Il gruppo inglese mette sul piatto, sei anni dopo “Noctambulism”, un autentico carico da undici, esibendosi in un death-doom nel quale l’impatto delle sonorità pachidermiche prevale nettamente sui rari accenni di stampo melodico.
Anche gli Indesinence appartengono al novero delle doom band che tornano sulle scene dopo un lungo silenzio e, come accaduto in altri frangenti, ciò avviene con un lavoro che ripaga ampiamente le attese.
Il gruppo inglese mette sul piatto, sei anni dopo “Noctambulism”, un autentico carico da undici, esibendosi in un death-doom nel quale l’impatto delle sonorità pachidermiche prevale nettamente sui rari accenni di stampo melodico. Vessels Of Light And Decay, dopo la breve intro Flux, inizia ad esibire le sembianze mostruose della creatura Indesinence con Paradigms, prima di una serie di lunghe e maestose tracce: riff granitici si abbattono come un maglio sui timpani dell’ascoltatore, ora con la lentezza esasperante del doom più canonico ora con le accelerazioni tipiche del death; in questo avvio dell’album, nei passaggi più rallentati sorgono spontanei accostamenti con i seminali Cathedral di “Forest Of Equilibrium” e non c’è dubbio che questa sia la perfetta rampa di lancio per un lavoro che non avrà momenti di cedimento per tutta la sua durata. Vanished si palesa con le temibili sembianze dei Morbid Angel epoca “Blessed / Covenant”, per il suo sound “morboso” e avvolgente e per un growl degno del miglior Vincent ad opera di Ilia Rodriguez, mentre Communion accelera ulteriormente l’andatura, segnalandosi come l’episodio più violento del disco. La Madrugada Eterna spezza ad arte la tensione con le sue sonorità di stampo ambient, preparando il terreno alla deragliante Fade dove gli Indesinence macinano instancabilmente, per quasi un quarto d’ora, i loro riff densi e distruttivi come una colata lavica. Unveiled chiude questa splendida prova di compattezza e competenza musicale mostrando un volto più riflessivo del quartetto londinese, grazie alle sue frequenti aperture a sonorità acustiche dissonanti: il brano finisce spesso per lambire territori post-metal, lasciando spazio nella sua parte conclusiva a un crescendo entusiasmante che è il commiato ideale per l’ennesimo album imperdibile partorito dalla scena death-doom in questo prolifico 2012.
Tracklist :
1. 1. Flux
2. Paradigms
3. Vanished Is the Haze
4. Communion
5. La Madrugada Eterna
6. Fade (Further Beyond)
7. Unveiled
Line-up :
Andy McIvor – Bass
Dani Ben-Haim – Drums
John Wright – Guitars, Bass
Ilia Rodriguez – Guitars, Vocals
Monolithe III è un unico brano che pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento e progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.
I francesi Monolithe sono da diversi anni un nome piuttosto apprezzato, in ambito funeral doom, grazie ai due omonimi dischi pubblicati nella prima parte dello scorso decennio; dopo l’ uscita dell’ Ep “Interlude Premier” e un silenzio durato cinque anni, interrotto da un nuovo Ep, questo terzo episodio su lunga distanza ci offre una band animata da una ritrovata ispirazione, che la spinge ben oltre i confini del genere pur non smarrendone le caratteristiche peculiari.
Chiaramente le coordinate sonore legate a un sound poderoso e rallentato sono sempre ben evidenti, ma l’elemento innovativo è riscontrabile nella varietà stilistica e ritmica che contrassegna il lavoro in tutti i suoi abbondanti cinquanta muniti, peraltro concentrati in un solo brano.
A tale proposito sorge spontaneo fare un parallelismo con un’altra band funeral che quest’anno ha pubblicato un disco contraddistinto da una sola lunga traccia, ovvero gli Ea, ma appare subito evidente che le due interpretazioni della materia sono piuttosto distanti.
Se da una parte i misteriosi russi continuano imperterriti nello srotolare con la massima lentezza il loro sound incentrato su tastiere maestose e chitarre soliste sempre pronte a tratteggiare stupefacenti passaggi intrisi di malinconia, dall’altra i quattro transalpini donano alla loro lunga composizione una dinamismo che si va a contrapporre a quell’uniformità che, pur costituendone un aspetto positivo, è tratto caratteristico del genere. Monolithe III racchiude in sé momenti psichedelici e sinfonici che, amalgamati con la pesantezza classica del doom e il perfetto growl di Richard Loudin (autore una decina d’anni fa col suo progetto solista Despond dello splendido “Supreme Funeral Oration”), consentono all’ascoltatore di fruire senza particolare fatica di un monolite sonoro di tale portata; l’intero brano pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento ma progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.
Un’evoluzione per certi versi inattesa ma evidenziata nel migliore dei modi da Sylvain Begot e soci, grazie a un album che si va a collocare di diritto tra le migliori uscite di questo prolifico 2012.
Un disco dalla qualità impressionante per una band che si conferma ai livelli d’eccellenza che le competono.
I Daylight Dies sono probabilmente la migliore melodic death-doom band USA e il loro silenzio stava oggettivamente durando da troppo tempo: “Lost To The Living” risale al 2008 ma, lo sappiamo, i tempi delle band dedite alla musica del destino sono lunghi e dilatati come le note sprigionate dai loro dischi.
Così come sta accadendo in quest’autunno, che ha visto ripagate con gli interessi le lunghe attese degli estimatori di Saturnus, Worship e Monolithe, anche la band del North Carolina ritorna con un lavoro superlativo all’insegna di una propensione melodica perfettamente controbilanciata dalle sonorità più robuste.
Ho sempre considerato i Daylight Dies una sorta di risposta d’oltreoceano alla magnificenza degli Swallow The Sun, pur con le dovute differenze derivanti dalla provenienza geografica e quindi da un diverso background musicale: dove però la band finnica, con l’ultimo eccellente lavoro, ha accentuato la propria componente gothic a discapito di quella death, i nostri, salvo un maggiore ricorso a vocals pulite, mantengono intatta la propria coerenza stilistica affidando le costruzioni delle linee melodiche esclusivamente alle chitarre senza fare ricorso alle tastiere o a passaggi particolarmente catchy.
Il devastante growl di Nathan Ellis recita testi che non lasciano spazio alcuno a illusori squarci di serenità e l’opprimente chiusura del disco, affidata al brano più lungo del lotto An Heir To Emptiness, è la pietra tombale depositata sulle speranze disattese, sui sogni mai avveratisi, su una vita forse realmente mai vissuta.
Questo splendido lavoro non conosce momenti di stanca, ogni suo episodio vale da solo l’acquisto del disco, anche se una citazione la meritano autentiche perle quali Sunset, dove il bassista Egan O’Rourke alle clean vocals si contrappone all’asprezza di Nathan, mentre le chitarre pennellano struggenti melodie, A Final Vestige con la sua alternanza tra quiete e tempesta e Hold On To Nothing, contrassegnata da uno spettacolare crescendo culminante in un assolo destinato a restare ben impresso nella memoria.
Un disco dalla qualità impressionante per una band che si conferma ai livelli d’eccellenza che le competono; consigliato a chi predilige un death-doom dal forte impatto emotivo e ha apprezzato i lavori passati dei già citati Swallow The Sun, ma anche quelli dei nostri Valkiria, con i quali gli ascoltatori più attenti riscontreranno diverse affinità stilistiche.
Tracklist :
1. Infidel
2. The Pale Approach
3. Sunset
4. Dreaming of Breathing
5. A Final Vestige
6. Ghosting
7. Hold on to Nothing
8. Water’s Edge
9. An Heir to Emptiness
Lord Agheros si muove su terreni contigui al black metal nella sua versione più atmosferica, ma va detto che l’etichetta BM applicata a questo progetto può essere fuorviante considerato che i momenti dall’andamento più impetuoso sono in netta minoranza rispetto alla componente ambient
Quello di Lord Agheros è un nome in circolazione ormai da un lustro, nel corso del quale il musicista catanese Gerassimos Evangelou, unico titolare del progetto, ha prodotto quattro album, ultimo dei quali l’appena pubblicato Demiurgo, oggetto di questa recensione.
Il nostro si muove su terreni contigui al black metal nella sua versione più atmosferica, ma va detto che l’etichetta BM applicata a questo progetto può essere fuorviante considerato che i momenti dall’andamento più impetuoso sono in netta minoranza rispetto alla componente ambient, che si rivela predominante, in particolare, nella seconda metà del disco. A livello lirico, Demiurgo è un concept dedicato alla nota figura platonica descritta come “artefice e padre dell’universo”; nell’intento di seguire in maniera coerente il filo conduttore del racconto, Lord Agheros rappresenta la contrapposizione tra bene e male, tra notte infernale e notte terrena, suddividendo l’opera in due parti ben distinte dal punto di vista stilistico. Se nella prima, che va da Prologue a Erebo sono maggiormente presenti elementi di matrice black quali blast beats e uno screaming velenoso, nella seconda parte, che prende vita con Nyx, il suono pare acquietarsi assumendo le vere e proprie sembianze di una colonna sonora in stile dark ambient. Per gusto personale ho molto apprezzato il disco proprio nella sua prima parte, almeno fino a Lyssa, grazie alla riuscita amalgama tra le sonorità estreme e le melodie oniriche create da Gerassimos; dalla successiva Letum, traccia che resterà comunque l’ultimo episodio dai tratti parzialmente aggressivi, il lavoro purtroppo perde un po’ della brillantezza mostrata nella sua prima mezz’ora. Detto questo, è innegabile che Demiurgo sia comunque un buon disco, nel quale il musicista siciliano dimostra di saper comporre con padronanza atmosfere sognanti e malinconiche, e costituisce senz’altro un ulteriore passo avanti rispetto al predecessore Of Beauty And Sadness. Ciò che non convince del tutto è proprio, nel caso specifico, il lento ma progressivo affievolirsi dell’impatto sonoro, sia pure in ossequio al tema del concept. Continuo a pensare che la formula adottata nei primi brani dove, come detto, vengono amalgamate con successo le componenti black, sia pure in proporzione ridotta, e ambient, dovrebbe essere quella da perseguire con maggior convinzione; migliorando anche la resa sonora della parte vocale, con uno screaming spesso in secondo piano rispetto agli altri strumenti, un progetto come Lord Agheros potrebbe ambire a raggiungere quell’eccellenza che, in Demiurgo, viene raggiunta solo a tratti.
Un lavoro meritevole d’attenzione pur senza rappresentare qualcosa di imprescindibile.
E’ difficile mantenere il giusto distacco nel commentare un lavoro che contiene le ultime note registrate da qualcuno che non si trova più tra noi: in Erotik Nekrosis, la chitarra è stata suonata da Trondr Nefas (Trond Brathen), leader degli Urgehal, morto a soli 34 anni nello scorso maggio.
Quest’album l’ha visto all’opera in quello che è stato solo l’ultimo dei molteplici progetti paralleli ai quali Trondr ha partecipato nella sua breve, ma intensa, vita di musicista, anche se in realtà gli Endezzma altro non sono che la naturale derivazione dei Dim Nagel, band fondata in età post-adolescenziale assieme a Sorgar e, per volere di quest’ultimo, riportata alla luce con un diverso monicker ai giorni nostri . Cosa resta dunque, al netto dell’aspetto emotivo e del doveroso omaggio a un musicista prematuramente scomparso? Sicuramente un buon disco di black metal diretto, privo di sbrodolamenti tastieristici e ricco invece di azzeccati assoli di chitarra; la band si esprime decisamente meglio nei brani più cadenzati, esibendo sonorità assimilabili ai Satyricon più recenti (Against Them All, Krossing Rubicon), dove Sorgar accompagna con il suo screaming sgraziato, ma funzionale alla causa, un sound piacevolmente dotato di un bel tiro. Un po’ meno bene vanno le cose quando i nostri provano a uscire dagli schemi consueti, dando la sensazione di voler forse strafare (Hollow) ricercando a tutti i costi l’originalità ma ottenendo, al contrario, solo l‘effetto di interrompere la continuità stilistica dell’album; più equilibrate, pur nella ricerca di qualche variazione sul tema, Enigma of the Sullen, Swansong Of a Giant e la conclusiva Soulcleaning. Un lavoro meritevole d’attenzione pur senza rappresentare qualcosa di imprescindibile.
Tracklist :
1. Junkyard Oblivion
2. Enigma of the Sullen
3. Against Them All
4. Swansong of a Giant
5. Hollow
6. Krossing Rubikon
7. Soulcleansing
Line-up :
Carl Balam – Drums
M. Sorgar – Vocals
Trondr Nefas – Guitars
Sregroth – Bass
Una splendida prova per un musicista in crescita esponenziale e un disco da avere e ascoltare senza alcuna esitazione.
Mi sono imbattuto per la prima volta nella prolifica one-man band ucraina Raventale nel non troppo lontano 2009, quando Astaroth decise di pubblicare il primo disco in lingua inglese “Mortal Aspirations” e l’impressione che ne trassi fu quella di un progetto dalle grandi potenzialità non del tutto espresse in tale frangente.
Dopo tre anni e altrettanti full-length, Transcendence giunge a suffragare tale previsione collocando il bravo musicista di Kiev ai livelli che gli competono. I quattro lunghi brani che compongono questo lavoro sono altrettanti gioielli di un black dalle sfumature ora doom ora post-metal, nel solco dei Wolves In The Throne Room nonché dei connazionali Drudkh, ma questi paragoni risultano utili solo per spiegare, a grandi linee, quale tipo di sonorità deve attendersi chi si trova ad ascoltare i Raventale per la prima volta. In realtà tutta la musica contenuta in Transcendence vive di una luce propria, offrendo quarantacinque minuti che faranno la gioia di chi predilige il lato più emozionale del metal estremo. Le melodie poggiate su martellanti blast beats e la voce, ora in growl, come nell’opener Shine, ora in screaming ma sempre convincente e appropriata, contribuiscono a disegnare un quadro molto vicino alla perfezione. Il lavoro è apprezzabile soprattutto per la sua qualità d’insieme, la tensione emotiva non cala mai e Astaroth non commette in alcun frangente l’errore di adagiarsi sugli allori inserendo passaggi di maniera con la sola funzione di riempitivo.
Una splendida prova per un musicista in crescita esponenziale e un disco da avere e ascoltare senza alcuna esitazione.
Tracklist :
1. Shine
2. Room Winter
3. Without Movement
4. Transcendence
Bella sorpresa questo secondo full-length della band greca Acrimonious, dedita a un black metal di buona fattura e dalla chiara matrice scandinava nonostante la provenienza mediterranea, della quale viene conservato intatto l’innato gusto melodico.
Bella sorpresa questo secondo full-length della band greca Acrimonious, dedita a un black metal di buona fattura e dalla chiara matrice scandinava nonostante la provenienza mediterranea, della quale viene conservato intatto l’innato gusto melodico.
Le coordinate del gruppo ateniese prendono come punto di riferimento i Dissection, ma sarebbe errato pensare a una copia sbiadita della creatura che fu di Jon Nodtveidt: i brani degli Acrimonious spiccano in maniera indipendente per intensità e non appaiono mai come semplici e manieristici esercizi di stile. I nostri, rispetto al precedente “Purulence”, uscito nel 2009, paiono aver maggiormente focalizzato la loro proposta, forti anche della recente esperienza di tre quinti della line-up in una delle band più note del panorama ellenico quali gli Acherontas. Dopo esserne fuoriusciti definitivamente in maniera del tutto amichevole, Cain Letifer, Akhkhar e C.Docre si sono dedicati anima e corpo a quella che è divenuta la loro band principale e gli esiti positivi sono facilmente rinvenibili in Sunyata; il black degli Acrimonious si muove essenzialmente su un mid-tempo carico di melodie oscure e avvolgenti che sostengono il growl profondo e piuttosto espressivo di Cain: stranamente, in più di un passaggio ho colto diversi punti di contatto, molto probabilmente del tutto casuali, con una band apparentemente lontana non solo geograficamente, come i brasiliani Mythological Cold Tower, sia per un uso della voce molto simile, sia per l’intonazione solenne ed epica di molti passaggi. Sette lunghi brani più una corposa intro, ci regalano quasi un’ora di musica piacevole che non si fatica a riascoltare anche a distanza ravvicinata: notevole la tripletta Lykaria Hecate, Adharma e Glory Crowned Son of the Thousand Petalled Lotus, ma il resto di Sunyata non si rivela da meno nel suo compito di vestire di note le interessanti tematiche filosofico-occulte che ne caratterizzano i testi. Davvero un ottimo lavoro, vivamente consigliato a chi predilige il black di matrice occulta, dal passo più cadenzato e dai tratti maggiormente evocativi rispetto alla sua versione più canonica.
Tracklist :
1. Nexus Aosoth
2. Lykaria Hecate
3. Adharma
4. Glory crowned Son of the Thousand Petalled Lotus
5. The Hollow Wedjat
6. The Sloughted Scales of Seperation
7. Vitalising the Red-Purple in Asher-Zemurium
8. Black Kundalini
I Funeral del 2012 sono una band senz’altro meritevole di attenzione ma difficile da collocare all’interno di un genere come il doom più estremo, nel quale la coerenza stilistica appare più un pregio che non un difetto.
Digitando il monicker Funeral su “metal-archives” spuntano ben undici band di varia estrazione geografica e stilistica, ma i Funeral che trattiamo in questa recensione sono gli originali e probabilmente tra questi gli unici titolati, almeno per il proprio passato, a portare un nome talmente impegnativo, oltre che teoricamente indicativo del genere proposto.
La band norvegese è sulle scene ormai da vent’anni, ma la sua produzione è stata piuttosto diradata nel tempo se consideriamo che Oratorium è solo il quinto full-length effettivo pubblicato in quest’arco temporale. I motivi sono molteplici, ma sicuramente i numerosi cambi di line-up, dovuti anche alla tragica scomparsa di due componenti della band, oltre ad una certa instabilità nel ruolo di vocalist, possono essere individuati come le più probabili cause di questa parsimonia dal punto di vista compositivo. Tenendo fede al proprio monicker, come dicevamo, i nostri sono partiti proponendo partiture funeree nel solco del doom più rallentato e contemporaneamente intriso di riflessi gotici, ma nel corso del tempo la proposta si è progressivamente diversificata, a partire da “From These Wounds” del 2006 fino ad arrivare alla forma attuale, che sicuramente è assai lontana dal funeral doom che conosciamo attraverso gli eccellenti lavori di Mournful Congregation, Evoken o Worship. Il suono del combo condotto da Anders Eek, unico superstite dalla formazione originale, oggi si presenta come un ipotetico e indubbiamente particolare connubio tra il gothic dei The Vision Bleak (in particolare per le orchestrazioni) e il black avanguardistico di scuola norvegese, Borknagar in particolare (soprattutto per le parti vocali), il tutto ovviamente rallentato secondo i tradizionali dettami del doom. Il risultato che ne scaturisce è un sound interessante ma in certi momenti discontinuo nel suo scorrere; ogni brano possiede momenti di alto lirismo, con riff granitici e grondanti disperazione, assoli liquidi e dalle limpide melodie, ma sovente il pathos viene interrotto da passaggi interlocutori nei quali la band, con l’intento di inserire ulteriori elementi nel proprio sound finisce solo per diluire la durata dei brani perdendo così di vista l’aspetto emozionale. Tutto ciò rende piuttosto complesso l’ascolto di Oratorium che in ogni caso resta un buon disco, suonato e prodotto con perizia e con un cantante sufficientemente versatile come Sindre Nedland (già alle prese come tastierista e clean vocalist negli ottimi In Vain, nonché fratello di Lars dei Solefald); inoltre una durata superiore ai settanta minuti tende ancor più a disperdere il livello d’attenzione dell’ascoltatore. Detto che in questo lavoro spiccano, tra le sette lunghe tracce, Hate, Song of the Knell e la traccia di chiusura Will You Have Me?, quelle che maggiormente racchiudono passaggi vicini alla ragione sociale del gruppo, i Funeral del 2012 sono una band senz’altro meritevole di attenzione ma difficile da collocare all’interno di un genere come il doom più estremo, nel quale la coerenza stilistica appare più un pregio che non un difetto. Probabilmente questo disco potrà rivelarsi molto più appetibile per chi apprezza le band che sono state citate come possibili termini di paragone o per chi preferisce l’ascolto di sonorità cupe ma ricercate e sicuramente non dai tratti catacombali.
Tracklist :
1. Burning with Regret
2. Hate
3. Break Me
4. Song of the Knell
5. From the Orchestral Grave
6. Making the World My Tomb
7. Will You Have Me?
“Saturn In Ascension” è un gioiello imperdibile per chi predilige il lato più introspettivo ed emozionale della musica in senso lato, non necessariamente solo in ambito doom o gothic
E’ passato ormai circa un anno e mezzo ma ho ancora negli occhi, nella mente e nel cuore, come fosse ieri, la magnifica esibizione dei Saturnus al Carlito’s Way nella loro prima data italiana di sempre: pur di fronte a pochi ma entusiasti fan, la band danese, rimessasi in pista dopo un lungo silenzio con un line-up rinnovata, sciorinò, oltre a tutti i propri cavalli di battaglia (tra i quali un’epocale versione di “I Long”) anche due nuove tracce il cui valore intrinseco, ravvisabile già ad un primo ascolto, faceva intuire lo spessore di quello che sarebbe stato il sospirato ritorno discografico intitolato Saturn In Ascension.
Risolti i problemi di carattere contrattuale e accasatisi con la Cyclone Empire, i nostri hanno così mantenuto la loro media di un album ogni cinque-sei anni ma, alla luce dei risultati ottenuti nel passato e nel presente, tali lunghe attese sono sempre state ripagate con gli interessi.
Dopo l’uscita di un disco dal livello apparentemente irripetibile come “Veronika Decides To Die”, datato 2006, Thomas Jensen ha fortunatamente deciso di ridare impulso alla sua band, che si trovava in una fase di stand-by, richiamando a sé due musicisti che erano già stati presenti in formazione nel passato, il bassista Brian Hansen e il batterista Henrik Glass, e individuando una nuova coppia di chitarristi in Rune Stiassny e in Mattias Svensson (quest’ultimo ha abbandonato la band poco dopo la fine delle registrazioni). Dopo un lungo tour, che come detto, ha per la prima volta toccato anche il suolo italico, il combo danese quindi pone fine a un lungo silenzio discografico con un album che, come era facile intuire dalle premesse, non delude affatto andandosi a collocare sui livelli del suo predecessore.
Per chi non conoscesse sufficientemente la musica dei Saturnus, si può provare a sintetizzarne le caratteristiche come una sorta di evoluzione in senso melodico dei My Dying Bride epoca “The Angel And The Dark River” e “Like Gods Of The Sun”; infatti, laddove la poetica della band di Aaron Stainthorpe si ammanta di una decadente morbosità, Thomas e co. portano alle estreme conseguenze l’aspetto malinconico arrivando a toccare costantemente i tasti giusti per indurre alla commozione l’ascoltatore.
Non c’è dubbio che, per amare i Saturnus, sia necessario essere dotati di una particolare predisposizione che consenta di assaporare in maniera assoluta le emozioni che vengono evocate da ogni loro brano, ed è proprio grazie a queste peculiarità che l’ascolto di “Saturn In Ascension” si rivelerà un’esperienza irrinunciabile.
Se “Veronika …” disarmava qualsiasi difesa già con l’opener-capolavoro “I Long”, Saturn … non è da meno grazie alla fantastica accoppiata iniziale Litany Of Rain – Wind Torn, venti minuti complessivi che fanno da ideale ponte tra i due lavori tramite le dolenti pennellate chitarristiche di Rune, alternate al massiccio e caratteristico growl di Thomas; A Lonely Passage e Call Of The Raven Moon costituiscono, all’interno del disco, due parentesi intimistiche nelle quali il vocalist recita i propri testi melanconici adagiandoli su un delicato tessuto di arpeggi chitarristici. A Father’s Providence appartiene alla categoria dei brani più movimentati dei maestri danesi, in questo simile a “Pretend” e “Murky Waters” del precedente disco, mentre Mourning Sun costituisce il picco qualitativo dell’album, con le sue atmosfere leggermente più cupe rispetto al contesto complessivo, graziate da una chitarra solista che ricama melodie di mesta bellezza e con un Thomas che sfodera un’interpretazione di rara intensità. Forest Of Insomnia e Between chiudono il disco così com’era cominciato e l’ultimo minuto di Saturn In Ascension vede Rune ergersi per l’ultima volta sul proscenio con una linea melodica che commuoverebbe anche il più efferato dei serial killer …
Dopo settanta minuti di poesia allo stato puro, bisogna però dire che appare piuttosto opinabile la scelta di inserire come bonus track “Limbs Of Crystal Clear”, primo brano in ordine temporale pubblicato dai Saturnus e presente sul demo d’esordio datato 1994: un’operazione alla quale possiamo assegnare un significato quasi “archeologico” considerando la distanza, non solo temporale, tra questa vecchia traccia e quelle attuali.
A chi dovesse possedere, quindi, questa versione dell’album, consiglio vivamente di staccare il lettore dopo l’ultima nota di Between per conservare il più a lungo possibile la magia indotta dall’ascolto degli otto brani inediti, riservandosi magari di prestare orecchio in un secondo tempo a questa tangibile testimonianza di quella che è stata l’evoluzione stilistica della band. Saturn In Ascension è un gioiello imperdibile per chi predilige il lato più introspettivo ed emozionale della musica in senso lato, non necessariamente solo in ambito doom o gothic; un altro lavoro superbo per una band straordinaria alla quale chiediamo solo, cortesemente, di non farci attendere fino al 2018 per un nuovo disco …
Tracklist :
1. Litany of Rain
2. Wind Torn
3. A Lonely Passage
4. A Father’s Providence
5. Mourning Sun
6. Call of the Raven Moon
7. Forest of Insomnia
8. Between
Line-up :
Brian Hansen – Bass
Thomas Jensen – Vocals
Henrik Glass – Drums
Rune Stiassny – Guitars, Keyboard
Mattias Svensson – Guitars
I Secret Sphere, con Portrait Of A Dying Heart, giungono al disco che, qualora non li porti alla meritata consacrazione, sarà giusto allora che la nefasta profezia dei Maya si avveri facendo piazza pulita di questa piccola porzione di universo …
Con una storia ultradecennale alle spalle e ben sei full length pubblicati in precedenza, gli alessandrini Secret Sphere, con Portrait Of A Dying Heart, giungono al disco che, qualora non li porti alla meritata consacrazione, sarà giusto allora che la nefasta profezia dei Maya si avveri facendo piazza pulita di questa piccola porzione di universo …
Dopo un buon album come “Alchemist”, rimpiazzare lo storico cantante della band, Roberto Messina, poteva costituire un problema non da poco, brillantemente superato reclutando quella che forse è la migliore voce in circolazione sul suolo italico. Infatti, senza voler nulla togliere a chi l’ha preceduto, Michele Luppi costituisce un valore aggiunto per qualsiasi band e in qualsiasi genere si cimenti. Nonostante egli stesso si consideri un vocalist più orientato verso un hard rock di stampo classico, a mio avviso invece è proprio quando la sua timbrica si intreccia con partiture più robuste, come in questo caso o nel recente passato con i Vision Divine, che il cantante emiliano offre il meglio di se stesso. Se a tutto questo aggiungiamo una band fatta di musicisti dalla tecnica ineccepibile, in grado di passare con disinvoltura da uno strumentale come la title track posta in apertura, degna dei Dream Theater più ispirati, a un brano dalle melodie sognanti come Eternity, che chiude l’album in maniera superlativa, ecco spiegati i motivi della perfetta riuscita dell’album. Ma anche tutto ciò che è racchiuso tra queste due tracce si pone allo stesso livello, a partire da X, che appare quasi un prolungamento del brano precedente prima di evolversi in un power prog vario e trascinante e con un Luppi autore di un crescendo vocale impressionante o The Kill, una vera mazzata nella quale la melodia però resta sempre e comunque un punto di riferimento imprescindibile. Healing possiede armonie irresistibili e sembra essere il classico brano sul quale costruire un video mentre Lie To Me è breve ma dalla grande intensità, che va ulteriormente a crescere nelle conclusive The Rising Of Love ed Eternity, brano quest’ultimo, nel quale tutta la band si esprime ancora una volta a un livello stellare assecondando una prestazione vocale di Luppi da brividi. Dopo anni di impegno contraddistinti da ottima musica, rimasta purtroppo un po’ lontana dai riflettori, si può tranquillamente affermare che Aldo Lonobile e Andrea Buratto hanno trovato la quadratura del cerchio per la band che hanno contribuito a far nascere: questo disco ancor prima della sua uscita ha già raccolto consensi unanimi, non solo in Italia, e questo non può che rallegrarci. Poi, sicuramente ci sarà ancora, come sempre accade e sempre accadrà, qualcuno che non ascolterà neppure una nota di questo disco salvo precipitarsi a fare proprio l’ultimo lavoro di una delle tante band di grido che, ormai da anni, non fanno altro che replicare se stesse, timbrando il cartellino con la stessa puntualità ed entusiasmo dell’ultimo dei “travet” … Un errore nel quale non cadrà, invece, chi nella musica ricerca autentiche emozioni e non una mera esibizione di tecnica fine a se stessa.
Tracklist :
1. Portrait of a Dying Heart
2. X
3. Wish & Steadiness
4. Union
5. The Fall
6. Healing
7. Lie to Me
8. Secrets Fear
9. The Rising of Love
10. Eternity
I Worship costituiscono le colonne d’ercole del funeral doom, il classico punto oltre il quale spingersi appare come un qualcosa di inimmaginabile
I Worship costituiscono le colonne d’ercole del funeral doom, il classico punto oltre il quale spingersi appare come un qualcosa di inimmaginabile; i tedeschi fanno propria la lezione dei padri Thergothon (sentitevi la loro versione di “Evoken” nello splendido album tributo alla seminale band finlandese) portandone alle estreme conseguenze il rallentamento dei suoni, aspetto, questo, che potrebbe apparire paradossale se pensiamo che la caratteristica peculiare del funeral è proprio la dilatazione ossessiva delle note.
In attività ormai da oltre un decennio, i Worship con Terranean Wake sarebbero in teoria solo al loro secondo full-length, dopo l’ormai lontano “Dooom” del 2007, ma di fatto, il demo d’esordio “ Last Tape Before Doomsday” (1999) viene considerato alla stregua di un album vero e proprio, essendo stato unanimemente individuato come l’autentico manifesto musicale del combo bavarese.
Probabilmente la storia di questa magnifica realtà musicale sarebbe stata diversa se nel 2001 uno dei due membri fondatori, Max Varnier, non si fosse tragicamente tolto la vita. Rimasto senza il suo compagno d’avventura, Daniel “The Doommonger” Pharos ha atteso ben sei anni prima di dare alle stampe il magnifico “Dooom”, che presentava anche le versioni ultimate di alcuni brani incompiuti composti da Max. Dopo aver ricostituito una line-up completa, Daniel in questo Terranean Wake propone materiale del tutto inedito e, soprattutto, di produzione recente.
Nonostante questo, il particolare trademark della band tedesca non viene certamente meno e, a mio avviso, voler paragonare questa uscita a quelle precedenti appare un’operazione tutto sommato superflua: del resto il funeral dei Worship resta, come in passato, quanto di più simile possa esistere in campo musicale alla rappresentazione degli ultimi ansiti vitali di un organismo morente. Note dilatate all’inverosimile paiono essere ogni volta il preludio della fine, offrendo un senso di autentico soffocamento salvo poi arrancare anelando l’ultima particella d’ossigeno nel ripartire per l’ennesimo ciclo di questa interminabile agonia. Personalmente ritengo la creatura di Daniel Pharos qualcosa di unico, non solo nel variegato panorama metal, ma anche in quello più ristretto del doom estremo: chi si cimenta nell’ascolto dovrà percorrere una strada lunga, tortuosa e lastricata di sofferenza; ogni volta si proveranno sensazioni diverse rispetto all’occasione precedente, non sempre in senso positivo, giacché la diversa predisposizione d’animo con la quale ci si approccia ai Worship può determinare indifferentemente una dipendenza assoluta o un rifiuto totale e incondizionato.
Resta comunque, come punto fermo, l’elevato valore di un disco suonato e composto da musicisti perfettamente consci di presentare un lavoro dal target quanto mai ristretto e dedicato a pochi ma devoti appassionati. Tide of Terminus, The Second Coming Apart, Fear Is My Temple e End of an Aeviturne sono solo i diversi titoli che separano in quattro parti un monolite di dolore rappresentato in maniera impietosa, senza alcun intento né effetto catartico: una fine ineluttabile, lenta e spaventosa, attende prima o poi ciascun essere pensante e (apparentemente) vivente su questo pianeta, e i Worship ce lo ricordano utilizzando per i loro testi ben tre lingue diverse (inglese, francese e tedesco) nel corso di Terranean Wake , quasi a voler essere certi che il loro messaggio di desolante rassegnazione giunga più efficacemente a destinazione …
Trackist :
1. Terranean Wake I – Tide of Terminus
2. Terranean Wake II – The Second Coming Apart
3. Terranean Wake III – Fear Is My Temple
4. Terranean Wake IV – End of an Aeviturne
Dal punto di vista dei contenuti, come diceva un compianto allenatore di calcio, qui non si fanno né voli pindarici né poesia, l’intero lavoro è una terrificante mazzata che si abbatte tra capo e collo dell’ascoltatore
Ancora death metal di matrice svedese per la Cyclone Empire: questa volta tocca agli Zombified provare a ritagliarsi uno spazio nell’affollato ambiente del metal estremo.
La band di Vastervik, al secondo full-length, dopo l’esordio risalente a due anni fa, si rende protagonista di un feroce assalto sonoro all’insegna di un death-grindcore di buonissimo livello; le bordate del quartetto si rivelano impietosamente prive di compromessi, senza mai perdere un’oncia di intensità nel corso della dozzina di brani presenti in Carnage Slaughter And Death.
Nonostante, come detto, gli Zombified siano solo alla seconda prova su lunga distanza, i componenti della band sono tutt’altro che inesperti, trattandosi di musicisti già coinvolti da tempo in altre band della scena svedese; tra questi il più noto è forse Roberth Karlsson, cantante anche nei ben più melodici Scar Symmetry, che qui può sfogare, in un ambito che maggiormente gli si addice, il proprio efferato growl.
Patrik Myren e Par Fransson, chitarristi e membri fondatori, assieme al drummer Matthias Fiebig (successivamente alla fine delle registrazioni rimpiazzato da Jacob Johansson) fanno dannatamente bene il loro lavoro, alzando di rado il piede dall’acceleratore senza per questo sacrificare l’aspetto tecnico e la nitidezza del suono.
Dal punto di vista dei contenuti, come diceva un compianto allenatore di calcio, qui non si fanno né voli pindarici né poesia, l’intero lavoro è una terrificante mazzata che si abbatte tra capo e collo dell’ascoltatore e, pur non brillando certo per varietà o spunti innovativi, si rivela di un’intensità mostruosa nonché un’autentica goduria per gli appassionati di queste sonorità.
Insomma, se avete avuto una brutta giornata, al rientro a casa l’ascolto di Carnage Slaughter And Death con volume a undici può contribuire efficacemente a scaricare la rabbia o la tensione accumulata, oltretutto in maniera più rapida e divertente di qualsiasi seduta di yoga, reiki o altre pur nobilissime discipline orientali.
Tracklist :
1. Carnage Slaughter and Death
2. Pull the Trigger
3. Withering Souls
4. Suffering Ascends
5. Endless Days of Wrath
6. Clenched Fist Vengeance
7. Reborn in Sin
8. Corrosive Spiral
9. The Flesh of the Living
10. The Last Stand
11. Slayer Fashion
12. Reign of Terror
Line-up :
Patrik Myrén Guitars
Par Fransson Guitars
Roberth Karlsson Vocals, Bass
Jacob Johansson Drums
Mancan sfrutta quest’occasione per sfogare in maniera più immediata e senza alcuna mediazione il suo retaggio black metal e la sua passione e conoscenza delle tematiche occulte ed esoteriche.
Mancan non è certo tipo che ami stare con le mani in mano: a meno di un anno dall’uscita di “Inferno”, per chi scrive uno dei migliori album incisi in Italia negli ultimi anni, e a pochi mesi dalla pubblicazione della raccolta retrospettiva “Cold Winds From Beyond”, recupera il suo progetto Abbas Taeter dopo averlo accantonato per qualche tempo.
A differenza di quanto avviene nella sua band principale, il musicista lucano sfrutta quest’occasione per sfogare in maniera più immediata e senza alcuna mediazione il suo retaggio black metal e la sua passione e conoscenza delle tematiche occulte ed esoteriche. Abbas Taeter è in pratica una one-man band, in particolare se prendiamo in considerazione il materiale inedito presente su Oblio che, infatti, oltre ai primi sei brani di nuova realizzazione, comprende anche la riproposizione di gran parte delle tracce presenti sul precedente “Infernalia”, album contraddistinto invece dalla presenza di diversi ospiti; va detto che queste due parti si amalgamano in maniera naturale e spontanea, nonostante la composizione dei brani risalga a periodi diversi, consentendo al lavoro di conservare nel suo complesso una sufficiente omogeneità stilistica.
Dal punto di vista musicale il black espresso da Abbas Taeter si riallaccia alla tradizione con suoni diretti, non troppo elaborati, ma sempre di grande efficacia; Mancan riesce nell’intento di interpretare il genere nella sua espressione più genuina, affidandosi ad una produzione essenziale senza cadere nella tentazione di sfruttare al massimo le attuali tecnologie, col rischio di rendere il suono artefatto e plastificato. Dal punto di vista lirico, invece, il musicista potentino esprime in maniera credibile la propria concezione filosofica esaltando la spiritualità e i valori del passato, elementi che contribuiscono alla raffigurazione di quest’opera come (da sua stessa definizione) “l’Antimodernità contro il Nulla che avanza” Oblio inizia con Inverno Eterno che introduce uno degli episodi migliori, Tetro Lamento, dalle linee melodiche coinvolgenti e dalle ritmiche trascinanti. Preda, invece, esula parzialmente dal contesto del lavoro, perlomeno dal punto di vista lirico, trattandosi di una vera e propria invettiva nei confronti di quelle persone che un po’ in tutti i settori praticano una fastidiosa forma di parassitismo esistenziale: non solo rabbia ma anche molto sarcasmo, nel solco della “Chiesa Nera” di “Inferno”. Rito dei Fuochi Pagani è un altro magnifico brano che ci riporta alla raffigurazione di riti esoterici e blasfemi ambientati sulle gelide pendici del nostro Appennino, mentre Dannati Dall’Oblio è un’avvincente traccia dai ritmi maggiormente cadenzati; la parte costituita dagli inediti è chiusa degnamente dall’acustica poesia di Antico Sentiero. Vetusta Abbazia inaugura i brani provenienti da “Infernalia” riportandoci alla descrizione di riti occulti e profanatori, che questa volta vengono officiati all’interno di un luogo normalmente destinato a culti più “tradizionali”; la successiva Sanctus In Tenebris rappresenta la quintessenza del black metal: grandi melodie chitarristiche e una voce abrasiva poggiate su una base ritmica martellante.
In questa seconda parte le altre due tracce da rimarcare sono La Notte del Culto e Vitriol, ulteriori conferme della bontà di un’operazione che sarebbe riduttivo considerare un semplice diversivo per Mancan: Abbas Taeter è un progetto importante, che rappresenta una sorta di riaffermazione delle proprie radici musicali, storiche e filosofiche da parte di un’artista tra i più brillanti del nostro panorama musicale. Oblio, collocandosi su un differente terreno musicale e lirico, potrebbe anche non fare breccia su chi, invece, ha apprezzato “Inferno”; l’errore più grave però sarebbe quello di un approccio superficiale nei confronti di un album che, al contrario, va assaporato con particolare dedizione rivelando così, ascolto dopo ascolto, tutto il suo valore.
Tracklist :
1. Inverno Eterno (Intro)
2. Tetro Lamento
3. Preda
4. Rito dei Fuochi Pagani
5. Dannati dall’Oblio
6. Antico Sentiero
7. Vetusta Abbazia
8. Sanctus in Tenebris
9. Hiemis Sevitia
10. La Notte del Culto
11. La Camera delle Torture
12. Vitriol
13. Obedimus
Ospiti :
Atlos – batteria in “Infernalia”
Ramgval – basso in “Infernalia”
Sicarius – Pianoforte in “Oblio” e tastiere in “V.i.t.r.i.o.l.”
Cabal Dark Moon – voci aggiunte in “Infernalia” e “La camera delle torture”
Una prova di grande maturità per una band in costante crescita e un disco che non deluderà chi vorrà provare a dargli un ascolto.
Lateral Constraint è il quarto album per i Gloria Morti, band finlandese attiva da oltre un decennio ma che solo in questi ultimi anni sembra aver intensificato le proprie uscite discografiche; con questo lavoro approda a un solido black death che, pur non apportando novità sostanziali ai consueti schemi compositivi, si dimostra di pregevole fattura in ogni suo frangente.
Le coordinate stilistiche vanno ricercate in primis nei Behemoth, stemperandone però gli aspetti maggiormente brutali attraverso ben dosati momenti dal flavour epicheggiante, sulla falsariga delle migliori uscite dei connazionali Catamenia. Il risultato è una serie di brani potenti e grintosi ma ben memorizzabili proprio grazie alla capacità della band di amalgamare l’impatto della componente death con le linee melodiche tipiche del black, senza dover ricorrere, come invece accade sovente, a un massiccio uso delle tastiere. Così brani come The First Act, HalluciNations e Non-Believer si rivelano gli episodi migliori di un album che si dimostra comunque efficace nel suo insieme, riuscendo a gratificare sia chi predilige sonorità corpose, arricchite dal growl spietato di Psycho, sia chi ricerca le tipiche melodie adagiate su un tappeto fatto di furiosi blast beat . Decisamente una prova di grande maturità per una band in costante crescita e un disco che non deluderà chi vorrà provare a dargli un ascolto.
Tracklist :
1. Lex Parsimoniae
2. The First Act
3. Our God Is War
4. Aesthetics of Self-Hyperbole
5. Sleep, Kill, Regress, Follow
6. HalluciNations
7. Slaves
8. Non-Believer
9. The Divine Is a Fraud
10. Conclusion
Line-up :
Aki Salonen – Bass
Juho Räihä – Guitars
Psycho – Vocals
Kauko Kuusisalo – Drums
Eero Silvonen – Guitars
“A Key To Panngrieb” si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza
I Narrow House appartengono alla nutrita schiera di band dedite a sonorità funeral doom che, in questi ultimi anni, stanno emergendo dai territori dell’ex-Unione Sovietica.
I nostri, nello specifico, arrivano dalla capitale dell’Ucraina, Kiev, e con A Key To Panngrieb pubblicano il loro esordio assoluto; in casi come questi non è infrequente imbattersi in lavori a dir poco minimali oppure suonati in maniera approssimativa e prodotti ancora peggio.
Per fortuna tutto ciò non accade ai Narrow House, che propongono un buonissimo disco ricco di atmosfere tetre quanto eleganti, andandosi a collocare non troppo lontano dalle quanto già fatto dagli ex-connazionali Comatose Vigil e, quindi, mostrando tutta loro devozione verso gli Skepticism, autentici numi tutelari di questa variante atmosferica del funeral.
Nell’esaminare l’album, si nota che i primi tre brani (i titoli in inglese sono frutto di una libera traduzione dal cirillico, quindi non è detto che siano corretti al 100%), nell’arco di mezz’ora abbondante di musica si mantengono abbondantemente all’interno dei binari tracciati da molte altre band, ma non per questo il lavoro del quartetto ucraino deve essere trascurato, tutt’altro: il suono mantiene costantemente un preciso disegno melodico grazie ad atmosfere struggenti sulle quali troneggia il growl maligno di Yegor.
Un discorso a parte va fatto per il quarto e ultimo brano che, in effetti, mostrerebbe interessanti elementi di discontinuità rispetto al resto delle tracce, se non si trattasse della cover (ben camuffata inizialmente dal solito titolo in cirillico) di “Beneath This Face” degli Esoteric.
Complessivamente A Key To Panngrieb si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza; inoltre, considerando che il contenuto di questo lavoro è frutto di una gestazione durata circa due anni e che, nel frattempo, la band ucraina può e deve essere ulteriormente maturata, mi sento di scommettere qualche euro su un prossimo full-length in grado davvero di lasciare il segno.
Tracklist :
1. The Last Refuge
2. Psevdoryatunok
3. The Glass God
4. Beneath This Face
Una buona prova, sicuramente interessante per chi apprezza il doom nella sua versione più classica, con la speranza che sia l’antipasto di una prossima uscita su lunga distanza.
I Dawn Of Winter appartengono alla categoria delle band di culto, ovvero sconosciute ai più ma con uno zoccolo duro di sostenitori, caratteristica accentuata da una produzione piuttosto avara considerando i due soli full-length pubblicati in oltre un ventennio di attività.
Proprio in occasione del ventiduesimo anno di fondazione della band, i doomsters tedeschi hanno dato alle stampe questo Ep che ne conferma lo status offrendo una ventina di minuti di musica del destino di ottima qualità. L’elemento di spicco della band è il vocalist Gerrit Mutz, più conosciuto nell’ambiente per le sue performance con i Sacred Steel, anche se a mio avviso è proprio con i Dawn Of Winter che offre il meglio delle proprie capacità, forse perché un genere come il doom lo costringe in qualche modo a una prestazione più sobria e controllata rispetto a quanto abituato a fare allorchè si trova alle prese con il power metal. Infatti Gerrit riesce a conferire al suo operato, senza strafare, una discreta varietà vocale, passando dalle timbriche evocative e stentoree di stampo Marcolin o Lowe a quelle più rabbiose che gli sono abituali in altri contesti, spesso facendolo all’interno della medesima strofa: l’effetto si rivela davvero interessante e fornisce un piccolo elemento di novità in un lavoro che, al contrario, è perfettamente in linea con i dettami del genere. Candlemass, Solitude Aeturnus e Pentagram sono i termini di paragone più calzanti per il contenuto musicale di questi quattro brani, neppure troppo lunghi per gli standard tipici del doom; mentre le due tracce più brevi Dagon’s Blood e By the Blessing of Death si rivelano maggiormente dinamiche e ritmate, la title track e In Servitude to Destiny mostrano il lato più tormentato e malinconico del quartetto tedesco e ci fanno rimpiangere che questo sia solo un breve Ep e non un album completo. Una buona prova, sicuramente interessante per chi apprezza il doom nella sua versione più classica, con la speranza che sia l’antipasto di una prossima uscita su lunga distanza.
Tracklist :
1. Dagon’s Blood
2. The Skull of the Sorcerer
3. By the Blessing of Death
4. In Servitude to Destiny
Line-up :
Gerrit P. Mutz – Vocals, Guitars
Joachim “Bolle” Schmalzried – Bass
Jörg M. Knittel – Guitars
Dennis Schediwy – Drums
I Ragnarok rappresentano l’integrità e l’essenza primaria del black metal: suoni diretti e penetranti, testi improntati al livore anti religioso e al paganesimo, nessuna concessione a contaminazioni o sperimentazioni stilistiche, tutto questo, tra l’altro, esibendo una tecnica di prim’ordine.
Chiariamo subito che poco ci importa dell’annoso dibattito incentrato su quale sia il black metal vero e quale quello finto: le progressioni verso suoni talvolta lontani dai canoni definiti negli anni’90 sono gradite e apprezzate quanto lo è la riproposizione coerente e competente di un sound che, in questo caso specifico, mantiene intatto il suo carico di malvagità e il suo colore nero pece come impone la sua “ragione sociale”.
Tre quarti d’ora di musica dalla grande intensità che risollevano le sorti dell’asfittico black norvegese di questi tempi, tanto da dover cedere progressivamente la supremazia scandinava ai vicini svedesi: questa è la fotografia di Malediction, che fin dalla copertina blasfema al punto giusto, fa capire che Jontho e co. non sono disposti a fare alcuno sconto.
Non aspettatevi però una sequela di brani brutali ai limiti del parossismo: non di rado le chitarre di DezeptiCunt e Bolverk si librano in brevi ma efficaci passaggi di matrice classica o in riff che seguono linee melodiche ben distinguibili, pur se incuneate tra il blast beat furioso di Jontho e lo screaming abrasivo di HansFyrste; Demon in My View, Necromantic Summoning Ritual e Dystocratic sono solo alcuni dei brani che sono esplicativi del tipo di sonorità che bisogna attendersi dai Ragnarok.
Prova maiuscola, quindi, per una band che, nonostante il livello costantemente alto delle proprie uscite discografiche in una carriera quasi ventennale, ha forse sofferto in passato in termini di popolarità della presenza ingombrante di nomi più reclamizzati. Oggi, invece, tra split, produzioni non entusiasmanti e approdi a sonorità avanguardistiche da parte di tutte queste band, i nostri si issano allo status di portabandiera del movimento,
Se qualcuno pensa che il black metal, nella sua accezione originaria, sia morto e sepolto provi ad ascoltare con attenzione questo disco: non è mai troppo tardi per rivedere le proprie convinzioni ….
Tracklist :
1. Blood of Saints
2. Demon in My View
3. Necromantic Summoning Ritual
4. Divide et Impera
5. (Dolce et Decorum est) Pro Patria Mori
6. Dystocratic
7. Iron Cross – Posthumous
8. The Elevenfold Seal
9. Fade into Obscurity
10. Sword of Damocles
I WildeStarr sono una band dalla grande maturità che non va a discapito della freschezza compositiva rinvenibile all’interno di “Tell Tale Heart”.
Uno dei lati positivi dello scrivere recensioni é quello d’essere “costretti” ad ascoltare dischi che altrimenti si sarebbero bellamente ignorati: questo lavoro dei WildeStarr appartiene per l’appunto alla categoria di quelli che, indipendentemente dai gusti personali, sarebbe delittuoso snobbare.
Nonostante sia solo al secondo full-length, la band californiana non è certo composta da musicisti di primo pelo (non me ne voglia la bravissima ed affascinante London Wilde) sebbene l’unico realmente noto al grande pubblico sia il chitarrista e bassista Dave Starr.
Detto della vocalist e tastierista, dal consistente passato di tecnico del suono e di turnista in studio, Dave è stato per circa vent’anni il bassista dei Vicious Rumours e credo che tanto basti per definirne il curriculum musicale, mentre il drummer Josh Foster è, almeno per me, un nome relativamente nuovo.
La proposta del gruppo è inevitabilmente orientata a un power metal melodico ma ugualmente robusto, caratterizzato dalla pazzesca voce di London, una sorta di versione femminile del primo Rob Halford, tanto per capirci: anche chi è meno avvezzo a questa timbrica piuttosto acuta, superata una prima fase di ambientamento, non potrà fare a meno d’apprezzare la tecnica esibita dalla bionda cantante.
Così, pur restando nei canoni tipici del power d’oltreoceano (Crimson Glory e, ovviamente, Vicious Rumours), il sound dei WildeStarr non può che trarre linfa dai Judas Priest, senza tralasciare i primi Queensryche.
L’opener Immortal vale come manifesto dell’album, trattandosi di un brano che resta impresso in maniera immediata per le sue azzeccate linee melodiche e una prestazione d’assieme di assoluta eccellenza. Transformis Ligeia conferma che il livello qualitativo del primo brano non è stato un evento sporadico e lo stesso avviene per tutte le tracce successive con menzione d’obbligo per la splendida The Pit Or The Pendulum (uno dei titoli che mostrano la dedizione di London per l’opera di E.A.Poe).
I WildeStarr sono una band dalla grande maturità che non va a discapito della freschezza compositiva rinvenibile all’interno di Tell Tale Heart. Ottimo disco, che gli appassionati del power più genuino non dovrebbero farsi sfuggire.
Tracklist :
1. Immortal
2. Transformis Ligeia
3. A Perfect Storm
4. Valkyrie Cry
5. Last Holy King
6. In Staccata
7. Not Sane
8. Seven Shades of Winter
9. The Pit or the Pendulum
10. Usher in the Twilight
Line-up :
Dave Starr – Bass, Guitars
London Wilde – Keyboards, Vocals
Josh Foster – Drums
I Whyzdom riescono a differenziarsi dalla massa degli epigoni di Nightwish e co. grazie ad una buona dose di personalità, non rinunciando mai a mostrare le proprie radici metal, pur se inserite in un contesto sinfonico
L’ennesimo gruppo symphonic gothic metal con voce femminile ? I francesi Whyzdom sono senz’altro molto di più: in attività dal 2008 la band parigina ha al suo attivo un disco d’esordio come “From The Brink Of Infinity” che li ha portati all’attenzione di pubblico e critica; questo Blind? conferma tali impressioni positive anche se, forse, per il salto definitivo nell’empireo del genere manca ancora qualcosina.
In effetti, i Whyzdom riescono a differenziarsi dalla massa degli epigoni di Nightwish e co. grazie ad una buona dose di personalità, non rinunciando mai a mostrare le proprie radici metal, pur se inserite in un contesto sinfonico; altro elemento di distinzione è la voce di Elvyn, che, pur non possedendo doti superiori alla media, si rivela una gradita alternativa alle velleità liriche, spesso fuori registro, di molte sue colleghe.
Il resto della band non si limita a svolgere il semplice ruolo di “supporting cast” nei confronti della protagonista femminile, come avviene sovente quando ci si limita a copiare senza correre alcun rischio e addirittura, in certi casi, i ragazzi francesi osano qualcosa in più di quanto dovrebbero, intento più che lodevole che dimostra la voglia di non accontentarsi dell’esecuzione del classico compitino.
Proprio per questo, però, qualche passaggio talvolta non convince sia perché forse troppo intricato sia in buona parte per una produzione non sempre limpidissima, specie nei momenti in cui dovrebbe venire esaltata la coralità del suono: succede, per esempio, che un brano come Paper Princess finisca per soffrire di certi passaggi nei quali l’assieme degli strumenti invece di enfatizzare il sound finisce per affossarne il pathos nonostante un ritornello coinvolgente, e lo stesso difetto si manifesta anche nella successiva The Spider.
Inoltre, la decisione di presentare ben undici brani della durata media di circa sette minuti ciascuno si rivela alla lunga controproducente, quando una maggiore sintesi avrebbe sicuramente giovato alla causa: brani di grande efficacia come The Lighthous, Cassandra’s Mirror,On the Road to Babylon e The Foreseer, se inseriti in un contesto meno dispersivo, avrebbero potuto portare Blind? a una valutazione ben più elevata.
Ma già così l’operato dei Whyzdom dovrebbe convincere anche i meno predisposti all’ascolto di questo genere, facendo compiere ai nostri un altro importante passo verso quell’eccellenza che, oggi, non appare davvero un miraggio irraggiungibile.
Tracklist :
1. The Lighthouse
2. Dancing With Lucifer
3. Cassandra’s Mirror
4. On the Road to Babylon
5. Paper Princess
6. The Spider
7. The Wolves
8. Venom And Frustration
9. Lonely Roads
10. The Foreseer
11. Cathedral of the Damned
Anamnesi è il progetto solista dell’omonimo musicista di Oristano, già attivo come batterista in diverse band isolane; “Descending The Ruins Of Aura” ne costituisce la seconda prova su lunga distanza dopo l’esordio autointitolato risalente a due anni fa.
Sgombrando subito il campo dai pregiudizi che spesso accompagnano l’operato delle one-man band, il lavoro del quale mi accingo a parlare si è rivelato sin dalle prime note una graditissima sorpresa: Emanuele (questo è il suo vero nome) riesce dove molti altri nomi, ben più considerati dalla stampa specializzata, hanno fallito.
“Descending …” è un disco che riesce mirabilmente a coniugare l’asprezza delle partiture black con il mood malinconico del miglior depressive, esibendo una serie di brani nei quali non viene mai meno il coinvolgimento emotivo: ecco, la dote principale di questo lavoro è la sua intensità, la capacità di penetrare nel cuore dell’ascoltatore, anche nei momenti in cui le sonorità di stampo ambient divengono predominanti.
Una gamma di sentimenti contrastanti, sebbene complementari, viene esibita nel corso di questi tre quarti d’ora di ottima musica, spaziando dalla rabbia alla desolazione, dall’angoscia alla malinconia, tramite una resa sonora piuttosto buona per gli standard del genere.
Condivisibile, come sempre, la scelta di utilizzare prevalentemente la nostra lingua per veicolare con maggiore efficacia il contenuto dei testi; purtroppo anche in questo caso, come in molti altri già affrontati, la produzione tende un po’ a sotterrare la voce rendendone difficile la comprensione in determinati passaggi.
“Litany of Suffering and Reaction” e “Julia Carta” sono I brani che personalmente prediligo ma, davvero, l’intero album è meritevole di attenzione da parte di chi ama queste sonorità che, proprio in occasioni come questa, sono realmente in grado di trasmettere quelle sensazioni che spesso si cercano invano in prodotti ben più reclamizzati.
Una menzione d’obbligo va anche alla Naturmacht Productions, piccola label tedesca che si occupa meritoriamente di promuovere musica lontana anni luce dal mainstream e che, tanto per mettere subito in chiaro le cose, nella propria homepage dichiara di non ammettere nel proprio roster band coinvolte in forme di estremismo politico o di esaltazione della razza, privilegiando invece chi tratta, in particolare, tematiche che vedono come protagonista incontrastata “madre natura”.
Track-list :
1. Intro (First descent)
2. Litany of Suffering and Reaction
3. La Quiete Del Silenzio
4. Nocturnal Path
5. Toward Rebirth
6. Annega La Coscienza
7. Julia Carta
8. Ciò Che Una Volta Era (Burzum Tribute)