenalinica creata dall’opener.
Prima di tornare a far scorrere sangue nelle vene ai rockers dai colorati spandex, gli Overhung ci mettono ben tre brani, un po’ troppi a mio avviso, con Waiting che, come ballad, lascia il tempo che trova.
La band va molto meglio quando corre su e giù per la città degli angeli con I Am I, l’irriverente Must Drink, l’hard blues di Casual Bitch e la conclusiva You Think You’re Soo Cool, street punk rock tra Motley Crue e L.A.Guns.
Forse la scaletta di questo lavoro andava distribuita meglio, fatto sta che gli Overhung alternano piccoli candelotti di dinamite glam rock a brani che soffocano l’atmosfera da party selvaggio, un difetto che il gruppo saprà sicuramente correggere in futuro.

Tracklist
1. Sex Machine
2. Insane
3. Waiting
4. I Don’t Believe Her
5. Through The Slime
6. Waste
7. I Am I
8. Must Drink
9. Casual Bitch
10. You Think You’re So Cool

Line-up
Sujit Kumar – Vocals
Howard Pereira – Guitars
Crosby Fernandes – Bass
Sheldon Dixon – Drums

OVERHUNG – Facebook

https://youtu.be/ds_3sRHZNOY

Paradise Lost – Host (Remastered)

Appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della discografia dei Paradise Lost, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo.

C’era una volta la sacra triade inglese del gothic death doom, massima espressione di un movimento che produsse tramite i suoi migliori esponenti una serie di capolavori che segnarono pesantemente la storia del metal più oscuro all’inizio degli anni ’90.

I primi ad abbandonare la tenzone furono gli Anathema, pubblicando nel 1996 il pinkfloydiano Eternity, disco comunque splendido che venne seguito dal magnifico Alternative 4 e, po,i dall’altrettanto validoJudgement, per arrivare infine al definitivo distacco dal metal avvenuto con A Fine Day To Exit.
Nel 1998 anche i più ortodossi del trio, i My Dying Bride, tentarono di inserire elementi elettronici nel loro sound con un disco strambo ma tutt’altro che deprecabile come 34.788%… Complete, salvo poi tornare precipitosamente sui propri passi con il successivo The Light at the End of the World e continuando a sfornare in serie altri buoni lavori, culminati con il bellissimo e ultimo Feel The Misery, del 2015.
Prima di quanto fatto dai loro concittadini, nel 1997 i Paradise Lost, dal canto loro, avevano già impresso una svolta al proprio sound pubblicando One Second, album che era pervaso da una fino ad allora insospettabile fascinazione nei confronti dell’operato dell premiata ditta Gore/Gahan, ma che aveva fornito a mio avviso un risultato molto intrigante, grazie ad una serie di brani ispirati (tra cui forse quella che si può considerare la vera e propria hit della band di Halifax, Say Just Words) per quanto decisamente spiazzante nei confronti dei puristi.
Ed arriviamo al 1999, anno in cui viene pubblicato il controverso Host: volendo giocare con i nomi delle band, se One Seoind poteva essere definito un disco dei Paradise Mode, quest’ultimo parto era più ragionevolmente attribuibile a degli ipotetici Depeche Lost, in quanto ogni pulsione metallica era pressoché sparita, rimpiazzata da un elettro gothic dark piuttosto annacquato.
Già, perché al di là dell’incapacità di molti fans nell’accettare il fatto che una band possa avere tutto il diritto di sperimentare nuove soluzioni ed abbracciare stili diversi, il problema di Host era sostanzialmente il fatto d’essere un lavoro fiacco, privo di brani realmente trainanti (personalmente salvo solo le più oscure In All Honesty e Deep) tanto che, a quel punto, perso per perso, conveniva andarsi a recuperare i lavori dei capostipiti del genere piuttosto che ascoltarne una sbiadita e poco convinta copia rappresentata dai Paradise Lost.
Alla luce di questa lunga premessa, appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della loro discografia, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo (tra l’altro, se proprio lo si voleva/doveva fare per incombenze di tipo commerciale o contrattuale, non era meglio attendere almeno il ventennale che sarebbe caduto l’anno prossimo?).
Ora, va detto che in epoca di revisionismo acrobatico, quello che spinge i più smemorati a riscrivere e stravolgere la storia a proprio uso e consumo, non mi meraviglierei di trovare qualcuno che vorrà riabilitare Host (mi riferisco solo al disco, i Paradise Lost non hanno certo bisogno d’essere riabilitati, ma semmai vanno ringraziati per quella che è stata la loro carriera nel complesso); io ho provato a riascoltarlo con la segreta speranza di cogliere qualcosa che magari mi ero perso all’epoca della sua uscita, ma devo ammettere d’essermi annoiato dalla prima all’ultima nota esattamente come mi accadde nell’ormai lontano 1999.
Per concludere la retrospettiva storica, resta da aggiungere che Mackintosh e soci ritrovarono la via maestra di un sound a loro più consono, solo con la pubblicazione del disco autointitolato del 2005, vero e proprio inizio di una progressiva rinascita culminata con un album ispirato e degno del blasone della band come il recente Medusa.
Inutile aggiungere che se a qualcuno avanzassero degli euro è meglio che li investa diversamente, relegando Host all’oblio riservato ai dischi poco riusciti che anche alle migliori band capita di produrre.

Tracklist:
1. So Much Is Lost
2. Nothing Sacred
3. In All Honesty
4. Harbour
5. Ordinary Days
6. It’s Too Late
7. Permanent Solution
8. Behind The Grey
9. Wreck
10. Made The Same
11. Deep
12. Year Of Summer
13. Host

Line-up:
Nick Holmes – Vocals
Greg Mackintosh – Lead guitar
Aaron Aedy – Rhythm guitar
Steve Edmondson – Bass guitar
Lee Morris – Drums

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Foredawn – Foredawn

I Foredawn ci travolgono, inarrestabili, con una tracklist che non conosce pause, urgente, diretta e senza fronzoli, uno schiaffo gotico e alternativo che non mancherà di lasciare il segno sui visi degli amanti del rock/metal nascosto tra le ombre della notte.

Album di debutto per questa alternative gothic metal band lombarda, che ci investe con tutta la sua elegante energia con Foredawn, lavoro omonimo licenziato dalla The Jack Music Records.

Il quartetto milanese è composto dai fratelli Franco (Irene e Ivan), rispettivamente cantante e batterista e dalle sei corde di Mattia “Tia” Stilo e Riccardo Picchi.
Una voce sinuosa ma anche potente e metallica, ritmiche sostenute e chitarre heavy che si lasciano ammaliare da sfumature gotiche ed impulsi alternativi si uniscono per dar vita ad un prodotto molto interessante.
Dall’ascolto dei dieci brani più la cover del classico ottantiano You Spin Me Round dei Dead Or Alive, esce allo scoperto una band coesa, con un sound di livello ed alquanto personale anche se, inevitabilmente, qualche accostamento con realtà più affermate non manca (Lacuna Coil ed Evanescence).
Rispetto a molti gruppi del genere i musicisti milanesi hanno un approccio più heavy, le chitarre sono presenti in modo massiccio e non solo ritmicamente parlando, ma assurgendo a ruolo di protagoniste con assoli che si conficcano in cuori metallici che pompano adrenalina sotto i colpi inferti da Eternal Flight, Insidious Dark o la cavalcata hard & heavy Nightmare, ultima traccia originale prima di lasciare il gran finale alla rocciosa cover che abbiamo citato in precedenza.
I Foredawn ci travolgono, inarrestabili, con una tracklist che non conosce pause, urgente, diretta e senza fronzoli, uno schiaffo gotico e alternativo che non mancherà di lasciare il segno sui visi degli amanti del rock/metal nascosto tra le ombre della notte.

Tracklist
1.Cliffs Of Moher
2.Eternal Fight
3.Insidious Dark
4.Tears Are Fallen
5.Buried Hopes
6.Nightfire
7.Stronger
8.I Stay Here
9.Signs
10.Nightmare
11.You Spin Me Round (Like a Record) – Dead Or Alive Cover feat. Emi (Wolf Theory/Mellowtoy)

Line-up
Irene “Ire” Franco – Vocals
Ivan Franco – Drums
Mattia “Tia” Stilo – Guitar
Riccardo Picchi – Guitar

FOREDAWN – Facebook

BRVMAK

Il lyric video del brano ‘Vindictae’, dall’album di prossima uscita ‘In Nomine Patris’.

Il lyric video del brano ‘Vindictae’, dall’album di prossima uscita ‘In Nomine Patris’.

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I Progressive Death Metallers BRVMAK rivelano il lyric video ufficiale del brano ‘Vindictae’, dal loro prossimo album ‘In Nomine Patris’.

‘Vindictae’ descrive in senso metaforico la vendetta dell’uomo verso tutti coloro che vogliano fermarne la crescita morale e cognitiva. Fiero e determinato come un guerriero, egli prende il proprio destino nelle sue mani e lo volge in suo favore, raggiungendo l’indipendenza attraverso l’acettazione della parte più oscura di se.

Il nuovo album ‘In Nomine Patris’ e’ un concept album incentrato sulla mitologia biblica. Ciascun brano descrive noi stessi come esseri umani, attraverso l’essenza metaforica degli eventi della bibbia.

‘In Nomine Patris’ uscira’ nel 2018 ed e’ stato registrato, mixato e masterizzato da Alessio Cattaneo e Riccardo Studer al Time Collapse Recording Studio di Roma (Novembre, Ade, Scuorn).

Official Lyric video prodotto da Cult Of Parthenope.

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