Defiance of Decease – Suicide

Negli anfratti nascosti della scena dark doom c’è ancora chi, ai suoni bombastici ed operistici tanto di moda in questi anni, preferisce un approccio alla materia in linea con le produzioni dei primi anni novanta

Negli anfratti nascosti della scena dark doom c’è ancora chi, ai suoni bombastici ed operistici tanto di moda in questi anni, preferisce un approccio alla materia in linea con le produzioni dei primi anni novanta, allora divise tra la scena olandese e quella britannica.

La band russa Defiance Of Decease, all’esordio con questo album licenziato dalla Narcoleptica Prod. in edizione limitata nel supporto musicassetta, si posiziona esattamente fra le due scene, fondamentali per l’evoluzione dei suoni dark, doom e gothic.
E Suicide, il loro debutto accompagnato da una bellissima copertina, torna a far respirare ai fans del genere le atmosfere malinconiche e dark, accompagnate dall’estremismo sonoro del doom/death di quegli anni.
Voce femminile delicata, growl possente, lenti passaggi oscuri, note eleganti dei tasti d’avorio, che passano come banchi di nebbia su tappeti metallici e tanta, drammatica melanconia, fanno di Suicide un buon esempio del genere, come detto lontano dalle produzioni bombastiche a cui ci hanno abituato le symphonic gothic bands odierne.
La band inizia il calvario che porta al suicidio con la dark song Like a Star in The Sky, nella quale l’elegante voce di Anna Velichko accompagna il growl di estrazione doom/death di Ricardo Digolos, ma già dalla seconda traccia (Possessed by a Demon) i suoni si induriscono, il lento incedere verso la morte passa dal monolitico muro sonoro costruito dal gruppo, rendendo il sound pregno di tragiche atmosfere gothic, dove affiorano i demoni che portano la protagonista al fatale gesto.
Nelle oscure trame di brani come Farewell in Heart, Blade of Death e Ribbon of Life, vivono e si rigenerano le note passionali e drammatiche dei primi The Gathering, Paradise Lost, Orphanage e My Dying Bride, nomi di spicco della straordinaria scena gothic doom dei primi anni novanta.
Certo, la produzione non è delle migliori e la band pecca in qualche passaggio monocorde, ma se siete amanti del genere un ascolto è assolutamente consigliato: album per anime tragicamente romantiche.

TRACKLIST
1. Like a Star in the Sky
2. Possessed by a Demon
3. Death in Fire
4. Farewell in Heart
5. Blade of Death
6. Drowned
7. Cruel World
8. Ribbon of Life

LINE-UP
Sergio Darksol – Bass
Paul Stadman – Guitars
Ricardo Digolos – Guitars, Vocals
Juliana Stadman – Keyboards, Vocals (backing)
Arthuro Doretti – Drums

DEFIANCE OF DECEASE – Facebook

No Man Eyes – Cosmogony

Per gli amanti di Nevermore, Symphony X ed Angel Dust, serviti con abbondanti dosi di thrash ed una spruzzata di neoclassicismo malmsteeniano, la band genovese potrebbe essere un micidiale cocktail di cui ubriacarsi senza pensare alle conseguenze

Ed eccomi a raccontarvi dei miei concittadini No Man Eyes e del loro secondo lavoro, in arrivo in questo inizio d’anno sotto l’ala della Diamonds Prod.

La band genovese nasce nel 2011 da ex membri dei Graveyard Ghost: qualche aggiustamento nella line up porta verso il primo lavoro, Hollow Man ed ad una buona attività live in compagnia di nomi di una certa importanza nel panorama metallico nazionale (Trick or Treat, Roberto Tiranti, Nerve, Mastercastle).
Senza mollare la presa, il gruppo torna con un nuovo lavoro, Cosmogony, prodotto nel Dead Tree Studio del chitarrista Andrew Spane, che si è occupato anche dei testi.
Metal robusto, ritmiche veloci, ottimi solos melodici ed un cantante che, senza strafare, si rende protagonista di una buona performance, sono ad un primo ascolto le virtù dei No Man Eyes, anche se la loro musica cresce con il tempo, facendo trovare tra i solchi dei brani molte sfumature che li porta nell’eletta schiera delle band difficilmente catalogabili.
I nostri, infatti, si disimpegnano con disinvoltura tra l’heavy metal tradizionale ed il thrash, senza dimenticare il power e lasciando che intricate parte ritmiche e solos vorticosi avvicinino il sound al metal prog.
Le influenze sono palesi, chiariamolo, ma sono anche varie e se Cosmogony per molti non risulterà originale, sicuramente piacerà a chi ama i generi menzionati, amalgamati sapientemente dal gruppo in un viaggio fantascientifico e spirituale (questi sono gli argomenti trattati nei testi) sul treno impazzito partito dalla stazione ferroviaria di Genova.
Lord funge da intro e ci prepara per la prima e vera esplosione di metallo, Dreamsland, ritmiche power thrash, molto ben congegnate fanno da tappeto sonoro al cantato altamente melodico ma maschio del buon Fabio Carmotti, mentre si esalta la sezione ritmica, protagonista di un gran lavoro, potente e vario su tutto l’album (Alessandro Asborno al Basso e Michele Pintus a picchiare come un forsennato il suo drumkit).
La parte del leone la fa la chitarra di Spane, che spara mitragliate thrash, solos metallici e qualche spunto neoclassico: Cosmogony non dà tregua, le aperture melodiche mantengono comunque alta la forza dirompente dei brani, contraddistinti da atmosfere oscure, drammatiche e dall’impatto di un pendolino che taglia l’aria con velocità e potenza micidiali.
Tra le songs spiccano Huracan, Blossoms Of Creation, dall’anima spinta nell’abisso oscuro del death metal, non fosse per il cantato pulito, e la title track, ma è nel suo insieme che il disco funziona, carico com’è di energia metallica.
Per gli amanti di Nevermore, Symphony X ed Angel Dust, serviti con abbondanti dosi di thrash ed una spruzzata di neoclassicismo malmsteeniano, la band genovese potrebbe essere un micidiale cocktail di cui ubriacarsi senza pensare alle conseguenze, provateli e non ne farete più a meno.

TRACKLIST
1.Lord
2. Dreamsland
3. Huracàn
4. Bound to doom
5. Spiders
6. Blossoms of creation
7. All the fears
8. How come
9. The death you need
10. Cosmogony
11. Children of war

LINE-UP
Fabio Carmotti – Voce
Andrew Spane – Chitarre
Alessandro Asborno – Basso
Michele Pintus – Batteria

NO MAN EYES – Facebook

Dead Twilight – Endless Torment

Album da ascoltare con attenzione, Endless Torment racchiude in sé una brutale aggressione alla mente umana, stravolta da cotanta belligeranza

La Sicilia non smette di regalare musica di un certo livello, che sia estrema o meno, i gruppi che si affacciano sulla scena underground non difettano certo in personalità e hanno tutti qualcosa da dire, in termini musicali, senza ancorarsi a cliché triti e ritriti.

Il trio estremo dei Dead Twilight conferma quanto scritto, licenziando un album di death metal brutale, disturbante e dall’atmosfera apocalittica.
Nato da un’idea del chitarrista Luca Bellante, uscito dalla death metal band Pantheist nel 2001, il gruppo vede Marco Bellante al growl e Calogero Schillaci al basso, mentre i suoni di batteria sono lasciati ad una drum machine.
Poco male, il sound dei nostri è un inferno sulla terra, un alienante massacro estremo che senza pietà si riversa sull’ascoltatore, tramortito dai micidiali colpi portati di una band oltranzista ed estrema all’ennesima potenza.
Primo lavoro sulla lunga distanza, Endless Torment segue due demo usciti tra il 2006 e il 2011 (…a Litany for the Deads… e Echoes from Nothingness) e si affaccia sulla scena portando morte e distruzione, con chitarre e growl al limite dell’umano e un’attitudine estrema che trova pochi eguali.
Qualche somiglianza con il death metal di estrazione americana, poi Endless Torment vive di luce propria: gli strumenti si rincorrono senza tregua, in un tornano di suoni da tregenda; per i testi vengono usati vari idiomi, dal greco antico al tedesco ed al latino, mentre l’assalto sonoro portato dal gruppo non si ferma fino all’ultimo secondo della conclusiva Letzer Wille.
Eternal City segue l’intro Finis Infinitatis e ci invita a questo massacro sonoro dalla violenza allucinata, lungo una mezz’ora circa di armageddon musicale, ed il risultato è una sequela di brani dall’alto tasso brutale tra i quali Eos e Legion fanno da traino per tutto il lavoro.
Album da ascoltare con attenzione, Endless Torment racchiude in sé una brutale aggressione alla mente umana, stravolta da cotanta belligeranza, consigliato.

TRACKLIST
1. Finis Infinitatis (Intro)
2. Eternal City
3. Neun Tugenden
4. Eos
5. Apocalypsis
6. Legion
7. Dead Realm
8. Carmen Saliare Mars Dicatur
9. Letzer Wille

LINE-UP
Marco “Asavargr” – Voce
Luca – Chitarra, programmazione batteria
C.S. Jack – Basso

DEAD TWILIGHT – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=28pYKyTk9gc

Frostbite – Etching Obscurity

In generale la sensazione che si respira tra le tracce di Etching Obscurity è quella di un lavoro convincente da parte di un gruppo in crescita e dalle ottime potenzialità

Tra i boschi e le nebbie del Canada si aggira un’entità metallica che si definisce ambiziosamente progressive black’n’roll.

Sono i Frostbite da Montreal, quintetto attivo dal 2011 e con un ep alle spalle, dal titolo Through the Grave uscito tre anni fa.
Tornano tramite Tmina Records con Etching Obscurity, esordio sulla lunga distanza che, in effetti, mantiene le promesse, conquistando con un sound ben congegnato che amalgama black metal, parti più intricate che potremmo definire progressive, e ritmiche che, in alcuni casi e nei brani più diretti, si avvicinano al black’n’roll.
Sinceramente il gruppo dà il meglio di sé nelle songs dove il black metal, sound base dei nostri, viene reso più complicato da splendide parti progressive, quando armonie acustiche, solos che si avvicinano al rock settantiano e riffoni metallici dagli umori classici riempiono il suono delle varie Malleus, Through The Grave e dell’intimista Shining, mentre si perde qualcosa allorché le cavalcate di melodico black’n’roll portano tanta energia, attenuando le atmosfere adulte dei brani descritti.
Poco male perché nel suo insieme l’album funziona, con il buon scream della singer Krystal Koffin, di estrazione black, ma soprattutto dal lavoro dei due chitarristi, Max Allard e Anthonny Colin-Bilodeau, bravi nel saper alternare ritmiche estreme a solos di gustoso metal old school, sconfinando, come detto in riff dalle riminiscenze settantiane.
Il mood di Etching Obscurity rimane oscuro, a tratti ricorda i primi Sentenced, quelli di Amok (Soul Devourer), mentre le canzoni, accompagnate da pochi ma splendidi intermezzi acustici, scivolano verso l’inesorabile fine, non stancando l’ascolto.
Forse è proprio la parte più diretta del sound prodotto dai Frostbite che rende il disco più fluido del disco anche se, ripeto, con gli ascolti cresce a dismisura l’altra faccia della medaglia, quella più nobile e matura.
In generale la sensazione che si respira tra le tracce di Etching Obscurity è quella di un lavoro convincente da parte di un gruppo in crescita e dalle ottime potenzialità, ovviamente da seguire per valutare e scoprire dove il talento ne condurrà la musica in futuro.

TRACKLIST
1. Ascending the Void
2. Sigil Seal
3. The Pest
4. Malleus
5. Through the Grave
6. Delayed Perception
7. Etching Obscurity
8. Shining
9. Soul Devourer
10. Forgotten Path
11. Erased from Existence

LINE-UP
Max Allard – Guitars
Alekseïev Delbès – Drums
Anthonny Colin-Bilodeau – Guitars
Stéphane Deschênes – Bass
Krystal Koffin – Vocals

FROSTBITE – Facebook

Nasty Ratz – First Bite

I Nasty Ratz trasformano le strade dell’austera capitale della Repubblica Ceca nel Sunset Boulevard della città degli angeli.

Dalla Los Angeles degli anni ottanta alla Praga del 2015 il passo sembra più lungo di quanto si possa credere.
D’altronde perché non trasformare le strade dell’austera capitale della Repubblica Ceca nel Sunset Boulevard della città degli angeli?

Ci riescono alla grande i Nasty Ratz, giovane gruppo ceco, con questo buon lavoro, che dello street, hard rock, glam ne ha fatto la sua missione, quella di riportare gli sgargianti colori del metal americano dei splendidi anni ottanta non solo nel nuovo millennio, ma nell’Europa dell’est.
Con alle spalle un ep e tanti concerti in giro per il vecchio continente, in compagnia, tra gli altri, di Adam Bomb e Crazy Lizz, la band debutta sulla lunga distanza con First Bite, classico esempio di cosa si suonava negli anni in cui pantaloni di pelle, bandane, mascara e belle figliole erano il pane dei rockers di mezzo mondo che, come mecca, guardavano agli eccessi della Los Angeles delle promesse, molte volte disilluse di fama e successo.
Rock’n’roll travestito da metalliche iniezioni di street e hard rock, attitudine glam e tanta voglia di divertirsi e abbordare, erano la ricetta per l’ottimo pranzo dei gruppi storici, di cui i Nasty Ratz se ne fanno una scorpacciata, tra brani grintosi e super ballatone strappa lacrimuccia, suonate più per far colpo sulla biondona prosperosa che vero momento di nostalgico malessere esistenziale o amoroso.
Il gruppo è formato dall’ottimo singer Jake Widow, anche chitarra ritmica, mentre la solista, tutta fuoco e fiamme, è di Stevie Gunn con la sezione ritmica composta da Tommy Christen al basso e Rikki Wild alle pelli.
Non troppo lungo ma assolutamente compatto e divertente, First Bite, nel genere, è un buon esordio: certo siamo perfettamente in linea con le produzioni dei vari monumenti al rock stradiolo come Motley Crue, Poison, Ratt e compagnia di delinquenti dagli occhi truccati e la rissa facile, ma se siete ancora in botta per le reunion dei Crue o aspettate come il messia quella dei Gunners, brani che schiumano rock’n’roll come Love At First Fight, Made Of Steel e Snort Me vi faranno tornare sulla via losangelina e chiudendo gli occhi vi ritroverete in fila davanti al Whisky A Go Go, ad aspettare il vostro turno, sperando che questa volta sia quella buona per entrare.
Nostalgico? No, solo molto divertente e suonato sufficientemente bene per risultare un buon ascolto. Stay rock!

TRACKLIST
1. Love At First Fight
2. Made Of Steel
3. I Don’t Wanna Care
4. Morning Dreams Come True
5. Snort Me
6. Angel In Me
7. N.A.S.T.Y.
8. I’ll Cut You Off
9. Sharize
10. If You Really Love Me

LINE-UP
Jake Widow – rhytm guitar, vocals
Stevie Gunn – lead guitar, vocals
Tommy Christen – Bass guitar, vocals
Rikki Wild – drums, vocals

NASTY RATZ – Facebook

Thunder Lord – Prophecies of Doom

Se siete fans del power speed metal un ascolto al disco potete tranquillamente darglielo, ma senza nutrire particolari aspettative, altrimenti passate pure oltre.

Poco conosciuti in Europa, i Thunder Lord da quasi quindici anni portano il loro heavy metal in giro per il Sudamerica: attivi infatti dal 2002, arrivano al terzo full length che segue Hymns of Wrath in This Metal Age del 2008 ed il precedente Heavy Metal Rage uscito quattro anni fa.

Tornano dunque per la label tedesca Iron Shieds Records, costola della piovra Pure Steel con questo Prophecies Of Doom, assalto metallico dalle chiare accelerate speed, old school fino al midollo, guerresco e con un tocco epico, un’atmosfera sempre presente nei gruppi del genere.
Niente di clamoroso, un dischetto di metal ignorante, sparato a mille e che non riserva grosse sorprese, a parte un’ottima amalgma tra le componenti, discreti solos classici e fierezza metallica a iosa.
Il quartetto originario di Santiago conferma come l’heavy metal europeo abbia fatto proseliti nel continente sudamericano, più orientato ai suoni classici rispetto ai paesi del nord, compresi gli U.S.A., maggiormente suscettibili ai vari trend.
Se mi si concede un paragone calcistico, i Thunder Lord sono un buon mediano, tanta corsa, sette polmoni, ma poca classe: le canzoni tendono ad assomigliarsi un po’ troppo, lasciando solo ai true defenders più incalliti il desiderio di assaporare le virtù di un classico combo senza infamia e senza lode.
I Running Wild dei primi lavori e gli Exciter, conditi da umori new wave of british heavy metal, sono i paragoni che più calzano alla proposta del gruppo cileno, il quale, tra le varie songs di Prophecies Od Doom, lascia alla sola title track ed alla cadenzata Condemned To Death il compito di alzare al di sopra della sufficienza la media di questo lavoro.
Se siete fans del power speed metal un ascolto al disco potete tranquillamente darglielo, ma senza nutrire particolari aspettative, altrimenti passate pure oltre.

TRACKLIST
1. End of Time
2. Leave Their Corpses to the Wolves
3. Prophecies of Doom
4. Pillan
5. The Darkness’s Breath
6. Condemned to Death
7. The Blood-Red Moon
8. Useless Violence
9. Winds of War
10. Metal Thunder

LINE-UP
Francisco Menares – Bass
Eduardo Nuñez – Drums
Esteban Peñailillo – Vocals, Guitars
Diego Muñoz – Guitars

THUNDER LORD – Facebook

Purtenance – …to Spread the Flame of Ancients

Una notevole prova di forza da parte del quartetto finlandese, ormai ripulito dalla ruggine del tempo e pronto per dire la sua nel panorama underground estremo.

Con un po’ di ritardo sull’uscita, vi proponiamo questo ottimo lavoro di death metal old school, licenziato dai finlandesi Purtenance, datato combo attivo dall’alba degli anni novanta.

Non più dei novellini, dunque, ma una realtà che ha vissuto all’ombra delle band storiche del genere e tornata dopo un lungo stop a deliziarci con il loro metal estremo putrido e marcissimo.
La band infatti nasce in quel di Nokia, nel 1991, in un periodo di pieno sviluppo del genere nelle fredde terre del nord; il primo ep è seguito dal full length Member of Immortal Damnation del 1992, poi un lungo silenzio interrotto dalla firma con la Xtreem e la reunion che porta, nel 2012, alla pubblicazione dell’ep Sacrifice the King.
La band trova continuità ed il 2013 è l’anno del secondo lavoro sulla lunga distanza, il buon Awaken from Slumber.
Ritroviamo i Purtenance alla fine dello scorso anno con questo nuovo album che li riporta un livello consono alla fama underground del gruppo: …to Spread the Flame of Ancients, pur rimanendo ancorato ai dettami della scuola classica del genere, ha nel songwriting la sua arma letale.
Ottimi brani, tra death metal old school, rallentamenti di scuola Asphyx e passaggi brutali che potenziano ancora di più l’impatto di songs monolitiche e debordanti come On the Far Side of Knowledge, Blood Oath e mazzate estreme come Disseminated Death e The Unseen, risultano davvero devastanti, valorizzate da ritmiche chirurgiche e riffing scritti nell’abisso infernale dove il gruppo risiede, a fianco dei maestri del genere.
Una notevole prova di forza da parte del quartetto finlandese, ormai ripulito dalla ruggine del tempo e pronto per dire la sua nel panorama underground estremo.
Per i fans dei vari Dismember, Entombed, Asphyx e i vari nascituri della nidiata malefica dei primi novanta, …to Spread the Flame of Ancients è un album assolutamente consigliato, a riprova di un ottimo ritorno.

TRACKLIST
1. Invocatio
2. Preventio
3. Waiting to Be Free
4. I, the Sacrificed
5. On the Far Side of Knowledge
6. Destroyed Human Mind
7. Blood Oath
8. Cornerstone of Insanity
9. Disseminated Death
10. The Unseen
11. Kaaos on Kanssamme (Chaos Is with Us)

LINE-UP
Harri Saro – Drums
Juha Rannikko – Guitars
Ville – Bass, Vocals
Ville Nokelainen – Guitars

PURTENANCE – Facebook

Pokerface – Divide And Rule

Divide And Rule non delude certo gli amanti di queste sonorità, ne sentiremo ancora parlare dei Pokerface, scommettiamo?

Torniamo a parlare di metallo forgiato nella madre Russia, per molti provincia della nostra musica preferita, ed invece da anni cilindro da cui escono coniglietti diabolici, dediti ad infuocare la fredda terra sovietica.

La Irond Records questa volta va sul sicuro e ci propone questa band nata solo un paio di anni fa, con un ep (Terror Is The Law) già edito e tanta voglia di spaccare con un thrash metal figlio del periodo ottantiano, irrobustito da buone soluzioni death.
Con una buona esperienza dal vivo con act del calibro di Sepultura, Overkill, e Children Of Bodom, i Pokerface dopo l’uscita dell’album hanno affiancato addirittura sua maestà Dave Mustaine ed i suoi Megadeth, segno che qualcuno crede nel quintetto.
Quella bestia ferita che sentirete urlare la sua rabbia e dolore nel microfono non è un uomo, ma bensì una graziosa fanciulla, con tutte le carte in regole per seguire le orme di Angela Gossow e compagnia di ragazze terribili, una forza della natura che di nome fa Delirium e che vi investirà con una prova da far impallidire tanti maschietti con la pretesa di cantare in una metal band.
Detto della singer, Divide And Rule risulta un buon album di genere, old school, ma prodotto bene, suonato discretamente e con soluzioni ritmiche e chitarristiche sufficientemente convincenti; certo, siamo nel già sentito, le influenze del gruppo escono prepotentemente dai solchi dei brani che lasciano trasparire tutta la devozione per gli Slayer, i Venom e la triade teutonica Sodom/Kreator/Destruction.
Ma questo primo lavoro sulla lunga distanza si fa apprezzare per l’aggressività e la rabbia mai doma, con qualche buon spunto death che ringiovanisce di qualche anno il sound, mantenendo un approccio classico al genere.
L’arpeggio accompagnato dai tasti d’avorio funge d’apertura, non solo all’opener All Is Lie, ma a tutto l’album che, dal secondo numero quarantotto in poi, esplode in un delirio di metal estremo e non si ferma più.
Qualche buona ripartenza, velocità elevata e chitarre che sparano chiodi e attaccano al muro, sono le peculiarità dei brani, ma è indubbio che la parte del leone la fa l’indiavolata vocalist, davvero incontenibile sul tappeto metallico orchestrato dai suoi compari.
Botta di vita da spararsi tutta d’un fiato, Divide And Rule non delude certo gli amanti di queste sonorità, ne sentiremo ancora parlare dei Pokerface, scommettiamo?

TRACKLIST
1. All is Lie
2.Kingdom of Hate
3.The Chessboard Killer
4.Existence
5.Into the Inferno
6.Human Control
7.Age of Terrorism
8.Killed by Me
9.Shut Up!
10.Divide and Rule

LINE-UP
Delirium-vocals
Nick-lead guitars
Maniac-lead guitars
DedMoroz-bass
Doctor-drums

POKERFACE – Facebook

Drowning Pool – Hellelujah

L’era del nu metal è finita da un po’ e le band sopravvissute a quello tsunami musicale arrivato a cavallo del nuovo millennio faticano a trovare consensi, surclassate nelle preferenze dei fans e soprattutto degli addetti ai lavori dal sound metalcore, oggi il genere più cool aldilà dell’oceano.

Il ritorno dei Disturbed alla fine dello scorso anno ha confermato però che la musica di qualità molte volte non va a braccetto con la fama, con un buon album che, rispetto ad una quindicina d’anni fa quando qualunque disco uscisse con l’etichetta nu metal era oro che colava, è passato senza lasciare traccia o quasi.
I Drowning Pool rischieranno la stessa fine con questo buon lavoro, non un capolavoro ma un esempio concreto di come si suona il genere.
Certo, magari non saremo sui livelli di Sinner del 2001 e l’asso Dave Williams ha lasciato, con la sua scomparsa, non pochi problemi, ma Jasen Moreno spacca al microfono e la band sembra in forma per far divertire gli appassionati del genere.
Le prime quattro tracce sono un ottimo biglietto da visita: l’irruenza metallica, le ritmiche neanche troppo sincopate, un’attitudine quasi rock’n’roll (By The Blood) che lasciano posto all’aggressione senza tregua di Drop, composta da un chorus da spellarsi le mani, conquistano subito e ci danno il benvenuto all’interno di Hellelujah.
Verso la metà dell’album qualche brano perde colpi ( la ballad Another Name, troppo scontata e colpevole di spezzare la tensione), mentre i nu metal fans si leccano le ferite con bordate di quello che è uno dei generi più amati/odiati degli ultimi vent’anni (Symphathy Depleted, Meet The Bullet) ed al quale il gruppo di Dallas, pur non essendone una dei maggiori esponenti, ha sicuramente dato il suo importante contribuito.
Sono passati i tempi dei grandi festival e le copertine patinate di riviste musicale cool, non solo per i Drowning Pool, ma per tutto il movimento, rimane la musica e, verrebbe da dire, finalmente.
Hellelujah si può tranquillamente definire un ottimo ritorno, anche sennza che vengano apportate grosse novità nel sound del gruppo, concedendo anche qualche citazione (Godsmack e Stone Sour): i Drowning Pool conoscono alla perfezione il genere e, cosa non da poco, lo sanno suonare; vedremo quanto la Napalm ci metterà del suo nel supportare un’opera che a livello commerciale è fuori tempo massimo, ma io un ascolto ve lo consiglio, fidatevi.

TRACKLIST
01. Push
02. By The Blood
03. Drop
04. Hell To Pay
05. We Are The Devil
06. Snake Charmer
07. My Own Way
08. Goddamn Vultures
09. Another Name
10. Sympathy Depleted
11. Stomping Ground
12. Meet The Bullet
13. All Saints Day

LINE-UP
Jasen Moreno – Vocals
CJ Pierce – Guitar
Stevie Benton – Bass
Mike Luce – Drums

DROWNING POOL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=K_X_ZboXQDo

Maze Of Terror – Ready To Kill

Esame sulla lunga distanza superato per i Maze Of Terror: Ready To Kill è sicuramente da considerare un ottimo album di genere.

Thrash metal old school, violento e senza compromessi, alimentato da una vena death che ne fa un esempio di metal estremo, primitivo, rude ed ignorante.

Questo in poche parole è il sound prodotto dai Maze Of Terror, combo peruviano al primo full length dopo la nascita avvenuta nel 2011, un ep e lo split con i greci Amken, uscito lo scorso anno e di cui ci siamo occupati sulle nostre pagine.
La buona impressione che i brani inclusi nello split avevano suscitato, non cambia, il gruppo aggredisce e distrugge con il suo thrash metal di origine teutonica e i richiami ai vari Destruction e Kreator, continuano ad essere preponderanti nel devastante sound proposto dal gruppo di Lima.
Giovani ma attrezzati per convincere i fans dei suoni old school, i Maze Of Terror ci vanno giù pesante, presentandosi con un trittico si brani da massacro senza pietà.
Rotting Force, Lycanthropes e There Will Be Blood danno fuoco ai cannoni e Ready To Kill parte a bomba per non fermarsi più in tutti i suoi cinquanta minuti abbondanti di durata.
Tra i solchi delle tracce presentate, affiorano a tratti gli Slayer , signori incontrastati del genere, mentre la voce aggressiva e cartavetrata di Leviathan ci catapulta in un mondo di guerre, violenze e distruzione ( più o meno, quello in cui viviamo).
La prima impressione è che la band sia migliorata molto sotto l’aspetto esecutivo, non mancano infatti cavalcate metalliche, dove la sezione ritmica spara mitragliate a forti velocità e le sei corde impazzano in corse su e giù per il manico, come carrelli lanciati all’impazzata sulle montagne russe.
Velocità, e rallentamenti cadenzati ma potentissimi, rendono l’album vario (World’s Dead Side), mentre la durata si restringe e si arriva alla conclusiva Giles De Rais, traccia di oltre dieci minuti (cosa rara nel genere) che mette in mostra non solo la bravura, ma la personalità del combo peruviano, affrontando una composizione che risulta violentissima, complessa ma molto ben strutturata, variando il sound ed alternando violenza thrash a momenti metallici più in linea con il mood classico del metal old school.
Ottima prova dunque, ed esame sulla lunga distanza superato per i Maze Of Terror: Ready To Kill è sicuramente da considerare un ottimo album di genere.

TRACKLIST
1. Rotting Force
2. Lycanthropes
3. There Will Be Blood
4. Violent Mind of Hate
5. World’s Dead Side
6. Bringer of Torture
7. Protectors
8. Executio Bestialis
9. Blooded Past, Burning Future
10. Gilles de Rais

LINE-UP
Leviathan – Bass, Vocals
Hammer – Drums
Criminal – Mind Guitars
Razor – Guitars

MAZE OF TERROR – Facebook

Foundry – Foundry

Foundry supera abbondantemente la sufficienza; come detto la bravura dei musicisti, sommata alla loro indiscussa esperienza, tiene sempre alta la tensione così che l’album, complice la durata che supera di poco la mezz’ora, non abbia grossi cedimenti

La Sleaszy Records, etichetta ellenica che annovera ottime band nel suo rooster, specialmente per quanto riguarda i suoni hard rock, fa il botto con i Foundry, gruppo proveniente da Las Vegas che licenzia il suo debutto omonimo, supportato da un dispiegamento di forze niente male.

Al microfono troviamo infatti Kelly Keeling, di recente sul mercato con un album solista, ex singer dei Baton Rouge e coinvolto in molti progetti gravitanti nel pianeta del rock duro in compagnia di MSG, John Norum, King Kobra, Heaven And Earth, George Lynch, Alice Cooper, Blue Murder, Dokken, Trans-Siberian Orchestra e molti altri, insomma il gotha della nostra musica preferita.
Ad accompagnare prezzemolino Keeling, una band di tutto rispetto, con la sei corde di James Fucci a sparare riff duri come l’acciaio, le pelli del drummer Marc Brattin a formare una sezione ritmica dal groove micidiale insieme al basso di Jason Ebs, che ha suonato nel disco, ma non risulta nella formazione ufficiale.
Detto di Erik Norlander, Scott Griffin e Stoney Curtis come special guests, il vero fiore all’occhiello di Foundry è rappresentato dal guru Steve Thompson al mixer ed alla produzione dell’album, un signore che ha messo a disposizione il suo talento per bands come Guns’n’Roses, Metallica, KISS e Soundgarden.
Con queste premesse ammetto che la curiosità era tanta, ed in parte l’album non delude, l’hard rock made in U.S.A, dalle chiare influenze street, valorizzato dalla voce ruvida del singer, che non disdegna una clamorosa impronta blues, riesce nell’intento di procurare brividi, specialmente a chi ama il rock americano, potenziato da ritmiche che imbottiscono di groove il sound del gruppo.
Il gruppo varia le atmosfere dell’album e si passa cosi da brani dal piglio tradizionale, ad altri molto più moderni, in un’alternanza tra i suoni hard rock classici e molti che sconfinano nel rock anni novanta, vicino all’alternative, in poche parole troppe songs si avvicinano al sound degli Alice In Chains (Rolling Stoned, Calling Allah) perdendo non poco in personalità.
Poco male, i brani risultano ottimi e suonati alla grande, ma è indubbio che da un gruppo di musicisti di tale esperienza, ci si aspettava qualcosa in più che una raccolta di tracce suonate con mestiere.
A mio parere Foundry offre il meglio di se nelle songs che pur conservando un piglio moderno, mantengono i piedi ben saldi nell’hard rock classico (Hell Raiser e Get Over It) e dove il singer estrae dal cilindro quel timbro bluesy che ancor oggi procura pelle d’oca a profusione.
Foundry supera abbondantemente la sufficienza; come detto la bravura dei musicisti, sommata alla loro indiscussa esperienza, tiene sempre alta la tensione così che l’album, complice la durata che supera di poco la mezz’ora, non abbia grossi cedimenti, ma rimane solo un po’ di amaro in bocca per qualche traccia troppo derivativa.

TRACKLIST
1. Blinded
2. Mind Radio
3. Get Over It
4. Rolling Stoned
5. Calling Allah
6. Hell Raiser
7. Shake
8. False Alarm
9. Television
10. Vegas Baby!
11. Vegas Baby! (bonus video, exclusive only on the Sleaszy Rider’s edition!)

LINE-UP

CURRENT LINE-UP
Kelly Keeling – vocals
Marc Brattin – drums
James Fucci – guitar

RECORDING LINE-UP
Kelly Keeling – vocals
Marc Brattin – drums
James Fucci – guitar
Jason Ebs – bass

FOUNDRY – Facebook

Stigmata – The Ascetic Paradox

Gli Stigmata viaggiano tra tutti i sottogeneri del metal, la loro musica risplende di digressioni jazzate, folkloristiche, in uno tsunami di ritmiche devastanti

Che bello viaggiare virtualmente per il mondo alla ricerca di realtà musicali che, se non fosse per la collaborazione con IYE, avrei sicuramente perso, per quanto nella mia lunga vita da appassionato di musica non abbia mai smesso di cercare e scovare band interessanti e, magari agli inizi della loro carriera, poco conosciute.

Ed ecco che, come ormai d’abitudine, mi immergo nel mondo metallico asiatico, questa volta è lo Sri Lanka ad accogliermi, paese che ha dato i natali nell’ormai lontano 1999 a questa clamorosa band che prende il nome da un album degli Arch Enemy, gli Stigmata.
Il quintetto, proveniente dalla città di Colombo, è in possesso di una nutrita discografia, iniziata nei primi anni del nuovo millennio con un ep (Morbid Indiscretion) e proseguita con tre lavori sulla lunga distanza, Hollow Dreams del 2013, Silent Chaos Serpentine del 2006, Psalms of Conscious Martyrdom del 2010 e quest’ultimo, eccellente The Ascetic Paradox.
Come avrete notato in alto a destra, il genere descritto è semplicemente metal: troppo lunga sarebbe stata la lista se fossi andato nello specifico, perché questi cinque ottimi musicisti inglobano nel loro sound praticamente tutti i generi di cui il mondo metallico è composto.
Il bello è che lo fanno con una semplicità disarmante e quello che ne esce non è un minestrone di suoni, ma un’ apoteosi di metalliche atmosfere devastanti, ipertecniche, progressive, potenti, drammatiche ed assolutamente originali nel loro saltare da un genere all’altro.
Partendo da una base sonora che si avvicina terribilmente ai Nevermore più progressivi (anche per la voce spettacolare del singer che ricorda non poco quella di Warrel Dane), gli Stigmata viaggiano tra tutti i sottogeneri del metal, la loro musica risplende di digressioni jazzate, folkloristiche, in uno tsunami di ritmiche devastanti: le sei corde valorizzano il tutto con riff e solos dalla tecnica formidabile, molte volte a velocità inaudita.
I testi di denuncia politico, sociale e religiosa sono interpretati con toni tragici e drammatici da Suresh de Silva, vocalist sontuoso, dotato di una personalità debordante così come l’album, che risulta un’opera fuori dal comune.
Tra i solchi di questi otto brani, lunghi ed articolati, tutti d’ascoltare, ma guidati dalla progressiva Rush Through The Twilight Silver Slithering Stream e dalla conclusiva suite estrema, di ben oltre tredici minuti, And Now We Shall Bring Them War!, troverete ad aspettarvi Nevermore, Death, Cynic, Tool, Arch Enemy, Pestilence, Dream Theather, Rush e molti altri, uniti in questo stupendo affresco metallico al secolo The Ascetic Paradox.

TRACKLIST
1. Our Beautiful Decay
2. An Idle Mind is The Devil’s Workshop
3. Stillborn Again
4. Rush Through The Twilight Silver Slithering Stream
5. Calm
6. Axioma
7. Let The Wolves Come & Lick Thy Wounds
8. And Now We Shall Bring Them War!

LINE-UP
Suresh de Silva – Vocals, Lyrics
Tennyson Napoleon – Rhythm Guitar
Andrew Obeyesekere – Lead Guitar
Lakmal Chanaka Wijayagunarathna – Bass Guitar
Roshan Taraka Senewirathne – Drums

STIGMATA – Facebook

Elevators To The Grateful Sky – Cape Yawn

Gli Elevators To The Grateful Sky si confermano come una magnifica realtà fuori dagli schemi prefissati del rock attuale, con un altro capolavoro che li eleva a gruppo di culto.

Elevators To The Grateful Sky, Sergeant Hamster, Haemophagus, Undead Creep, per molti saranno nomi poco conosciuti, ma per chi segue l’underground e le ‘zine di riferimento come la nostra, sono tasselli musicali che formano un mondo metal/rock, nella regione più a sud della nostra penisola, la Sicilia.

In quel di Palermo vivono e si riproducono questi virus di musica del diavolo, che hanno nel loro dna molti dei generi di cui il nostro mondo è composto, dal più estremo death metal, allo stoner, dal doom all’hard rock settantiano, tutti suonati in modo originale, per niente scontato, miscelandoli a dovere con garage, psichedelia, progressive e tanto rock’n’roll.
Cloud Eye, primo lavoro dei fenomenali Elevators To The Grateful Sky, licenziato nel 2013 e finito inesorabilmente nella mia play list di quell’anno, seguiva il primo ep omonimo e vedeva la band di Sandro Di Girolamo (ex Undead Creep) alle prese con un capolavoro di musica desertica, psichedelica, matura, probabilmente favorita da un caldo territorio che richiama le aride distese che si trovano sul suolo americano e che hanno influenzato quarant’anni di rock.
Al fianco di Di Girolamo troviamo sempre Giuseppe Ferrara alla sei corde, Giulio Scavuzzo alle pelli e Giorgio Trombino, chitarra e basso, per il secondo viaggio nel mondo di questa musica senza barriere, ancora una volta persi in un universo sonoro, colorato come un arcobaleno di generi uniti tra loro e che vivono in perfetta simbiosi nello spartito del gruppo siciliano.
Cape Yawn perde leggermente le sfumature grunge per avvicinarsi molto al garage, specialmente nei primi brani, Ground e Bullet Words, che partono sgommando e l’elettricità è subito altissima, le ritmiche rock’n’roll della prima lasciano il posto a quelle stonerizzate della seconda, pregne di riff estrapolati dal decennio settantiano, mentre garage rock e stoner compongono la inyourface All About Chemistry, in un’improbabile ma affascinante jam fra Miracle Workers e Fu Manchu.
Scaldata l’atmosfera, il gruppo da Dreams Come Through in poi dà letteralmente spettacolo, la sabbia calda brucia i piedi, la bocca si inaridisce e veniamo scaraventati in pieno deserto: A Mal Tiempo Buena Cara accompagnata da un riff sabbatiano, ci inonda di doom psichedelico, Di Girolamo canta come un Morrison intrippato per i Kyuss ed il disco prende il volo per non scendere più dal livello di capolavoro.
Kaiser Quartz e la monolitica I, Wheel, su un altro album sarebbero top songs, ma nel mondo Elevators, queste due perle di doom/stoner, vengono solo prima della title track, il brano perfetto, liquido, ipnotico, tremendamente sensuale, come un serpente sinuoso che disegna il suo corpo sulla sabbia, entra in noi e ci avvelena di psichedelia, con un intervento di sax nel finale che è un colpo di grazia alle nostre menti perse in questo arcobaleno.
Laura è uno strumentale dedicato a Mark Sandman, frontman dei Morphine, altro nome importantissimo per lo sviluppo di Cape Yawn, mentre l’hard rock di Mountain Ship e Unwind , sorta di outro liquida, chiudono questo ennesimo capolavoro del gruppo siciliano.
L’album è stato stampato solo in vinile ed è accompagnato dalla splendida copertina disegnata da Di Girolamo, che si dimostra artista a 360° come la sua splendida musica, mentre gli Elevators To The Grateful Sky si confermano come una magnifica realtà fuori dagli schemi prefissati del rock attuale, con un altro capolavoro che li eleva a gruppo di culto.

TRACKLIST
1. Ground
2. Bullet Words
3. All About Chemistry
4. Dreams Come Through
5. A Mal Tiempo Buena Cara
6. Kaiser Quartz
7. I, Wheel
8. Mongerbino
9. Cape Yawn
10. We’re Nothing at All
11. Laura (one for Mark Sandman)
12. Mountain Ship
13. Unwind

LINE-UP
Sandro Di Girolamo – voce, percussioni
Giorgio Trombino – chitarra, basso, sax contralto, conga, tastiere, voce
Giuseppe Ferrara – chitarra
Giulio Scavuzzo – batteria, darbouka, tamburello, percussioni, voce

ELEVATORS TO THE GRATEFUL SKY – Facebook

Seventh Veil – Vox Animae

Complice una produzione da top album, il suono esce pieno ed avvolge e stritola in una cascata di hard rock, come deve essere suonato nell’anno di grazia 2016.

Ormai è un fatto, l’Italia in questi ultimi anni sta letteralmente scalando, a livello qualitativo, le posizioni nella classifica delle nazioni dove l’underground metal/rock produce realtà notevoli, ormai giocandosela alla pari con i più produttivi paesi del nord europa.

Vero che qui da noi continua a mancare una cultura per il rock, che in altre nazioni è consolidata da anni ma, mentre i media continuano ad ignorare e far spallucce a questa invasione, il nostro sottobosco musicale si arricchisce di ottime band e grandi lavori in tutti i generi e sottogeneri che vanno a comporre l’universo della nostra musica preferita.
Nell’hard rock, genere che solo pochi anni sembrava essere scomparso e che ha trovato nuova linfa con il successo delle band scandinave da una parte, ed il ritorno sulle scene di molti nomi storici dello street rock ottantiano dalla’altra, i gruppi nati su e giù per lo stivale protagonisti di ottimi album non si contano più e i veronesi Seventh Veil si aggiungono alla lunga lista con questo secondo lavoro sulla lunga distanza dal titolo Vox Animae.
Il debutto del 2012 Nasty Skin ed il primo full length White Thrash Attitude del 2013, indicavano il gruppo veneto come una buona street rock band, influenzata dai suoni della Los Angeles del Sunset Boulevard e dagli eroi di degli anni d’oro del rock’n roll ipervitaminizzato e trasgressivo, colonna sonora di una vita al limite con sex, drugs and rock’n’roll come parola d’ordine.
Vox Animae sposta di non poco le coordinate stilistiche della band, sempre hard rock dalle sfumature stradaiole, ma molto più moderno, cancellando definitivamente quella patina nostalgica che i detrattori del genere sottolineano a più riprese quando si parla di street rock.
Niente paura, i Seventh Veil continuano a suonare hard rock, ma nel loro sound entra prepotentemente un mood moderno e se vogliamo alternativo, che rende i brani di questo Vox Animae freschi, al passo coi tempi e dall’appeal molto elevato.
Diciamolo, un brano come Devil in Your Soul, suonato da un gruppo nato aldilà dell’oceano sarebbe in rotazione su Rock Tv ogni quarto d’ora, così ben bilanciato tra tradizione e modernità, colmo di groove e con un refrain che entra in testa spaccandola in due.
Complice una produzione da top album (Oscar Burato ed i suoi Atomic Stuff studio, qui aiutato da Andrea Moserle , sono una garanzia di qualità), il suono esce  pieno ed avvolge e stritola in una cascata di hard rock come deve essere suonato nell’anno di grazia 2016.
L’inizio di Living Dead richiama Sixx A.M e Beautiful Creatures, le ritmiche di Together Again portano ad una via di mezzo tra lo street rock e l’alternative metal, mentre il bravissimo singer Lorenzo “Steven” Bertasi si avvicina terribilmente al Corey Taylor versione Stone Sour, mentre saltano le membrane degli altoparlanti sotto il bombardamento ritmico di una modernissima Broken Promises.
Si viaggia su queste coordinate per tutto l’album, la qualità rimane alta, a tratti i toni si fanno delicati con la super ballatona Dad, bissata da Nothing Lasts Forever, mentre SMS chiude l’album con suoni più vicini all’hard rock classico.
In definitiva un album molto accattivante, professionalmente ineccepibile in tutte le sue parti, orgogliosamente italiano pur avendo tutti i crismi di una produzione top made in U.S.A.

TRACKLIST
1. Vox Animae/rEvolution
2. Devil in Your Soul
3. Living Dead
4. Together Again
5. Broken Promises
6. Song For M
7. Dad
8. Noway Train
9. Begging for Mercy
10. No Pain No Gain
11. Nothing Lasts Forever
12. Sms

LINE-UP
Filippo “Jack” Zardini – lead guitars
Lorenzo “Steven” Bertasi – vocals
Davide “Pio” Viglio – drums
Marco “Jeff Lee” Sangrigoli – bass

SEVENTH VEIL – Facebook

Ape Unit – Turd

Dieci minuti di grindcore spettacolare, unito ad una neanche troppa sottile ironia e scoppia l’innamoramento del sottoscritto per questa band piemontese e la loro musica estrema.

Dieci minuti di grindcore spettacolare, unito ad una neanche troppa sottile ironia e scoppia l’innamoramento del sottoscritto per questa band piemontese e la loro musica estrema.

Bellissima copertina (a cura dell’artista francese Craoman) titoli dei brani che coinvolgono artisti famosi del panorama rock/ metal internazionale ( Mullet For My Valentine, Children Of Boredom, Go Kart Cobain) e tanto metal estremo, suonato alla grande, violentissimo e perfettamente in grado di soddisfare anche l’ascoltatore non avvezzo al genere, per merito di un songwriting perfettamente bilanciato, una potenza esagerata tenuta ben salda tra lo spartito dei nostri, che clamorosamente, riescono nell’impresa di completare un’opera in un minutaggio così ridotto.
Ape Unit, di base a Cuneo, arrivano al quarto lavoro, questo Turd, un esempio lampante di come il genere possa regalare grande musica, estrema certo, ma perfettamente in grado di esprimere tutto quello che gli artisti vogliono in pochissimo tempo e la cosa sinceramente non è da tutti.
Influenzati dai gruppi storici che il genere lo hanno inventato (Napalm Death e Terrorizer), i cinque grindsters danno un’enorme prova di maturità, confezionando un disco che porta l’ascoltatore a non smettere di sentire e risentire l’enorme potenza che Turd sprigiona in queste dieci tracce, dove non mancano, oltre alla devastante velocità, ritmiche colme di groove che aumenta, se possibile, la sensazione lasciata dal sound di trovarci al cospetto di un carro armato impazzito.
Growl cavernoso che, a tratti, si trasforma in scream schizoide dall’input hardcore, chitarre in overdose di watts ed una predisposizione naturale per la forma canzone, fanno di Turd un’opera irrinunciabile per ogni fan del genere.
E, per una volta, non ci si può lamentare del minutaggio ridotto, l’album è perfetto proprio così com’è.

TRACKLIST
1. Puberal Baphomet
2. Mullet For My Valentine
3. Your Body Will Become My Abat-Jour
4. The Will To Smith
5. Tropical Mode-ON
6. Don’t Touch The Forbidden Congas
7. Orango Juice
8. Sperm Bank Robbery
9. Children Of Boredom
10. Go Kart Kobain

LINE-UP
Mariano Somà – Voce
Marco Losano – Chitarra
Alberto Cornero – Chitarra
Umberto Salvetti – Basso
Steve Bianco – Batteria

APE UNIT – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Sarasin – Sarasin

Non mancano buone intuizioni, che portano la band ancora più indietro nel tempo, fino ai tardi seventies, così che, questo album omonimo risulta vario, tra rudezza heavy rock, arpeggi e sfumature tradizionali.

A volte ritornano.

Prendo in prestito il titolo di un famoso romanzo di Stephen King, per presentare il debutto sulla lunga distanza dei Sarasin, band canadese che torna, tramite Pure Steel, dopo aver licenziato il primo lavoro (l’ep Lay Down Your Guns) quasi trentanni fa.
Era infatti il 1987, poi un lungo silenzio, anche se la band è sempre risultata attiva, ed ora il ritorno con una line up rinnovata di 4/5 e capitanata dall’unico superstite della formazione originale, il chitarrista Greg Boileau.
Heavy metal e hard rock, una buona vena epica che sce dai solchi dei brani, un ottimo vocalist, ed un discreto songwriting è quello che presenta il gruppo di Hamilton, vagando tra gli anni ottanta, tra Dio, e Ozzy Osbourne, scaricando riff heavy a profusione ed un’attitudine che potrebbe far breccia nei cuori dei riockers più attempati.
Non mancano buone intuizioni, che portano la band ancora più indietro nel tempo, fino ai tardi seventies, così che, questo album omonimo risulta vario, tra rudezza heavy rock, arpeggi e sfumature tradizionali.
The Hammer apre le danze sparando un refrain colmo di groove, un classic rock da rocker motorizzati, Michael Wilson entra nella struttura della song con un piglio osbourniano, come inizio non c’è male, presentandoci una band vogliosa di impadronirsi di tutto il tempo andato perso.
Enemy Within e In Our Image accentuano le atmosfere U.S metal, indubbiamente presenti nel sound del gruppo, mentre Now è un hard rock song melodica su cui i Sarasin ricamano un riff dal tono drammatico.
Soul In Vain e Sinkhole sono potenti hard rock song cadenzate, dove il singer dimostra di essere attrezzato quanto basta per un’interpretazione suggestiva; Live To See The Glory, ritorna al rock settantiano, enfatizzata da un riff dall’ottimo appeal, per rallentare seguendo strade progressive, mentre giungiamo al termine con l’heavy rock di Forevermore e la liturgica Wake Up, una danza di rock dall’elevato mood settantiano, perfetta chiusura dell’album.
Detto del buon lavoro delle sei corde e di una sezione ritmica che non sfigura, con una prestazione che segue le varie anime del disco con tecnica e gusto, non mi rimane che consigliare l’ascolto ai rockers di provata esperienza, l’album merita, composto da buone songs, ma dubito che farà proseliti nei metallari più giovani, anche se il senso di operazione nostalgia è da trovare altrove, non certo in Sarasin.

TRACKLIST
1. The Hammer
2. Enemy Within
3. In Our Image
4. Now
5. Soul in Vain
6. Sinkhole 7.
Live to See the Glory
8. Forevermore
9. Wake Up

LINE-UP
Les Wheeler – Bass
Roger Banks – Drums
Jim Leach – Guitars
Greg Boileau – Guitars
Mike Wilson – Vocals

SARASIN – Facebook

Throne Of Heresy – Antioch

Un album compatto con molti momenti sprizzanti grande musica estrema e nessun calo in tutti i suoi quaranta minuti di durata

Il Death Metal è un genere affascinante, da quando più di vent’anni fa le orde di truppe assatanate invasero il mondo scendendo in parte dal nord europa e per l’altra metà, attraversando l’oceano, in viaggio dal nuovo continente, il genere si è sviluppato in una miriade di ramificazioni, tutte portando in se realtà entusiasmanti.

Certo, come in tutti gli altri generi che compongono il variegato mondo metallico, anche il death ha visto band qualitativamente parlando mediocri, ma il trend rimane molto alto, soprattutto quando incipt viene dall’old school e dalla famigerata scena scandinava.
Il gruppo di Linköping (Svezia) è l’esempio lampante di come il genere produca continuamente gruppi di notevole spessore, ed il loro Antioch ribadisce l’ottima salute che gode il death metal scandinavo in questi anni, ritornato nell’underground, dopo i fasti degli anni novanta, ma li dopo essersi leccato le ferito, tornato a far male.
I Throne Of Heresy arrivano, con questa notevole bomba sonora, al secondo lavoro sulla lunga distanza, finalmente con un’etichetta in appoggio, dopo i due lavori autoprodotti, The Stench of Deceit, esordio sulla lunga distanza del 2012 e l’ep Realms of Desecration di tre anni fa.
Antioch non fa prigionieri, un assalto scandinavian death agguerrito e furente con piccole dosi letali di black metal scuola Behemoth che, sporcano il sound di nera pece, letale e ma allo stesso tempo melodico nei solos che spiazzano su riffoni pesanti come incudini.
Produzione perfetta, growl che scatena gli istinti più animaleschi ed una raccolta di brani che stritolano, staccano carne a brandelli come investiti da un cingolato, mordono e si accaniscono sui poveri resti come belve demoniache.
Velocità e lenta pesantezza, melodie e aggressività, una discesa senza freni nel death metal, come lo si suona nei freddi paesi su al nord, tecnica invidiabile e songwriting di elevata qualità fanno di Antioch un must per gli amanti del genere, specialmente per i fans della vecchia guardia, abituati a farsi massacrare dalle opere di Hypocrisy, primi Edge Of Sanity, Arch Enemy e compagnia nordica.
Un album compatto con molti momenti sprizzanti grande musica estrema e nessun calo in tutti i suoi quaranta minuti di durata, in poche parole un gigantesca mazzata made in Sweden … What else?

TRACKLIST
1. The God Delusion
2. Serpent Seed
3. Nemesis Rising
4. Flagellum Daemonum
5. Exordium
6. Black Gates of Antioch
7. Blood Sacrifice
8. Phosphorus
9. Souls for the Sepulchre
10. Where Bleak Spirits Pass

LINE-UP
Mathias Westman- Drums
Tomas Göransson- Guitars
Björn Ahlqvist- Bass
Thomas Clifford- Vocals
Michael Edström- Guitars

THRONE OF HERESY – Facebook

Funeral Mantra – Afterglow

Tornano con un contratto per la Sliptrick Records! ed il primo full length i Funeral Mantra, così che il loro sound possa finalmente esplodere e travolgere con l’inferno di lava doom/stoner contenuto nelle tracce di questo ottimo Afterglow.

Avevamo parlato molto bene un paio di anni fa di questa band romana, in occasione del loro primo demo autoprodotto, un esordio composto da quattro brani inediti, dopo qualche anno di gavetta come cover band.

Tornano con un contratto per la Sliptrick Records! ed il primo full length i Funeral Mantra, così che il loro sound possa finalmente esplodere e travolgere con l’inferno di lava doom/stoner contenuto nelle tracce di questo ottimo Afterglow.
Prodotto da Luciano Chessa, già al lavoro con i fenomenali Helligators, La Menade e i Graal, l’album conferma le ottime impressioni avute all’ascolto del passato demo, ora la band risulta davvero una pericolosa macchina da guerra doom/stoner, migliorando molto in personalità e lanciando sul mercato un potentissimo esempio di musica sabbatica, desertica e stonata.
Che il genere sia questo, prendere o lasciare, non fa una piega, è come lo si suona che fa la differenza e la band romana, senza tanti giri di parole spacca che è un piacere, limitando di molto divagazioni psichedeliche e jam acide care a molti gruppi di stoner classico, ed elargendo potentissime bordate di doom settantiano, hard rock e groove come se piovesse.
La prova sopra le righe del vocalist Dude, una via di mezzo tra un orso ferito e Zakk Wylde e l’ottimo songwriting, confermano che siamo davanti ad un gruppo notevole, nel genere uno dei migliori dell’underground dello stivale.
Riff che potrebbero essere usati per demolire palazzi in disuso, solos giunti fino a noi dai lontani anni settanta, ritmiche colme di sano groove stoner, fanno di Afterglow un lavoro annichilente per impatto ed affascinante nelle atmosfere, che mantengono inalterata la coltre di nebbia portata dal vento, che si insinua nella nostra stanza direttamente da cerimonie sabbatiche dove viene rievocato il gotha del genere mondiale, gruppi in cui ci siamo imbattuti negli ultimi quarant’anni di musica rock.
Detto che le quattro tracce presenti sul demo fanno bella mostra di se anche su Afterglow ( arrembante Parsec, monolitica Funeral Mantra, varia e dal gusto alternative Gravestones Reveries, una botta alla Black Label Society, Drifting) le altre sei composizioni arricchiscono il mondo Funeral Mantra di songs trascinanti, irresistibili nel loro coniugare un genere tosto e senza compromessi, come quello suonato, ad un immediato appeal tra i brani e con l’ascoltatore, grazie alla fruibilità e alla freschezza di brani dal notevole carisma come Dimensions Onward, l’irresistibile e ritmata In These Day, la muscolosa Brainlost, tranciata a metà da una frenata e da un assolo creato per sconvolgere, e la titletrack, chiusura psichedelica di un album debordante.
Per chi non conoscesse il gruppo capitolino e vuole i soliti nomi di riferimento, allora avvicinatevi senza indugi a questo lavoro, perché al suo interno ci troverete Black Label Society, Black Sabbath, dirigibili zeppeliniani, Grand Magus, Cathedral, Kyuss e Pentagram; mi fermo qui e vi invito a far vostro questo Afterglow, non lo toglierete dal lettore per tanto, tanto tempo.

TRACKLIST
1. Soulstice
2. Dimension Onward
3. Gravestone Reveries
4. Brainlost
5. In These Eyes
6. Funeral Mantra
7. Parsec
8. Counterfeit Soul
9. Drifting
10. Afterglow

LINE-UP
Vikk- Bass
Richard- Guitars
Randy- Guitars
Simone “Dude”- Vocals
Marco “Karonte”- Drums

FUNERAL MANTRA – facebook

Eleventh Hour – Memory of a Lifetime Journey

Non rimane che fare i complimenti all’ennesima band sopra le righe, che si affaccia sulla scena con un album assolutamente da non perdere se siete amanti del metallo più nobile ed elegante.

Negli ultimi tempi la scena prog/power metal nazionale ha regalato grosse soddisfazioni agli amanti di queste sonorità, le opere di valore uscite a ripetizione sul mercato cominciano ad essere una piacevole abitudine ed il debutto degli Eleventh Hour non fa che confermare il momento d’oro della scena.

Capitanati dal chitarrista Aldo Turini e con al microfono Alessandro Del Vecchio (Hardline, Revolution Saints, Edge Of Forever) il gruppo debutta con la benedizione della Bakerteam, con questo ennesimo ottimo esempio di prog/power metal dal titolo Memory of a Lifetime Journey, elegante e raffinato prodotto che non sfigura certo in compagnia delle spettacolari uscite di questi mesi.
La band alterna sapientemente ottimo metallo regale a splendide orchestrazioni, mai troppo bombastiche ma assolutamente eleganti, i tasti d’avorio ricamano di raffinate melodie le cavalcate metalliche che il gruppo non fa mancare, senza perdere un briciolo di nobiltà, così da consolidare la tradizione nazionale nel genere, pur avvicinandosi al metal nord europeo.
Le atmosfere hanno la massima importanza nel sound degli Eleventh Hour e l’album risulta un saliscendi tra l’elettrizzante metal dall’anima progressive e le bellissime parti dove il piano e la voce regalano momenti di musica drammaticamente suadente.
Ottima la prova del tastierista Alberto Sonzogni, che orchestra con maestria le parti più sinfoniche e sa far parlare il suo piano con delicate armonie sulle struggenti Back To You e Sleeping In My Dreams, cuore raffinato di questo lavoro.
Non mancano le fughe sui tasti d’avorio, specialmente nella seconda parte del lavoro, più sinfoniche rispetto alla partenza e più vicine al power metal( Long Road Home e Requiem For A Prison) dove gli Eleventh Hour lasciano le briglie del sound in un susseguirsi di esplosioni metalliche ed arrangiamenti sinfonici dal mood cinematografico.
La sezione ritmica cavalca il purosangue metallico spingendo oltremodo ( Black Jin al basso e Luca Mazzucconi alle pelli), mentre Turini mette ai ferri corti la sua chitarra, in un tripudio power metal progressivo di elevata qualità.
Detto di un Del Vecchio che conferma tutto il suo talento, non rimane che fare i complimenti all’ennesima band sopra le righe, che si affaccia sulla scena con un album assolutamente da non perdere se siete amanti del metallo più nobile ed elegante.
Il 2016 inizia col botto, opere come Memory of a Lifetime Journey ed il superbo Storm del progetto Odyssea (dove appare come ospite il buon Del Vecchio), fanno sperare in un altro anno d’oro per il genere, noi non possiamo che ribadire il nostro supporto e apprezzamento.

TRACKLIST
1. Sunshine’s Not Too Far (Intro)
2. All I Left Behind
3. Jerusalem
4. Back To You
5. Sleeping In My Dreams
6. Long Road Home
7. Requiem From A Prison
8. Island In The Sun
9. After All We’ve Been Missing
10. Here Alone

LINE-UP
Alessandro Del Vecchio- Vocals
Aldo Turini-Guitars
Alberto Sonzogni-Keyboards
Black Jin-Electric and fretless Bass –
Luca Mazzucconi-Drums

ELEVENTH HOUR – Facebook

From The Vastland – Blackhearts

Quindici minuti di musica sono pochi, ma i tre brani si fanno apprezzare per l’ottima produzione, qualche buon inserto sinfonico ed un mood convincente.

I From The Vastland sono la creatura del polistrumentista Sina, musicista iraniano trapiantato in Norvegia, paese dal quale la sua musica trae ispirazione.

Siamo infatti nel black metal influenzato dalla scena scandinava, con tutti i cliché del genere, quindi sfuriate metalliche, ritmiche portate dal vento del nord, screaming feroce ed un’aura epica.
Blackhearts è l’ultimo lavoro in versione mini cd, composto da tre brani e vede come ospiti Vyl (Keep Of Kalessin, Gorgoroth) alle pelli e Tjalve (1349) al basso, ma scavando nell’antro infernale da dove proviene il buon Sina troviamo tre full length già licenziati tra il 2011 ed il 2014 (Darkness vs. Light, the Perpetual Battle, Kamarikan e Temple of Daevas).
Concettualmente il musicista trae ispirazione dalla cultura persiana e mesopotamica, perciò nessun demone tra i boschi norvegesi o anime perdute in castelli posseduti, mentre il sound molto deve alla scena black nord europea.
Quindici minuti di musica sono pochi, ma i tre brani si fanno apprezzare per l’ottima produzione, qualche buon inserto sinfonico ed un mood convincente.
L’atmosfera oscura e maligna fa il resto, così che Astoyad, la devastante title track e la più atmosferica Abakhtaran si fanno valere, complice l’ottima tecnica esecutiva di Sina.
Probabilmente siamo davanti al classico lavoro che funge da apripista al prossimo full length, e dall’ascolto di queste songs non possiamo che aspettare con interesse la prossima opera sulla lunga distanza.
Se non conoscete ancora questa one man band, Blackhearts è sicuramente un buon biglietto da visita.

TRACKLIST
1. Astoyhad
2. Blackhearts
3. Abakhtaran

LINE-UP
Sina – Composer, Guitars, Vocals
Vyl- Drums
Tjalve- Bass

FROM THE VASTLAND – Facebook