Septagon – Deadhead Syndicate

Deadhead Syndicate dimostra come il vecchio thrash abbia ancora molte frecce nel proprio arco

Debutto molto interessante per questa nuova band tedesca formata da ex membri dei Lanfear, con il supporto di Markus Becker dietro al microfono, ex vocalist dei Atlantean Kodex protagonisti di uno spumeggiante esempio di thrash metal old school, dalle impressionanti accelerazioni speed, ed una vena progressiva che rendono il loro album un gioiellino di metallo diviso tra potenza e melodia.

Appunto, le melodie sono il punto di forza di Deadhead Syndicate, mai banali, inserite con gusto in un contesto che rimane ad alta gradazione metallica, nobilitando il sound di questa raccolta di songs che alternano sfuriate speed/thrash ad ariose aperture, in un crescendo di scale, riff e solos che, a tratti entusiasmano.
Suonato molto bene, senza forzare la mano sulla mera tecnica, l’album si sviluppa in otto brani più intro, dove il gruppo sfoggia un’invidiabile songwriting, devoto all’US metal, che esce prepotentemente dai solchi di alcune songs dal tono drammatico, tanto caro aldilà dell’oceano, ricamando con esso il thrash metal progressivo, cuore pulsante dell’album.
Markus Becker ci mette del suo nella riuscita dei brani proposti, dotato di una voce splendida, interpreta i sali e scendi sulle montagne russe di Deadhead Syndicate, con grinta, e debordante personalità, mentre i suoi compari ( Markus Ullrich e Stef Binnig-Gollub alle chitarre, Alexander Palma al basso e Jürgen Schrank alle pelli) formano una banda di musicisti dal notevole spessore tecnico.
Tra le varie Revolt Against The Revolution, Ripper, la straordinaria Septagon Conspiracy e la iper tecnica title track, avrete modo di divertirvi, la band non fa nulla per nascondere le proprie influenze, d’altronde il genere è questo, prendere o lasciare, ma le assembla con perizia ed ottimo talento.
Exodus e Forbidden, metallo classico statunitense e accenni al thrash progressivo dei Mekong Delta, sono le ispirazioni maggiori per questa ottima band tedesca, che ruberà il cuore dei thrashers dai gusti raffinati, ma potrebbe piacere anche a chi non sbava per il metal dalla proibita velocità.
Deadhead Syndicate dimostra come il vecchio thrash abbia ancora molte frecce nel proprio arco, un genere che, suonato a questi livelli, non conosce ostacoli.

TRACKLIST
1. Ignite the Apocalypse
2. Revolt Against the Revolution
3. Exit…Gunfire
4. Ripper
5. Septagon Conspiracy
6. Henchman of Darkness
7. Deadhead Syndicate
8. Unwanted Company
9. Secret Silver Panorama Machine

LINE-UP
Markus Becker – vocals
Markus Ullrich – guitars
Stef Binnig-Gollub – guitars
Alexander Palma – bass

SEPTAGON – Facebook

Thrashfire – Vengeance Of Fire

Nuovo ep per i turchi Thrashfire, freschi di firma con la Xtreem music, che propongono una versione violenta e speed del thrash.

Tornano, dopo la firma con la Xtreem Music, i turchi Thrashfire con questo ep di sei brani composto da quattro inediti e da due tracce risalenti al primo demo, originariamente uscito nel 2007.

Il trio di Ankara, attivo da una decina d’anni, è al secondo mini cd, ed ha nel suo curriculum un full length datato 2011 (Thrash Burned the Hell) e la sua proposta risulta, come da ragione sociale, un speedo thrash violento e old school.
Vicino come proposta al genere di tradizione tedesca (Kreator, Sodom, Destruction), questo nuovo mini cd è un assalto senza compromessi, puro metallo ignorante e senza fronzoli, veloce, sguaiato e dalle ritmiche forsennate.
Voce cattivissima e cartavetrata e tanta attitudine old school che esce prepotentemente dai solchi delle varie Vengeance of Fire, Thrash Assassinations of Rotten Streets (violentissima) e Chainsaw Metal.
Da notare come, all’ascolto delle songs estratte dal demo, la proposta del gruppo non si sia spostata di una virgola, tanto da non credere di essere al cospetto di brani con più di dieci anni sul groppone.
Speed/thrash violentissimo, classico prodotto consigliato solo ai fans incalliti del genere, con un approccio da prendere o lasciare che non lascia dubbi sulle intenzioni del gruppo turco, suonare il più veloce e devastante possibile.

TRACKLIST
1. (Intro) Back to Ritual
2. Vengeance of Fire
3. Thrash Assassinations of Rotten Streets
4. Chainsaw Metal
5. Silent Torture (Demo) *
6. Kill the Fake God (Demo) *

LINE-UP
Okan Özden – Bass, Vocals (backing)
Oktay Fıstık – Drums
Burak Tavus – Guitars, Vocals

THRASHFIRE – Facebook

Sleepy Hollow – Tales Of Gods And Monsters

Il nuovo lavoro continua la tradizione musicale del gruppo statunitense, ottimo esempio di US metal old school amalgamato a sonorità classic doom, epico, fiero e declamatorio

Tornano i veterani Sleepy Hollow con questo nuovo album a distanza di quattro anni dal ritorno sulle scene del 2012 con Skull 13, lavoro che spezzava un silenzio lungo più di vent’anni dall’esordio omonimo datato 1991, interrotto solo da una compilation nel 2002.

Attiva dalla fine del decennio ottantiano la band del New Jersey, purtroppo poco prolifica, ha trovato in questi anni un minimo di costanza nelle proprie uscite e Tales Of Gods And Monsters, licenziato dalla Pure Steel, può così infiammare i true metallers dall’anima epic doom.
Il nuovo lavoro continua la tradizione musicale del gruppo statunitense, un ottimo esempio di US metal old school, amalgamato a sonorità classic doom, epico e declamatorio, fiero, drammatico e molto coinvolgente.
Una cinquantina di minuti persi nelle atmosfere epiche di brani, che dall’opener Black Horse Named Death non cedono un’oncia in tensione, pressanti nel loro andamento cadenzato, valorizzati da un’ottima prova del vocalist Chapel Stormcrow e da linee melodiche perfettamente incastonate nel sound nato nella vorace bocca di un vulcano in eruzione.
Le tastiere, specialmente nei primi brani, più orientati al metal classico, fungono da tappeto sonoro, su cui il gruppo costruisce il suo pesantissimo sound (Sons Of Osiris), mentre nella seconda parte, l’aria si fa ancora più pressante, i ritmi rallentano ed esce, pesante ed epico lo spirito doom del gruppo, valorizzato da songs tragiche e declamatorie che alzano non poco la qualità dell’opera.
On Blackened Seas, Baphomet e la conclusiva Shadowlands, sono perle di musica del destino dai rimandi classici, il gruppo è maestro nel far convivere US metal con il sound monolitico e pesante delle band doom europee come i Candlemass ed i Count Raven, ricamate dalle ottime melodie create dalla sei corde di Steve Stegg.
Animato da una sezione ritmica compatta e, a tratti, debordante (Rich Fuester al basso e Allan Smith alle pelli), Tales Of Gods And Monsters risulta un album riuscito in toto ed un ottimo ritorno per gli Sleepy Hollow, unauna band ritrovata per gli amanti del genere.

TRACKLIST
1. Black Horse Named Death
2. Sons Of Osiris
3. Alone In the Dark
4. Bound By Blood
5. Goddess Of Fire
6. On Blackened Seas
7. Baphomet
8. Creation Abomination
9. Shapeshifter
10. Time Traveller
11. Shadowlands

LINE-UP
Chapel Stormcrow – vocals
Rich Fuester – bass
Allan Smith – drums
Steve Stegg – guitars

SLEEPY HOLLOW – Facebook

Heart Attack – Heart Revolution

L’album piace al primo giro e sono convinto che gli Heart Attack si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea: farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, nemmeno a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati.

Dalla scena ellenica alla conquista del continente, per conquistare i cuori degli amanti del rock melodico e dalle atmosfere AOR.

Heart Revolution è il debutto degli Heart Attack, melodic rockers dal sound che guarda tanto alla scena americana degli anni ottanta quanto a quella del vecchio continente, non dimenticando la scuola neoclassica di matrice nord europea.
Fondata da due musicisti di provata esperienza della scena melodica del loro paese, come come George Drimilis (ex Raging Storm) e Nikos Michalakakos (Spitfire), la band conquista con questo confetto di dolcissimo hard rock, dalle ritmiche pulsanti e dai refrain catchy, dove non mancano riff grintosi, chorus da arena rock e tastiere che riempiono il suono di melodie ariose e dall’ottimo appeal.
Prodotto da Bob Katsionis (Firewind, Outloud), mixato e masterizzati nientemeno che da Tommy Hansen (Pretty Maids, Helloween, Rage) ai Jailhouse Studios in Danimarca, Heart Revolution (tralasciando la copertina invero bruttina e che non rende giustizia alla musica del gruppo) è un bell’esempio di hard rock melodico, dal songwriting ispirato, cantato alla grande da un Drimilis che fa strage di cuori metallici, aiutato nei cori dalla tastierista Lila Moka, brava con il suo strumento, ed energizzato da ottimi solos dell’axeman Stefanos Georgitsopoulos, elegante e raffinato, nonché grintoso il giusto quando la musica del gruppo si elettrizza per donare attimi dal piglio dinamico e coinvolgente.
Il disco può certamente essere diviso in due parti, la prima vede il gruppo cimentarsi in song dal taglio più melodico ed Aor, che arrivano al cuore dell’ascoltatore e lo ammalia con ariosi refrain e delicati ed eleganti chorus ( Falling Apart, Stalker, le strepitose Chine Blue e Tell Me), mentre nella seconda parte l’hard rock prende il sopravvento, la sei corde spara le sue cartucce e ne escono brani dal piglio più aggressivo come in Heart Attack e nell’inno Hellenic Forces, bonus track che vede la partecipazione di un folto gruppo di ospiti della scena, per un brano dal taglio neoclassico ed avvincente.
Le influenze sono evidenti e riscontrabili nei maestri del genere, su tutti gli Scorpions più melodici, Tyketto, Pretty Maids e personalmente ci aggiungerei i finlandesi Brothers Firetribe, progetto hard rock del chitarrista dei Nightwish Emppu Vuorinen.
L’album piace al primo giro e sono convinto che gli Heart Attack si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea: farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, nemmeno a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati.

TRACKLIST
01. Falling Apart
02. Under Your Spell
03. Stalker
04. Playing With Fire
05. China Blue
06. Living A Lie
07. Tell Me
08. (You’re A) Nightmare
09. Chase The Dream
10. Heart Attack
11. Hellenic Forces

LINE-UP
George Drimilis-Vocals
Steve G.-Guitars
Lila Moka-Keyboards/Backing vocals
Nikos Michalakakos-Bass
Jim K.-Drums

HEART ATTACK – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
Gran bella sorpresa questa band greca, l’album piace al primo giro e sono convinto che si ritaglieranno il loro spazio nella scena melodica europea, farsi avvolgere dalle calde e ariose melodie dell’AOR male non fa, anche a chi è abituato ad ascolti meno sdolcinati, provare per credere.

Arcana 13 – Danza Macabra

Il disco è bello ed è composto e suonato molto bene, rendendo ottimamente atmosfere che gli appassionati dell’horror, specialmente italiano, amano particolarmente.

Ambizioso e riuscito tentativo di coniugare l’horror di Fulci ed Argento alla musica occulta degli anni settanta. Otto tracce ispirate da otto film diversi per portarci in uno spazio ed in un tempo diversi.

Gli Arcana 13 sono al debutto ma i componenti del gruppo sono dei capitani di lunga ventura, Simone Bertozzi ha suonato e scritto per i Mnemic, Andrea Burdisso è il cantante dei grandissimi Void Of Sleep, Filippo Petrini ha suonato con gli Stoned Machine e Luigi Tarone è un batterista da più di venti anni e si sente. Il suono degli Arcana 13 è molto piacevole e variegato, anche se si muove principalmente nell’ambito del rock anni settanta, lato doom in quota Pentagram e, ovviamente, con riferimenti sabbatiani. Questi musicisti sanno suonare, ma soprattutto hanno gusto e riescono nella difficile missione di musicare un certo immaginario horror, che negli ultimi anni è stato in parte dimenticato. Tutto funziona, a partire dalla copertina di Enzo Sciotti che ha dipinto locandine di Fulci, Argento e Bava, ovvero la triade ispiratrice degli Arcana 13.
Il disco è bello ed è composto e suonato molto bene, rendendo ottimamente atmosfere che gli appassionati dell’horror, specialmente italiano, amano particolarmente.

TRACKLIST
1. Dread Ritual
2. ArcaneXIII
3. Land of Revenge
4. Oblivion Mushroom
5. Suspiria (Goblin cover)
6. Blackmaster
7. The Holy Cult of Suicide
8. Hell Behind You

LINE-UP
S.Bertozzi – Vocals, Guitar
A.Burdisso – Vocals, Guitar
F.Petrini – Bass
L.Taroni – Drums

ARCANA XIII – Facebook

Anthrax – For All Kings

For All Kings si rivela un lavoro più che semplicemente riuscito, grazie ad ottime canzoni, soluzioni armoniche geniali ed ottime cavalcate ritmiche, serrate e dal mood punk come tradizione del gruppo americano.

Spreading the Disease, Among the Living, Persistence of Time, basterebbero questi tre album per spiegare l’importanza degli Anthrax, una dei gruppi fondamentali, non solo per lo sviluppo del thrash metal, ma di tutto il mondo metallico.

Il gruppo di Scott Ian torna in questo inizio 2016 con un nuovo lavoro, For All Kings, che segue di cinque anni l’altalenante Worship Music, confermando la ritrovata verve dei gruppi storici del metal mondiale, prima gli Iron Maiden, poi gli Slayer e, infine, i Megadeth.
Detto che l’ex Shadows Fall Jon Donais ha preso il posto alla sei corde del buon John Caggiano, passato nei danesi Volbeat, e che al microfono si conferma il ritorno di un Joey Belladonna a mio parere mai così convincente, l’album, è bene chiarirlo, deluderà i fans della prima ora, quelli ancorati al thrash metal old school dei gloriosi anni ottanta.
Bisogna dirlo perché la band, pur scaricando volumi spropositati di metallo incendiario, ha da parecchi anni allargato i suoi orizzonti musicali, lasciando che molte soluzioni moderne e hard rock, entrassero prepotentemente nel propio songwriting, già da quel capolavoro che fu Sound of White Noise, album del 1993 che vedeva al microfono l’ex Armored Saints John Bush.
Se si parte da questa importantissima considerazione, allora For All Kings si rivela un lavoro più che semplicemente riuscito, grazie ad ottime canzoni, soluzioni armoniche geniali ed ottime cavalcate ritmiche, serrate e dal mood punk come tradizione del gruppo americano.
Tanta melodia dunque, che si alterna a sfuriate ritmiche serrate, tenute con forza da musicisti dall’esperienza e dalla bravura nota a tutti, a tratti rese irresistibili da chorus di elevata qualità e violentate dal lavoro preciso della coppia d’asce Ian/Donais.
La band, sensibile da sempre alle vicende politiche e sociali, non si risparmia nel dire la sua sulle vicende parigine e sull’attentato a Charlie Hebdo in Evil Twin, mentre il thrash metal fa a spintoni con un approccio più moderno al genere trascinando l’ascoltatore nel mondo Anthrax,  mai come ora meno ancorato ai soliti cliché ed in fondo molto più maturo.
Blood Eagle Wings potrebbe fungere da sunto alla proposta odierna degli Anthrax, un thrash metal che varia e si rigenera tra velocità ed irruenza ed aperture melodiche più ampie; il groove che affiora nelle parti potenti e cadenzate, danno a For All Kings quell’impronta attuale che rende fresco il sound (Defend Avenge) e l’impressione di essere al cospetto di un gruppo attuale è più forte di quello che affiora davanti ad opere imbolsite di tanti loro colleghi sopravvissuti a trent’anni di storia metallica.
L’oscura epicità di All Of Them Thieves, la spettacolare This Battle Chose Us e lo speed metal sparato ed ironico di Zero Tolerance, che torna (questa sì) al sound di Persistence Of Time, chiudono il lavoro, che ha una coda nel riproporre una manciata di brani live, tra cui la storica Caught In A Mosh, mettendo la parola fine al ritorno di questa seminale band che non ne vuol sapere di andare in pensione, dispensando ancora, dopo tanti anni, buona musica metal.
Promossi? Direi proprio di sì, ampiamente.

TRACKLIST
01. You gotta believe
02. Monster at the end
03. For all kings
04. Breathing lightning
05. Suzerain
06. Evil twin
07. Blood eagle wings
08. Defend Avenge
09. All of them thieves
10. This battle chose us
11. Zero tolerance
12. Fight’em all ‘til you can’t (live)
13. A.I.R. (live)
14. Caught in a mosh (live)
15. Madhouse (live)

LINE-UP
Scott Ian Guitars – Vocals
Charlie Benante Drums – Percussion
Frank Bello – Bass
Joey Belladonna – Vocals
Jonathan Donais – Guitars (lead)

ANTHRAX – Facebook

Hatecrowned – Newborn Serpent

Ottimo lavoro peri blacksters Hatecrowned, provenienti da una terra non abituale per il genere come il Libano.

Deserto nord africano: sorpresi nel bel mezzo di una tempesta di sabbia, i due ragazzi si rifugiano in un’antica cripta sommersa dal mare desertico e scoperta per caso.

Al riparo dal vento caldo del deserto, ed incuriositi da strani segni sulle pareti, i due, al chiarore di una torcia si avventurano tra gli stretti corridoi scavati da migliaia di anni e trovata un’apertura che porta ad una stanza addobbata come un’antica tomba, si addormentano vicini a quella che sembra una lapide.
Il pavimento intorno a loro comincia a muoversi, lento e sinuoso come un mortale serpente demoniaco, è la fine, i loro corpi stritolati tra le spire del rettile non troveranno più la luce, così come le loro anime scaraventate nel più buio antro infernale.
La colonna sonora di questo incubo è Newborn Serpent, primo bellissimo parto estremo degli Hatecrowned, duo libanese protagonista di un black metal satanico e misantropico, violentissimo, ma molto affascinante e suggestivo.
I due arrivano arriva al debutto su lunga distanza dopo il primo lavoro in versione ep, uscito nel 2013 (Warpact in Black) e tramite la Satanath Records licenzia questo oscuro e devastante lavoro.
Ayvaal (voce) e Dahaaka (chitarre e tastiere) sono aiutati in questo viaggio verso l’oscurità, tra le mortali spire del serpente, da Benjamin “GoreDrummer” Lauritsen alle pelli ed Eddy Ferekh al basso, una sezione ritmica da apocalisse, mentre i due demoni mediorientali compiono atrocità e blasfemie, il primo con uno scream molto evil, ed il secondo tra riff e tappeti di keys che puzzano di putridi antri di piramidi dimenticate dal tempo, dove covate di demoni malefici si nutrono delle anime dannate.
Ottime e suggestive le devastanti trame sonore che compongono brani neri e maligni come For Scum Thou Art, and unto Scum Shalt Thou Return, Redefining Purgatory e la clamorosa title track, un inno alle nefandezze del maligno, tremenda colonna sonora di morte e disperazione.
Ottimo lavoro dunque, proveniente da terre non abituali per il metal estremo così da risultare ancor più affascinante.

TRACKLIST
1. Ominous Birth of Serpent
2. For Scum Thou Art, and unto Scum Shalt Thou Return
3. Infest and Conquer
4. Coronation of the Eternal and Pure
5. Void
6. Redefining Purgatory
7. Newborn Serpent
8. Cave of Salvation
9. Funeral Reverie
10. Wolves

LINE-UP
Ayvaal – Vocals
Dahaaka – Guitars and Keyboards

Benjamin “GoreDrummer” Lauritsen- Drums.
Eddy Ferekh – Bass Guitar

HATECROWNED – Facebook

A Soul Called Perdition – Into The Formless Dawn

Qualcuno taccerà questo album come opera poco originale, fate spallucce e lasciatevi travolgere dalle note marchiate a fuoco di Into The Formless Dawn: lunga vita al melodic death metal scandinavo.

A distanza di di molti anni il melodic death metal scandinavo, dopo il successo negli anni novanta, continua a regalare nell’underground ottime realtà che portano avanti la tradizione del genere nel segno del più puro sound creato dai gruppi storici della fredda penisola su a nord.

Il death metal, melodicizzato da sfumature heavy è stato in parte tradito da quei gruppi che lo hanno portato alla ribalta della scena metal mondiale, troppi occhi ed orecchie puntate ad occidente e precisamente negli states, dove il genere è stato imbastardito e violentato da elementi moderni, così da guadagnare in vendite, ma perdere molto del proprio fascino.
Per primi gli In Flames, seguiti da altre bands nel corso degli anni hanno sempre più lasciato le sonorità classiche, colpevoli di ammorbidire la parte estrema, per un approccio moderno e core, così che, specialmente i gruppi nati in seguito, pur con ottimi album alle spalle, si sono dovuti accontentare del mercato underground.
Poco male se le proposte che arrivano a chi cerca di portare all’attenzione dei fans il sottobosco metallico internazionale, giudicando la musica per quello che è, senza guardare alla moda del momento.
La one man band A Soul Called Perdition, monicker che nasconde le imprese musicali di Tuomas Kuusinen, musicista finlandese all’esordio discografico autoprodotto, fa parte di quelle realtà che, uscite tra il ’94 ed il ’98 avrebbe fatto sprecare inchiostro a molti scribacchini dei giornali cool dell’epoca, che, non dimentichiamolo, allora non perdevano occasione per incensare qualsiasi gruppo death metal solo leggermente più melodico del normale, parlando, a volte a sproposito, di nuovi In Flames, Dark Tranquillity o Amorphis.
Dunque questo lavoro che, per inciso, risulta un ottimo esempio di melodic death metal scandinavo, dove il buon Tuomas suona tutti gli strumenti e se lo è pure prodotto e mixato, farà sicuramente la gioia degli amanti del suono anni novanta, essendo un concentrato di metal estremo travolto da melodie chitarristiche di stampo heavy, dove cavalcate death metal veloci ed ispirate, si scontrano con aperture melodiche e growl robusto e cattivo il giusto per inchiodarvi alla poltrona.
Otto brani, prodotti benissimo, una mazzata di mezzora che torna a far risplendere il sottogenere estremo che più cuori ha fatto innamorare negli ultimi vent’anni, suonati alla grande da un musicista, compositore e produttore davvero bravo.
Into The Formless Dawn risulta così, un’opera studiata nei minimi dettagli, un esordio davvero riuscito, compatto, aggressivo e melodico, senza forzature e perfettamente bilanciato in tutte le sue componenti.
Woe, Severance, To Those Who Shall Follow, tanto per citare alcune tracce dell’album ( ma l’opera è da godersi per intero, anche perché non rivela cadute di tono) vi riporteranno piacevolmente indietro nel tempo, mentre primi Sentenced, Amorphis, Hypocrisy e gli In Flames non ancora americanizzati, si riconquisteranno un posto nel vostro lettore.
Qualcuno taccerà questo album come opera poco originale, fate spallucce e lasciatevi travolgere dalle note marchiate a fuoco di Into The Formless Dawn: lunga vita al melodic death metal scandinavo.

TRACKLIST
01. Woe
02. There Is No Shelter
03. Into The Formless Dawn
04. Severance
05. Emptiness
06. Immortal, Entwined
07. To Those Who Shall Follow
08. We Walked In The Shadows

LINE-UP
Tuomas Kuusinen – Vocals, Guitars, Bass, additional instruments

A SOUL CALLED PERDITION – Facebook

Sublime Eyes – Sermons & Blindfolds

Aggiungete ai primissimi Soilwork, Darkane ed At The Gates tanto combustibile di marca Machine Head e la bomba è servita, occhio a maneggiarla con cautela.

Ecco pronto un altro candelotto di dinamite metallica preparato per noi dai norvegesi Sublime Eyes, lanciato dalla nostrana WormHoleDeath sul finire di questo tragico 2015 e che andrà ad esplodere nel nuovo anno nei padiglioni auricolari di chi, del death melodico dalle devastanti bordate thrash, si nutre.

Sermons & Blinfolds è il nuovo lavoro di questa clamorosa band, fondata a Stavanger nella fredda Norvegia che ora raggiunge temperature elevate, messa a ferro e fuoco da questa raccolta di brani esplosivi, intensi, dalle ritmiche forsennate e dannatamente coinvolgenti.
Una macchina metallica pronta per la guerra, la band racchiude nel suo sound una commistione altamente infiammabile di death metal e thrash, giocando a suo piacimento con la tradizione melodica delle sua terra di origine, e quella statunitense, ed il risultato non può che essere da infarto.
Passo indietro dovuto per presentarvi quest’arma letale, nata nel 2007 e già autrice di un full length, Dawn of the Defiant nel 2010, seguito due anni dopo dall’ep Reign of the Sun e ora pronta a fare danni sotto la label italiana che chiaramente non poteva lasciarsi sfuggire cotanto furore estremo.
Trattenete il fiato prima di schiacciare il tasto play, perché dalla prima nota dell’opener Greedy Hands verrete schiacciati dalla forza dell’esplosione di questo lavoro, una carica che non conosce tregua, almeno fino alla fine.
E qui sta il bello, perchè dopo essere stati sbattuti da una parte all’altra della vostra stanza dalle bordate di nitroglicerina di Ten Stones, da quel capolavoro che risulta Shellshocked, o dalla travolgente No Regrets, vorrete solo ripremere il fatidico tasto e dare via ad un’altra devastante detonazione.
Growl da manuale, ritmiche con tanto groove da far cadere palazzi e solos melodici che fanno l’occhiolino a sonorità classiche, sono la mistura di polveri che compongono questo esplosivo lavoro, ma trattenere il fiato per quasi quaranta minuti è impossibile, ed allora fatevi travolgere senza opporre resistenza a questa mazzata estrema chiamata Sermons & Blindfolds.
Volete dei nomi, lo so, ed allora aggiungete ai primissimi Soilwork, Darkane ed At The Gates tanto combustibile di marca Machine Head e la bomba è servita, occhio a maneggiarla con cautela.

TRACKLIST
1.Greedy Hands
2.Ten Stones
3.Destroyer
4.Shellshocked
5.Your Time Is Done
6.No Regrets
7.We Are Chaos
8.It All Disappeared

LINE-UP
Vocal- Arvid Tjelta
Guitar- Tom Arild Dalaker
Guitar- Jan Vinningland
Bass- Jørn Helseth
Drums-Remy Dale

SUBLIME EYES – Facebook

Ildverden – Темніч чорна йде за мною

Maligna e piena di insidie è la notte, specialmente se ci si perde nelle foreste ucraine dove si cela Human Unknown, polistrumentista di questa one man band chiamata Ildverden.

Maligna e piena di insidie è la notte, specialmente se ci si perde nelle foreste ucraine dove si cela Human Unknown, polistrumentista di questa one man band chiamata Ildverden.

Senza nessuna concessione al benché minimo istinto commerciale, il musicista arriva a noi tramite Satanath Records con il suo quarto full length dai titoli in lingua madre (Темніч чорна йде за мною si traduce in La Nera Mezzanotte Mi Segue) dopo aver dato alle stampe il primo album omonimo nel 2007, Path to Eternal Frost and Fire del 2008 e Де хмари плачуть… lo scorso anno.
Black metal old school di scuola norvegese dai ritmi cadenzati, alquanto epici ed oscuri, accelerate cattive e, qua e là, buone melodie nere come la notte nel sottobosco di una foresta dannata, sono le maggiori virtù di quest’opera, che non si fa mancare qualche difetto (la produzione, non so quanto volutamente segue l’attitudine old school del lavoro) e la troppa prolissità in brani che, mediamente, raggiungono i dieci minuti, per arrivare addirittura a ventuno nella suite Прорікання Вельви, cuore di questo album.
In effetti più di un’ora per un album del genere è un po’ troppo e in definitiva si giunge al termine con un senso di fatica, peccato perché il black metal suonato da Human Unknown non è niente male e l’album vive di buone atmosfere orrorifiche e misantropiche, inserite in un contesto dalla violenza metallica di sicuro impatto.
Come detto, la musica si ispira al black metal scandinavo e segue le produzioni dei primissimi anni novanta, aggiungendo una buona ispirazione nelle gelide atmosfere che alternano momenti di epico black metal pagano, a più terrorizzanti sfumature horror.
Il mattino è ancora lontano e l’alito putrido delle belve assetate di sangue ci scalda il viso gelato, prima che le fauci si facciano largo nel nostro corpo, cerchiamo di svegliarci da quello che sembra un brutto incubo, mentre la nostra mano staccata dal braccio è preda di un’agguerrita disputa tra le creature della notte.

TRACKLIST
1. Очі мертвої луни
2. Темна далич завіхрить
3. Прорікання Вельви
4. Темніч чорна йде за мною
5. Спалах блискавок в очах

LINE-UP
Human Unknown – All Instruments, Vocals

Isenblåst – Altars Of Blood

Due tracce promo di black metal senza compromessi, in attesa del primo full lenght di prossima uscita.

Gli Isenblåst, black metallers provenienti dal Michigan, hanno rilasciato queste due tracce promo, in attesa del primo full lenght di prossima uscita.

Il gruppo attivo dal 2010 è gia al quarto demo in sei anni a far compagnia ad un ep uscito nel 2014 dal titolo Unleashing the Demon Scourge di oltranzista black metal old school.
Ed è proprio la scuola norvegese dei primi anni novanta ad essere la massima ispirazione per il gruppo statunitense, lo conferma questi due brani feroci ed estremamente evil, dai testi satanici e dalla produzione vecchia scuola.
Altars Of Blood e I; Lucifer ci presentano un quartetto di demoni completamente votati alla nera fiamma che bruciava, maligna e diabolica tra le fredde lande scandinave, ritmiche che alternano sfuriate devastanti a marce cadenzate verso l’inferno, uno scream di genere efferato e indemoniato il giusto, più una totale devozione per le opere di Mayhem, Marduk, Ragnarok e Setherial.
Black metal senza compromessi dunque, due fieri inni malefici suonati con la convinzione di essere davvero tornati alle battaglie tra le truppe dell’inferno nei primi anni novanta, questo risultano le due tracce presentate da Chronolith (basso e voce), Lord Kaiser ( chitarra), Walshpurgisnacht (basso) e Abominater alle pelli.
Il gruppo di Detroit ci dà appuntamento al debutto sulla lunga distanza, nel frattempo i due brani sono disponibili in free download sul bandcamp del gruppo e verrà pure realizzata una versione limitata in cd a cento copie; se siete amanti del black metal old school dategli un ascolto ed aspettate con noi il fatidico full length.

TRACKLIST
01. Altars of Blood
02. I; Lucifer

LINE-UP
Walshpurgisnacht – Bass
Abominater – Drums
Lord Kaiser – Guitars
Chronolith – Vocals, Guitars

 

Bloody Invasion – Bloody Invasion

Buon debutto per i Bloody Invasion con un mini cd che ha nella compattezza e l’alternanza tra tiro possente e rallentamenti, composti da buoni spunti melodici, il proprio punto di forza.

I Bloody Invasion sono una death metal band tedesca, nata nel 2012, dedita a sonorità classiche e arrivata finalmente al debutto con questo ep omonimo tramite la sempre attenta WormHoleDeath, sinonimo di qualità nel metal estremo underground.

Il quintetto originario di Neuruppin si presenta al mondo metallico estremo con cinque brani di death metal old school, guerresco, ed a tratti pregno di un’epicità nascosta dalla valanga di riff pesanti come incudini che ricadono sull’ascoltatore, mortali nel loro colpire il bersaglio con mitragliate ritmiche, ed interpretate da un growl cattivissimo, come un capo tribù che arringa i suoi fedeli guerrieri sul campo di battaglia.
Si combatte in territori cari a band storiche come Bolt Thrower e primi Kataklysm, puro e quadrato death metal che non disdegna accelerazioni devastanti e monolitici ritmi cadenzati che spronano a marciare i soldati in avvicinamento sul luogo di quella che diventerà la strada per la gloria o l’eroico passaggio all’aldilà.
Matter Of Time risulta una death metal song lineare, robusta e compatta, mentre con Hangman trovano spazio arpeggi dal tono drammatico e ritmiche che variano tra velocità e marzialità.
Il growl alterna toni cavernosi ad urla animalesche, sotto le armature si nascondono orchi famelici, mentre la title track si abbatte sul luogo dello scontro come una tempesta di acqua e sangue, mentre Act Of Justice risulta la traccia più diretta dell’opera.
Altro macigno sonoro, la conclusiva The Mischief, torna ad alternare devastanti partenze a razzo, care agli headbanger più incalliti, a rallentamenti melodici, per poi tornare su velocità sostenute e cattiveria a iosa.
Buon debutto, quindi, con un mini cd che ha nella compattezza e l’alternanza tra tiro possente e rallentamenti, composti da buoni spunti melodici, il proprio punto di forza, per un sound sicuramente da sviluppare in un futuro full length, nel frattempo si consiglia l’ascolto agli amanti del genere.

TRACKLIST
1. A Matter of Time
2. Hangman
3. Bloody Invasion
4. Act of Justice
5. The Mischief

LINE-UP
Didi – Drums
Marek – Guitars
Christian – Guitars
Max – Vocals
Martin – Bass

BLOODY INVASION – Facebook

Holocaust – Predator

Predator ha nelle sue virtù, quella di non apparire come una mera operazione nostalgica, ma un lavoro di un gruppo di ottima qualità al quale il passare del tempo non ha scalfito, grinta e talento compositivo.

La New Wave Of British Heavy Metal viene ricordata sistematicamente,quando si parla delle solite band, conosciute più o meno anche da chi il genere lo mastica molto superficialmente, eppure intorno ad esse sono cresciute parecchie realtà che hanno regalato album storici, anche se magari diventati esclusiva solo per i true metallers, in questo caso più attempati.

I britannici Holocaust, possono essere considerati uno dei gruppi outsiders di maggiore qualità, nati in Gran Bretagna e di base in Scozia, il gruppo di Edimburgo esordì nel 1980 e può vantare una nutrita discografia che vede otto album ed una marea di ep e compilatiom.
Predator, licenziato dall’etichetta greca Sleaszy Rider Records , segue l’ultimo album inedito (Primal) di ben dodici anni, mentre la line up, vede lo storico axeman John Mortimer, unico superstite degli anni d’oro, affiancato da Mark McGrath (basso e voce) e da Scott Wallace alle pelli.
Un terzetto di musicisti tecnicamente ineccepibili, che giocano con l’heavy metal old school, valorizzandolo con sfumature progressive e attitudine settantiana, che si respira a pieni polmoni in questo concentrato di hard & heavy potente e melodico.
Sicuramente non conosciuta come i vari Iron Maiden e Saxon, la band si è guadagnata il rispetto di molti gruppi famosi, con vari brani coverizzati da nomi del calibro di Metallica e Gamma Ray, questo per ribadire di che pasta sono fatti i nostri tre heavy metallers scozzesi.
Predator conferma l’alta qualità della musica degli Holocaust, con un lotto di brani agguerriti, potenti, grintosi, sempre con quella nebbiolina progressiva che si poggia sulle tracce, come la brina mattutina nell’umido e piovosi Regno Unito, colpevole poi di rendere le songs varie e coinvolgenti.
Ottima la prova del vecchio chitarrista, con quel tocco old school nei riff che, per un amante del genere è vera goduria, e bella tosta la sezione ritmica che aggiunge un pizzico di groove alle ritmiche, una piccola concessione alla modernità che basta a Predator per non risultare troppo nostalgico.
Molto Thin Lizzy il sound del terzetto, ha nell’approccio diretto, ma sempre raffinato e tecnicamente sopra le righe il punto di forza di brani, a tratti splendidamente hard rock come Expander, Can’t Go Wrong with You, mentre Shiva avvicina la band al doom sabbatiano, e Revival è un massacro metallico dal groove micidiale.
Predator ha nelle sue virtù, quella di non apparire come una mera operazione nostalgica, ma un lavoro di un gruppo di ottima qualità al quale il passare del tempo non ha scalfito, grinta e talento compositivo.
Se non conoscete il gruppo di John Mortimer, potete iniziare da questo ottimo album, che può tranquillamente stare al fianco dei dischi storici del gruppo scozzese.

TRACKLIST
1. Predator
2. Expander
3. Can’t Go Wrong With You
4. Lady Babalon
5. Observer One
6. Shiva
7. Shine Out
8. Revival
9. What I Live For

LINE-UP
John Mortimer – guitars and vocals
Marc McGrath – bass
Scott Wallace – drums

HOLOCAUST – Facebook

Tarchon Fist – Celebration

Per tutta la durata dell’album vi troverete al cospetto di musica fieramente metallica e di prim’ordine, devota alla scena tedesca in primis, ma che non dimentica chi il genere lo ha inventato all’alba del decennio ottantiano sull’isola britannica.

Heavy metal, molte volte il solo pronunciarlo per molti è sinonimo di ignoranza, qualcuno addirittura lo dà per morto da anni, figuriamoci ora; la scomparsa in pochi anni di una manciata di icone del genere, da Ronnie James Dio a Lemmy, tanto per fare due esempi, hanno scatenato chi alla qualità ha sempre messo davanti l’appeal commerciale, sempre alla ricerca della band da un milione di dollari, di chi dovrebbe riempire gli stadi di fans o vendere migliaia di copie, tra dischi e riviste: un problema per loro, non per chi ama il genere.

L’heavy metal classico dopo i rigurgiti di metà anni novanta è tornato nell’underground, ed è qui che nutrendosi di realtà entusiasmanti come, per esempio, gli italianissimi Tarchon Fist, riacquista forza per tornare quando meno te lo aspetti sulla bocca di chi, un anno prima storceva, il naso al solo sentire nominare la parola heavy davanti a metal.
Ok tolto il dente, vi presento per chi ancora non la conoscesse questa band bolognese, che dell’heavy metal fuso nelle fiamme del monte fato fa la sua religione, già da una decina d’anni in giro a far danni ed incendiare palchi in giro per la vecchia Europa ed ora, con il supporto della Pure Steel, label tedesca ormai punto di riferimento per il metal classico, pronta a far esplodere Celebration, quarto full length che segue Heavy Metal Black Force di due anni fa e, oltre a qualche uscita minore i primi due lavori, l’omonimo debutto del 2008 e Fighters del 2009.
Celebration ha tutte le carte in regola per piacere e tanto ai true defenders, chorus irresistibili, solos taglienti come rasoi, vocals da manuale, ed un songwriting in stato di grazia,ne fanno un lavoro tremendamente coinvolgente, dallo spirito molto live, una raccolta di brani da urlare in faccia a chi vorrebbe il genere passeggiare per i campi elisi.
Senza fronzoli e dritti al punto i Tarchon Fist sparano la title track in apertura, spettacolari linee melodiche accompagnato Mirco “RAMON” Ramondo, singer di razza, nella sue corde vocali c’è tanto di Dickinson come di Ralph Scheepers, insomma due dei cinque migliori vocalist del genere.
Scheepers mi porta ai Primal Fear, indubbiamente la band più vicina ai nostri, anche se i Tarchon Fist usano molto ed in modo perfetto chorus di ispirazione power metal, così da richiamare i Gamma Ray dei primi dischi, dove il cantante tedesco impazzava, valorizzando la musica di quel geniaccio di Hansen.
Per tutta la durata dell’album vi troverete al cospetto di musica fieramente metallica e di primordine, devota alla scena tedesca in primis, ma che non dimentica chi il genere lo ha inventato all’alba del decennio ottantiano sull’isola britannica.
Nessun riempitivo, solo grande musica heavy che ha dei picchi qualitativi altissimi in brani dall’elevata elettricità come The Game Is Over, It’s My World, Metal Detector, il fiero ed epico inno metallico We Are The Legion e Still In Vice.
La ballatona d’ordinanza (Blessing Rain) conclude il lavoro, che risulta compatto e duro come l’acciaio, un monumento all’heavy metal che non deve sfuggire agli appassionati a cui va il mio consiglio spassionato di non perdersi un album così ben fatto.
Se vi capitano a tiro non perdeteli dal vivo, qualcosa mi dice che fanno sfracelli, Stay Metal!!

TRACKLIST
1. Celebration
2. Victims Of The Nations
3. Eyes Of Wolf
4. The Game Is Over
5. Fighters
6. It’s My World
7. Thunderbolt
8. Metal Detector
9. We Are The Legion
10. Ancient Sign Of The Pirates
11. Still In Vice
12. Blessing Rain
13. The Game Is Over (reprise)

LINE-UP
Mirco “RAMON” Ramondo – vocals
Luciano “LVCIO” Tattini – guitars, back vocals
Sergio “RIX” Rizzo – guitars, back vocals
Marco “WALLACE” Pazzini – bass, back vocals
Andrea “ANIMAL” Bernabeo – drums

TARCHON FIST – Facebook

Funebria – Dekatherion: Ten Years of Hate & Pride

Se volete cattiveria e blasfemie assortite condite da un buon black/death i Funebria sono il gruppo che fa per voi.

Torniamo in Sudamerica, precisamente a Maracaibo (Venezuela) per conoscere questi metallari estremi che nel 2015 hanno festeggiato i loro dieci anni di attività.

Con un monicker perfettamente in linea con il sound prodotto, i Funebria rilasciano il loro secondo full length di una discografia composta dal classico demo d’esordio, un ep rilasciato nel 2006, l’album In Dominus Blasfemical Est… Ad Noctum Sathania del 2009, ed uno split di tre anni fa diviso con i blacksters Veldraveth, anch’essi venezuelani.
Un drappo nero intriso di black metal oltranzista e fortemente anticristiano, reso putrido da marcio thrash/death, è il sound che ci propongono i nostri demoni sudamericani,influenzato dalla scena est europea, alquanto feroce e di buon impatto.
La band ce la metta tutta per risultare il più evil possibile e gli sforzi premiano le atmosfere da girone infernale dei brani che compongono l’album, cattivi e maligni, veloci e senza compromessi, con un buon uso delle voci ed il soddisfacente lavoro della sezione ritmica, massacrante e tempestosa quanto basta per risultare un bombardamento senza pietà contro le truppe del cielo.
Guerra, una guerra per il dominio sui popoli della Terra portato dagli eserciti di Satana, di cui l’album si vuol ergere a colonna sonora, riuscendoci in parte per merito di songs dal sicuro impatto come Serpent Sign o Cult of Cosmic Destruction, più in linea con il black scandinavo e delle urla belluine e demoniache, un vortice malefico sicuramente avvincente.
Chiaro, non siamo nel gotha del genere, pur essendo palesi i riferimenti alla scena polacca in primis, e le band storiche sono ancora lontane, ma Dekatherion: Ten Years Of Hate & Pride, rimane comunque un lavoro in grado di soddisfare i blacksters più oltranzisti, con tutti i pregi e i difetti di un’opera del genere, che si mantiene ben oltre una sufficienza abbondante in tutta la sua durata.
Se volete cattiveria e blasfemie assortite condite da un buon black/death i Funebria sono il gruppo che fa per voi.

TRACKLIST
1. Intro
2. Consolamentum
3. Serpent Sign
4. Whores of Babylon
5. Nihilist Revelation
6. Divide & Conquer
7. Aeon of Tyranny
8. Azag (The Crown of Void)
9. Cult of Cosmic Destruction

LINE-UP
Iblis – Bass
Daemonae – Guitars
Seth aum Xul – Vocals
Ed Thorn – Drums

FUNEBRIA – Facebook

Rhapsody Of Fire – Into The Legend

Album entusiasmante di una band unica, arrivata all’undicesima opera ed ancora in grado, dopo tanti anni, di regalare emozioni forti

Si torna a viaggiare sulle ali del drago con il nuovo lavoro di una delle band più illustri del panorama metal europeo, i nostrani Rhapsody Of Fire, l’altra metà dei Rhapsody (come sapete Luca Turilli, dopo lo split con il gruppo ha formato i Luca Turilli’s Rhapsody) band che, fin dal sorprendente debutto del 1997 (Legendary Tales), ha dato lustro all’Italia metallara.

Quasi vent’anni sono passati ormai da quel bellissimo lavoro, ed il gruppo non ha mai smesso di portare avanti la propria proposta, un symphonic power epico, barocco e dall’input cinematografico che ha fatto scuola e ha portato il nome della band nella storia del metal classico.
Into The Legend è il secondo lavoro in studio dopo la scissione, e segue Dark Wings of Steel di due anni fa, opera che vedeva la band intraprendere una strada più lineare e colma di epicità alla Manowar, risultando meno sinfonico e più improntato sulle sei corde.
Il nuovo lavoro torna in parte al sound dei primi album, rinverdendo i fasti delle due parti di Symphony of Enchanted Lands e tornando ad un’impronta palesemente barocca.
Inutile dire che il risultato soddisfa in pieno le aspettative dei molti fans del gruppo, le orchestrazioni tornano ad essere protagoniste indiscusse su un tappeto di power metal veloce ed epico, dove non mancano le classiche cavalcate che la voce di Lione valorizza, accompagnata da cori classici e ospiti solisti dal mood operistico.
Un album mastodontico, come da sempre ci ha abituati questo ambizioso gruppo di musicisti: magari talvolta prevedibile, non scalfisce comunque la fama consolidata dei Rhapsody Of Fire nel creare musica epica, sognante e tremendamente piena.
Un’altalena di emozioni, tra fughe metalliche in compagnia di orchestrazioni cinematografiche, l’uso smisurato di strumenti classici, cori, solos fusi nella fiamma sprigionata dall bocca del drago e tanta fierezza metallica, sprofondando in un mondo parallelo, dove non c’è spazio per la pochezza della vita moderna.
Ed è qui che la band è da sempre maestra, riuscendo per più di un’ora nella non sempre facile impresa di portare l’ascoltatore a vivere le atmosfere fantasy, come davanti allo schermo di una sala cinematografica, immagini nitide che si formano nella mente all’ascolto della tempesta di suoni creati dalla band.
Detto che la prova di Lione è da applausi, confermandosi come uno dei più bravi vocalist in circolazione nel genere, che Alex Holzwarth è la solita macchina da guerra dietro al drumkit, che Staropoli incanta ai tasti d’avorio e che Roberto De Michelis spara solos fiammeggianti, l’album è un saliscendi di metal operistico, di rabbiose ripartenze power ed atmosfere dal mood folk, con il flauto di Manuel Staropoli (fratello di Alex) a portarci in un emozionante viaggio nel tempo (A Voice in the Cold Wind) o a cavalcare verso la gloria (Valley Of Shadow).
Bellissima la suite finale, The Kiss Of Light, diciassette minuti di riassunto del credo musicale del gruppo, tra parti veloci, atmosfere sognanti, voci liriche e barocche, ed un Lione sontuoso nell’assecondare tutte le sfumature di un brano perfettamente in bilico tra irruenza metal, dolci parti folcloristiche e classiche fughe sinfoniche.
Album entusiasmante di una band unica, arrivata all’undicesima opera ed ancora in grado dopo tanti anni, di regalare emozioni forti, entrate anche voi nella leggenda.

TRACKLIST
01. In Principio
02. Distant Sky
03. Into the Legend
04. Winter’s Rain
05. A Voice in the Cold Wind
06. Valley of Shadows
07. Shining Star
08. Realms of Light
09. Rage of Darkness
10. The Kiss of Life

LINE-UP
Alex Staropoli – Keyboards, Harpsichord, Piano
Fabio Lione – Vocals
Alex Holzwarth – Drums, Percussion
Roberto De Micheli – Guitars

RHAPSODY OF FIRE – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
, entrate anche voi nella leggenda.

Primal Fear – Rulebreaker

Rulebraker è quella combinazione di note immortali, amplificate e suonate al limite dei watt disponibili che la storia conosce come heavy metal, punto.

Acqua sotto i ponti ne è passata tanta dall’anno di grazia 1998 che vedeva il metal classico dominare il mercato europeo, con il ritorno in auge del power metal, genere diviso tra la tradizione tedesca e quella neoclassica proveniente dai paesi scandinavi.

Ralph Scheepers, storico cantante dei Gamma Ray e vicino ad entrare nei Judas Priest, orfani di Rob Halford, e Mat Sinner, leader degli immensi Sinner, esordirono con l’omonimo album della loro creatura rapace dal nome Primal Fear ed il risultato fu clamoroso, almeno per chi delle sonorità classiche si nutre.
Tanto heavy metal, forgiato nel più puro acciaio metallico del periodo ottantiano e la potenza devastante del power metal, fu la formula per il successo della band, che senza nascondersi dietro ad un dito guardava appunto ai Priest, risultando i figli più legittimi del sound di Painkiller, suonato da musicisti dal sicuro talento.
Sono passati quasi vent’anni e siamo arrivati all’undicesimo lavoro in studio di una carriera che si è mantenuta su livelli ottimi, anche se purtroppo il genere non ispira più il sensazionalismo degli anni novanta e Rulebraker, pur essendo un gran bel lavoro, rischia di non essere apprezzato per quello che è: un heavy metal album con tutti i crismi per far scatenare i fans del metal classico, quello vero, fatto di ritmiche e solos assassini, melodie vincenti, grintoso e aggressivo, cantato divinamente e pregno di anthem dall’appeal esagerato.
Inutile girarci intorno, questo è l’heavy metal, via sinfonie, suoni bombastici ed operistici, qui le chitarre tagliano l’aria con solos che squartano le carni, il vocalist fa il bello e cattivo tempo,con una prova che fa spallucce al passare degli anni ed i suoni escono cristallini e potenti, complice una produzione al top.
Una band dalla tecnica invidiabile (accanto ai due fondatori ci sono Tom Naumann, Alex Beyrodt, Magnus Karlsson ed il nostro Francesco Jovino, una vita alla corte di U.D.O) ed un songwriting che continua imperterrito a dispensare lezioni sulla religione metallica, rendono Rulebraker un altro tassello piantato nella storia recente del genere dal gruppo tedesco, che continua a correre su piste heavy, power,speed, forte di una line up invidiabile ed un lotto di canzoni da urlo.
Angels Of Mercy, In Metal We Trust, la semiballad We Walk Without Fear, la power At War With The World confermano i Primal Fear come massima espressione di un certo modo di suonare metal, magari per qualcuno fuori tempo massimo, per altri, abituati ai suoni bombastici di questo periodo, troppo semplici, non considerando che il sound proposto dal gruppo è quella composizione di note immortali, amplificate e suonate al limite dei watt disponibili che la storia conosce come Heavy Metal.
Bentornati Primal Fear.

TRACKLIST
1. Angels of Mercy
2. The End Is Near
3. Bullets & Tears
4. Rulebreaker
5. In Metal We Trust
6. We Walk Without Fear
7. At War with the World
8. The Devil in Me
9. Constant Heart
10. The Sky Is Burning
11. Raving Mad

LINE-UP
Ralf Scheepers – Vocals
Tom Naumann – Guitars
Alex Beyrodt – Guitars
Magnus Karlsson – Guitars, Keys
Mat Sinner – Bass, vocals
Francesco Jovino – Drums

PRIMAL FEAR – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=MLRjJQCqCeo

Abbath – Abbath

Se questa è una da considerarsi una rinascita, lontana dal gruppo che lo ha reso famoso, direi che senz’altro la carriera solista di Olve “Abbath” Eikemo parte con il piede giusto.

Album scomodo da recensire il debutto omonimo di uno dei personaggi più illustri della scena black metal: non si può che partire dalla fine della diatriba tra gli Immortal, dove Olve “Abbath” Eikemo ne è uscito sconfitto, perdendo il diritto sul monicker di una delle band più importanti del movimento della quale lui è sempre stato il principale compositore.

Scomodo perchè, da una figura così importante della scena estrema, ci si aspettavano grandi cose, ed in effetti Abbath è un gran bel disco ma con i suoi difetti (più che altro di produzione), così che, parlandone come merita, lascia nel lettore il dubbio su chi scrive.
Sarà di parte? O l’album merita davvero le lodi?
Allora chiarisco subito che il sottoscritto non è mai stato un grande fan della band norvegese, pur essendo conscio dell’importanza che ha avuto sulla nascita e l’affermazione di uno dei generi più importanti del mondo metallico estremo e dandole il merito di aver scritto almeno due album fondamentali, At the Heart of Winter (1999) e Sons of Northern Darkness (2002).
L’album si sviluppa su dieci brani, più una cover dei Judas Priest (Riding On The Wind), dove al sound di chiara ispirazione Immortal, il buon Olve toglie quasi del tutto le atmosfere epiche, presenti sopratutto nelle opere citate, a favore un approccio più asciutto e in your face.
Ma la differenza Abbath la fa nella prestazione dei musicisti coinvolti con il chitarrista che, ancora una volta, dimostra con uno tsunami di solos heavy metal il suo valore alla sei corde, straordinariamente accompagnato da due interpreti disumani: Kevin “Creature” Foley, batterista straordinario e, purtroppo, già fuori dal gruppo, ed il bassista King.
Aggressivo, veloce, glaciale, oscuro e senza fronzoli, Abbath, sfodera verve thrash metal e marziale estremismo black, il chitarrista norvegese sa perfettamente come intrattenere le orde di fans estremi e dall’alto della sua esperienza ci riesce alla grande.
Come detto non mancano ottimi solos di stampo heavy, ed un mood leggermente più moderno rispetto alle ultime produzioni degli Immortal: le gelide atmosfere di cui il musicista è famoso sono sempre lì  ad avvolgerci nel loro abbraccio freddo come la morte, mentre lo scream gracchiante (marchio di fabbrica di Abbath) non concede speranza.
L’opener To War è il perfetto esempio della musica proposta dal chitarrista e compositore norvegese, un black/thrash oscuro, senza compromessi e dal buon tiro, confermato dalle restanti tracce su cui spiccano Ocean Of Wounds, Count The Dead e la cadenzata ed heavy Root Of The Mountain.
Se questa è una da considerare una rinascita, lontana dal gruppo che lo ha reso famoso, direi che senz’altro la carriera solista dell’ex Immortal parte con il piede giusto, purtroppo l’abbandono prematuro del batterista sarà un altro problema da risolvere al più presto, ma statene certi che Abbath non si farà certo trovare impreparato al momento di portare la sua musica on stage, noi lo aspettiamo.

TRACKLIST
1. To War!
2. Winterbane
3. Ashes Of The Damned
4. Ocean Of Wounds
5. Count The Dead
6. Fenrir Hunts
7. Root Of The Mountain
8. Endless
9. Riding On The Wind
10. Nebular Ravens Winter

LINE-UP
Abbath: Voce, Chitarra
King: Basso
Creature: Batteria

ABBATH – Facebook

Di.Soul.Ved – Confessions from the Soul – Volume 1

Il grande talento nel saper costruire song perfette e complete in due minuti di durata e l’ottima tecnica, fanno di Confessions un gran bel dischetto

Non male la scena underground in quel di Lisbona: la capitale portoghese riesce sempre a sorprenderci, specialmente se si guarda la scena estrema, in particolare nella frangia più violenta del buon vecchio death metal.

Questa ottima band, proveniente dalla capitale lusitana, debutta tramite Murder Records con questo ottimo Confessions From The Soul Vol.1, un micidiale quanto efferato mix di death metal old school e grindcore, ed il risultato, complice un songwriting alquanto ispirato è davvero sopra le righe.
Composta da musicisti impegnati in un numero spropositato di gruppi della scena (specialmente per quanto riguarda il bassista Simão Santos, musicista che se la gioca con Rogga Johansson dei Paganizer in quanto a progetti in attività, ed ex di una ventina di band) la band di Lisbona in ventisei minuti crea un uragano di suoni estremi, che partono da ritmiche grindcore devastanti, per unirle ad una spiccata vena death metal, specialmente nel lavoro chitarristico.
Accompagnata da vocals che chiamare aggressive è un eufemismo, pur mantenendo anch’esse un approccio death oriented, la musica del combo deflagra e come un’onda anomala ci investe in tutta la sua potenza.
Il buon talento nel saper costruire song perfette e complete in due minuti di durata e l’ottima tecnica, fanno di Confessions un gran bel dischetto, che alla velocità della luce spazza via ogni dubbio sulla qualità del prodotto, così che dopo pochi ascolti i brani sono facilmente distinguibili, virtù non così frequente in questo genere.
Facile parlare di supergruppo, visto i precedenti dei musicisti coinvolti, certo è che le prestazioni del martello penumatico impazzito alla batteria (il fenomenale Rolando Barros, un’istituzione della scena estrema portoghese) e delle due asce José Marreiros e Hugo Andremon, imprimono il marchio di album irrinunciabile per gli amanti di queste sonorità.
Indecipherable Me, I, Evaluate and Liberate e The Prophecy – Convulsive Earth, vi convinceranno, già da un primo ascolto, di che pasta sono fatti questi i Di.Soul.Ved, con un cuore death metal che batte inesorabile dentro di loro e aleggia sui brani di Confessions From The Soul-Volume 1.

TRACKLIST
1. Where’s Your God
2. Indecipherable Me
3. Infinite Present
4. Invisible Empire
5. Dark Balance
6. I
7. Perceptions
8. The Convergence Revolution
9. Evaluate and Liberate
10. Alchemy
11. Dissolved Soul
12. Lost
13. Unrevealed Wisdom
14. The Prophecy – Convulsive Earth

LINE-UP
Simão Santos- Bass
Rolando Barros- Drums
Hugo Andremon- Guitars
José Marreiros- Guitars
Pedro Pedra- Vocals
Hugo Silva- Vocals

DI.SOUL.VED – Facebook

Kosmokrator – To The Svmmit

Misteriosi e sepolcrali, i Kosmokrator non cercano di certo la gloria commerciale con il loro lavoro, ma potrebbero essere una buona sorpresa per i blacksters duri e puri, consigliato solo a chi si nutre di queste sonorità.

Questo demo propostoci dalla Vàn Records, uscito nel 2014 in edizione limitata in cassetta, è il debutto discografico di questa misteriosa band proveniente dal Belgio, attiva dal 2013.

Tre brani, di cui due lunghissimi, per mezz’ora di musica, sono il biglietto da visita dei Kosmokrator, quintetto alle prese con un famigerato esempio di black metal occulto e misantropo, rinvigorito da iniezioni di death metal, in un contesto old school ed assolutamente underground.
Sacerdoti alle prese con litanie catacombali, messe nere terrorizzanti, per un sound che si avvale di atmosfere liturgiche, molto evil nell’approccio e dalle indiscusse origini infernali, il gruppo nord europeo ha dalla sua una buona presa, specialmente a livello atmosferico, mentre come molte delle realtà del genere lascia a desiderare in sede di produzione.
Attimi di sacrale musica perduta nei meandri di chiese sconsacrate si alternano a feroci accelerazioni black/death, niente di nuovo ma sicuramente affascinante, almeno per chi considera il metal estremo di estrazione black solo in un contesto underground e fuori dagli schemi preordinati del circuito metallico.
Non una nota che non sia assolutamente volta a rafforzare la componente occulta e misantropica del concept che sta dietro ai Kosmokrator, espressa anche dalla scelta di produrre il lavoro solo nel vecchio supporto in cassetta, cosi da ribadire la natura old school ed assolutamente underground del progetto.
Scrosci di pioggia in notti di luna piena, cori ecclesiastici di sacerdoti devoti all’oscuro signore, ed un’aura da messa nera che avvolge per tutta la durata To The Svmmit, con l’opener Ad Alta, Ad Astra, la devastante death metal song Adoration of He Who Is upon the Blackest of Thrones, che spezza in due l’atmosfera opprimente dell’album che torna a farsi terrorizzante, gelida e maligna con la conclusiva Sermon of the Seven Svns.
Misteriosi e sepolcrali, i Kosmokrator non cercano di certo la gloria commerciale con il loro lavoro, ma potrebbero essere una buona sorpresa per i blacksters duri e puri, consigliato solo a chi si nutre di queste sonorità.

TRACKLIST
1. Ad alta, Ad astra
2. Adoration of He Who Is upon the Blackest of Thrones
3. Sermon of the Seven Svns

LINE-UP
T – Bass
E – Drums
CM – Guitars
M – Guitars, Vocals
J – Vocals