METEORE: LUBRICANT

Progressive Grind/Death Metal finnico. Una band all’avanguardia per gli anni novanta, forse troppo. Poco capiti all’epoca, restano oggi un esempio, per le decine di band che desiderano sperimentare nuove sonorità, sulle solide basi del genere più estremo.

Il titolo del loro “breve” libro, potrebbe essere questo: ”nascita prematura spesso coincide con morte prematura”.

Si, proprio vero. La grande sfortuna del combo di Nokia (avete capito bene; la piccola città finlandese che ha dato il nome alla nota fabbrica di cellulari…) fu quello di essere nati troppo presto, in un mondo, quello dei primi anni novanta, dove il fan medio del Death Metal non cercava suoni sperimentali, progressivi o comunque troppo ricercati. Il deathster di allora voleva solo rimanere travolto da un treno in piena corsa; abbandonarsi a schitarrate sparate alla velocità della luce, tempi serratissimi, growls cavernosi che spesso non facevano nemmeno intuire che la band stesse cantando in inglese (o addirittura che stesse cantando un vero e proprio testo). Invece, i 4 coraggiosi ragazzotti finlandesi decisero di andare controcorrente (anche lo stesso monicker, fu scelto come “anti Death Metal Band’s name”), proponendo un Death a tratti addirittura Grindcore, davvero d’avanguardia, ricco di spunti progressive, suoni sperimentali e momenti quasi futuristici (almeno per quei tempi) accompagnati da un cantato che spesso faceva spola dal classico growl al più morbido dei clean. Decisione coraggiosa, ma che – ahimè – oggi li ha relegati a semplice meteora del periodo, capace sì di donarci perle di culto come il demo “Swallow The Symmetric Swab”(1991) e il famosissimo ep “Nookleptia” (1993), ma che allora, non fecero presa nel cuore dei fan. Ciò li costrinse dopo una brevissima vita musicale, a sciogliersi a distanza di soli tre anni dalla loro nascita (sono nati verso la fine del 1989 come Lubricant; in precedenza come O.V.D. suonavano un basilare Speed Metal). In realtà oggi, i non più giovani “lubrificati”, fanno ancora qualche apparizione dal vivo, ma senza far uscire nulla di nuovo.

Discography:
Subscription of Hydatidocele – Demo – 1990
Surgical Centesis – Demo – 1991
Swallow the Symmetric Swab – Demo – 1991
Nookleptia – EP – 1993
Zander (Enslaved / Lubricant / Necromance / Cadaver Corpse) – Split – 1993
Swallow This – Compilation – 2017

Line-up
Tero Järvensivu – Bass
Aki Ala-Kokko – Drums
Sami Viitasaari – Guitars
Sami Paldanius – Vocals

DODSFALL – Døden skal ikke vente

Ottimo lavoro per i norvegesi capitatati dal messicano Ishtar che, coadiuvato dall’ottimo drummer Telal, ci propongono – dopo ben 5 anni dall’ultimo full length – 9 tracks (più outro) di puro, vero e sacrosanto (si fa per dire…) satanico Black Metal Scandinavo.

Il quinto lavoro del duo originario di Bergen è decisamente da considerarsi l’album più riuscito, grazie anche ad una produzione pressoché perfetta, curata da Tore Stjerna (Mayhem, Behexen, e Watain). Rispetto al passato, cresce la padronanza degli strumenti dei Nostri e, soprattutto la chitarra di Ishtar, diviene parte fondamentale di un lavoro di grande impatto, mai alienato a schemi prefissati, mai stereotipato, né troppo scontato e né oltre misura convenzionale.

Ciò che ne emerge, è un sound decisamente personalizzato, arricchito da forti accenti melodici (ma mai troppo ruffiani), e momenti di vero e puro Thrash (come in “Svarta Drömmar” e nella successiva “Grå Himlar”), soprattutto nei mid-tempo, che inframezzano velocità, tipiche del genere, sempre guidate sapientemente da Mr.Israel (così pare essere il suo nome da “umano”). Dopo “Kaosmakt”, già si percepiva che il processo di maturazione avrebbe ben presto (si fa per dire, ci sono voluti 5 anni per vederli nuovamente approdare sulle scene con un nuovo album..) portato al lavoro definitivo. “Døden Skal Ikke Vente” è quanto di meglio un fan di Immortal, Urgehal, Tsjuder (ma non così violenti), Carpathian Forest (sebbene leggermente meno atmosferici della band di Nattefrost) possa chiedere; se poi aggiungiamo un pizzico di Taake e diamo una rapida occhiata agli svedesi Rimfrost…il gioco è fatto! Il sound sostenuto e profondamente marziale di un brano come “Kampsalmer”, pare provenire direttamente da “Northern Chaos Gods” (mi si conceda un piccolo paragone al capolavoro del 2018…). I ritmi dettati dal drummer Telal (Astaroth, Kvalvaag, Troll) sono perfetti, mai improvvisati, ed in alcuni pezzi, come detto, fanno l’occhiolino al Thrash Metal, nel medesimo istante in cui i riff di Ishtar graffiano i nostri padiglioni auricolari, tentandoci ad un headbanging, in puro stile ottantiano (ma decisamente più moderno e “fresco”). La voce di Ishtar è perfetta per il genere; va a sostituire in primis quella dei primi album, di Vassago Rex (fondatore ed unico membro ufficiale dei blacksters Arvas) ed in secundis quella di Adramelech (Svarthaueg) presente su “Djevelens Evangelie” e “Kaosmakt”. Il risultato, è decisamente più suggestivo e, con tutto il rispetto per i precedenti “screamers”, Ishtar è un gradino superiore (forse due).Una curiosità proprio su Ishtar. Le sue fortune giunsero solo quando poco più di dieci anni fa, decise che il Messico (si, perché Is – come spesso si fa chiamare – è nato a León, popolosa città situata nell’epicentro dell’immenso stato Centro-Americano) non poteva garantirgli le risorse necessarie per la lunga scalata verso il successo musicale; d’altronde, per una band Black Metal, quale altra nazione, potrebbe competere con la patria del Metallo Nero? E’ anche interessante sapere che alcuni progetti “messicani” (nonostante la distanza siderale tra la sua attuale residenza, la Svezia, e la sua terra natia) proseguono tranquillamente (i deathsters Deformate e i doom deathsters Sorrowful, ad esempio). Testi rigorosamente in norvegese (mi chiedo come potrà essere la pronuncia, viste le differenze abissali tra le due lingue) e ovviamente, unicamente improntati sui rigidi schemi del satanismo e della misantropia, fanno da cornice ad un lavoro classico nel suo genere, ma non per questo evitabile; anzi, una collezione Black che si rispetti, non può certo essere deficitaria di “Døden Skal Ikke Vente”. Che altro aggiungere? Buon acquisto!

1. Hemlig vrede
2. Tåkefjell
3. Svarta drömmar
4. Grå himlar
5. Kampsalmer
6. I de dødens øyne
7. Ødemarkens mørkedal
8. För alltid i min sjæl
9. Ondskapelse
10. Skogstrollet

Ishtar – Vocals, Guitars, Bass
Telal – Drums

DODSFALL – Facebook

METEORE: ALTAR

Un buon combo che offrì scampoli di buon Death nordico; produzioni di medio/basso livello, e capacità strumentali un poco sotto alla norma, non gli permise mai di emergere ed elevarsi sino a garantirsi un posto a fianco di Dismember, Entombed o Unleashed, nell’Olimpo del Death Metal Svedese.

Formatisi nel 1990 da un idea di due ex membri dei Wortox (band Death Metal in cui militò anche Perra Karlsson, noto batterista di diverse band svedesi tra cui In Aeternum, Nominon, Deströyer 666, ma soprattutto famoso come live session member di Benediction, Interment e Nasum), gli Altar, dopo un demo tape del 1991 (No Flesh Shall Be Spared) uscito un po’ in sordina, forse schiacciato dall’imponente concorrenza dell’ondata Death Svedese di quell’epoca (quello stesso anno uscirono Where No Life Dwells degli Unleashed, Clandestine degli Entombed, Nothing But Death Remains degli Edge Of Sanity e Like An Everflowing Stream dei Dismember, solo per citarne alcuni…) riuscirono ad imporsi sulla scena locale solo l’anno successivo, con lo split album, oramai culto, con i finlandesi Cartilage (altra band poco fortunata, ma che seppe donare alle scene di allora, musicisti che finirono per suonare con band del calibro di Vomiturition, Rotten Sound, Swallow The Sun, Enochian Crescent e, nel caso del batterista Kai Hahto, addirittura, seppur in veste di live session member, Nightwish).

In realtà lo stesso split deficitava un po’ sia come produzione, che da un punto di vista di maturità compositiva. Ovviamente i fan dell’epoca, pur non troppo schifiltosi, si stavano già abituando bene e snobbarono un po’ i Nostri; basti pensare solo agli album succitati, che dirompevano sulle scene grazie alle mostruose capacità tecniche dei loro componenti e a produzioni di altissimo livello (per quell’epoca almeno). Competere con Nuclear Blast, Earache o Century Media, apparve si da subito impresa improba per la piccola spagnola Drowned Production del volenteroso Dave Rotten (frontman degli Avulsed), che comunque portò alla ribalta nomi che oggi ridondano ancora (Demigod, Severance, e appunto Avulsed). Poche finanze, pochi strumenti, tanta buona volontà, spesso possono non bastare…Oggi di strada ne ha fatta il buon Dave (prima Repulse Records, poi Xtreem, mica poco…), ma nei primi anni novanta, le sue produzioni rimanevano un po’ relegate nell’anonimato, e i Nostri – purtroppo per loro – non fecero eccezione. Dopo questo split, gli Altar ci provarono ancora con un paio di promo tape, ma senza successo, sino al 1995, anno del definitivo scioglimento. Nel 2012 la Konqueror Records di Singapore fa uscire una loro compilation contenente tutto lo scibile della band di Kumla, abbastanza facilmente reperibile ancora oggi. Ad ogni modo, per i veri cultori dell’Underground è ancora possibile trovare in giro una ristampa dello storico split (cd doppio), uscito nel 2015, grazie a Dave Rotten, ora come Xtreem, (sorpresi?) Buona ricerca!

Discography:
No Flesh Shall Be Spared – Demo – 1991
Rehearsal Tape – Demo – 1992
Ex Oblivione / The Fragile Concept of Affection – Split – 1992
Promo 1993 – Demo – 1993
Promo 1994 – Demo – 1994
Dark Domains – Compilation – 2012

Line-up
Magnus Carlsson – Bass, Vocals
Fredrik Johansson – Drums
Jimmy Lundmark – Guitars
Johan Bülow – Guitars

Vargrav – Reign in supreme darkness

Secondo lavoro per la one-man band di Hyvinkää (Finlandia). Uscito per la prolifica Werewolf, Reign in Supreme Darkness è un riuscito affresco di quanto di più malvagio il Black Metal scandinavo possa oggi proporci.

I Vargrav, one-man band finlandese capitanata dal misterioso V-Khaoz (all’anagrafe Ville Pallonen), è quanto di più arcano ed impenetrabile ci possa oggi capitare tra le mani.

Già il nome scelto, porta con sé enigmatici occulti significati. Secondo Mr. Pallonen, intanto, il nome deriva dalla parola svedese varg (lupo) e grav (tomba); inoltre Vargrav è un palindromo (si legga al contrario, non cambia nulla) composto da 7 lettere. Sette, come ben sappiamo è il numero – tra gli altri – più spirituale, il numero magico per eccellenza, della ricerca e dell’analisi mistica. Pensiamo solamente a quante volte il numero sette compare nell’Antico Testamento oppure nella nostra vita. Per fare alcuni esempi, ricordiamo che 7 sono i giorni della settimana, 7 i pianeti sacri, 7 le virtù e i vizi capitali, 7 i Sacramenti, 7 le braccia del candelabro ebraico, 7 gli anni di disgrazia provocati, secondo la tradizione, dalla rottura di uno specchio, 7 gli anni necessari affinché il corpo si rigeneri, 7 gli attributi fondamentali di Allah (tant’è vero che il 7 è numero della perfezione nell’Islam), e ancora, i sette colori che compongono l’arcobaleno, le sette note musicali, i sette passi del Buddha, i 7 Chakra e così via. Inoltre non dobbiamo dimenticare che 7 deriva dall’unione del 3 (il ternario divino) con il 4 (il quaternario terrestre). Guarda caso è anche il numero della Piramide, che è formata dal triangolo, 3, su quadrato, 4. Infine – come diceva Ippocrate – Il sette, per le sue virtù celate, mantiene nell’essere tutte le cose; esso è dispensatore di vita, di movimento ed è determinante nell’influenzare gli esseri celesti.
Insomma, comunque si guardi il nome Vargrav, si viene magicamente catapultati nel misticismo simbolico, non solo religioso, nell’introversa introspettiva analisi del tutto, del mondo terreno, del mondo spirituale. E la sua musica, il suo secondo sforzo discografico (dopo un buon Netherstorm del 2018), non poteva che assumersi il gravoso incarico di rappresentare ed esprimere quanto il suo stesso monicker rappresenta. Ovviamente, trattandosi di Black Metal, il tutto viene qui corredato da atmosfere profondamente maligne e malignamente profonde. Sì, perché Reign in Supreme Darkness è un epicureo dell’orrore, ma di sensismo opposto, ove il criterio del bene viene implacabilmente rimpiazzato dal piacere del male. Un album che sgorga malvagità da ogni singola nota, epicamente catapultato in epoche antiche di cavalieri neri, di castelli maledetti, di demoniache creature, e di crudeli battaglie senza fine, sovrastate da un empireo nero e viola e da una luna piena, in parte offuscata dall’immagine di una crudele magica Nera Mietitrice (si veda all’occasione, la cover dell’album). Un Black Metal imponente, maestoso, corroborato da un uso costante dei synth, che qui non vivono di vita propria, non servono per creare singoli momenti dark ambient, di scontata atmosfera black lounge; divengono invece – in brani come In Streams from Great Mysteries o The Glory of Eternal Night ad esempio – parte integrante ed inseparabile di tutta la struttura musicale, accompagnando in solido chitarre e basi ritmiche – il tutto attestato sulle stesse medesime frequenze , com’è d’altronde tipico del Black Metal – in un oscuro viaggio sonoro, immaginifico (come potrebbe dirci D’Annunzio) e pertanto abile creatore e suscitatore di immagini, nere, tetre, malevole, diaboliche, inumane. L’iniqua Arcane Stargazer che chiude l’album, è il pezzo più riuscito. Più di otto minuti glaciali, in un ossimoro di gelido calore avernale, di puro Black nordico che, ricolmo di annichilente solitudine (alone in this cold tower), conduce l’ascoltatore alla ricerca vana di risposte dagli astri (i seek for answers from the stars), avvolto dalle tenebre più totali (in the absence of light), prima di un ultimo saluto alla Nera Mietitrice (i greet the glorious death).
Da Crowned by Demonstorms: Coronati ad tenebras / de gremio, sedens super peccatum / atria morte / chorus triumphi claritate / tollens ad sidera gladio / novam periodum incipere (Circondati dalle tenebre / dal grembo, siede sopra il peccato / atrio della morte / con lo splendore di cori trionfali / colui che ascende alle stelle con la spada / per l’inizio di una nuova era), che altro aggiungere?

Tracklist
1. Intro – Et in Profundis Mysteriis Operta
2. The Glory of Eternal Night
3. Dark Space Dominion
4. In Streams from Great Mysteries
5. As the Shadows Grow Silent
6. Crowned by Demonstorms
7. Godless Pandemonium
8. Arcane Stargazer

Line-up
V-Khaoz – All instruments

VARGRAV – Facebook

FIDDLER’S GREEN – Heyday

Sedicesimo album per i re dello Speed Folk teutonico. Una carriera formidabile, costruita su ben 16 album, che dal folk basilare delle origini, ha saputo evolversi nel sound attuale, aggressivo ma melodico, incalzante ma soave ed armonioso nel contempo, decretandone per la band il successo planetario e divenendo fonte di ispirazione nell’ambito del genere Celtic Folk.

Quando nei primi anni ’80 nacque quello che allora veniva semplicemente chiamato Irish Folk con approccio Punk, ad opera dell’iconografico Shane MacGowan (nel lontano 1980, leader e fondatore dei Nipple Erectors, poi Pogue Mahone, anglicizzazione del provocatorio termine gaelico irlandese póg mo thóin (“baciami il sedere”), infine, finalmente, The Pogues), nessuno si sarebbe mai aspettato il successo che il genere, ad oggi, ha ottenuto. Migliaia di fan da tutto il Mondo, migliaia di band da tutto il Globo.

Fondere sonorità tradizionali, che trovano profonde radici negli antichi suoni della verde Irlanda, di popoli di cui si è oramai quasi perso memoria, abbinando antichi strumenti delicati, e al contempo spesso allegri e scanzonati, capaci di proiettare l’ascoltatore in epoche remote e fiabesche, tra verdi boschi abitati da creature leggendarie, con l’aggressività di un genere crudo, grezzo, ma soprattutto molto disincantato e realistico, dipinto spesso di quell’opaco grigiore che ben rappresentava lo stato d’animo del rivoluzionario movimento punk quando nacque, nei lontani anni ’70, apparve subito quanto di più azzardato, si potesse approcciare da un punto di vista meramente musicale.
Eppure, proprio grazie a quei ragazzacci di King’s Cross, oggi possiamo deliziarci con una miriade di band da tutto il mondo che, in maniere più o meno personali, ci propongono quello che oramai oggi viene definito più in senso generale, “Irish Punk” o meglio ancora “Celtic Punk”. Sì, anche perché seppur vero che il suono trova radici profonde nella Verde Terra, occorre ricordare che la musica celtica, da cui nasce la stessa musica popolare irlandese, si sviluppò un po’ in tutta Europa (dal IV al III secolo A.C.); ovunque la popolazione dei Celti si spostasse – come del resto qualsiasi popolazione, faceva nell’antichità – portava con sé usi e costumi, tra cui – appunto – la propria musica. Isole Britanniche, Gallia, Pannonia (l’attuale territorio occupato da Ungheria, Repubblica Ceca, Austria, Croazia e Slovenia) ed Iberia, costituivano all’epoca le loro terre e, non dimenticando le influenze che ebbero i contatti con i Germani e i Romani stessi, non possiamo oggi pertanto stupirci, che le band che seguono questo filone, provengano un po’ da tutto il Vecchio Continente e non solo dall’attuale Gran Bretagna. Miscelando sapientemente le proprie tradizioni più antiche, i loro tipici strumenti musicali con il tradizionale Folk Irlandese (cornamusa, violino, fisarmonica, tin whistle, fiddle, mandolino, banjo ecc.), sempre sorretti dalla semplicità della struttura Punk britannica, creano il genere Celtic Punk, appunto; sicuramente uno dei generi musicali più ballabili, spensierato e spesso spregiudicato, ma al contempo ricchissimo di pathos e di antiche atmosfere pagane, che la Musica oggi possa annoverare.
Non dobbiamo neanche dimenticare che Paesi come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, terre che hanno conosciuto l’immigrazione britannica sin dall’800 (per tacer dell’immensa invasione irlandese del 1879, a seguito della Grande Carestia che subì l’Isola), hanno da sempre goduto del l’influenza delle tradizionali musiche della Terra d’Albione (non mi soffermo per ragioni di spazio, su quanto l’Irish abbia condizionato la nascita del Country, non basterebbe un libro di 1000 pagine…).
Ciò che è curioso e molto particolare, è che al giorno d’oggi, le band più famose (eccezion fatta per i Pogues, ovviamente) provengono da ogni, ma molto meno dalla Gran Bretagna. Mentre nell’Isola rimangono forti gli accenti più tradizionali del Folk puro ed incontaminato, forse, e dico forse, il Celtic Punk ha trovato terra fertile proprio tra i discendenti stessi degli immigranti, sparsi un po’ in tutto il mondo che, quasi presumibilmente spinti da uno spirito reazionario, hanno voluto urlare le origini delle loro terre natie (in maniera diremmo rivoluzionaria, come vuole il Punk, del resto), tristemente e obbligatoriamente abbandonate secoli or sono, spinti dalla miseria, alla ricerca di uno scampolo di felicità e di speranza.
E allora partiamo in sella del verde destriero a conoscere i Flogging Molly, band losangelina formatasi nel 1997 ad opera di Dave King (già voce dei mitici Fastway, gruppo metal di inizio anni ’80 formato da un certo “Fast” Eddie Clarke dei Motorhead) che prese il nome da un pub di Los Angeles (Molly Malone) intitolato alla leggendaria pescivendola – e non solo…– di Dublino. Sempre dagli USA i Dropkick Murphys ed i Tossers, dal Canada i Real Mckenzies (band fondata da Paul McKenzie, di chiarissime origini scozzesi) o i “polkeggianti” The Dreadnoughts. Un salto (molto lungo) in Australia per i Rumjacks, per poi giungere nel Vecchio Continente in Repubblica Ceca con i Paddy And The Rats, in Svezia con i Sir Reg e addirittura in Italia con i Rumpled e gli Uncle Bard And The Dirty Bastards. Infine, dalla Sassonia (Germania, scusate) gli O’Reilly And The Paddyhats, i Mr.Irish Bastards e soprattutto i Fiddler’s Green bavaresi.
Solo per citarne alcuni…
I Nostri, oggetto di questa recensione escono oggi con il loro sedicesimo album (!) in quasi 30 anni di carriera. Inizi molto folk, per poi subire anche loro – negli anni – le profonde influenze del Punk ma anche della musica Rock europea e soprattutto teutonica, di metà anni novanta. Così – autodefinendosi essi stessi Speed Folk band – , vedono, nel tempo, accrescere il numero di fan, divenendo quello che oggi si potrebbe definire una band Mainstream del genere, a livello mondiale. Heyday è un album fantastico (finito ben settimo nella GfK Entertainment Charts teutonica). Divertente, ballabile sino all’ultima nota. Suonato magicamente da una band che oramai oggi, ha una padronanza degli strumenti pressoché totale. Brani come No Anthem, Limerick Style o la stessa title track trasudano energia, vigore ed un’eccezionale grinta che potrebbe indurre alla danza sfrenata anche un bradipo sudamericano, sino al totale sfinimento e a morte certa. Il duetto vocale tra Patrick “Pat” Priziwara e Ralf “Albi” Albers è semplicemente divino: un botta e risposta dove l’uno domanda e l’altro semplicemente risponde, annullando totalmente il vecchio concetto di main e di backing vocals. Qui esiste un’unica voce, portata d’incanto su tonalità diversissime ma, con egregia maestria, amalgamate nell’Uno, in un amorevole connubio, sebbene mantenendo ognuna, sempre le proprie caratteristiche primigenie (Pat è il ruvido mentre Ralf è il melodico), o più semplicemente, come direbbe Erich Fromm, “sembra un paradosso, ma nell’amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due”. Drumming quasi rocambolesco e travolgente (Frank Jooss), sostenuto dai bassi toni di Mr. Schulz (basso, appunto), avvolti nel cellophane delle armonie dello stesso Pat (qui come lead guitar), e avviluppati dalle meravigliose eufonie del violino di Tobias Heindl (grandioso!) e dalle fiabesche euritmie della fisarmonica di Stefan Klug, veniamo proiettati direttamente nella festa, ove la birra scorre a fiumi (dal brano Slainte, gaelico termine accostabile al nostro Cin Cin) e l’alcool rappresenta il leitmotiv della nostra serata (da Cheer Up, una sorta di in alto i bicchieri), e dove la meta finale non è conosciuta, ma poco importa (come per il vagabondo di Born To Be A Rover), tanto quello che ci interessa è vivere una bella giornata (One Fine Day) insieme ai nostri amati amici e cari, come tutti fossimo Uno (Together As One).
Null’altro da aggiungere, se non uno spassionato consiglio a chiunque stia passando un periodo grigio o peggio nero, della propria esistenza. Ascoltare Heyday (ed i Fiddler’s Green in generale), significa Vivacità, Vigoria, Vitalità o più semplicemente significa Vita . Un’ora (comprese bonus…) forse rappresenta poco, nel lungo cammino dell’esistenza umana, ma se è vero che la vita è solo un passaggio, in questo passaggio seminiamo almeno fiori, (come ci raccontava Michel De Montaigne), o almeno qualche verde trifoglio…

Tracklist
01. Prelude
02. The Freak of Enniskillen
03. No Anthem
04. Limerick Style
05. Farewell
06. Born to be a Rover
07. The Congress Reel
08. Slainte
09. Better You Say No
10. Cheer Up
11. One Fine Day
12. John Kanaka
13. Heyday
14. Steady Flow
15. Together as One

Line-up
Ralf “Albi” Albers – voce, chitarra acustica, bouzouki, mandolino, banjo
Pat Priziwara – voce, chitarra, bouzouki, mandolin, banjo
Tobias Heindl – violino
Stefan Klug – accordion, bodhran
Rainer Schulz – bass
Frank Jooss – batteria

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https://www.youtube.com/watch?v=hLwK6bOzQOA

DRUDKH – A Few Lines in Archaic Ukrainian

Ottima raccolta della Season of Mist Underground Activists che include tutti i brani dei tre split usciti a cavallo tra il 2016 e il 2017 dei Drudkh. Una buona occasione per assaporare anche quelle canzoni che, per le tirature limitate degli split stessi, potrebbero risultare non pervenute, ad irreparabile danno dei nostri padiglioni auricolari.

I Drudkh di certo non necessitano di troppe presentazioni.

Mainstream della scena Black Metal europea, gli ucraini di Kharkiv hanno all’attivo ben 11 full-length, più alcuni ep e tre split (il più famoso quello con gli storici blackster norvegesi Hades Almighty del 2016, uscito per Dark Essence) ed un paio di compilation, Eastern Frontier in Flames del 2014 e, appunto, questa nuovissima A Few Lines In Archaic Ukranian, entrambe uscite con titolo in cirillico (come del resto accade per tutta la loro produzione) per la Season of Mist Underground Activists (la sorella minore della major francese). La scelta per queste due compilation, ad onor del vero è stata azzeccatissima. Invece che produrre il solito Best Of, che potrebbe anche annoiare il fan che già possiede tutta la loro discografia, si è deciso, per la prima, di includere oltre che alle due bonus tracks presenti sulla versione in edizione limitata di Microcosmos del 2009, anche 5 cover (tra cui l’immortale Indiánská píseň hrůzy dei cechi Master’s Hammer, del 1995), mentre, per l’oggetto della nostra recensione, ci è stata data la possibilità di apprezzare tutte le canzoni presenti nei tre split, per la felicità di chi, a quel tempo, non riuscì ad accaparrarseli. Partiamo quindi per gradi, proprio dalla prima traccia, Golden Horse (tratta appunto dallo split con gli Hades Almighty); tiratissimo Black, che racchiude nei suoi quasi nove minuti, tutta l’essenza della brutalità e dell’aggressività che i Nostri sono capaci di esprimere, sempre e comunque in bilico tra una violenza inaudita ma ordinata, e una gestione quasi perfetta degli intervalli mid, che si intrecciano amabilmente con la loro epica cadenza , armoniosamente ordita su una base di keyboards che donano al loro sound una melodia mai scontata, pacchianamente commerciale e ruffiana. Così come in Fiery Serpent (il secondo brano presente sempre nel famoso split e, come per Golden Horse, ispirato allo scrittore ucraino Volodymyr Svidzins’kyi, perseguitato ed ucciso dal regime di Stalin, nel 1941), epica traccia che rimanda ad antiche guerre, potente ed imperiosa, che sublima i nostri padiglioni auricolari, grazie a remote melodie (favoloso anche l’arpeggio a metà traccia) che, in un crescendo multicolore di policromatiche sfumature sonore, rendono il brano una vera e propria cavalcata (la parte centrale strumentale è da capogiro) fastosa, inarrestabile, di un imponenza solenne, quasi maiestatica. Il tutto termina con un altro meraviglioso arpeggio che ci assopisce leggermente; ma, immersi ancora in fantasticherie cavalleresche, veniamo brutalmente riportati alla realtà con l’ingresso di His Twenty-Fourth Spring (dallo split con i Grift svedesi, brano dedicato al famoso poeta ucraino Bohdan-Ihor Antonych, deceduto prematuramente all’età di soli 28 anni). Una partenza impressionante, scream, drumming e chitarre si rincorrono a perdifiato, per poi interrompersi dopo i primi 2 minuti, momento in cui la traccia si spezza in due. Subentra l’atmosferica melodia dei Nostri, marziale e solenne, e la canzone si apre, in un favoloso caleidoscopio di sonorità che sanno molto di classico Heavy Metal, e profumano tanto di Viking scandinavo. Sempre dal medesimo split, Autumn in Sepia (per il filosofo tedesco-lituano Mike Johansen, che per anni ha combattuto contro la tirannia sovietica, e ne è diventato vittima nel 1937), zanzaroso intramontabile Black Metal, abbastanza classico, piacevolissimo per gli insert di keyboards che aggiungono un pizzico di morbidezza ad un brano ruvido (ma non grezzo), feroce (ma non caotico), tipico (ma non scontato).
All Shades of Silence (estrapolata dallo split con la one-man band svizzera di Ambient Black, Paysage d’Hiver e fortemente legata al pensiero di Yevhen Pluzhnyk, deceduto in un gulag nel 1936) di ombre (shades) ne ha molte, tale è l’oscurità che trasuda da ogni singola nota, ma è il silenzio che a metà canzone la fa da padrone, interrompendo la traccia, separandola nettamente in due, quasi a creare una canzone nella canzone, grazie ad un tenebroso synth dungeon che preannuncia un maestoso strumentale momento che ci conduce al termine del brano, evidenziando che la mostruosa tecnica di questi non più proprio ragazzini, in quasi 17 anni, è cresciuta costantemente, inequivocabilmente, divenendo inarrestabile, soprattutto se comparata ai grezzi esordi di Forgotten Legends (2003).
L’ultimo brano The Night Walks Towards Her Throne, e seconda traccia dello split con lo svizzero, arricchisce ulteriormente la compilation grazie alle melodie di una keyboard a sei mani (sì perché, eccezion fatta per Roman Saenko, chitarra e basso, tutti gli altri componenti suonano come secondo strumento le tastiere) e al suo Black Metal decisamente scandinavo che, se è vero che nulla aggiunge a quanto sopra detto, nulla toglie ad una uscita che, come raccolta, vale il prezzo pagato per acquistare uno qualsiasi tra i loro full-length.

Tracklist:
1. Золотий кінь (Golden Horse)
2. Вогняний змій (Fiery Serpent)
3. Його двадцять четверта весна (His Twenty-Fourth Spring)
4. Осінь в сепії (Autumn in Sepia)
5. Всі відтінки тиші (All Shades of Silence)
6. Ніч крокує до свого трону (The Night Walks Towards Her Throne)

Line-up:
Roman Saenko – Guitars, Bass
Thurios – Vocals, Keyboards
Krechet – Bass, Keyboards
Vlad – Drums, Keyboards

DRUDKH – Facebook

Handful of Hate – Adversus

La Code666 Records ha di nuovo fatto centro. Adversus è un album completo, perfetto ed armonioso, nella sua aggressiva e rabbiosa struttura musicale. Nulla viene lasciato al caso: un album studiato nei minimi dettagli, che dovrebbe essere riposto nelle collezioni di ogni blackster, tra un Immortal ed un Marduk.

Dalla lontana Scandinavia… pardon, dalla vicina Toscana, ci giunge tra le mani questo Adversus, settimo full length degli Handful Of Hate, quartetto di stanza in quel tratto di terra, che dalle colline lucchesi giunge sino al mar Tirreno, e più precisamente a Livorno. Toscana, terra di sole, di campagne sterminate, di campi in fiore e di dorati terreni coltivati, ove i vivaci colori della primavera quasi bruciano il cuore e le torride estati infiammano l’anima.

Sole? Cuore? Colore? Mai tali termini sono stati utilizzati così impropriamente, per identificare questo combo, che pare provenire più che dalla terra del Chianti, dal gelido Finnmark norvegese. La Scandinavia a casa nostra, potrebbe essere il corretto termine per disegnare il percorso musicale di Nicola Bianchi e soci. Freddo, rigido, quasi polare, il suono degli Handful Of Hate. Vero, puro, genuino, il Black Metal dei Nostri. L’album dipanato su 10 tracce, ci proietta alla velocità della luce in un mondo di occulti vizi e perverse maligne attitudini sessuali, tematiche che costituiscono un po’ una costante, nei testi dei ragazzi toscani.
Un Black suonato alla perfezione, che denota una padronanza degli strumenti fin troppo rara, oggigiorno, nel guazzabuglio musicale di band che nascono, suonano (si fa per dire) e muoiono, in sordina, come mosche effimere, senza lasciare alcuna traccia per i vivi e per i posteri. Qui, il discorso è (per fortuna) completamente differente. Grazie anche ad una produzione veramente all’altezza (la Code666 Records di Imola, non è proprio un’etichetta nata ieri. E’ dal 1999 che ci delizia, producendo band del calibro di Negura Bunget, Aborym, Manes e Konkhra), canzoni come la marziale An Eagle Upon My Shield (Veteris Vestigia Flammae), la norvegese Severed and Reversed (Feudal Attitude) o l’atmosferica Down Lower (Men and Ruins) divengono gioielli, quasi inattesi, incastonati alla perfezione nel collier di oro nero, che potrebbe adornare maleficamente il candido collo di perfide principesse o regine come Fredegonda, la spietata regina dei Franchi, Maria Tudor, detta “la sanguinaria”, o la nostra cara Elizabeth Bathory (cosa vi aspettavate? Cenerentola forse?). Potenza, velocità (sempre sotto controllo), cattiveria che spurga da ogni singola nota, un crudele scream (complimenti a Mr. Bianchi), sottile, venefico, maligno, costituiscono i petali della corolla, di un nero fiore, che non appassirà mai, dove la grande creatività dei Nostri rappresenta il gambo, su cui si sorregge stabilmente , ben radicato, in un terreno di capacità tecniche e padronanze musicali non comuni. L’imperversare di scale Death, ordite su una trama di vero genuino Black, mai banale, rendono tracce come Celebrate Consume… Burn! o Thorns to Redemption (Gemendo Germinat), vere gemme musicali che indurrebbero un ascoltatore poco attento e svogliato, con cartina politica dell’Europa sotto mano, a cimentarsi nell’ardua (e sicuramente inutile) ricerca della città di provenienza degli Handful Of Hate, errando tra le fredde Terre del Nord, colpevolmente inconsapevole che dovrebbe volgere lo sguardo più in basso, e col dito tracciare una linea immaginaria, quasi perpendicolare, che da Oslo giunge quasi magicamente in Toscana.
Complimenti quindi a questi scandinavi toscani, che nulla hanno da imparare dai soci vichinghi ma che, forse, qualcosa hanno da insegnare.

Tracklist:
1. An Eagle Upon My Shield (Veteris Vestigia Flammae)
2. Before Me (The Womb of Spite)
3. Carved in Disharmony (Void and Essence)
4. Severed and Reversed (Feudal Attitude)
5. Down Lower (Men and Ruins)
6. Celebrate Consume… Burn!
7. Toward the Fallen Ones (Psalms to Discontinuity)
8. Thorns to Redemption (Gemendo Germinat)
9. Idols to Hung
10. Icons with Devoured Faces

Line-up:
Nicola Bianchi – Guitars, Vocals
Aeternus – Drums
Andrea Toto – Guitars, Bass

HANDFUL OF HATE – Facebook

MEPHORASH – SHEM HA MEPHORASH

Quarta chiamata per il gruppo svedese di Uppsala. Un album splendido, complesso ed antico, ordito su trame di profonde e remote atmosferiche note, almeno tanto quanto la Cabala Ebraica, qui tematica prevalente delle loro liriche.

Misteriosamente malvagi, malignamente arcani, anticamente occulti: queste tre definizioni rendono l’idea di quanto siano e di quanto ci propongano gli svedesi Mephorash.

La band di Uppsala non può che rendere felici tutti i fan del Black Metal più tetro ed oscuro. Atmosfere nere come l’antro di Satana e rosse come il fuoco avernale, sublimano i nostri padiglioni auricolari, immergendoci in un mare di cupo ed arcaico misticismo ebraico. Sì, perché le tematiche affrontate dai Nostri, ruotano pressoché tutte attorno agli aspetti più tetri ed antichi della religione ebraica. Shem ha-Mephorash, d’altro canto, non è altro che il Tetragramma (o Tetragrammaton), ossia la sequenza delle quattro lettere che compongono “il nome impronunciabile di Dio” (YHWH, dall’ebraico, lingua che non prevede in scrittura le vocali; ossia : yod, he, waw, he, anche se la vera pronuncia è nota solo ai rabbini iniziati) e presente nella Cabala, propria dell’esoterismo ebraico. Riferimenti alle forze del male, ossia gli aspetti più impuri di tutto il misticismo della religione rabbinica, pregnano i testi di tutta la loro produzione (questo è il loro quarto full-length che, insieme a due ep e ad uno split con gli statunitensi Ashencult, ne rappresentano tutta la carriera dal 2010 sino ad oggi), e ci vengono “raccontati” egregiamente, grazie ad uno stile molto personale di interpretare il Black Metal. Qui ci potremmo sicuramente accostare ai greci Rotting Christ ed Acherontas o ai polacchi Behemoth, almeno per quanto riguarda, sia l’attitudine alla teatralità e alla maestosità degli ingressi di ogni traccia, che alla conduzione dei momenti musicali, sempre imperiosa, maestosa ma anche tragicamente solenne. Forse però, a differenza delle (super) band citate, nei Mephorash si percepisce in ogni singola nota, una misteriosità antica, remota, che rimanda ad ere così lontane nel tempo, che le memorie non riescono a rimembrare, o che forse, non desiderano farlo, tale è la pregnanza di occulti misteri, arcani enigmi e malvagi ed innominabili segreti.
L’utilizzo pressoché perfetto dei synth, accompagnato da stigi arpeggi e, talvolta, da femminili soavi – ma al contempo dolorosi – vocalizzi, creano attorno ad un Black Metal più “mediterraneo” che “scandinavo”, splendide atmosfere che contribuiscono ad affrescare la tavola, ove i colori più vivaci risultano essere il grigio ed il nero. Ascoltare brani come King of Kings, Lord of Lords, Epitome II: The Amrita of Vile Shapes e la stessa title-track (15 minuti di assoluta delizia musicale), possibilmente con testi alla mano, appagano i nostri più reconditi desideri di sapere e di conoscere, quanto di più occulto e misterioso, l’antica religione, ci può raccontare.
Strutturalmente si parla sempre di Black Metal, intendiamoci, ma arricchito qui da favolosi influssi Death che adornano di scale musicali tutta la loro composizione (come per i citati polacchi), e si accompagnano ad un double scream (quello di Mashkelah M’Ralaa e di N. Tengner) che duetta magicamente, senza mai essere troppo legato ad un genere o all’altro; sempre in bilico, come talvolta accade tra Tolis ed Ace (Rotting Christ) o tra Nergal e Orion (Behemoth), ma qui impostato come vero e proprio matrimonio, ove vige parità di diritti, e non come un semplice fidanzamento tra main e backing vocals.
Ascoltare Shem Ha Mephorash infine, significa rimanere racchiusi nei gusci e negli involucri (dall’ebraico Qliphoth, nella tradizione cabalistica, le forze del male, che nel grimorio “Black Magic Evocation of the Shem ha Mephorash” rappresentano i quattro anti-mondi che si contrappongono ai quattro mondi elementari della Cabala Ebraica, ossia : Atziluth, Beri’ah, Yetzirah e Assiah), di sonorità profondamente antiche, che proiettano l’immaginario dell’ascoltatore più attento e più sensibile, in un reame (musicale) quasi metafisico, qui raccontatoci non dallo Sefer Yetzirah, bensì attraverso sublimi note musicali e dall’immensa complessità delle liriche di cinque ragazzi svedesi!

Tracklist
1. King of Kings, Lord of Lords
2. Chant of Golgotha
3. Epitome I: Bottomless Infinite
4. Sanguinem
5. Epitome II: The Amrita of Vile Shapes
6. Relics of Elohim
7. 777: Third Woe
8. Shem Ha Mephorash

Line-up
Mishbar Bovmeph – Guitars (lead), Vocals (backing), Bass
Ayram Etaumiel – Guitars (rhythm), Bass
Mashkelah M’Ralaa – Vocals
Tephra Brabeion -Drums, Percussion
N. Tengner – Vocals

MEPHORASH – Facebook

Helheim – Rignir

Un lavoro strepitoso, di straordinaria fattura e di impressionante innovazione, ma non di immediata lettura. Lungi dall’album quindi, fugaci spettatori da un ascolto e via e dall’udito poco sensibile.

Risplende nuovamente la mitologia norrena, attraverso gli oltre 54 minuti di Rignir.

E come la tradizione spesso impone, ci viene trasmessa oralmente, attraverso i testi (rigorosamente in norvegese) del nuovo album degli Helheim. L’Edda del quartetto di Bergen, si dipana su 8 tracce, di puro ottimo Black Viking che non tradisce i fan, ma (mai come in quest’album) trova sinergie musicali con sonorità Gothic Rock (a modello di Joy Division e Bauhaus, per intenderci) e a tratti anche psichedeliche.
In Rignir, album decisamente più maturo rispetto ai precedenti (e sicuramente meno energico e violento se paragonato a Kaoskult, ad esempio), i nostri hanno maggiormente dedicato attenzione a dinamiche musicali più proprie di altri generi; brani più lenti, più doom, spesso costruiti su mid-tempo cadenzati, alternati a melodie melanconiche che sfiorano la tragicità, vengono qui spesso preferiti alle velocità tipiche del Black Metal.
Un album sicuramente più ricercato rispetto a tutta la produzione precedente. Sonorità che ballano tra l’Epic, il Viking, il Gothic Rock britannico e, a tratti, cupe psichedelie, vengono qui ben amalgamati – metaforicamente – in una lega musicale, dove il Black Metal rappresenta il metallo e, il resto, ne costituisce il mercurio.
V’gandr basso e voce (famoso anche per aver collaborato con Hoest nei Taake e con Infernus nei Gorgoroth), H’grimnir, chitarra e voce (ed autore anche della cover dell’album…), Hrymr alla batteria, costituiscono, oramai da 27 anni, il cuore degli Helheim. Con Reichborn alla prima chitarra, oggi giungono al loro decimo full-lenght.
Il primo brano, onestamente, può inizialmente portare un po’ fuori strada, spiazzando l’ascoltatore; la title-track di Viking ha davvero poco, e nulla di Black. E’ il vero pezzo Gothic Rock, suonato alla perfezione intendiamoci, ma, concedetemelo, più un brano accostabile ai Bauhaus, cantato dal Bowie più psichedelico. Il clean (come del resto per tutto l’album) la fa da padrone, pertanto non aspettatevi – se non per brevi tratti – l’imperversare dello scream o di un graffiante growl, sgorganti dall’ugola di un truce energumeno nordico armato d’ascia, nel nostro immaginario vichingo.
Ma è già con il secondo brano (Kaldr) che l’epicità maestosa dell’Helheim sound emerge prepotentemente. Il brano più Viking/Black di tutto l’album: brevi accelerazioni che danzano con i mid-tempo tipici del Black, e un H’grimnir in gran forma, con uno scream che forse avrà perso un po’ di potenza rispetto al passato, ma sempre e comunque di deciso impatto.
Un oscuro lentissimo psicotico arpeggio introduce Hagl. Un brano che a tratti pare un vero tributo ai Pink Floyd per il suo cadenzare psichedelico ed allucinogeno, e al primo post-punk dei Cure; corroborato da un’estrema oscura goticità che pervade i primi tre lentissimi e lamentosi minuti del brano (circa 10 in tutto), che fungono poi da preambolo al Viking dei successivi, introdotto dal rumorismo dell’insert di una cupa grigia pioggia nordica.
Con Snjova e Isud, l’imponenza della struttura Viking è davvero emblematica (come a dire sperimentiamo quanto si vuole, ma ricordatevi che i veri re del Viking Metal siamo noi); un canto che ci proietta all’epopea di Erik il Rosso o del terribile Ragnarr Loðbrók. Se nel primo brano lo scream Black è del tutto assente, in Isud appare e scompare fugacemente, con lo scopo – molto probabilmente – unicamente di “graffiare” l’udito dell’ascoltatore, e fargli percepire un tocco di malignità, piuttosto che permettergli di sublimare il fascino di uno degli elementi più tipici del genere in quanto tale.
Dà eco alle precedenti, Vindarblastr, che con il suo ottimo sostenuto blast beat Black, fa da sfondo ad una voce clean adornata dal tipico sottofondo di cupi cori, quasi liturgici, oramai radicata caratteristica dei Nostri.
Stormvidri è cupa e fredda come una giornata tipo, in quel di Bergen. Un affresco, a tinte Black, che esprime tutta la malinconica “meteorologia” della città norvegese, immersa nella fredda poggia dei fiordi (non a caso Rignir – rain).
Chiude il lavoro Vetrarmegin, il pezzo assolutamente più Black dell’album che, sopra un ossessivo tempo da marcia quasi militaresca, uno scream che sostituisce il clean delle precedenti tracce in toto, ed il classico sottofondo di cori Helheimiani, ci conduce per mano verso la fine di un viaggio epico, cupo e freddo, tra le desolate lande della contea di Hordaland.

Tracklist
1. Rignir
2. Kaldr
3. Hagl
4. Snjóva
5. Ísuð
6. Vindarblástr
7. Stormviðri
8. Vetrarmegin

Line-up
V’gandr – Bass, Vocals
Hrymr – Drums, Drum programming
H’grimnir – Vocals, Guitars (rhythm)
Reichborn – Guitars (lead)

HELHEIM – Facebook

NORDJEVEL – NECROGENESIS

Secondo appuntamento per i Nordjevel, appartenenti alla nuova ondata di Black Metal norvegese. Gli amanti di Immortal, Dodsengel e Gorgoroth non rimarranno delusi. Una giovane perla, per la collezione di tutti i fan del genere.

I Nordjevel sono una band relativamente giovane. Si sono formati in quel di Østfold , in Norvegia (città che ha dato neri natali anche a Enepsigos , Krigsrop e Jahve) solo nel 2015, grazie all’idea di Doedsadmiral, voce anche di Doedsvangr (una delle centinaia di band capitanante dal terrificante Shatraug), Svartelder e dei concittadini Enepsigos, il cui batterista è nientepopodimeno che l’onnipresente Gionata Potenti, alias Thorns.

Con all’attivo due full-length (l’omonimo del 2016 e appunto questo Necrogenesis) e un mini (Krigsmakt), tutti usciti per Osmose, i nostri regalano a tutti gli appassionati ed accaniti fan, uno dei più classici Black Metal scandinavi. Tracce che paiono uscite direttamente da Damned in Black o da Sons of Northern Darkness, infervorano i cuori dei più devoti discepoli dei divini Immortal. Capacità strumentali sublimi, una meravigliosa attitudine ad amalgamare up e mid tempo, condendoli con cupe melodie, rendono Necrogenesis un album godibilissimo, che ci accompagna per quasi 50 minuti, attraverso le più oscure tenebre e neri paesaggi norvegesi, ove la natura ostile racchiude un viscerale odio per l’essere umano come individuo, e ne violenta l’anima sino al profondo. Disprezzo, ostilità, rancore e animosità verso tutto ciò che è umana esistenza e cristianità, spurgano dalle 9 tracce che compongono l’album, attraverso un Black Metal con pochi fronzoli, e privo di compromessi, come nei brani Sunset Glow, Devilry e Amen Whores. Come detto, ascoltare i Nordjevel pare essere di fronte ad un album della band proveniente dalla fredda regione dell’Hordaland, quella antecedente all’addio dello storico vocalist Abbath per intenderci, che qui viene sapientemente emulato (forse un po’ troppo) in tutto e per tutto da Mr.Doedsadmiral (all’anagrafe Anders O. Hansen). Può pertanto apparire inutile acquistare un album che nulla aggiunge alla scena odierna, proprio perché poco innovativo e quasi privo di elementi inconsueti o di inaspettate imprevedibilità ma, per chi ama il Black, quello vero, puro ed essenziale, non sempre ricerca la novità, adagiandosi (come il sottoscritto) nell’area confort di ciò che non riserba mai sorprese o non richieste improvvisate. Spesso, il fan “standard”, cerca nell’ascolto di un album proprio quello che si aspettava al momento dell’acquisto, senza timore di procedere a scatola chiusa, sorridendo e compiacendosi all’idea di non aver speso male i propri soldi, fermamente dichiarando a se stessi, la piacevole ineluttabile conferma di non aver sbagliato. E così accade che, mentre si ascoltano meravigliosi brani come Nazarene Necrophilia o Apokalupsis Eschation, comincia a formarsi sulle labbra dell’ascoltatore, un candido sorriso (forse più un perfido ghigno, è più appropriato), che apre a 360° la consapevolezza del proprio amore verso un genere musicale che sì, spesso è vittima di più o meno riuscite clonazioni, ma che poco importa in definitiva, ai propri affamati padiglioni auricolari, ansiosi di essere violentati dalla furia cieca dei riffs di gente come Destructhor (già frontman dei brutal black deathsters Myrkskog, guarda caso), dalla foga bestiale del lavoro sulle pelli di Nils Fjellström (per gli “amici” Dominator), o annichiliti dai mefitici maligni screams di Doedsadmiral e dai cupi giri di basso di DezeptiCunt (sul passaporto, Svein-Ivar Sarassen).
Immergiamoci pertanto fiduciosi in Necrogenesis, non rimarremo delusi. Vogliamo un condensato di blast beat, up e mid tempo? Vogliamo furia cieca ben condita da un pizzico di melodia e di atmosfera? Vogliamo arroventati screams, colorati di bianco e nero, come nei più classici dei corpsepainting? Allora siamo difronte all’album giusto e alla band perfetta.
Apriamo or dunque la scatola, conoscendone già il contenuto, amiamolo sino in fondo, e gongoliamo per la nostra accorta scelta.

Tracklist
1. Sunset Glow
2. Devilry
3. The Idea of One-Ness
4. Black Lights from the Void
5. Amen Whores
6. The Fevered Lands
7. Nazarene Necrophilia
8. Apokalupsis Eschation
9. Panzerengel

Line-up
DezeptiCunt – Bass
Doedsadmiral – Vocals
Dominator – Drums
Destructhor – Guitars

NORDJEVEL – Facebook

Amataster – Frammenti

Debutto col botto per la one-man band lucana. Un lavoro pressoché perfetto, un depressive black metal ricco di pathos e atmosfera, che non può e non deve passare inosservato.

Angoscia è l’unico sentimento che provo all’ascolto del debut ep degli italiani Amataster, uscito per l’italiana Masked Dead Records. Un sensazionale tuffo nella più profonda delle depressioni sonore, un viaggio introspettivo e melanconico, attraverso i più sconcertanti dolori che la vita possa causare.

La one-man band di John Poltergeist (già frontman dei depressive blacksters Eyelids) arriva dalla Basilicata e ci propone un meraviglioso Black Metal atmosferico ricco di pathos, che coinvolge totalmente l’ascoltatore, che vuole farsi travolgere da un’incalzante marea di afflizioni, affanni e sofferenze, attraverso 4 tracce della durata di poco più di venti minuti, ben architettate, quasi a voler tracciare un percorso personalmente interpretativo e assolutamente soggettivo della vita, qui dichiaratamente avara di gioie e di luce.
Così comincia l’avventura (anzi la disavventura) musicale con un brano – L’anima è in fiamme – tipicamente Black ma ricco di funeree ed annichilenti atmosfere. L’incipit delle liriche ci prepara sin da subito a quanto di più doloroso ci si può aspettare da questo disperato percorso attraverso le desolanti disillusioni della vita: “Guardate morire le vostre madri, Guardate soffrire i vostri cari, Bevo il loro sangue, lo sputo sulle vostre mani. Ora inginocchiatevi con me, piangete. Ecco questo è il dolore…” sono versi che ci raccontano molto di quanto sia il leitmotiv dell’album, soprattutto se si considera che vengono preceduti da un intro di synth che gioca meravigliosamente con una soave, ma incredibilmente melanconica, voce femminile, che introduce il Black di Mr. Poltergeist, costruito sul più tipico dei blast, e che alterna, alle oramai immancabili chitarre zanzarose, un lamento ed un pianto disperato di donna, che in maniera devastante, avvilirebbero e sconforterebbero anche l’animo più puramente ottimista.
Perché – la successiva traccia – si domanda John, e dopo un sospiro che pare provenire dai più profondi ed oscuri meandri dell’Inferno, parte un Black tiratissimo che danza armonicamente con gli insert di synth, che contribuiscono a creare un dicotomico connubio tra rabbia (il testo ne è carico sino al midollo) e ossessiva depressione. Rabbia, come detto, e furore sonoro, si avventano contro i nostri padiglioni auricolari, lasciandoci annichiliti, di fronte ad un Depressive che non ammette pause, lento sì in parte, ma pronto a reagire con impetuose sfuriate, proprio nel momento in cui l’ascoltatore sta per assopirsi, assuefacendosi all’atmosfera funerea, che permea tutto l’album…
Ferite dal passato alimentano il mio dolore” ci racconta la successiva Dono delle ombre che, immancabilmente, ci riporta al pensiero che si tratti di una possibile accusa verso una meschina vita, che congiura contro di noi, conducendoci all’odio imprescindibile verso chi ce l’ha donata. Un alchimia di mid e up tempo, sostengono l’attenzione, quasi a voler mantenere alta la nostra concentrazione sul testo, focalizzati su una consapevolezza sempre maggiore della tragicità dell’esistenza umana, che nulla merita, se non un carico incommensurabile di rabbia: “ormai sei solo un ricordo, c’è solo rabbia, in una gabbia” ; qui, nella rima baciata tra rabbia e gabbia, si individua una delle più classiche metafore sull’essenza umana, di chi la legge e la vive, nell’eterna bipartizione tra vita e prigione.
Un arpeggio che ci introduce all’ultima canzone – A.T. the Heart – accompagnato da un breve ma azzeccatissimo assolo, presentano il brano che più si avvicina al Depressive (tanto caro a molte band francesi). I lamenti strazianti di John non lasciano dubbi, sul significato della volontà di chiudere questo debutto nel migliore dei modi. Funerei passaggi , lente ed oscure atmosfere, dipingono ed affrescano l’opera del nuovo Goya della musica, principe della melodia depressiva, a cornice di una pittura che nel ‘700, portava tale nome.

Tracklist
1. L’anima è in fiamme
2. Perché?
3. Dono delle ombre
4. A.T. the Heart

Line-up
John Poltergeist – All instruments

AMATASTER – Facebook

METEORE: AFFLICTED

Uno delle band culto del Death Metal svedese. Siamo negli anni ’90, quando tutto cominciò. Accaniti sperimentatori delle sonorità più prog, debuttarono con un album “Prodigal Sun” ad oggi ancora considerato pietra miliare del genere.

Nati nel lontano 1990 dalle ceneri degli Afflicted Convulsion, i ragazzi di Stoccolma ovviamente non possono mancare qualora si citino le principali band mainstream della scena svedese anni novanta.

Insieme a gruppi del livello di Entombed, Unleashed, Hypocrisy e Dismember (e così via), diedero un decisa spinta allo stile, oramai consacrato a culto per tutti gli amanti del Death Metal, definito oggi appunto Swedish Old School. A differenza però dei citati connazionali, gli Afflicted si spinsero oltre (e forse un po’ troppo oltre), avventurandosi per sentieri pericolosi, immergendo a caldo uno dei più classici sottogeneri del Metal in crogiuoli più prog, riuscendo comunque ad ammaliare anche i deathsters più incalliti. L’uscita del demo The Odious Reflection destabilizzò un po’ i fan, ma ben presto li conquistò, grazie anche ad una tecnica strumentale sopraffina, rara a quei tempi. Ciò convinse i Nostri a proseguire per quella strada, sperimentando sonorità sempre più inusuali, sino all’arrivo del capolavoro con la C maiuscola: Prodigal Sun; l’album – uscito per un’allora giovanissima Nuclear Blast, riscosse fin da subito un clamoroso successo. Purtroppo però, si sa, spesso, il successo da un po’ alla testa. Così, i 5 ragazzi, ossessionati dalla ricerca e dalla sperimentazione, finirono presto per perdersi per strada. La loro (un po’ folle) insistente indagine su nuove sonorità e l’assillante screening su sempre più articolate investigazioni musicali, li portarono presto a perdere gran parte dei fan, che si sentirono totalmente traditi, soprattutto dopo l’uscita dell’album del 1995 – Dawn Of Glory – che nulla aveva a che fare con il Death Svedese, ma che si avvicinava di più a suoni power metal (vi ricordo che lo stesso anno, solo in Svezia, uscirono capolavori quali : Massive Killing Capacity dei Dismember, Victory degli Unleashed e, in campo più melodic, Subterranean – il mini degli In Flames – e The Gallery dei Dark Tranquillity) e che quindi non lasciò scampo al combo di Stoccolma che, oramai preso dallo sconforto, lo stesso anno, si sciolse definitivamente.

Discography:
Promo Rehearsal – Demo – 1990
Promo Tape 1990 – Demo – 1990
The Odious Reflection – Demo – 199
Ingrained – Single – 1990
Wanderland – Demo – 1991
Rising to the Sun – Single – 1992
Promo EP I – Split – 1992
Wanderland – Single – 19922
Prodigal Sun – Full-length – 1992
Promo 1993 – Demo – 1993
Dawn of Glory – Full-length – 1995
Relapse Singles Series Vol. 5 – Split – 2005 (postumo)

Line-up
Yasin Hillborg – Drums
Joacim Carlsson – Guitars
Jesper Thorsson – Guitars
Philip von Segebaden – Bass
Michael van der Graaf – Vocals

Lucifer’s Child – The Order

Dopo un ottimo lavoro come The Wiccan del 2015, la chitarra dei Rotting Christ (George Emmanuel) e il basso dei Nightfall (Stathis Ridis) escono con questo The Order, attento seguace delle sonorità delle due cult band ateniesi, splendido accolito di tutta la loro produzione, ma altrettanto fedele ammiratore delle sonorità industrial.

Una rapida scorsa alle origini dei greci Lucifer’s Child e ci si rende immediatamente conto che si è difronte ad un super combo.

Formatisi nel 2013 dall’idea di George Emmanuel (chitarra) dei Rotting Christ e Stathis Ridis (basso) dei Nightfall, i nostri sono fautori di un Black Metal, molto articolato, complesso, a tratti prog, spesso industrial.
The Order – uscito per la più che prolifica polacca Agonia Records – è un album davvero interessante. Ci troviamo di fronte ad un prodotto multiforme, dalle molteplici sfaccettature e non facilmente etichettabile. Di sicuro il Black ne costituisce la scenografia, il fondale di un opera frastagliata, eclettica nella struttura, composita sì, ma dall’elevatissima qualità nella sua amalgamazione.
Solide basi industrial, costituiscono il leitmotiv Wagneriano, che tessono trame complesse sulle quali si dipana un Black Metal dall’impronta molto gotica ed a tratti, di una maestosità che annichilisce l’ascoltatore. Brani come Viva Morte e la Title-Track non nascondono volutamente l’imprinting di Emmanuel e di Ridis, proiettandoci all’interno di un Maelstrom ellenico di suoni imponenti, di smisurata imperiosità, a tratti sublimemente pomposi, quasi si volesse ostentare burbanzosa autorità. Anche nella successiva Fall of the Rebel Angels si ha l’impressione che i nostri avessero proprio l’intenzione di ridurre a totale prostrazione l’ascoltatore, tale è la magnificenza del corredo musicale, ordito attorno al momento Black. Nel brano, come anche in El Dragón, il sound, marcatamente industrializzato, però non ci rimanda al più classico degli Industrial Black Metal come si potrebbe ragionevolmente pensare (tipo Mysticum, per intenderci), bensì ai macchinosi, pesantissimi soffocanti martellamenti di band quali Ministry, Fear Factory e Rammstein, strizzando l’occhio anche a gruppi come i Pain, denotando forti ammiccamenti alle commistioni elettroniche della band di Tägtgren.
Intendiamoci, non siamo di fronte ad un minimalista copia ed incolla, o ad un’accozzaglia di stili ed influenze messe lì a caso. Tutto è fluido, nella sua complessità, e le digressioni musicali accompagnano sempre un Black Metal suonato perfettamente, infarcito, come nella goticissima Through Fire We Burn, o in Black Heart (che pare brutalmente prelevata da Khronos o da Macabre Sunsets) da cupe eteree atmosfere, avvolgenti la ritmata ossessività tipica del Black, ma altresì musicanti la pomposità della marcia, quando non sfocia nel Blast più violento.
Haraya , la penultima traccia, va a braccetto con le canzoni precedenti, costruita su un’attenta intelaiatura Gothic Black (è la song che maggiormente rispecchia le radici dei Lucifer’s Child, ossia le due cult band ateniesi che ne hanno prestato chitarra e basso) che, abilmente ritmata da Ridis e Vell (batteria), non si addormenta mai, avviluppandosi su se stessa su troppo rigide diatoniche atmosfere da Canto Gallicano o Gregoriano, ma sostiene egregiamente i suoi quasi cinque minuti, senza mai far assopire l’ascoltatore con passaggi ben programmati, tra mid e up tempo.
Al contrario, ed in direzione diametralmente opposta, Siste Farvel. Qui il Funeral Black la fa da padrone. Non più industrial ed elettronica, ma una magnificente malinconica marcia funebre, che ci congeda con l’ultimo addio (appunto Siste Farvel, dal danese) che tragicamente ci deprime, generando lo sconforto di chi sa che l’album è oramai terminato, e che l’ultima nota, ci proietterà ben presto nel vuoto assoluto del silenzio delle nostre cuffie.

Tracklist
1. Viva Morte
2. The Order
3. Fall of the Rebel Angels
4. Through Fire We Burn
5. El dragón
6. Black Heart
7. Haraya
8. Siste farvel

Line-up
Stathis Ridis – Bass
George Emmanuel – Guitars
Marios Dupont – Vocals
Nick Vell – Drums

LUCIFER’S CHILD – Facebook

METEORE: DISSECT

Grande band dall’Olanda che, seppur con un solo album all’attivo, riuscì comunque ad entrare nell’Olimpo Underground del Death Metal europeo degli anni ‘90. Alcune ristampe ci permettono, ancora oggi, di poterne entrare in possesso.

Tra i prime-movers della scena Death olandese, i Dissect non ebbero le medesime fortune di connazionali del calibro di God Dethroned o Asphyx.

Peccato perché, dopo un paio di ottimi demo, uscirono nel 1993 con l’album (oramai culto per gli adepti del Death europeo) Swallow Swouming Mass per la storica olandese Cyber Music; etichetta, oggi tristemente chiusa, capace di sfornare gioielli quali Theatric Symbolysation Of Life (Agathocles), Immense Intense Suspense (Phlebotomized), ma soprattutto His Majesty At The Swamp (Varathron). Pertanto, pare incomprensibile come un album così importante non riscosse il successo dovuto, e non permise ai ragazzi di Alphen Aan Den Rijn di proseguire con la propria attività di musicisti (solo il bassista Tim Roeper pare sia ancora sulla cresta dell’onda, con gli storici Eternal Solstice e con i bravissimi Dauthuz), soprattutto pensando alla qualità delle produzioni e alla grande capacità promozionale dell’etichetta di Arnhem. Ad ogni modo, quello che ci lasciarono i quattro ragazzotti fu qualcosa di davvero importante per tutta la scena europea. L’unico album si dipana su circa 50 minuti di ottimo Death Metal, sviluppato su nove tracce brutali, d’un impatto sonoro unico, genuino, diretto come un Pendolino, che non lascia scampo. Un sound mai ostico all’ascolto, semplice si, ma mai eccessivamente banale, che solo gli anni novanta hanno – ahimè – saputo dare. Zombies, gore, sangue, guerra, morte ovunque, crogiolano dai solchi dell’album, oggi fortunatamente di nuovo reperibile grazie ad alcune ristampe, tra cui quella della famosa Xtreem.
Dopo, una pseudo-reunion ed un demo, passato del tutto inosservato (Fragments del 1997) e nulla più. C’è chi parla ancora di una possibile attività o di un insperato ritorno: chi vivrà vedrà… come ci direbbe oggi Jimmy Fontana.

Discography:
Demo 1 – Demo – 1991
Presage to the Eternity – Demo – 1992
Swallow Swouming Mass – Full-length – 1993
Fragments – Demo – 1997

Line-up
Vincent Scheerman – Guitars, Vocals
Tim Roeper – Bass
Ed van Wijngaarden – Drums
C.W. Zwart – Guitars

https://www.youtube.com/watch?v=7IBnCb5nYrw

ACHERONTE – SON OF NO GOD

Con questo secondo album, uscito per l’etichetta ucraina Grimm Distribution, il quartetto marchigiano conferma quanto di buono già espresso con le produzioni precedenti. Un ottimo lavoro, completo, maturo e mai banale.

La mitologia greca o romana, da sempre, ha influenzato il Black Metal della Fascia Mediterranea. Non fanno eccezione i marchigiani Acheronte (un nome, una garanzia) che, attraverso questo loro ultimo sforzo (il secondo full-length dopo già un demo, un mini cd e due split all’attivo) ci traghettano, quasi impersonificando Caronte stesso, nell’Ade del Black Metal.

Il viaggio dura poco più di 45 minuti, attraverso 6 tracce di puro odio antico, avviluppandoci tra le fiamme dell’Inferno, in un viaggio musicale devastante. Non stiamo navigando per quel ramo del Lago di Como, ma percorriamo il fiume del dolore (come lo definivano gli antichi greci), il ramo del fiume Stige, unica via verso gli Inferi più profondi. Il viaggio sul fiume che dissetò i Titani (scatenandone l’ira di Zeus, che lo maledì), non poteva che avere una colonna sonora tetra, nera, oscura, stigia appunto.
Immersi nel Chaos abissale, gorgogliante oscenità e blasfemie, per via del messaggero (nonché cantante…) Lord Baal (all’anagrafe Mario Sgattoni, abile orditore di parti vocali e maestro nell’arte alchemica del miscellaneo scream/growl), percorriamo in sei lunghe tappe il nostro pellegrinaggio, verso la destinazione che segnerà la fine della vita per come la intendiamo noi, attraversando il confine tra il mondo dei vivi e il mondo e gli Inferi, verso il nostro destino di dannazione eterna.
Il nostro viaggio verso l’Oltretomba non sarà silenzioso. Come nei migliori film horror, il soundtrack dovrà esserne all’altezza, e pertanto quanto proposto dai Nostri dovrà, per forza di cose, prepararci agli eterni dolori e alle infinite sofferenze, che ci riserveranno gli Inferi. Il desolante Black Metal degli Acheronte pertanto, rende ancor più angosciante il nostro conosciuto destino, consapevoli che la musica qui, non vuole allietarne il viaggio, bensì renderlo ancor più disperato e ricolmo di afflizione e tormento.
Ma noi ne siamo coscienti. Anzi, è proprio quanto ci donano i quattro ragazzi di San Benedetto del Tronto, a darci forza, attraverso un Black Metal ottimamente suonato, sì classico, ma mai assolutamente monotono e scontato. Molti cambi di tempo denotano, fin da subito, buone capacità tecniche e non indifferenti attitudini creative. Brani come Heralds of Antichrist e Babylon Unholy Hammer sono un inno all’anti-cristianità e a malvagi Dei Antichi; brani ben studiati, capaci di irrompere nei nostri padiglioni auricolari, grazie ad un blast beat ciclico, tipico del genere, ma mai caotico od improvvisato. Accelerazioni improvvise, travolgenti, grazie alla furia cieca (ma non sorda…) di Bestia, ossia Marco Del Pastro, che ha scelto un monicker adatto alle sue belluine attitudini musicali; come in Trascendental Will e nella title track, dove un drumming feroce, ma incapace di avvilupparsi su se stesso, ed invece sapientemente abile a dettare i ritmi ai pezzi, dialogando meravigliosamente con Phobos (Luigi Biondi, abile manipolatore della sei corde) e con A.T. La Morte (bass player – alias Adamo Tirabassi), riesce a rendere ogni traccia differente, meravigliosamente discorde, una dall’altra. E così, l’album piacevolmente scivola via, verso l’ultima traccia, Fall of Perfection. Dodici minuti (e venticinque secondi) di cadenzati ritmi, velocità sostenute, ossessive ciclicità, in una delle più classiche forme di traditional blast, che ci coinvolgono totalmente, dimentichi che allo scoccare del ventiseiesimo secondo, saremo giunti infine, alle porte degli Inferi. D’altronde Caronte ci aveva avvertiti : “Non sperate mai più di rivedere il cielo. Io vi porto sull’altra riva nel buio eterno, nel fuoco o nel gelo“.

Tracklist
1. Heralds of Antichrist
2. Four Beasts
3. Babylon Unholy Hammer
4. Trascendental Will
5. Son of No God
6. Fall of Perfection

Line-up
Phobos – Guitars
Lord Baal – Vocals
A. T. La Morte – Bass
Bestia – Drums

ACHERONTE – Facebook

BERGRIZEN – EINSAMKEIT IM WINTERSTURM

Live album per la one-man bad di Kiev. L’ottima produzione ed un sound al limite della perfezione – per essere un live – fanno di Einsamkeit im Wintersturm, il miglior best of per conoscere il Black Metal di Mr Myrd’raal.

L’Holy Death Over Kyiv Festival V del 2018, ha visto sul palcoscenico alcune band Black ucraine tra le più conosciute (Kroda e Bergrizen principalmente), alcune emergenti (Burshtyn e Grave Circles), i bielorussi Pestilentia e – come altra eccezione territoriale – gli stratosferici Acherontas dalla Grecia.

A Kiev la scena Black e davvero molto attiva (come anche in parte, nel resto del paese) e questo festival – giunto oramai alla quinta edizione – ne è la dimostrazione.
Da questo show, ne è scaturito un live album – Einsamkeit im Wintersturm – per gli ucraini Bergrizen che, forti del fatto di giocare in casa, hanno deciso di portare su vinile (non è prevista una versione in cd, al momento) il meglio della loro produzione che, ad oggi, dopo 11 anni di attività, vanta 5 full-length all’attivo, oltre a un demo, uno split (autoprodotto, con i connazionali Hexenmeister) e alcune raccolte. Pur non essendo un amante dei live (e ancor meno dei live Black Metal), mi sono approssimato a questo album con curiosità; inizialmente dubbioso soprattutto per la produzione, ma ne sono stato immediatamente rapito. Il sound è pressoché perfetto e mostra un sapiente lavoro in fase di registrazione e mixaggio da parte della prolifica label tedesca Purity Through Fire (Azelisassath, Antimateria, Kalmankantaja, Kroda, Sarkrista e decine di altre produzioni).
Ovviamente oggi – nell’era del digitale – tutto è più semplice. La stessa masterizzazione non avviene quasi più in analogico (OTB); se ciò (seppur raramente) accadesse, il processamento vedrebbe comunque come risultato finale il formato digitale: attraverso un processo lungo e difficile, fatto di conversioni da analogico/digitale/potenziale elettrico/nuovamente analogico (tramite un AD Converter – cioè Analog to Digital Converter) e quindi successive riconversioni in dati binari e acquisizioni all’interno della DAW (Digital Audio Workstation).
Invece nel Mastering Digitale (ITB, ossia in the box, che altro non è, che il caro Personal Computer), il processo è molto più semplice, diretto, ed i risultati di gran lunga superiori a quelli dell’analogico.
Ed è per questo che un live di una band come i Bergrizen (quindi non proprio i Dream Theater), risulti essere molto piacevole all’ascolto, grazie a suoni puliti, chiari, nitidi, e netto risalto di tutti gli strumenti che non finiscono mai per perdersi nel calderone sonoro del live. Il mio, un giudizio non solamente personale, ma totalmente ovvio, del tutto evidente, quasi apodittico, se confutato da chiunque acquistasse ed ascoltasse ora l’album.
Chiaro, serve anche tanta bravura della band, in realtà una one-man band, visto che Myrd’raal suona – in studio – tutti gli strumenti e ne è anche il vocalist. Di notizie su chi abbia coadiuvato il lavoro live del frontman ucraino ne abbiamo poche; molto probabilmente qualche session live member misconosciuto e quasi sicuramente Olgerd dei Kroda per le tastiere (con cui Myrd’raal aveva già collaborato nell’album del 2017 “Der Unsterbliche Geist”).
L’album non aggiunge – ovviamente – nulla su quanto già scritto a proposito del genere proposto dai Bergrizen; un ottimo Melodic Black Metal, ricco di atmosfera e di pathos. Certo non siamo di fronte ai connazionali Drudkh, vera icona del Black ucraino; ma Mr.Myrd’raal sa il fatto suo. Strazianti, ossessivi, melodici tremolii Black, avvolti da nebbie a fosche tinte autunnali, cullati da soventi (drammaticamente) melodiosi arpeggi, avviluppano uno scream tragico, lancinante, disperato. Sinceramente a me questi ucraini piacciono davvero, e questo album – che raccoglie il best of – potrebbe essere un’ occasione per tutti, di conoscere una band di cui si sa oggi forse troppo poco, rispetto all’attenzione che meriterebbe.

Tracklist
1. Der unsterbliche Geist
2. Lied der Rache
3. Ankunft der Winterdämmerung II
4. Das alte Herzeleid
5. Entsagen
6. Der Wanderer II – Die Nacht des Raben
7. Der Wanderer
8. Einsamkeit im Wintersturm

Line-up
Myrd’raal – All instruments, Vocals

BERGRIZEN – Facebook

MAYHEM – GRAND DECLARATION OF WAR

I comuni mortali da secoli attendono – costantemente, con trepidazione – un nuovo gesto, un improvviso cenno, un tanto agognato segno dai propri Dei. Così, molti di noi, si stanno ancora internamente arroventando, per l’aspettativa di un nuovo full-length dei mitici Mayhem. Purtroppo, anche questa volta, non sarà così. La nona ristampa su CD del mitico album del 2000 ci coccola, però, nella trepidante attesa di una nuova uscita.

Parlare dei Mayhem oggi, vorrebbe dire raccontare la storia di una delle band più famose al mondo, almeno in ambito estremo, ma soprattutto, significherebbe citare centinaia di aneddoti storici, sociali e culturali, di uno dei gruppi che più di tutti ha influenzato e sconvolto – da tutti i punti di vista – la scena Black Metal.

Di loro si è detto e scritto tantissimo; negli anni – tra finzione e realtà – vi si è creato intorno un alone epico, leggendario – meritatamente aggiungerei – che, oggi, fa dei Nostri non una band semplicemente storica, da cui attingere a piene mani, quale fonte di ispirazione, bensì un vero e proprio mito. Oggi, quasi si nominano i Mayhem sottovoce, per l’enorme rispetto che i fan (non solo blacksters) hanno per questi ragazzi norvegesi che, fin dal 1984, furono capaci di sconvolgere il mondo di allora, e non solo musicalmente! Tra Inner Circle, Helvete (oggi eretto a museo in quel di Oslo), chiese bruciate, show imperniati di lanci di sangue e teste suine, ma soprattutto tristemente diventati famosi per morti violente dei formers (chi può dimenticare lo sconvolgente suicidio di Dead – all’anagrafe Per Yngve Ohlin e l’altrettanto scioccante omicidio di Euronymous – all’anagrafe Øystein Aarseth – , per mano di un giovanissimo Varg Vikernes – alias Count Grishnackh, alias Burzum – oggi all’anagrafe Louis Cachet) e per le tante vicissitudini legali che ne conseguirono.
Spesso, le band che vivono la loro esperienza musicale in un contesto così sconvolgente, passando da un cambio di formazione ad un altro, tra traumatiche dipartite (anche nel senso letterale del termine), lunghe pause, ritorni e pseudo-collaborazioni che durano il tempo di una canzone, tendono – a lungo andare – a sciogliersi. In realtà i Mayhem hanno stoicamente proceduto di gran carriera (soprattutto grazie alla costanza e all’impegno di Hellhammer, oggi anima e cuore della band), giungendo ai giorni nostri , sicuramente con poche effettive produzioni (solo 5 album ufficiali in 34 anni…), ma hanno però contribuito a fomentare quell’alone di sacralità che li circonda, portando con sé fama e gloria, leggenda e miticità che, ancora nel 2018, non trovano eguali.
La ristampa dell’album qui recensito – la nona su CD per essere precisi!- non deve necessariamente aggiungere alcunché, se non semplicemente rendere nuovamente disponibile un masterpiece che, ancora oggi, dona emozioni ai fan. Grand Declaration Of War – uscito originariamente nel 2000 – trova ancora Maniac alla voce (Attila, dopo aver “prestato” le sue doti vocali per De Mysteriis Dom Sathanas, il primo mitico lavoro, si dedicò ad altri progetti quali – tra gli altri – Plasma Pool, Sunn O))), Aborym, e Korog, per poi ritornare in pianta stabile, solo nel 2007, in occasione dell’uscita di Ordo Ad Chaos), Blasphemer alla chitarra, Necrobutcher al basso e ovviamente il mitico Hellhammer.
E’ il primo full-length che vede il cambiamento del logo da Mayhem a The True Mayhem; album fortemente voluto da Hellhammer che, già nel 1995 con una nuova formazione, faceva uscire lo storico The Dawn Of The Black Hearts, il live bootleg semi-ufficiale, registrato in quel di Sarpsborg/Norvegia nel 1990, con in copertina originale, la foto tanto controversa del cadavere di Dead, e appunto il nuovo logo. Piccolo aneddoto su questo bootleg (che è tanto curioso quanto terrificante): la leggenda narra che fu proprio Euronymous a trovare il cadavere; lo stesso Aarseth avrebbe poi prelevato dal cranio del povero suicida, parti di ossa, con cui avrebbe “adornato” collane per i membri del Gruppo. Indignato da tale atto, Necrobutcher avrebbe lasciato la band, sostituito dal celeberrimo Vikernes. Se così fosse, viste le conseguenze di tale cambio di line-up, si potrebbe affermare chiaramente, che mai Fato fu così impietoso per il povero Euronymous…
Ma torniamo a Grand Declaration Of War; qui è palesemente dichiarato il netto distacco con il passato (che suscitò non pochi dubbi e critiche dai fan di allora). Un album sicuramente più maturo, più complesso e – per dirla tutta – molto progressive, sia quasi letteralmente (un album davvero “progressista” per quei tempi) sia nel senso musicale del termine. Già dalla title-track si percepisce il forte cambiamento: orientamenti sonori, oggi accostabili più ad un Avantgarde che al puro vecchio Black. Il sovente utilizzo della “clean voice” (come anche nella successiva In The Lies Where Upon You Lay) fa presupporre che con questo album i Mayhem volessero dare una svolta decisiva al loro sound. Un album molto articolato, con una struttura davvero inusuale per quel tempo (e per i Mayhem stessi). Decisi inserti di elettronica – come in A Bloodsword And A Colder Sun e in Completion In Science Of Agony), rendono ancor più interessante l’opera intera, corroborata dalla tecnica sopraffina di Blasphemer (lontano anni luce dal grezzo, rozzo, sporco – ma non meno favoloso – guitar sound del compianto predecessore). I cambi di tempo sono impressionanti: da cadenzati mid-tempo a feroci up-tempo, da marce militari e rulli di tamburi, a variegate scale Death Prog, un po’ à la Necrophagist, o meglio ancora à la Cynic (come in View From Nihil). Grand Declaration Of War è – in definitiva – un capolavoro di tecnica, novità (per quegli anni) e originalità. Un album mai noioso, che riserva sempre sorprese dietro l’angolo: assaporate To Daimonion che, dopo un intro sci-fi, si libra in un Heavy Funk Prog (vagamente Mordred di Fool’s Game) imperniato da sublimi ritmiche Thrash, ove lo scream Black non imperversa mai, bensì si miscela in un sublime divino coniugio.
Scontentò molti allora, ne incuriosì altrettanti; ma oggi – abituati come siamo, a questo imperversare di generi e sottogeneri, nuove influenze musicali e nuove suggestioni sonore, che spesso impreziosiscono il nostro caro Black Metal – si può affermare con assoluta certezza, che è amato da tutti.

Tracklist
1. A Grand Declaration of War
2. In the Lies Where upon You Lay
3. A Time to Die
4. View from Nihil (Part I of II)
5. View from Nihil (Part II of II)
6. A Bloodsword and a Colder Sun (Part I of II)
7. A Bloodsword and a Colder Sun (Part II of II)
8. Crystalized Pain in Deconstruction
9. Completion in Science of Agony (Part I of II)
10. To Daimonion (Part I of III)
11. To Daimonion (Part II of III)
12. To Daimonion (Part III of III)
13. Completion in Science of Agony (Part II of II)

Line-up
Maniac – Vocals
Blasphemer -Guitars
Necrobutcher -Bass
Hellhammer -Drums

MAYHEM – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=3yxrje6jNJ0

METEORE: ABHORER

Da Singapore, una delle band culto che più ha influenzato gran parte della scena Black Death dell’Estremo Oriente. Un solo album all’attivo, nel lontano 1996, ma accessibili oggi, grazie anche a diverse produzioni postume.

Singapore certo non è la Scandinavia o gli Stati Uniti e neanche la Germania o il Regno Unito, e nemmeno appartiene alla cosiddetta Fascia Estrema Mediterranea, ma annovera comunque, nella sua storia musicale, insieme al Giappone, alcune tra le band – in ambito Death e Black – più “influencer” della scena mondiale.

Sicuramente non ricca quanto le succitate storiche terre natie del genere estremo, ci ha comunque “donato” band del calibro di Mutation, Hellghast (in ambito Death Metal), Demisor, Cardiac Necropsy e Vrykolakas (in ambito Brutal Death) Impiety, Nuctemeron e soprattutto Abhorer (in ambito Black Thrash).
Nati nel lontano 1987 come Tombcrusher, cambiarono nome solo l’anno successivo, divenendo appunto Abhorer. Con questo monicker uscirono con il demo Rumpus of the undead; cinque occulte tracce di Black Death/Thrash di stampo abbastanza europeo.
Ma il vero successo venne con l’uscita dello split album – oramai di culto – con i giapponesi Necrophile, partorito dalla altrettanto famosa Decapitated Records (l’autrice – per capirci – di Into the Drape dei Mortuary Drape e Passage To Arcturo dei Rotting Christ).
Dopo però un misterioso silenzio di ben tre anni escono con un ep ,Upheaval of Blasphemy, di due pezzi, la cui cover (un demonio che copula con una donna sopra un pentacolo) letteralmente, li estromette dalla scena locale; il governo di Singapore non permetterà mai più loro di esibirsi dal vivo in terra natia, etichettandoli come adoratori di Satana e condannandoli al Fuoco Eterno (che era poi quello che i quattro ragazzacci desideravano…).
Quindi, per niente scoraggiati, nel 1996 fanno uscire Zygotical Sabbatory Anabapt per l’olandese
Shivadarshana Records (Impiety, Liar Of Golgotha, Order From Chaos), che rimarrà purtroppo l’unico vero loro full-length. Quasi 35 minuti di puro Black Death Thrash senza compromessi, furia cieca, grezza e sporca fino al midollo.
Dopo più nulla (si sciolsero nel 1997), se non una serie di split postumi e compilation, più o meno autorizzate dalla band stessa, tra cui una molto discussa Unholy Blasphemer, uscita per Xtreem, di cui in realtà la band non ne sapeva assolutamente nulla. La label pare sia stata ingannata da un presunto ex componente della band che voleva spillare qualche dollaro…

Discography:
Rumpus of the Undead – Demo – 1989
Deride the Remedied / Rumpus of the Undead – Split – 1991
Upheaval of Blasphemy – EP – 1994
Zygotical Sabbatory Anabapt – Full-length – 1996
Upheaval of Blasphemy / Dissociated Modernity – Split – 1997
Zygotical Ecstacy- Split – 2013
Cenotaphical Tri-Memoriumyths – Compilation 2014
Aseance Profanus Duoblation – Split – 2017
Oblation II: Abyssic Demonolatries – Compilation – 2017

Line-up
Exorcist – Guitars
Crucifer – Vocals
Imprecator – Bass
Dagoth – Drums

DEGREDO – A NOITE DOS TEMPOS

Ancestrali arcaici infernali suoni e rumori, per un esordio che, se musicalmente poco Black Metal, rimane comunque profondamente nero nell’anima, nel corpo e nell’infernale alone Dark Ambient che circonderà qualsiasi ascoltatore che ne tenterà il coraggioso approccio.

Sono sempre stato affascinato dall’alone di mistero di cui certe band (soprattutto Black) amano circondarsi.

I Degredo, nello specifico, appaiono e scompaiono come un poltergeist, come una qualche entità (maligna) che pare appena uscita da Paranormal Activity.
Appena abbozzi una ricerca sul Web, e pensi di esser riuscito a carpire qualche informazione, ti rendi quasi immediatamente conto, che stai guardando una qualsiasi pagina su internet che nulla ha a che fare con la band in questione.
D’altronde Velha e Lagrisome (i monickers del duo portoghese di non si sa quale dimenticata città lusitana…) non ci informano nemmeno sul loro ruolo nella band, su quale strumento suonano, su chi sia il songwriter, e non lasciano alcuna traccia delle loro liriche.
Appare pertanto difficoltoso (sebbene affascinante) recensire un album (il loro debutto) e citare qualche informazione di una band di cui conosciamo poco, anzi pochissimo, se non solo che appartengono all’Inner Circle Portoghese (il cosiddetto “Aldebaran Circle” che conta tra gli adepti anche Voemmr, Ordem Satanica, Trono Alem Morte e Occelenbriig).
Sicuramente l’appartenenza ad un Circle, oltre a rendere ancor più misteriosa l’origine di una band, (pensiamo agli adepti delle Legions Noires francesi, o dell’Austrian Black Metal Syndicate, e ancora del Temple of Fullmoon polacco, per non dimenticare il primo – ed originale – Norvegian Black Inner Circle) ci pone di fronte ad orde di misantropi, misogini e misandrici esseri (forse) viventi, il cui Verbo racchiude il più impenetrabile, imperscrutabile ed ermetico atteggiamento anti-umanità che la storia possa ricordare.
A fronte di queste considerazioni, pare ovvio che meno informazioni personali vengono divulgate sulla rete, meno notizie su se stessi vengono rese accessibili, al resto dell’umanità, meglio è. Chiaro che spesso, questo poco intelligibile atteggiamento, racchiude una sottile e velata attenzione ad azioni di vero marketing; il mistero affascina tutti, della serie: “meno faccio sapere di me stesso, più la gente vuole sapere…”.
Musicalmente i Degredo appaiono fin da principio in linea con quanto appena detto.
Un album della durata di circa un’ora e un quarto, suddivisa in quattro parti (letteralmente, non esistono veri e proprio titoli di canzoni), di un Dark Ambient Noise Black impregnato fortemente di infernali rumorismi dark, grigio industrial, ma soprattutto tanta Drone Music.
Un album assolutamente minimalista, nero come un’eterna notte antartica; un’iperbole di cupo odio, che sprigiona malignità da ogni sua pseudo-nota musicale. Un terrificante affronto alla vita, a tutto ciò che possa oggi rappresentare calore e luce. Chi si appropinqua a questo album, percorrerà un viaggio a ritroso nel tempo, proiettato in un antichissimo mondo dimenticato, ove luce e chiarore non faranno mai capolino, immersi in eterne tenebre, accompagnati da quattro “momenti musicali” che paiono far parte dell’uno (in realtà è un’unica canzone suddivisa in quattro parti); un viaggio Dantesco, verso i più oscuri antri infernali. Un album che è un archetipo della malvagità più arcana ed ancestrale, non adatto a persone impressionabili, consigliatissimo per scatenati fan di Abruptum e Mortiis.
Dopo quattro demo (il primo datato 2012, quindi una band decisamente giovane) ecco pertanto lo stravagante esordio su Harvest Of Death, label accostabile sicuramente al Circle portoghese, in quanto autrice di quasi tutte le produzioni delle band sopra citate.
Un ultima nota: se si ha un poco di tempo, può essere divertente dare un’occhiata alle informazioni sulle band dell’etichetta in questione… col risultato di trovare poco o niente. Mistero su mistero, in pieno stile Inner Circle!

Tracklist
1. Parte Um
2.Parte Dois
3.Parte Três
4.Parte Quatro

Line-up
Velha
Lagrisome

METEORE: MIASMA

Una grande band che avrebbe potuto aspirare all’Olimpo del Death Metal europeo, e sedere a fianco dei connazionali Disastrous Murmur e Pungent Stench. Grandi capacità tecniche, prefetto connubio tra melodia e brutale assalto sonoro, rendono l’album Changes una perla imperdibile.

I viennesi Miasma si formarono nel lontano 1990 dalla fusione di due band: gli Evil Tale e i Caldera.

Gli Evil Tale realizzarono un solo demo tape di discreto thrash metal, Mountains of Madness, di chiara ispirazione teutonica, mentre i Caldera nascevano dalle ceneri della grindcore band Digested Corpse. La prima apparizione dal vivo dei Miasma fu durante un festival tenutosi la vigilia di Natale del 1990, presso il piccolo locale viennese Graffiti. A marzo del 1991 uscì il loro primo lavoro, Godly Amusement, un demo di 4 tracks di discreto death metal. Iniziò così la loro carriera fatta di pochi alti e molti bassi, e di diversi split-up e successive reunion. Vennero alla ribalta grazie ad alcuni show con alcune band già famose di quel tempo, (aprirono per Unelashed e Pungent Stench, e successivamente – sempre nel 1991 – per Ulcerous Phlegm, Disastrous Murmur e Disharmonic Orchestra). Furono così successivamente contattati dalla Turbo Music tedesca, che però preferì alla fine mettere sotto contratto gli allora emergenti Asphyx. La grande voglia di uscire con un full length fu premiata solo l’anno successivo, grazie all’interesse della concittadina Lethal Records (Acheron, Eminenz, Hellwitch, Belial e Disastrous Murmur, per citare alcune band del roster); il 5 ottobre 1992 usci così Changes, favoloso album death metal di chiara matrice europeo/teutonica che ebbe allora un discreto successo grazie anche a tournée con band del calibro di Evil Dead, Laaz Rockit, At The Gates e Therion (da alcune date ne scaturì anche un live – Liepzig – sempre datato 1992). L’anno successivo usci il loro ep Love Songs, poco prima del loro primo scioglimento. Riunitisi nel 1995, fecero uscire il demo omonimo, per poi sciogliersi immediatamente dopo. Ancora una reunion dieci anni dopo, che vide unicamente alcuni loro show in terra natia, per poi decretare lo split-up definitivo (almeno secondo quanto dichiarato dal bassista Johannes Attems).

Discography:
Godly Amusement – Demo – 1990
Live Leipzig – Live album -1992
Changes – Full-length – 1992
Love Songs – EP – 1993
Miasma 1995 – Demo – 1995

Line-up
Ares Cancer – Guitars
Gerhard “Gorehead” – Vocals
Johannes Attems – Bass