Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al funeral come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.
Belial (Ivan Manzano) è un musicista spagnolo che, con il monicker Dom, ha già all’attivo due full-length di realizzazione piuttosto recente.
Questa sua nuova uscita avviene invece nel formato dell’Ep, di lunghezza comunque considerevole visto che la sua durata sfiora la mezz’ora. Dom, non solo per l’assonanza, viene considerato un progetto funeral doom, anche se tale etichetta può apparire parzialmente fuorviante: le composizioni di Belial, integralmente strumentali, sono basate essenzialmente sulle note del pianoforte che, grazie ad un indubbio gusto melodico, guida la musica per lo più su lidi ambient, e della chitarra che sovente si lascia andare in progressioni non del tutto scontate.
Nulla a che vedere quindi, sia con la versione più claustrofobica sia con quella più avvolgente e malinconica del genere: Dom Vampyr, pur mantenendo le connotazioni cupe del funeral, non ne possiede né la ritmica bradicardica nè la pulsione drammatica.
Detto questo, i tre brani si rivelano piuttosto validi e per certi versi differenti tra loro: la lunga opener A Modern Prometheus mostra il lato più sperimentale di Belial il quale, partendo da umori quasi jazzistici si lancia in una fase centrale piuttosto vivace per approdare infine ad una chiusura all’insegna di ritmiche asfissianti. Les Avaleuses prende vita con una forte impronta Skepticism, dovuta ad un timbro simile delle tastiere, per poi lasciare spazio al consueto contenuto pianistico poggiato su spunti compostivi accostabili agli Ea.
L’episodio senza dubbio migliore e più caratterizzante è, però, The Tomb Of Ethelind Fionguala, traccia che, paradossalmente, tra tutte è proprio quella che meno ha a che vedere con il funeral: una bel giro di piano viene ripetuto per l’intero brano prima da solo, poi con l’ingresso delle tastiere finchè, attorno alla metà del brano, la chitarra solista si prende il proscenio liberandosi in uno splendido assolo di stampo classico. Dom Vampyr regala una mezz’ora scarsa di musica assolutamente piacevole, purchè non si faccia l’errore di attendersi qualcosa che assomigli al genere come lo intendono i veri appassionati; sgombrando il campo da questo equivoco, l’operato di Belial si rivela, invero, del tutto apprezzabile.
Tracklist:
1. A Modern Prometheus
2. Les Avaleuses
3. The Tomb Of Ethelind Fionguala
Una quindicina di anni fa i Selfmachine con un album del genere avrebbero fatto il botto, di questi tempi si dovranno accontentare di piacere e non è comunque poco …
Debuttano per la sempre attenta WormHoleDeath gli olandesi Selfmachine con questo Broadcast Your Identity, buon album di quello che una decina di anni fa veniva definito nu metal, per essere poi aggiornato in metalcore, con un’occhiata all’alternative, chiamato in causa parzialmente per via dell’uso della voce pulita e di ritmiche che si fanno più ragionate in molte parti del disco.
Il lavoro risulta vario e non stanca, anche per questo avvicendarsi di atmosfere, tra tensione a mille, con sfuriate che rasentano in certi momenti la violenza del death, e parti melodiche dove la fanno da padrone certi richiami al post grunge di band come i Creed: Becoming the Lie ne è l’esempio più lampante, dove solo un accenno di growl posto nel finale del pezzo ci ricorda che siamo al cospetto di una band che fa del metalcore il suo credo. Il resto dell’album è un sali e scendi sulle montagne russe di un songwriting molto vario, aiutato da vocals che passano dal classico screaming di genere al growl cavernoso di chiara matrice death, fino ad una voce pulita che tra l’altro è anche molto bella. Partendo da Breathe To Aspire, brano nu metal con tanto di cantato dall’accenno rappato, alla più cadenzata Miles Away con tanto di assolo riuscito a metà del pezzo, si passa ad Incorporated dove per la prima volta si intrecciano svariate voci a rendere la song molto varia. L’uso delle voci è appunto il trademark del disco, non ci si annoia con i Selfmachine e si arriva alla fine dell’album senza fatica, anche per l’ottima produzione; c’è ancora tempo per le ottime Void, Out of Depth e la lunghissima (11 minuti, per il genere un record) Closing Statement, bellissimo pezzo dove la band sorprende con un brano dallo spirito progressivo. Una quindicina di anni fa i Selfmachine con un album del genere avrebbero fatto il botto, di questi tempi si dovranno accontentare di piacere e non è comunque poco …
Track list:
1.Breathe to Aspire
2.Miles Away
3.Incorporated
4.Massive Luxury Overdose
5.Void
6.Out of Depth
7.Caught in a Loop
8.Smother the Sun
9.Becoming the Lie
10.Isybian
11.Closing Statement
Line-up:
Steven Leijen – L.vocals
Mark Brekelmans – Bass,vocals
Michael Hansen – Guitars,vocals
John Brok – L.guitars,vocals
Ben Schepers – Drums
Gli ateniesi Allochiria ci rovesciano addosso una cinquantina di minuti di rabbia controllata a base di un post-metal/sludge dalla qualità sorprendente, capace di mettere in fila molte delle uscite succedutesi nel settore negli ultimi tempi.
Gli ateniesi Allochiria ci rovesciano addosso una cinquantina di minuti di rabbia controllata a base di un post-metal/sludge dalla qualità sorprendente, capace di mettere in fila molte delle uscite succedutesi nel settore negli ultimi tempi.
Attivi da circa un quinquennio e con all’attivo un solo Ep autointitolato risalente al 2010, il gruppo ellenico fa il suo esordio su lunga distanza con Omonoia, autentico gioiellino privo di punti deboli, composto e suonato con un’urgenza ed una freschezza raramente riscontrabile. Capaci di passare con estrema fluidità da momenti costituiti da liquide aperture di matrice post-metal a sfuriate di caliginoso sludge, il tutto amalgamato da sapienti intervalli atmosferici, gli Allochiria affascinano e catturano con questa alternanza di stati d’animo, ben rappresentata dall’opener Today Will Die Tomorrow, che si apre con una citazione colta tratta da Wiliam S.Burroughs recitata su base acustica da una voce femminile, quella stessa che, protagonista la bravissima Irene, negli ultimi due minuti del brano e nel resto del disco aggredisce senza pietà i nostri padiglioni auricolari, vomitando tutta la frustrazione ben riassunta in un titolo come quello che chiude l’album, Humanity Is False (brano nel quale i nostri, peraltro, riescono a veicolare, sia pure in maniera trasfigurata, aromi musicali tipicamente mediterranei). Anche se fioccheranno in sede di recensione gli inevitabili accostamenti con Neurosis, Pelican e compagnia, funzionali comunque a descrivere il sound che caratterizza Omonoia, scordatevi lo sterile senso di impotenza e di incompiutezza che non di rado attanaglia le uscite di questo genere: gli Allochiria hanno molto da dire, e lo fanno con la personalità che appartiene solo ai grandi; se il talent scout di qualche label avesse intenzione di reperire qualche band emergente sulla quale puntare seriamente per il prossimo futuro, rivolga allora il proprio sguardo verso quella Grecia dove, evidentemente, la crisi economica, così come negli altri paesi dell’area mediterranea, sembra aver provocato per contrasto la crescita e lo sviluppo di nuove espressioni artistiche, musicali e non.
Tracklist:
1. Today Will Die Tomorrow
2. Oppression
3. Archetypal Attraction to Circular Things
4. We Crave What We Lack
5. Charikleia’s Intermission
6. K
7. Humanity Is False
Line-up :
Ted P. – Bass
Ilias N. – Drums
John K. – Guitars
Steve K. Guitars
Irene P. – Vocals
Il nuovo percorso di Neige, non così prevedibile come ci si sarebbe potuti aspettare, lascia di sasso per un secondo, prima di conquistare completamente.
Neige, a due anni dall’ottimo Les Voyage De L’Âme, mette definitivamente da parte le influenze black metal per lasciare carta bianca alla solare emotività della sua vena più post rock/shoegaze/dream pop. Il nuovo lavoro, intitolato Shelter e in uscita per Prophecy, si compone di otto brani lucenti che, invece di guardare alla Scandinavia, preferiscono volgere lo sguardo all’Islanda (non a caso alla produzione compare Birgir Jón Birgisson, lo stesso dei Sigur Ròs).
Il caldo e solare fiorire di Wings apre all’esplosiva dose di energia sviluppata da Opale che, tra chitarre vivaci, voce delicata e rassicurante, cori sognanti e ritmo frizzante, avvolge e conquista fin dal primo ascolto. La Nuit Marche Avec Moi, altrettanto emotiva e coinvolgente, scorre sinuosa sulle note di chitarra (con alle spalle muri sonori affascinanti e mai incombenti), mentre Voix Sereines, più lenta e composta, cresce lentamente fino a travolgere nel finale, introducendo il sound viscerale e denso della sognante L’Eveil Des Muses. Il frizzante ribollire di Shelter, invece, tra chitarre e pianoforte, dà vita a un’innegabile senso di sicurezza e tranquillità, lasciando che a proseguire sia il sound più acustico e pacato di Away (come ospiti compaiono le Amiina e Neil Halstead degli Slowdive). L’immensa Delivrance, infine, con i suoi dieci minuti di chitarre in crescendo, entra sotto pelle e non lascia scampo, tenendoci in ascolto immobile per tutta la sua durata.
Il nuovo percorso di Neige, non così prevedibile come ci si sarebbe potuti aspettare, lascia di sasso per un secondo, prima di conquistare completamente. Il risultato è un lavoro differente rispetto ai precedenti: la positività sottopelle (che cercava di esplodere nei precedenti dischi), ora è esplicita, calda e solare. Il paragone con i Sigur Ròs è inevitabile, ma, anche se c’è qualche punto di contatto, nell’insieme l’impressione è che ci si muova verso altre direzioni. Un ottimo disco.
Tracklist:
01. Wings
02. Opale
03. La Nuit Marche Avec Moi
04. Voix Sereines
05. L’Eveil Des Muses
06. Shelter
07. Away
08. Delivrance
Un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità.
A Young Man’s Funeral è uno dei molteplici progetti provenienti dalla Russia in ambito doom, probabilmente non tutti imprescindibili ma, molto spesso, di sicuro interesse.
Se, in effetti, la quantità di uscite può in parte inflazionare il mercato, va detto anche che la presenza di una scena così viva e produttiva è soltanto un aspetto positivo per tutto il movimento che gravita attorno al genere.
Due facce della stessa medaglia sono anche quelle relative all’interazione tra i diversi membri delle band e alla conseguente proliferazione di progetti paralleli: tutto ciò è da salutare favorevolmente, in quanto consente ai vari musicisti di esplorare le diverse sfaccettature del genere ma, d’altra parte, rischia di rendere le scene locali piuttosto autoreferenziali.
Uno dei personaggi più attivi in ambito moscovita è sicuramente E.S., che abbiamo già visto all’opera con gli Who Dies In Siberian Slush, la sua band principale, negli sperimentali Decay Of Reality e Forbidden Shape e, come ospite alla voce, nel magnifico disco dei Lorelei, oltre a promuovere in proprio molte altre realtà con la sua label MFL Records.
Anche in quest’occasione l’instancabile E.S. presta il suo eccellente growl a questo progetto death-doom del drummer dei già citati Who Dies In Siberian Slush, A.S., che qui si occupa di tutti gli strumenti e del songwriting, dalle sonorità piuttosto vicine alla band madre anche se, senza dubbio, con una maggiore impronta melodica. Thanatic Unlife è suddiviso in tre lunghi brani sufficientemente pregni di atmosfere drammatiche e momenti evocativi, caratterizzati dall’utilizzo prevalente di un pianoforte minimale in vece delle consuete e più avvolgenti tastiere, che sovente sono preponderanti in quest’ambito stilistico.
Se Curse appare come il brano più sperimentale, sospeso tra rumorismi e riff secchi ed essenziali, e Remorse alterna le consuete partiture dolenti a passaggi di stampo ambient, la conclusiva Salvation si propone come summa delle due tracce precedenti , mostrando una perfetta amalgama tra tutte queste anime e regalando una decina di minuti di death-doom d’alta scuola.
Forse non imprescindibile, come detto, ma sicuramente un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità; l’innesto di E.S. alla voce costituisce un evidente valore aggiunto all’operato di A.S., del quale piace la capacità di produrre sonorità sufficientemente coinvolgenti e, a tratti, neppure troppo convenzionali.
Una proposta migliorabile ma che già oggi risulta sicuramente intrigante oltre che coraggiosa.
I nord irlandesi Abbotoir propongono una forma di funeral lontano da qualsiasi ammiccante forma di melodia e ciò, ovviamente, non ne aumenta l’appeal nei confronti di chi segue il genere in maniera marginale.
Reclaim è il titolo di questo Ep, costituito da un unico brani di circa 26 minuti (Descension), che arriva dopo il full-length d’esordio uscito lo scorso anno; stilisticamente il trio di Belfast si colloca dalle parti di un act come i Bosque, ponendosi quindi alla ricerca costante di sonorità disturbanti grazie al massiccio contributo di elementi ambient-drone.
La reiterazione pressoché ininterrotta di un riff di volta in volta accompagnato da effetti elettronici, inclusa una drum-machine e una voce filtrata, potrebbe far pensare a un qualcosa di terribilmente noioso e, oggettivamente, il rischio esiste, stante la mancanza di uno sviluppo armonico capace di restare memorizzato in qualche modo nella mente dell’ascoltatore.
Ma, se vogliamo, proprio l’apparente freddezza del sound, che pone gli Abbotoir nella posizione privilegiata di distaccati osservatori delle miserevoli vicende umane, si rivela un elemento caratterizzante capace di provocare quello straniamento che è sicuramente uno degli obiettivi della band britannica.
Un produzione volutamente intrisa di riverberi ed un sound che definire ossessivo è un eufemismo, rendono oggettivamente complessa la fruizione di Reclaim, fornendo la sensazione che talvolta gli Abbotoir travalichino quel labile confine posto tra la sperimentazione e l’autocompiacimento.
E, in effetti, a partire dal minuto 19, Descension offre quei minimi appigli, che fino a quel momento aveva pervicacemente negato, mostrando parvenze infinitesimamente umane ed è proprio su questo lato della proprio sound che gli Abbotoir potrebbero maggiormente insistere in futuro, per migliorare ulteriormente una proposta che già oggi risulta sicuramente intrigante, oltre che coraggiosa.
Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.
Quattro anni dopo il disco d’esordio, riappare con un nuovo full-length la one-man portoghese Bosque.
Non che nei quasi dieci anni di esistenza della sua creatura musicale DM si sia limitato a questi soli due album, visto che la produzione a nome Bosque è disseminata di demo ed ep, ma è normale che la dimensione su lunga distanza sia sempre la più probante, specie per chi si cimenta in ambito funeral doom.
I quaranta minuti di Nowhere ci trascinano di peso, appunto, in un non luogo, nel quale la sofferenza è il sentimento prevalente, capace di soffocare ogni accenno di melodia imprigionandolo in un sound disturbante, pregno di rumorismi collocati in sottofondo.
Lo straziato canto gregoriano che cerca di farsi largo tra strutture dissonanti e strumenti distorti ai limiti del parossismo potrebbe essere l’ideale rappresentazione dell’autoflagellazione, di un dolore auto inferto andato in loop, metafora di un’esistenza costretta a trascinarsi penosamente e confinata all’interno di schemi univoci e ripetitivi.
Un accenno melodico si fa largo pietosamente grazie a una chitarra acustica che traccia linee consolatorie prima che il martirio della carne e dello spirito riprenda, culminando nell’ossessiva reiterazione dei riff in Metamorphosis, ipotetico quanto illusorio punto di svolta oltre il quale ad attenderci c’è il nulla, ben rappresentato dal titolo della traccia conclusiva e dalla ricomparsa dei cori a conferire al disco un andamento circolare, quasi a dimostrare che l’inizio e la fine sono solo effimere definizioni.
DM non mostra alcun segno di empatia verso l’ascoltatore, la sofferenza si manifesta attraverso un dolore diffuso e straziante, senza alcuna soluzione di continuità; Nowhere mostra una forma di funeral agli antipodi del versante più melodico del genere, ma non per questo va sottovalutato: è piuttosto evidente, peraltro, che la fruizione di un lavoro di queste caratteristiche è impresa per quei pochi che possiedono la pazienza e quel pizzico di masochismo necessario per lasciarsi avvolgere da suoni che fanno ben poco per rendersi gradevoli al primo impatto; un aspetto, questo, che a seconda dei punti di vista può apparire sia un pregio sia un un limite invalicabile.
Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.
Gli Ea si confermano una garanzia in ambito funeral melodico, anche se “A Etilla” si rivela leggermente inferiore al suo predecessore.
Dopo otto anni di attività e cinque album all’attivo (compreso quest’ultimo A Etilla) gli Ea sono riusciti a conquistarsi meritatamente uno spazio nella scena funeral doom nonchè l’attenzione degli appassionati.
Il fatto di suonare un genere che per sua natura non attira masse di fan urlanti ha di molto facilitato la loro scelta di mantenere un totale anonimato, circondando di assoluto mistero tutto ciò che esula dalla pura proposta musicale.
In tal modo, per chi si trova a dover parlare dei lavori della band russa (ma neppure la nazionalità dei musicisti coinvolti pare essere certa), la sola base di partenza sono le lunghe tracce capaci di trasportare l’ascoltatore attraverso scenari cupi ma non disperati, nei quali la malinconia è l’autentico fattor comune.
Nel corso degli anni la proposta degli Ea è rimasta piuttosto fedele agli schemi degli esordi: lunghe litanie nelle quali chitarra e tastiere si alternano nel condurre melodie sicuramente più fruibili rispetto a gran parte delle band operanti nel settore, con un growl piuttosto canonico che recita testi in una lingua inventata, un particolare che tutto sommato può avere un suo relativo fascino ma nulla più.
La forza della band risiede piuttosto nella sua apparente semplicità, ma sottolinerei la parola “apparente” proprio perché, in un genere come il funeral doom, non vengono certo richieste acrobazie strumentali o dirompenti capacità innovative: l’ascoltatore va alla ricerca di emozioni veicolate da sonorità che manifestano il lento oblio e la caducità dell’esistenza e gli Ea in questo senso sono un’autentica garanzia.
Nonostante la loro produzione goda di una certa uniformità, sia a livello qualitativo che stilistico, non tutti gli album pubblicati sono di uguale valore: personalmente adoro “Ea II” e l’autintitolato Ea, mentre ho sempre ritenuto leggermente inferiori sia l’esordio “Ea Taesse” che “Au Ellai”; mantenendo l’alternanza tra buoni album, nel caso dei dispari, e di lavori vicini alla perfezione nei pari, A Etilla appare quindi come una versione lievemente meno ispirata del suo predecessore, con il quale ha però molto in comune, a partire dalla tracklist costituita da una sola suite della durata di circa tre quart’ora e di un alternanza piuttosto simile per distribuzione tra le parti strumentali più struggenti e i momenti nei quali i riff tendono ad irrobustirsi, mai però in maniera eccessiva.
Dopo diversi ascolti, questo lungo viaggio in un dolore soffuso e nello struggimento consolatorio prodotto dalle melodie lineari ma avvincenti dei misteriosi doomsters, riesce a conquistare definitivamente anche se, come detto, le splendide linee armoniche che venivano sciorinate nell’album omonimo si palesano solo a tratti producendo un risultato assolutamente gradevole ma non abbastanza per eguagliarne in toto la bellezza.
Detto questo, l’ascolto di A Etilla è doverosamente consigliato a tutti coloro che amano il funeral melodico, ma è certo che la recente uscita del capolavoro degli Eye OF Solitude, Canto III, ha alzato di molto l’asticella per chiunque si cimenti nel genere, incluse le band storiche o di culto come gli Ea.
Tracklist:
1. A Etilla
Un assaggio di death old school fornitoci tra un album e l’altro da una band dalla qualità non intaccata da una certa prolificità
Veterani della scena Death metal svedese, i Paganizer tornano con un mini CD, dopo World Lobotomy, lavoro sulla lunga distanza licenziato in questo 2013, a dimostrazione della prolificità del combo; sono ben nove, infatti, gli album immessi sul mercato dal 1998, anno di debutto, più svariati mini e split.
Rogga Johansson, leader, voce e chitarra, sembra essere instancabile vista la moltitudine di band della scena con cui ha collaborato, ma i Paganizer sono sicuramente la creatura a cui è più legato e alla quale dedica buona parte delle sue energie. Il mini in questione, sorta di appendice dell’ultimo album, non si discosta né musicalmente né concettualmente dai lavori passati, sempre di old style death metal si tratta, dalle tematiche gore e anticristiane e fortemente influenzato o per meglio dire, visti gli anni di militanza di Rogga nella scena, vicino a band del calibro di Dismember e Grave.
I cinque pezzi che compongono il lavoro risultano così dei buoni esempi di death old school e dove, nell’ultimo album, si riscontravano elementi di scuola grind, in questa occasione i Paganizer sterzano verso sonorità e ritmiche più thrash oriented.
Buoni come sempre sono gli assoli della sei corde e lavoro di ordinaria amministrazione per tutti i musicisti, va elogiata sempre e comunque la volontà e la passione che artisti come Johansson mettono ancora, dopo così tanti anni, nel portare avanti un discorso musicale fuori dai circuiti modaioli, aggiungendo qualità e esperienza alla scena underground e meritandosi doverosamente il massimo rispetto.
Tracklist:
1. On a Gurney to Hell
2. Rot
3. Souls for Sale
4. Afterlife Burner
5. It Came from the Graveyard
Line-up:
Rogga Johansson – Vocals, Guitars
Matthias Fiebig – Drums
Dennis Blomberg – Guitars (lead)
Un bellissimo lavoro, complimenti al gruppo, che dal vivo immagino grandissimo, e disco consigliato non solo ai fans dei Death SS.
Questa recensione mi permette di spendere due parole sul più grande gruppo metal nato nella nostra penisola, riconosciuto in tutto il mondo, guidato da un leader che è una delle nostre poche icone, dotato di carisma e personalità e vero artista a 360°: sto parlando ovviamente dei Death SS e naturalmente di Steve Sylvester.
Questo grande gruppo ha rilasciato dei dischi fondamentali, prima negli anni 80′ basati su un Metal più classico, e diventando poi un’entità a parte e inventando, di fatto, un genere come l’horror Metal. Impossibile quindi non essersi imbattuti in almeno uno dei loro numerosi capolavori, da “In Death Of Steve Sylvester” a “Black Mass”, da Heavy Demons alla svolta semi-industrial di “Do What Thou Wilt” e “Panic”, fino ad arrivare all’ultimo “Resurrection”,datato 2013: una grande band che ha rilasciato lavori bellissimi e sempre con quell’integrità e coerenza (dicendola alla Pino Scotto, altra icona del nostro metal) che l’hanno resa un mito
I toscani Deathless Legacy nascono come tribute band dei Death SS e, dopo innumerevoli apparizioni dal vivo, arrivano al debutto discografico con un album di horror metal scritto come Steve Sylvester insegna, e non poteva essere altrimenti.
Anche loro, come i maestri, hanno optato per travestimenti e pseudonimi, la copertina con le mani di zombie che escono dal terreno è rigorosamente in stile horror ma, fortunatamente, in questo disco c’è anche tanta buona musica.
Intanto i brani sono cantato da una vocalist, al secolo Steva La Cinghiala, protagonista di una prova magistrale (non è così facile cantare su di un disco del genere e risultare perfetta); le somiglianze, inevitabili, con i Death SS si riscontrano nei suoni delle tastiere, poi però l’album ha una sua vita ( anche in questo caso sarebbe meglio dire morte … ) propria, i brani sono belli, tra song dall’impatto più moderno e altri intrisi di atmosfere più classiche.
Apre il sabba Will-O’-The Wisp, e si entra subito al centro del Grand Guignol dove è protagonista una band che sfodera tutte le proprie virtù musicali, con brani dal forte impatto e dalla immediata presa. Queen Of Necrophilia, Octopus,la sparata Killergeist, fanno da antipasto al picco dell’album, quella Flamenco De La Muerte, dove il Metal del combo accompagna una chitarra spagnola in una song geniale.
Ancora ottimi brani sono Spiders e Devil’s Thane, prima di arrivare ad un altro brano top, Death Challenge, dove Steva inasprisce la voce e si accentuano i suoni moderni, per un brano dal sapore nu metal. Step Into The Mist conclude un bellissimo lavoro, complimenti al gruppo che dal vivo immagino grandissimo e disco consigliato, non solo ai fans dei Death SS.
Tracklist:
01 – Will-O’-The Wisp
02 – Queen Of Necrophilia
03 – Bow To The Porcellan Altar
04 – Octopus
05 – Killergeist
06 – Flamenco De La Muerte
07 – Spiders
08 – Devil’s Thane
09 – Death Challenge
10 – Step Into The Mist
Line-up
Steva La Cinghiala – Vocals and Performances
Frater Orion (The Beast) – Drums and Scenographies
El “Calàver” – Guitar
C-AG1318 (The Cyborg) – Bass and Vocals
Pater Blaurot – Keyboard
The Red Witch – Performances
Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
La tentazione di misurarsi con “La Divina Commedia” ha contagiato in passato, facendo anche qualche vittima illustre, diversi musicisti , non solo in ambito metal, ma non ci sono dubbi sul fatto che, mai prima d’ora, tale ambizioso accostamento abbia prodotto un risultato entusiasmante come avviene in questo Canto III.
Gli Eye Of Solitude sono una doom band di stanza a Londra che vede tra le sue fila musicisti i quali, pur risiedendo sul suolo inglese, hanno nazionalità o comunque origini sicuramente non britanniche, a partire dal vocalist rumeno Daniel Neagoe (che abbiamo già incontrato negli ottimi Deos), per passare al drummer italiano Adriano Ferraro e finendo con i chitarristi Indee Rehal-Sagoo e Mark Antoniades e il tastierista Pedro Caballero Clemente, lasciando al solo bassista Chris Davies un presumibile dna al 100% albionico.
Non è da escludere, quindi, che un simile mix di influenze e tradizioni musicali abbia influito positivamente nell’ideazione e nella realizzazione di un prodotto perfetto come quello che si è rivelato questo full-length.
Collocabili a grandi linee tra il funeral ed il death doom, gli Eye Of Solitude con un lavoro di tale portata riscrivono la storia del genere, andandosi a collocare nell’empireo dove sono assisi i padri Thergothon assieme ai loro figli prediletti Skepticism, Evoken, Mourniful Congregation ed Esoteric; dirò di più: dall’inizio del secolo ho perso il conto di quanti album di doom estremo siano passati nel mio lettore fornendomi emozioni impagabili e, in quel momento specifico, apparentemente ineguagliabili, eppure nessun’altro, salvo forse l’ultimo degli Ea, è stato capace di coinvolgermi in maniera assoluta dalla prima all’ultima nota come è accaduto con Canto III.
Questa autentica “internazionale del dolore” (integrata anche dal contributo in qualità di ospiti dei russi Anton Rosa alle clean vocals e Casper al violino) , come mi piace ribattezzarla, ci conduce, per poco più di un’ora, nei meandri più profondi della psiche umana, tra le sue paure ancestrali, l’affanno di una vita che scorre ineluttabilmente verso l’epilogo, l’angoscia che deriva dall’illusoria speranza di un’esistenza post-mortem, unico fragile appiglio a cui aggrapparsi di fronte alla tragica consapevolezza che nulla potrà riportare indietro le lancette del tempo.
Lo scenario dell’Inferno dantesco, del resto, viene rappresentato in maniera coerente, e lo testimonia la recitazione dai toni drammatici, pur con una pronuncia italiana non impeccabile, di uno degli incipit più celebri della letteratura mondiale; proprio le parti recitate rappresentano i passaggi più delicati e, in qualche modo a rischio, all’interno del lavoro, perché il confine tra l’enfasi recitativa e la pacchianeria è davvero molto sottile, ma lo stato di grazia che accomuna tutti i musicisti coinvolti nel disco fa sì che tali momenti si rivelino invece assolutamente affascinanti oltre che del tutto funzionali alla riuscita del lavoro.
I sei lunghi brani costituiscono l’immagine della perfezione del suono e del songwriting: le parti acustiche, dai toni rarefatti e sovente accompagnate dai suddetti passaggi recitati, si dilatano creando attimi di vera angoscia, nei quali l’impressione di pace illusoria lascia spazio ad un’attesa che si fa via via spasmodica mentre si prepara il terreno all’irruzione corale di tutti gli strumenti; tutto ciò, specie quando viene sovrastato dal growl quasi irreale di Daniel, riesce a trasmettere quel pathos in grado davvero di far vibrare le corde più recondite dell’anima e al quale è impossibile sottrarsi senza prima aver versato qualche lacrima.
Non c’è un brano particolare da segnalare, non una traccia o un passaggio sulla quale indugiare più a lungo o altre da ignorare, non una sola nota superflua o fuori luogo in questo compendio di dolore , disperazione , smarrimento, malinconica e incommensurabile bellezza.
Un disco che va riascoltato più e più volte, perché in ogni frangente è capace di svelare nuove sfumature, particolari apparentemente insignificanti che si palesano invece in tutta la loro rilevanza nell’economia del lavoro: la solennità degli Skepticism, il senso di tragedia imminente dei Colosseum, la compattezza degli Evoken, il gusto melodico degli Ea e il lirismo decadente dei My Dying Bride vanno ad amalgamarsi in un’irripetibile e, attualmente, incomparabile espressione sonora. Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
A costo di sembrare retorico, mi piace pensare che il Sommo Poeta abbia concesso la propria benevola approvazione agli Eye Of Solitude trasferendo loro tutta l’ispirazione necessaria per onorare nel migliore dei modi la sua opera immortale: per trovare dei punti deboli nell’operato della band londinese in questo frangente bisogna semplicemente essere prevenuti nei confronti del genere che propongono.
Disco dell’anno, senza dubbio, e mi scuso con chi non lo troverà citato nella mia playlist del 2013, pubblicata poco prima di ascoltare questo autentica opera d’arte; ma, si sa, le classifiche hanno un valore del tutto relativo quanto effimero, specie quando vengono piacevolmente smentite e stravolte da lavori del calibro di Canto III.
Tracklist:
1. Act I: Between Two Worlds (Occularis Infernum)
2. Act II: Where the Descent Began
3. Act III: He Who Willingly Suffers
4. Act IV: The Pathway Had Been Lost
5. Act V: I Sat in Silence
6. Act VI: In the Desert Vast
Line-up :
Daniel Neagoe – Vocals
Indee Rehal-Sagoo – Guitars
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Pedro Caballero Clemente – Keyboards
Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.
Non posso negare che nell’avvicinarmi a questo Ep sono stato inevitabilmente attratto dalla presenza in line-up di Mikko Kotamäki, ben più noto come cantante degli immensi Swallow The Sun.
Va quindi chiarito ogni tipo di equivoco dicendo subito che, al di là della presenza del vocalist, i tratti comuni tra le due band non sono poi moltissimi, in primis perché qui il songwriting non è ad opera di Juha Raivio bensì di Markus Laakso, chitarrista e tastierista ideatore del progetto (non a caso il monicker della band è costituito parzialmente dal suo cognome).
I Kuolemanlaakso hanno esordito nel 2012 con un buon full-length e questo breve Ep, che consta di quattro brani (una delle quali è una cover), è soprattutto propedeutico al prossimo album previsto in uscita nei primi mesi dell’anno; come detto, il sound, pur potendo essere classificato a buon titolo come death-doom, non ne possiede le caratteristiche specifiche che ci si potrebbero attendere da un band finlandese.
Infatti, nonostante Laakso svolga un ruolo fondamentale con le sue tastiere nei folli symphonic-industrial blacksters Chaosweaver, in quest’occasione relega lo strumento ad un ruolo di semplice accompagnamento lasciando che a parlare siano le chitarre e, ovviamente, la voce di Kotamäki: ciò che ne scaturisce è, pertanto, un songwriting dalle diverse sfaccettature.
La prima traccia, Me Vaellamme Yössä, è quella più orecchiabile e potrebbe essere approssimativamente definibile come una versione più aggressiva degli Amorphis, con una bella linea melodica ed il growl di Mikko a condurre le danze, mentre Tulenväki e Kalmoskooppi sono decisamente meno catchy pur rivelandosi tutt’altro che piatte, privilegiando un impatto sbilanciato sul versante death, e nelle quali il vocalist sfoggia anche il suo caratteristico screaming.
L’ultima traccia potrebbe essere catalogata come la più riuscita, anche se in realtà si tratta della cover di una rock band nota in Finlandia negli anni ‘80, gli Juha Leskinen Grand Slam: Musta Aurinko Nousee, che dà anche il titolo all’Ep, era un bel brano anche nella versione originale, ma i Kuolemanlaakso ne rallentano in maniera notevole l’andatura trasformando il tutto in un episodio dal sapore gothic, con il contributo di un Kotamäki che esibisce un’inedita timbrica alla Peter Steele.
La creatura di Markus Laakso mostra un potenziale interessante e, forse, l’unico ostacolo da superare nell’approccio è proprio l’utilizzo della la lingua madre, anche se mi chiedo se abbia ancora senso nel 2013 porsi delle barriere linguistiche quando ormai esistono diversi strumenti per capire il significato di testi redatti in qualsiasi lingua.
Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.
Tracklist:
1. Me vaellamme yössä
2. Tulenväki
3. Kalmoskooppi
4. Musta aurinko nousee
Un disco nel quale vengono sviluppate armonie di grande intensità e capaci di evocare sentimenti di malinconia e disillusione.
Quando un musicista decide di chiamare la sua band Slow difficilmente il genere che proporrà sarà speed o power metal, mentre è molto più probabile che un monicker simile si adatti alla perfezione al doom, meglio ancora se funeral, come avviene in questo caso.
Dietro al nome Slow in realtà troviamo il solo Dehà, musicista belga nel quale ci siamo già imbattuti qualche mese fa nel recensire il lavoro dei Deos; la sua avventura solista, pur restando nell’ambito dell’area death-funeral, si discosta parzialmente da quanto fatto in coabitazione con Daniel N., soprattutto perché il lavoro ha delle caratteristiche meno orientate verso il death e molto più spinte verso l’ambient-drone. III-Gaia consta di due soli brani, il primo dei quali dura ben quaranta minuti mentre il secondo si esaurisce in “solo” mezz’ora; già da questo appare piuttosto evidente quanto Dehà se ne possa infischiare di rendere più fruibile il proprio sound, e lo conferma il fatto che Gaia – Part 1 viene introdotta da oltre dieci minuti di suoni dronici, prima che la componente melodica si impadronisca del sound conducendolo con la dovuta lentezza ad un finale oggettivamente splendido. La Part 2 di fatto pare un ideale proseguimento della traccia precedente, sviluppando armonie di grande intensità e capaci di evocare sentimenti di malinconia e disillusione, sulla falsariga degli Ea che, in questo momento, rappresentano decisamente un punto di riferimento condiviso per il funeral più melodico. III-Gaia è un album splendido che, purtroppo, come gran parte delle uscite relative a quest’ambito stilistico, finirà per essere ignorato dai più restando ugualmente e doverosamente consigliato a tutti coloro che, avendo dimestichezza con il genere proposto, ne sapranno trarre le dovute gratificazioni.
“Evst” va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013
Sino ad oggi, musicalmente parlando, le isole Fær Øer avevano lasciato una traccia tangibile in ambito metal principalmente grazie ai Týr, la cui popolarità si è consolidata nell’ultimo decennio grazie a un solido folk metal.
Ben diverso è quanto proposto dagli Hamferð che, dalla piccola Thorshavn, capitale dell’arcipelago, ci incantano con un death-doom in grado di spiccare sulla concorrenza grazie a diversi elementi innovativi pur senza snaturare in alcun modo le coordinate del genere. Fin dall’opener Evst (che è anche il titolo dell’album) si può constatare che la band opta per uno stile vocale agli antipodi delle abitudini del death-doom più tradizionale: qui il consueto growl è affiancato da una voce stentorea quanto evocativa, il tutto regalatoci magnificamente dal solo Jón Aldará. Chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo disco degli Helllight non avrà potuto fare a meno di notare quanto la resa complessiva di un lavoro di ottima fattura sia stata penalizzata dal tentativo di utilizzare la voce pulita senza possedere una tecnica sufficientemente solida; ciò non accade affatto in Evst, dove la voce di Jón si erge protagonista indiscussa del lavoro, declamando con la giusta enfasi ed il necessario trasporto le liriche rigorosamente scritte in lingua madre. Se nei primi tre brani, che peraltro risplendono per la capacità degli Hamferð di rendere ariosa una materia musicale di norma opprimente, si palesa piuttosto evidente l’impronta degli Swallow The Sun, nel corso dell’album affiora anche una vena folk-prog che conduce i nostri alla composizione di un brano prevalentemente acustico come At jarða tey elskaðu. Sinnisloysi ci riporta ad atmosfere pregne di disperazione, con un predominio del growl sulle clean vocals che risulta però ingannevole, vista l’abilità dei faroeriani nell’imprimere svolte inattese ad un songwriting decisamente più vario rispetto alle altre band impegnate nel settore: nello specifico fa capolino una voce femminile che conferisce una certa solennità al sound, con l’aggiunta di un lavoro chitarristico impeccabile e di grande sensibilità. Dopo oltre mezz’ora di musica dalla grande intensità, la conclusiva Ytst arriva a confermare anche ai più scettici che gli Hamferð non sono certo la classica band capace di azzeccare quei tre o quattro accordi sui quali costruire un intero disco: questa traccia rappresenta lo stato dell’arte del doom-death, con un caleidoscopio di sensazioni capaci di sovrapporsi nel corso di dieci muniti dal raro impatto emotivo, ed è giusto che la pietra tombale su un disco meraviglioso lo ponga la voce di questo cantante in grado come pochi altri di far vibrare le corde dell’anima. Evst va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013 e, a chi ne è rimarrà estasiato, consiglio vivamente di andarsi a ripescare l’altrettanto valido Ep d’esordio “Vilst Er Síðsta Fet”.
Tracklist:
1. Evst
2. Deyðir varðar
3. Við teimum kvirru gráu
4. At jarða tey elskaðu
5. Sinnisloysi
6. Ytst
Line-up : Jón Aldará – vocals
John Egholm – guitar
Theodor Kapnas – guitar
Remi Johannesen – drums
Esmar Joensen – keys
Jenus í Trøðini – bass
Il quarto atto su lunga distanza dei Monolithe consolida lo status invidiabile di una band incapace di fallire un colpo dal momento della sua apparizione sulla scena.
Il quarto atto su lunga distanza dei Monolithe consolida lo status invidiabile di una band incapace di fallire un colpo dal momento della sua apparizione sulla scena funeral doom, risalente ormai ad un decennio fa, con “I”.
La carriera della band transalpina può esser suddivisa a grandi linee in due fasi disinte: la prima con “I”, “II” e l’Ep “Interlude Premiere”, usciti tra il 2003 e il 2007, e quella attuale, con “Interlude Second” e III pubblicati l’anno scorso ed l’ultimo IV. I Monolithe del primo periodo, benché non fossero del tutto assimilabili al funeral tradizionale, operavano comunque in un ambito ad esso contiguo segnalandosi particolarmente per il ricorso ad un unico brano, normalmente tarato sui cinquanta minuti di durata, nel corso del quale venivano diluite le cupe partiture; “III”, in questo senso, ha segnato una svolta portando la band di Sylvain Begot ad avventurarsi in uno stile contrassegnato da un maggiore dinamismo, staccandosi in parte dagli stilemi tipici del funeral e mostrando apprezzabili variazioni all’interno della consueta lunghissima suite. Alla luce di questo, anche se era lecito pensare che nell’immaginario musicale della band parigina quel barlume di luce che si iniziava a scorgere stesse per trasformarsi in qualcosa in più di un’incerta fiammella, IV riporta nuovamente il suono ad immergersi nella più totale oscurità e non basta qualche sporadico coro femminile o alcuni passaggi dal tono quasi solenne a risollevare l’ascoltatore dall’abisso nel quale i nostri lo hanno fatto nuovamente sprofondare. I Monolithe in quest’occasione abbattono il primato personale di durata, spingendosi fino a ben cinquantasette minuti, contraddistinti da un’ossessivo quanto affascinante tema che, in pratica, si dipana tra l’adeguato growl di Richard Loudin e chitarre distorte e diluite fino all’inverosimile, in un quadro che talvolta assume toni apocalittici ma capace di stemperarsi in passaggi dal grande coinvolgimento emotivo. Se “III” non era certo un lavoro di agevole ascolto, IV si spinge anche oltre fino a lambire i confini dell’incomunicabilità: penetrarne l’essenza è una prova che, se superata, regala come ambito premio un’ora di rara intensità emotiva. Con questi ultimi due lavori, i Monolithe hanno di fatto creato un sound del tutto riconoscibile e mai come in questo momento il loro monicker si sposa alla perfezione con la sensazione di una musica di rara compattezza, sviluppata da una band giunta probabilmente al punto più elevato della propria parabola artistica.
”Blessed He With Boils” è un lavoro che racchiude talento, ambizione, visionarietà e la capacità di assimilare le influenze più disparate per creare un qualcosa che francamente non capita di ascoltare con grande frequenza.
Per una volta faccio un passo indietro di circa un anno andandomi ad occupare di un disco uscito nel dicembre 2012 e al quale solo alcuni, meritoriamente, hanno dato visibilità evidenziandone le indubbie qualità.
Per fortuna la musica ha il pregio di non essere un prodotto soggetto a scadenza dopo un certo periodo di tempo, quindi la riscoperta di questo splendido lavoro degli statunitensi Xanthochroid è doverosa, nella speranza che ciò possa indurre altre persone ad inserirlo con regolarità tra i propri ascolti. Giunti all’esordio dopo due anni di attività, contrassegnati da un demo e da un Ep, i ragazzi di Lake Forest non entrano in scena certo in maniera timida, ma ci regalano un disco talmente vario ed originale che si fatica a catalogarlo in maniera adeguata: anche se loro stessi si autodefiniscono cinematic black metal, una tale etichetta potrebbe ingenerare sicuramente equivoci. I Xanthochroid partono da una base black ma con una forte componente progressive, e non solo a livello di attitudine visto che certi passaggi riportano addirittura alle gradi band degli anni ’70; a tutto ciò si può certamente aggiungere una vena folk intimista che prende corpo per interi brani e, a tenere fede a quanto promesso, la capacità innata di creare atmosfere solenni, queste sì, degne di potere essere considerate alla stregua di una particolare colonna sonora, sulla scia dei migliori Moonsorrow . Tramite un concept incentrato sulla lotta tra due fratelli per la successione al regno del padre, la band californiana si permette di annichilire al confronto chiunque abbia tentato in questi ultimi anni una simile la commistione di generi: ascoltate la spettacolare title-track, brano nel quale la matrice black iniziale finisce per stemperarsi in una melodia che non sembra poi così lontana da una certa “The Court Of The Crimson King” (King Crimson e black metal ? Perché no). Winter’s End riprende l’anima folk degli Agalloch riuscendo a superare i maestri, in particolare per l’uso delle voci, mentre Long Live Our Lifeless King è un’autentica centrifuga nella quale viene immesso qualsiasi ingrediente passi per la testa a questi straordinari musicisti, per essere poi rimesso in circolazione con un formato non solo commestibile ma dal sapore esaltante. Le due parti di Deus Absconditus fungono da spartiacque in un lavoro nel quale, si stenta a crederlo, il meglio deve ancora venire: The Leper’s Prospect è un delirante brano black sinfonico che possiede una linea melodica indimenticabile, e il suo mood drammatico induce sovente alla commozione, sentimento che non abbandonerà più l’ascoltatore fino all’ultima nota dell’album, e che non viene certo sopito nella successiva In Putris Stagnum, dove il climax tragico viene raggiunto grazie all’alternanza di diverse gamme vocali che rendono perfettamente l’idea di una dolorosa e lancinante resa dei conti tra i protagonisti. “Here I’ll Stay” è uno strumentale pianistico che sembra uscito dalla penna di Vittorio Nocenzi ed introduce il capolavoro del disco che i Xanthochroid hanno giustamente posto al suo termine: Rebirth of an Old Nation è traccia di una bellezza a tratti insostenibile, nella quale si compie il miracoloso connubio tra tutti gli elementi innovativi che hanno contraddistinto band come Pain Of Salvation, Opeth e Moonsorrow, solo per citare quelle più facilmente rinvenibili, lasciandone per strada sicuramente molte altre. L’ascolto di questo lavoro (per il quale non posso che ringraziare chi me l’ha segnalato) è stata una folgorazione, che non fa altro che rendere ancora più compulsiva la mia personale ricerca di nuove band capaci di accompagnarmi negli ennesimi, indimenticabili viaggi musicali. Blessed He With Boils è un lavoro che racchiude talento, ambizione, visionarietà e la capacità di assimilare le influenze più disparate per creare un qualcosa che francamente non capita di ascoltare con grande frequenza. Questa non è il classico disco dai tratti sperimentali, che piace tanto, a parole, agli amanti del “famolo strano”, salvo essere successivamente relegato nelle retrovie di polverosi scaffali; qui vengono scaricate tonnellate di pathos che, unito a una dose altrettanto massiccia di follia, danno vita a un lavoro che, se fosse uscito quest’anno, troverebbe comodamente posto nella mia top five del 2013. Ma, come scritto all’inizio, almeno nella musica non esiste la prescrizione, pertanto godetevi questo luccicante gioiello firmato dai Xanthochroid, siete sempre in tempo.
Tracklist:
1. Aquatic Deathgate Existence
2. Blessed He with Boils
3. Winter’s End
4. Long Live Our Lifeless Kin
5. Deus Absconditus: Part I
6. Deus Absconditus: Part II
7. The Leper’s Prospect
8. In Putris Stagnum
9. “Here I’ll Stay”
10. Rebirth of an Old Nation
Line-up :
Matthew Earl – Flute, Drums, Vocals
David Bodenhoefer – Guitars, Vocals
Brent Vallefuoco – Guitars, Vocals
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Bryan Huizenga – Bass Guitar
Il prog death dei Code convince nonostante una proposta d’impatto tutt’altro che immediato
Il ritorno al full-length dei britannici Code, dopo quattro anni, ci mostra un approccio decisamente interessante al metal di stampo avanguardistico.
Curiosamente, la Agonia Records ha pubblicato quasi in contemporanea questo lavoro e l’ultima fatica degli Ephel Duath benché entrambi, sempre secondo un metodo di catalogazione piuttosto sommario, possano essere inseriti nel filone stilistico sopra accennato.
Le differenze tra questi due album sono però sostanziali, dimostrando quanto sia ampio il margine di manovra, e l’unico tratto comune individuabile senza troppa fatica è un suono in costante progressione e contraddistinto da un esecuzione strumentale di prim’ordine; ma, mentre la creatura di Davide Tiso preferisce indulgere in un mood soffocante , relegando a sporadiche apparizioni l’aspetto melodico, il combo inglese guidato da Aort, unico superstite della precedente line-up nonché bassista degli ottimi Indesinence, mostra un songwriting relativamente più fruibile nonostante sia evidente che un disco come Augur Nox debba essere ascoltato e riascoltato prima di poterne cogliere le diverse sfumature.
Se è innegabile che le atmosfere opethiane si manifestano più di una volta in maniera piuttosto evidente, è altresì vero che i ritmi impressi dai Code sono spesso decisamente elevati e riservano i rari momenti di riflessione confinati ai brevi strumentali inseriti nei punti strategici della track-list: questo conferisce al sound quella dinamicità che spesso riesce a compensare la frammentarietà insita in un genere come questo.
Se a tutto ciò aggiungiamo una prestazione vocale di grande versatilità ed efficacia da parte di Wacian, capace di spaziare dal growl a passaggi dalla spiccata eleganza , non si può che approvare senza particolari riserve l’operato della band londinese. Augur Nox è un disco che, pur nella sua complessità, potrebbe trovare estimatori dalle ampie vedute provenienti da qualsiasi schieramento, metallico e non; brani come Ecdysis, autentico labirinto compositivo capace di disorientare lo stesso Minotauro, The Shrike Screw, dai vaghi sentori anathemiani, almeno nella parte iniziale, o la conclusiva White Triptych, avvicinabile alle atmosfere dei connazionali A Forest Of Stars, sono gli episodi migliori assieme alla splendida The Lazarus Chord, vero manifesto musicale di una band sicuramente non per tutti, ma ugualmente accattivante per chi abbia voglia e tempo di approfondirne la conoscenza.
Tracklist:
1. Black Rumination
2. Becoming Host
3. Ecdysis
4. Glimlight Tourist
5. Dx.
6. Garden Chancery
7. The Lazarus Chord
8. The Shrike Screw
9. Rx.
10. Trace Of God
11. Harmonies In Cloud
12. White Triptych
Il ritorno di Dave Ingram, storico ex-cantante di Benediction e Bolt Thrower, non possiede alcun tratto nostalgico ma porta con sé una carica distruttiva difficilmente riscontrabile anche in chi, agli albori della propria carriera, dovrebbe essere naturalmente spinto dall’entusiasmo e dalla voglia di spaccare il mondo, non solo in senso metaforico.
Il ritorno di Dave Ingram, storico ex-cantante di Benediction e Bolt Thrower, non possiede alcun tratto nostalgico ma porta con sé una carica distruttiva difficilmente riscontrabile anche in chi, agli albori della propria carriera, dovrebbe essere naturalmente spinto dall’entusiasmo e dalla voglia di spaccare il mondo, non solo in senso metaforico.
I Down Among The Dead Men, completati dai due Paganizer Rogga Johansson (anche The Grotesquery e qualche altra decina di band) alla chitarra e Dennis Blomberg al basso, sono una creatura venuta alla luce per tranciare tutto ciò che si trova qualche centimetro al di sopra del suolo, grazie al magnifico ed efferato growl dell’esperto vocalist ed il chirurgico contributo dei suoi due sodali. Un death con una dannata attitudine punk, un’ipotetica session tra Motorhead, Discharge, Napalm Death ed Entombed epoca “To Ride …”, un treno lanciato a tutta velocità pronto ad abbattere ogni ostacolo nella sua corsa impostata su una velocità costantemente elevata, questa è la descrizione sommaria del contenuto dell’album Non attendetevi, quindi, una particolare versatilità da questo lavoro autointitolato, le tredici tracce hanno una durata media di due minuti e fanno della loro sinteticità una carta vincente; Draconian Rage è un titolo magnifico per inaugurare un disco, oltre che una scelta appropriata in quanto racchiude l’essenza di un lavoro che potrà far storcere il naso a chi ricerca sonorità innovative, ma che si rivelerà invece un godimento assoluto per chi si “accontenta” di farsi trascinare da suoni irresistibili nella loro essenzialità. Rari come oasi nel deserto sono i rallentamenti o i momenti concessi agli assoli di Rogga (Venus Mantrap) e non è un caso che il disco si chiuda esattamente come si è aperto, con un brano come The Stones Lament il quale, più che le pietre del titolo, costringe al lamento le casse, mai così vicine vicino al cedimento strutturale a causa dei toni ultra ribassati utilizzati da Blomberg. Un disco che, come recita la pubblicità di un noto energy-drink, “ci mette le ali” e, in questi tempi grami e bastardi, musica come questa può fornire la giusta dose di grinta per affrontare a viso aperto le battaglie, piccole o grandi che siano, che la vita di tutti i giorni ci propone …
Tracklist:
1) Draconian Rage
2) The Doomsday Manuscript
3) As Leeches Gorge
4) The Epoch
5) Adolescence Of Time
6) Bones Of Contention
7) Dead Man’s Switch
8) A Handful Of Dust
9) Infernal Nexus
10) Dead Men Diaries
11) Venus Mantrap
12) Down Among The Dead Men
13) The Stones Lament
Line-up:
Dave Ingram – Vocals
Dennis Blomberg – Guitars
Rogga Johansson – Guitars/Bass
Tutto sommato i brani scorrono lo stesso piuttosto bene, grazie a una serie di brillanti intuizioni disseminate qua e là ma, in previsione di un prossimo full-length, la missione per la band emiliana sarà quella di riuscire a mantenere intatta la propria carica innovativa rendendo più omogenea la struttura delle canzoni.
Procedendo alla disamina del contenuto di Liquid Breathing non si può prescindere dal tenere nella dovuta considerazione il passato degli Avelion.
Difficile immaginare, infatti, che la band alle prese in questo Ep con un metal dai tratti moderni, tra alternative, prog, djent ed elettronica, sia la stessa che cinque anni or sono aveva pubblicato un disco come “Cold Embrace”, all’insegna di un ben più canonico power metal. In effetti, benché il marchio sia lo stesso, lo stravolgimento della line-up ha sicuramente contribuito alla scelta di intraprendere questo nuovo corso stilistico; è fuor di dubbio che uno spostamento così repentino, da un metal ancorato alla tradizione verso una sua veste decisamente futuristica, potrà risultare spiazzante per chi aveva apprezzato i primi passi dei ragazzi parmensi. Personalmente ritengo che optare per l’abbandono di un genere come il power sia una mossa azzeccata, non tanto perché io non sia un estimatore del genere quanto per l’affollamento e la concorrenza esistente in quel contesto, che rende davvero arduo emergere per chi non abbia a disposizione numeri fuori dal comune (e non è detto che ciò basti ugualmente) . I tre brani contenuti nell’Ep, registrati in maniera impeccabile negli studi di un “top producer” come Jens Bogren, hanno in comune un’eterogeneità stilistica che, inevitabilmente, ne rende frammentaria la fruizione, benché non manchino spunti melodici interessanti; le cose funzionano bene quando il sound assume le sembianze di un prog metal evoluto e dai tratti futuristici, sulla scia degli Empyrios di “Zion”, un po’ meno allorché emergono sentori del nu metal più commerciale, il tutto all’interno di pulsioni elettroniche che talvolta intervengono a spezzare senza alcun preavviso trame ancora in divenire. Metaforicamente parlando, Liquid Breathing è assimilabile a una piccola valigia nella quale gli Avelion hanno cercato di stipare una quantità sovrabbondante di indumenti dalle fogge diverse, riservandosi di eliminare il superfluo solo in un secondo tempo. Tutto sommato i brani scorrono lo stesso piuttosto bene, grazie a una serie di brillanti intuizioni disseminate qua e là ma, in previsione di un prossimo full-length, la missione per la band emiliana sarà quella di riuscire a mantenere intatta la propria carica innovativa rendendo più omogenea la struttura delle canzoni.
Tracklist:
1. Liquid Breath
2. Ain’t No Down
3. Mechanical Faces
Line-up :
William Verderi – Lead Vocals
Gianmarco Soldi – Guitars and Backing Vocals
Oreste Giacomini – Keyboards
Mark “Satir” Reggiani – Bass
Damiano Gualtieri – Drums
Ottimo esordio per i Lorelei che, in un prossimo futuro, potrebbero anche trovare una maggiore esposizione se optassero anch’essi per l’adozione di testi in lingua inglese.
L’esordio su lunga distanza dei Lorelei arriva in un momento di grande fermento della scena gothic death-doom russa.
Si rischia d’essere ripetitivi nell’affermare che le uscite proposte dalla Solitude e dalla BadMoodMan hanno ormai raggiunto un livello qualitativo tale da costituire un vero e proprio marchio di fabbrica. Dopo gli splendidi lavori di Revelations Of Rain e Shallow Rivers, Ugrjumye Volny Studenogo Morja sposta le coordinate musicali verso un gothic dai toni drammatici, enfatizzati dalla consueta dicotomia tra voce lirica e growl maschile. Quando entrambe le componenti vengono eseguite in maniera eccellente come in questo caso e il tutto va ad inserirsi in un contesto musicale raffinato e intenso come quello messo in scena dai Lorelei, ogni considerazione sulla prevedibilità di un disco simile diventa francamente superflua. I tre quarti d’ora di questo lavoro, che la band moscovita dedica al Rinascimento, con particolari riferimenti alla poetica del Petrarca (come almeno noi italiani abbiamo la possibilità di capire dal frequente inserimento di versi recitati nella nostra lingua) rappresentano qualcosa in più di un ideale “bignami” del gothic death-doom: ciò avviene grazie a brani che trasudano romanticismo da ogni nota, esaltati da un’esecuzione strumentale sobria quanto emozionante, dall’impeccabile intonazione lirica esibita da Ksenia Mikaylova e dal growl possente di E.S, (già noto nella scena come anima e voce degli Who Dies In Siberian Slush). Il disco non raggiunge vette epocali proprio perché, nel suo songwriting, è presente quel pizzico di autoreferenzialità derivante dallo stretto legame che unisce gran parte delle doom band dell’area moscovita, aspetto che inevitabilmente tende a rendere piuttosto omogenei i tratti stilistici, nonché i suoni a livello di produzione. Ma al di là di questo e del fatto che l’uso dell’idioma russo, anche qui, come nel caso dei Revelations Of Rain, finisce per precludere a questo prodotto una maggiore diffusione , non si può fare a meno di apprezzare brani, intrisi di un pathos degno dei componimenti del poeta fiorentino, come le magnifiche Ten’ju Bezlikoj … e Ne Vedaja Temnyh Predelov Pechali …, episodi che spiccano all’interno di un contesto complessivo comunque di assoluto valore. Ottimo esordio, quindi, per i Lorelei che, in un prossimo futuro, potrebbero anche trovare una maggiore esposizione se optassero anch’essi per l’adozione di testi in lingua inglese.
Tracklist:
1. Intro
2. Holod Bezmolvnogo Zimnego Lesa…
3. Ten’ju Bezlikoj…
4. Ugrjumye Volny Studenogo Morja…
5. La Vita Fugge, Et Non S’arresta Una Hora…
6. Ne Vedaja Temnyh Predelov Pechali…
7. Holodnyj Prizrachnyj Rassvet…
8. Raj Poterjan…
9. Outro