Darrel Treece-Birch – Healing Touch

Tradizione e soluzioni moderne conferiscono al sound una buona alternativa alle note liquide di molti passaggi, rendendo l’ascolto rilassato ma non troppo, con le strade si alternano tra lunghi rettilinei ed impervie salite sullo spartito che Treece-Birch ha riempito di note a tratti sfuggenti.

Dopo le fatiche sull’ultimo splendido album dei Ten (Gothica), il tastierista e polistrumentista Darrel Treece-Birch torna con un nuovo album solista dal titolo Healing Touch.

Il successore dell’ottimo One More Time, uscito lo scorso anno, è un’opera interamente strumentale, con il musicista britannico che questa volta fa tutto da solo.
Improntato chiaramente su suoni tastieristici, Healing Touch è un album dall’impatto atmosferico molto accentuato, con l’anima dei Pink Floyd che aleggia sulle composizioni con ancora più forza rispetto alle passate release.
Treece-Birch passa dunque agevolmente dall’hard rock dei Ten alle sue opere che sono assolutamente da annoverare nel progressive rock, quadri dai tenui colori autunnali come questo nuovo lavoro licenziato proprio nella stagione che prepara l’anima e la natura alle ristrettezze invernali.
L’album parte con la lunga opener God’s Prescription, una sorta di preparazione atmosferica al viaggio che l’ascoltatore intraprende insieme al musicista e che porta inevitabilmente ad una sorta di sound contemplativo dalle sfumature rock.
Tradizione e soluzioni moderne conferiscono al sound una buona alternativa alle note liquide di molti passaggi, rendendo l’ascolto rilassato ma non troppo, con le strade si alternano tra lunghi rettilinei ed impervie salite sullo spartito che Darrel ha riempito di note a tratti sfuggenti.
Cast It Out, le pulsazioni elettroniche di Re-Boot e tutta la seconda parte dell’album che si posiziona sul “lato oscuro della Luna”, fanno ormai parte del sound in cui il musicista britannico si trova più a suo agio con una menzione particolare per le suggestive sfumature dai rimandi sci-fi di The Release.
Healing Touch è un lavoro per chi ama il rock progressivo strumentale, i Pink Floyd e quel rock atmosferico figlio di tempi nei quali un’opera del genere trovava tutto il tempo per essere assimilata.

Tracklist
1.God’s Prescription
2.From The Mouth
3.Cast it Out
4.Re-Boot
5.The Fruits Of The Spirit
6.The Stand
7.The Release
8.The Expanse
9.No Fear Here
10.God’s Medicine

Line-up
Darrel Treece-Birch – All Instruments

DARREL TREECE-BIRCH – Facebook

We All Die! What A Circus! – Somnium Effugium

L’album è davvero molto curato e la limpidezza dei suoni ne favorisce l’assimilazione, anche perché qui è netta la sensazione d’essere al cospetto di un artista con la A maiuscola e non di un pur valido assemblatore di suoni.

Devo ammettere che le ultime uscite nelle quali mi sono imbattuto mi hanno parzialmente riconciliato con i dischi strumentali, specialmente quelli basati su un melodico e riflessivo post rock.

Così, dopo il bellissimo lavoro degli americani In Lights, tocca a questo progetto solista del portoghese João Guimarães dal monicker piuttosto bizzarro, We All Die! What A Circus!.
Nonostante le ingannevoli premesse, il sound offerto dal musicista lusitano è quanto mai ortodosso nel suo dipanarsi liquido, melodico e spesso riflessivo tanto da andare a sconfinare più volte l’ambient; indubbiamente il post rock si presta maggiormente a tale formula, proprio perché la rarefazione del sound porta inevitabilmente a sonorità che sono per loro natura strumentali, mentre le aperture melodiche, quando sono di eccelsa qualità come in questo caso, imprimono alla musica un loro marchio ben definito.
A comprovare quanto affermato è sufficiente l’ascolto di Effugium IV che, dopo un avvio tenue e sommesso, si libera poi in un magnifico assolo di chitarra che la dice lunga sul gusto melodico di cui è in possesso Guimarães.
L’album è davvero molto curato e la limpidezza dei suoni ne favorisce l’assimilazione, anche perché qui è netta la sensazione d’essere al cospetto di un artista con la A maiuscola e non di un pur valido assemblatore di suoni.
Il senso della musica, quando non è supportata dalle parole, è in fondo proprio quello di evocare quanto promesso con i titoli dell’album o dei brani, o comunque di tenere fede a quanto dichiarato dai musicisti in fase di introduzione del disco.
In questo caso, Guimarães ci suggerisce che i temi dell’album sono il sogno della fuga e la fuga stessa, dato che in un mondo disseminato di confini e di rovine, dentro e fuori di noi, la necessità di fuggire diviene impellente.
Somnium Effugium è la colonna sonora che ci accompagna in questo stato che oscilla tra l’onirico ed il reale, con i brani intitolati Somnium improntati ad un ambient piuttosto inquieta, mente gli episodi denominati Effugium sono più orientati al post rock, e in quanto tali portatori di splendide melodie chitarristiche venate di una profonda malinconia.
João regala oltre tre quarti d’ora di pennellate sonore di stupefacente profondità, inducendo alla riflessione e alla commozione, e comunque lasciando un segno profondo in chi desidera lasciarsi avvolgere dalla musica creata da questo musicista dotato di rara sensibilità.
Anche se è proprio grazie alle band più celebrate che questo stile è uscito da uno status di nicchia, il mio consiglio è quello di rivolgere l’attenzione a questi nomi minori e magari misconosciuti, la cui freschezza tiene ben alla larga il manierismo ed il rischio di tediosità che ne consegue.

Tracklist:
1.Somnium I
2.Effugium I
3.Effugium II
4.Somnium II
5.Effugium III
6.Effugium IV
7.Somnium III

Line-up
João Guimarães

WE ALL DIE! WHAT A CIRCUS! – Facebook

Lost Moon – Through The Gates Of Light

La band sforna un lavoro intenso ed originale, perché le influenze ben presenti vengono rimodellate dal trio creando una gettata hard rock/stoner a tratti pesantissima.

A dispetto dei detrattori e dei metallari duri e puri che hanno visto gli anni novanta come la morte dei suoni classici in favore di approcci più moderni e cool, questo decennio rimane il più importante per lo sviluppo della musica rock insieme agli anni settanta, un periodo di rinascita che ha portato all’attenzione degli ascoltatori una manciata di scene diventate, con il tempo, ispirazioni primarie per i gruppi del nuovo millennio.

Dall’hard rock al metal estremo, passando per il grunge, lo stoner ed il metal moderno, l’ultimo decennio del ‘900 per chi ha avuto la fortuna di viverlo musicalmente rimarrà il fulcro di quello che, in seguito, si è sviluppato.
I Lost Moon sono nati verso il finire di quel periodo e da lì hanno sviluppato il loro sound per mezzo di tre album (Lost Moon del 2001, King Of Dogs del 2007 e Tales Form The Sun licenziato tre anni fa) e ora tornano con questo nuovo lavoro, Through The Gates Of Light ottimo esempio di hard stoner rock che da quel prende lo spirito e qualche ispirazione e, grazie ad un songwriting vario, ci regalano trentacinque minuti di musica di grande livello.
I due fratelli Paolucci (Stefano – chitarra e voce – e Pierluigi – batteria),  con il fido Adolfo Calandro (basso), prendono in ostaggio lo stoner rock e lo lasciano tra le mani dell’hard rock settantiano, la psichedelia ed il southern rock e, con la guida dell’alternative metal, lo torturano fino trasformarlo in un’entità anomala ed impossibile da descrivere in senso assoluto.
La band sforna un lavoro intenso ed originale, perché le influenze ben presenti vengono rimodellate dal trio creando una gettata hard rock/stoner a tratti pesantissima.
Si passa così dalle digressioni tooliane della strumentale Through The Gates Of Light, ai Black Label Society e Kyuss della successiva Dawn, dalle sferzate metalliche di Prayer a Pilgrimage, brano che rispecchia il credo musicale dei Lost Moon esibendo una panoramica esaustiva su tutte le sfumature della loro musica.
Sempre Black Label Society ed Alice In Chains li ritroviamo in I Got A Drink e in Light Inside, mentre un sitar beatlesiano apre la conclusiva Visions, canzone che ricorda le armonie acustiche degli Zeppelin.
Album davvero bello, Through The Gates Of Light è l’imperdibile ultimo sussulto dell’anno per quanto riguarda il genere.

Tracklist
1.Through the Gates of Light
2.Dawn
3.Prayer
4.Pilgrimage
5.I Got Drunk Again
6.Light Inside
7.The Day we Broke the Spell
8.Visions

Line-up
Stefano Paolucci – Guitars .Vocals
Pierluigi Paolucci – Drums
Adolfo Calandro – Bass

LODT MOON – Facebook

Virgil & Steve Howe – Nexus

Nexus è un album carezzevole, dolcemente triste per gli avvenimenti che lo hanno preceduto, ma meritevole di essere apprezzato per quello che è, ovvero un bellissimo quadro musicale dai tenui colori.

Quello che doveva essere il primo frutto di unacollaborazione in famiglia, a lungo attesa, si è purtroppo trasformato in un album postumo.

Il figlio di Steve Howe (chitarrista degli storici Yes), Virgil, è mancato subito dopo la fine delle registrazioni di Nexus, album strumentale che il padre ha voluto comunque licenziare in accordo con la InsideOut; a due mesi dalla morte del polistrumentista e figlio d’arte, Nexus vede la luce e si porta con sé tutte le emozioni scaturite da questo tragico evento.
Virgil Howe, che ha lasciato questo mondo nel mese di settembre, ultimamente era impegnato come batterista nei Little Barrie: l’album, interamente strumentale, è un elegante viaggio nel mondo musicale di Virgil, anche valido tastierista e bassista nonché brillante compositore, aiutato dal genio chitarristico del padre, splendido interprete nel ruolo di una delle più grandi band che il mondo del rock abbia regalato ai suoi fedeli ascoltatori.
Nexus si anima di un arcobaleno di suoni delicati (progressive, space rock, digressioni jazz) nati con l’ausilio di piano e tastiere, protagonisti in tutto il suo svolgimento e valorizzato dagli interventi di Steve (Hight Hawk in questo senso è il picco del lavoro).
Ovviamente non mancano attimi in cui rivivono le sognanti trame progressive dello storico gruppo britannico, ma la personalità compositiva di Virgil porta il sound ad avvicinarsi maggiormente alla psichedelia , viaggiando delicata su nuvole composte da note di raffinato rock strumentale dove la bravura tecnica dei due Howe è al servizio delle emozioni.
Nexus è un album carezzevole, dolcemente triste per gli avvenimenti che lo hanno preceduto, ma meritevole di essere apprezzato per quello che è, ovvero un bellissimo quadro musicale dai tenui colori.

Tracklist
1. Nexus
2. Hidden Planet
3. Leaving Aurura
4. Nick’s Star
5. Night Hawk
6. Moon Rising
7. Passing Titan
8. Dawn Mission
9. Astral Plane
10. Infinite Space
11. Freefall

Line-up
Virgil – Keyboards, piano, synths, bass & drums
Steve – Acoustic, electric, & steel guitars

STEVE HOWE – Facebook

Wasted Theory – Defenders Of The Riff 2017 Edition

I Wasted Theory sono semplicemente uno dei gruppi più divertenti e rumorosi che potrete trovare in giro, e Defenders Of The Riff è un disco completo e da sentire dall’inizio alla fine, possibilmente consumando droghe ed alcool.

Ristampa con bonus tracks del secondo disco dei Wasted Theory, ad opera dell’italiana Argonauta Records.

Wasted Theory sono semplicemente uno dei gruppi più divertenti e rumorosi che potrete trovare in giro, e Defenders Of The Riff è un disco completo e da sentire dall’inizio alla fine, possibilmente consumando droghe ed alcool. Il rumore ci salverà, ed in particolare quello di questi americani del Delaware è davvero bello pieno e invita ad un ascolto ripetitivo. Le radici del loro suono sono da ricercare all’indietro nei Kiss e in gruppi come in Thin Lizzy, ovvero rock and roll bastardo, per poi ridiscendere fino a band come High On Fire ed altri, però più duri. I Wasted Theory hanno un suono sudista, che unito ad una fortissima ironia rende molto bello il tutto. Nel loro suono si può adirittura rintracciare qualcosa di blues, ma più che altro nella loro maniera di porsi ed in alcuni giri di chitarra. Il titolo rende benissimo ciò che ascolterete, dato che i riff qui sono tutti validissimi e raggiungono pienamente il loro scopo. Ci sono momenti più veloci, altri più lenti e pesanti, ma ciò che non manca mai è quella sensazione di divertimento e di ascolto di un gruppo che è totalmente in controllo, e che si diverte talmente che straripando lo trasmette al suo pubblico. Certe ripartenze sono degne dei migliori Karma To Burn, ma i Wasted Theory sono di maggior coinvolgimento e comprensione. Southern rock e metal, hard rock, stoner, desert ed un pizzico di heavy metal classico sono solo alcuni degli ingredienti di questo buonissimo moonshine potente ed inebriante. Nel 2016 molti addetti ai lavori hanno incluso questo disco nella loro list di migliori uscite dell’anno, ed in questa ristampa potrete gustare due killer cover di un brano degli Alabama Thunderpussy ed uno dei Nazareth. Lunga vita ai difensori del riff.

Tracklist
1.Get Loud or Get Fucked
2.Black Witch Blues
3.Atomic Bikiniwax
4.AmpliFIRE!
5.Gospel of Infinity
6.Belly Fulla Whiskey
7.Under The Hoof
8….And The Devil Makes Three
9.Throttlecock
10.Odyssey Of The Electric Warlock
11.Rockin’ is Ma Business (ALABAMA THUNDERPUSSY)
12.Changin’ Times (NAZARETH

Line-up
Brendan Burns,
Larry Jackson Jr.
Andrew Petkovic
Rob Michael

WASTED THEORY – Facebook

In Lights – This is How We Exist

This is How We Exist è lo splendido esordio su lunga distanza di una band che, in un futuro, prossimo, potrebbe collocarsi stabilmente ai piani più altri del post rock strumentale.

Gli In Lights sono un gruppo californiano a forte trazione asiatica, viste le origini di 4/5 dei musicisti coinvolti,
e di questo risente anche il post rock che la band propone essendo intriso di una spiritualità più spiccata rispetto a quella tipica delle culture occidentali.

A livello stilistico i canoni del genere non vengono stravolti e quello che viene offerto dagli In Lights è un sound lieve, melodico e interamente strumentale, il cui elemento di peculiarità è costituito dal violino (suonato da Tianyang Wei ) che qui riveste un ruolo molto importante assieme al lavoro chitarristico di Li He e Bosen Li.
Non ho mai lesinato critiche alla scelta praticata da molte (troppe?) band nell’offrire musica interamente strumentale, ma va detto che ciò spesso coincide con l’esibizione di un sound magari valido ma incapace di reggersi da solo senza l’ausilio delle parti cantate: questo non avviene con gli In Lights, capaci di avvolgere ma anche di colpire con improvvisi affondi melodici anche l’ascoltatore più scettico.
L’opener Forward è una perla musicale che spalanca una strada luminosa lungo la quale questi ragazzi di stanza a San Josè regalano emozioni a profusione, grazie a sonorità cristalline, curat20e e, soprattutto, frutto di un sentire profondo e non di uno sterile manierismo.
Come suggerisce il monicker, la musica degli In Lights è luminosa ma non è certamente scevra di una certa malinconia, espressa particolarmente in un altro gioiello come quello intitolato Memory, che viene poi replicato da Dream, dai toni però ancor più pacati e rarefatti; d’altro canto l’incedere dei singoli brani corrisponde in maniera piuttosto calzante ai rispettivi titoli, il che diviene ancor più un valore aggiunto per un’opera di natura strumentale.
Il mantra Om Namah Shivaya chiude nel migliore dei modi This is How We Exist, splendido esordio su lunga distanza di una band che, pur facendo proprio il vissuto di una cospicua lista di nomi che vanno dai Sigur Ros ai God Is An Astronaut, passando per i per Collapse Under The Empire, esibisce una cifra stilistica sicuramente personale e di qualità inattaccabile: pertanto non ci sarebbe da stupirsi se, in un futuro, prossimo il nome degli In Lights dovesse assurgere stabilmente ai piani più altri del post rock strumentale.

Tracklist:
1.Forward
2.Search
3.Before
4.Memory
5.Dream
6.Spring
7.Om Namah Shivaya

Line-up
Li He – Guitar
Bosen Li – Guitar
Long Jin – Drums
Ted Pederson – Bass
Tianyang Wei – Violin

IN LIGHTS – Facebook

Rise Of The Wood – First Seed

Il sound di First Seed è tutto meno che una sorpresa per gli ascoltatori del genere, il gruppo orange spacca i timpani con una serie di riff scavati nella roccia sabbathiana, passati a fil di spada sopra dirigibili persi nei cieli degli anni settanta e strafatti con radici trovate sotto la sabbia nella Sky Valley.

Pesante come il mammouth raffigurato in copertina, arriva sul mercato First Seed, primo lavoro degli olandesi Rise Of The Wood, quintetto dedito ad uno stoner ispirato dall’hard rock settantiano e dalla musica desertica statunitense.

Niente di nuovo sotto il sole a picco sulle pianure sotto il livello del mare, trasformate dalla band in un meno confortevole deserto aldilà dell’oceano.
Il sound di First Seed è tutto meno che una sorpresa per gli ascoltatori del genere, il gruppo orange spacca i timpani con una serie di riff scavati nella roccia sabbathiana, passati a fil di spada sopra dirigibili persi nei cieli degli anni settanta e strafatti con radici trovate sotto la sabbia nella Sky Valley.
Potenza e melodia, molte parti acustiche, sfumature ed atmosfere che passano dal vintage al moderno con facilità sorprendente e tanto rock stonato fanno dell’album una buona partenza per i Rise Of The Wood, i quali ignorano  chi li accusa di poca personalità e vanno per la loro strada con una manciata di brani (Red Snake, Hell Yeah, Loner Jack e Rise Of The Wood) che spingono la tracklist su un livello più che buono, forte di questo alternare stoner pressante e potente e hard rock.
Nol Van Vliet e compagni giocano con i cliché del genere con buona pace di chi cerca la chimera dell’originalità: First Seed è un buon lavoro di genere, piacevole e potente il giusto per trovare consensi a prescindere se siete amanti dello stoner o fedeli ascoltatori dell’hard rock suonato negli anni settanta.

Tracklist
1.Red Snake
2.Hell Yeah
3.After This I’ll Is Never
4.Slab City
5.Hyperspeed
6.The Dark
7.Loner Jack
8.Liberate
9.war Inside
10.Rise Of The Wood
11.Faded Horizon

Line-up
Nol Van Vliet – Vocals
Jeff Teunissen – Guitars
Ronald Boonstra – Guitar
Alex Wijnhorst – Bass
Erik stolze – Drums

RISE OF THE WOOD – Facebook

De La Muerte – Venganza

Immaginate la frontiera messicana di film come El Mariachi o Machete raccontata tramite una colonna sonora che amalgama metal classico, hard rock, groove ed atmosfere tradizionali, suonata ed interpretata da un vocalist eccezionale ed avrete un’idea più o meno esatta di quello che i De La Muerte intendono per musica metal.

Sorprendente e micidiale, un massacro sonoro che ricorda i film di Tarantino e Rodriguez, un concept ispirato al culto messicano della Nuestra Señora de la Santa Muerte ed un metal che passa con disinvoltura da potentissime cavalcate power/heavy metal ad un hard rock contaminato dalla musica tradizionale messicana in un delirio di pallottole che saltano dai caricatori e si infilano nei corpi martoriati, esplodono in cascate di sangue e materia cerebrale per lasciare solo morte.

Signore e signori, siamo nel mondo dei De La Muerte, gruppo romano che con Venganza dà un seguito al primo bellissimo lavoro omonimo licenziato tre anni fa: immaginate la frontiera messicana di film come El Mariachi o Machete raccontata tramite una colonna sonora che amalgama metal classico, hard rock, groove ed atmosfere tradizionali, suonata ed interpretata da un vocalist eccezionale come Gianluca Mastrangelo ed avrete un’idea più o meno esatta di quello che i De La Muerte intendono per musica metal.
Come il primo album, Venganza vive alternando tutte queste sfaccettature risultando un album vario ed assolutamente originale, passando con una facilità sorprendente dal sound “messicano” dell’intro Theme Of Revenge, al metal moderno e rabbioso di De La Muerte e all’hard rock’n’roll di Lady Death e siamo solo al terzo brano.
Registrato, mixato e masterizzato da Simone Mularoni ai Domination Studio, l’album esplode in fuochi d’artificio metallici come in una festa patronale in qualche cittadina sperduta del centro America, l’altalena tra tra generi e sfumature continua imperterrita con Mastrangelo che impazza tra mille tonalità, mentre Gambling In Hell ci ricorda che il deserto ci circonda ed il groove ci prende per mano prima di venire giustiziati con una pallottola piantata nel cranio.
La maideniana The Last Duel, la “metallica” (Black Album style) How Do You feel?, la bellissima cover dei Los Lobos Canción del Mariachi ed il crescendo conclusivo della varia e a suo modo progressiva Scream Of Madness arricchiscono un album travolgente dalla prima all’ultima nota.
Secondo straordinario lavoro di una delle realtà più brillanti della scena metal nazionale, fatevi un favore e non perdetevi Venganza, per una volta i soliti ascolti possono rimanere al loro posto sulla vostra mensola.

Tracklist
01 – Theme of Revenge
02 – De La Muerte
03 – Lady Death
04 – The Last Duel
05 – Gambling in Hell
06 – Heart of Stone
07 – Death Engine
08 – How Do You Feel?
09 – Horizon – De
10 – Canción del Mariachi – Los Lobos Cover
11 – Scream Of Madness – De La Muerte

Line-up
Gianluca Mastrangelo – Vocals
Gianluca Quinto – Guitars
Christian D’Alessandro – guitars
Claudio Michelacci – Bass
Luca Ciccotti – Drums

DE LA MUERTE – Facebook

Thungur – No Going Back

No Going Back si sviluppa lungo undici brani di hard rock moderno, dai rimandi stoner e psichedelici, americano di ispirazione, pesante nelle ritmiche e dal groove bene in evidenza.

Arrivano all’esordio sulla lunga distanza i rockers svedesi Thungur, nati tre anni fa e con due lavori minori alle spalle, la raccolta di singoli The Village Sessions e l’ep The Cage, licenziati nel 2015.

No Going Back si sviluppa lungo undici brani di hard rock moderno, dai rimandi stoner e psichedelici, americano di ispirazione, pesante nelle ritmiche e dal groove bene in evidenza.
La parte psichedelica, anche se rimane in ombra rispetto alle influenze hard rock. porta il sound su territori cari ai Tool, mentre fanno capolino nei brani più leggeri accenni al post grunge.
Ne esce un lavoro magari poco originale ma sicuramente d’impatto, specialmente quando la band decide di picchiare con forza sugli strumenti senza rinunciare alla melodia (White Lies, Pink Champagne).
Il quartetto di Malmö (ma con un vocalist islandese, Kristjan Samuelsson) non impiega molto a convincere gli amanti del rock pesante da rotazione televisiva, con le allusioni ai Tool che si ammorbidiscono quando il sound si sposta verso i Nickelback o si stonerizza con l’influsso dei Kyuss, mentre No Going Back scorre liscio sino alla conclusione tra brani più pesanti, altri più intimisti o valorizzati da buone melodie.
Ancora il singolo Animals, la ballad acustica Breathe Under Water e la pesantissima e cadenzata Trigger fanno dell’album una buona uscita per quanto riguarda queste sonorità, anche se la strada per una definitiva affermazione è ancora lunga come quelle che separa il Nordeuropa dall’America.

Tracklist
1.White Lies
2.Abandon
3.Nightmare
4.Pink Champagne
5.Animals
6.Rainmaker
7.Temptation
8.Breathe Under Water
9.Bay Harbour
10.Trigger
11.Skin [ink]

Line-up
Kristjan Samuelsson – Vocals, Guitar
Bjorn Stegerling – Guitar
Roger Nielsen – Bass, Vocals
Andreas Albihn – Drums

THUNGUR – Facebook

Cradle Of Haze – Sirenen

Musica della notte, oscura e melanconica, linfa e sangue per i vampiri da club mitteleuropei, ma ottimo anche per chi normalmente predilige ascolti più cool come il gothic metal.

Tornano dopo quattro anni i Cradle Of Haze, duo tedesco attivo da quasi vent’anni e con una discografia che conta altri dieci full length.

Sirenen è dunque l’undicesimo album di questa dark gothic band che segue la tradizione del genere radicata nel loro paese, cantato rigorosamente in lingua madre e completato da una versione remix, inclusa nella confezioni, di sette dei quattordici brani proposti da Thorsten Eligehausen e Anni Meier.
L’album si ascolta piacevolmente, i brani sotto l’aspetto melodico sono ottimi, le ritmiche seguono la marzialità del sound dei Rammstein ma senza toccare assolutamente lidi metallici e rimanendo ancorato piuttosto alle oscure trame dark rock che al sottoscritto hanno in più di una occasione ricordato i Lacrimosa di Tilo Wolf.
Molto dark rock, sfumature gotiche ed elettronica presa in prestito dalla new wave ottantiana è ciò che contiene Sirenen, con il vocione di Eligehausen reso ancor più aspro dalla lingua tedesca, mentre tappeti di synth e ottime aperture chitarristiche rendono l’ascolto vario e dall’ottimo appeal.
Siamo nel più puro sound della notte e dall’opener e primo singolo Alphatier si entra nel mondo delle luci soffuse, degli indumenti in lattice e delle lascive tentazioni, mentre i brani si susseguono e si arriva in fondo alzando il volume sempre più.
Per chi ha vissuto senza paraocchi gli anni d’oro del dark rock, Sirenen è un ottimo ritorno alle atmosfere che hanno influenzato non poco il gothic metal odierno, ovviamente sotto una forma più liquida dove l’elettronica ha un’importanza fondamentale.
Musica della notte, oscura e melanconica, linfa e sangue per i vampiri da club mitteleuropei, ma ottimo anche per chi normalmente predilige ascolti più cool come appunto il gothic metal.

Tracklist
1. Kinder der Nacht
2. Alphatier
3. Kein Ideal
4. Sternenlicht
5. Ohne dich
6. Sirenen
7. Lied 07
8. Vagabunden
9. Seine Sicht
10. Seid ihr bereit
11. Kellerspiele
12. Lobotomie
13. Du schmeckst so gut
14. Hannahs Song

Remix Edition:
1. Kinder der Nacht (Narcotic Elements Remix)
2. Alphatier (Narcotic Elements Remix)
3. Kein Ideal (Narcotic Elements Remix)
4. Sternenlicht (Narcotic Elements Remix)
5. Sirenen (Narcotic Elements Remix)
6. Kellerspiele (Narcotic Elements Remix)
7. Du schmeckst so gut (Narcotic Elements Remix)

Line-up
Thorsten Eligehausen – All music, lyrics, instruments, vocals
Anni Meier – Backing vocals

Special guest: Marc Vanderberg (guitar solo on Hannahs Song)

CRADLE OF HAZE – Facebook

Bluestones – Groupie

Grunge, stoner, alternative metal e sferzate hardcore sono le carte giocate dai Bluestones per rendere il loro lavoro il più vario possibile, aggiungendo un tocco di insana psichedelia e poderose frustate noise.

Questo lavoro è dedicato alle muse del rock, insostituibili presenze e prime fans dei gruppi che a queste ancelle della musica del diavolo dedicavano brani od interi album: le groupies, deliziose e procaci ragazze che prima dell’uomo adorano il musicista, un po’ streghe , un po’ angeli, ognuna con la sua storia da raccontare tra bordo, palchi e letti sfatti in stanze di alberghi distrutte in giro per il mondo.
E i Bluestones alle groupies hanno dedicato questo interessante secondo album, che segue di quattro anni Born in a Different Cloud, primo lavoro su lunga distanza rigorosamente autoprodotto.
Il trio proveniente da Reggio Calabria, composto da Roberto Iero (voce e chitarra), Vincenzo Cuzzola (batteria) e Alessandro Romeo (basso), ci fa partecipi di un’opera emozionante, dura e non facile da assimilare in poco tempo, anche per l’ora di durata in tempi in cui sono considerati full lenght album che non superano nemmeno la metà del tempo necessario per lo sviluppo del concept di Groupie.
La musica con cui i Bluestones raccontano il lato rosa ed un po’ malinconico del rock e del suo mondo è un alternative rock dalle mille sfumature, influenzato ed ispirato da generi diversi ma perfettamente maneggiati ed amalgamati tra le note dell’album.
Grunge, stoner, alternative metal e sferzate hardcore sono le carte giocate dai Bluestones per rendere il loro lavoro il più vario possibile, aggiungendo un tocco di insana psichedelia e poderose frustate noise.
Ne esce un album affascinante, una raccolta di brani che attraversano il mondo del rock moderno con una personalità debordante, aiutata da una preparazione tecnica che permette ai tre musicisti di giocare con lo spartito a loro piacimento.
Si passa da canzoni più lineari a lunghe jam, valorizzate da un ottimo songwriting e da una valanga di idee vincenti che ad ogni passaggio appaiono sempre più in evidenza, dallo swing, al rock’n’roll, dal punk a passaggi cadenzati al limite del doom.
Tra le tracce presenti, tutte di livello qualitativamente alto, l’opener Worn-Out Organism, l’hardcore/punk Death By Fire, la psichedelica Mantide ed il bellissimo strumentale C.Mazzone sono i brani che più colpiscono l’ascoltatore che, ad un successivo ascolto, troverà in altre canzoni più di un motivo per innamorarsi di Groupie.

Tracklist
1.Worn-out Organism (To Dance on Fate)
2.Death by Fire
3.Vs (Break the Inertia)
4.My Hurricane
5.Mantide
6.Pre/Scylla (Intro)
7.Scylla
8.Pin-up Groupies
9.C. Mazzone (Instrumental)
10.Slave
11.To Those Who Left Us

Line-up
Roberto Iero – Vocals, Guitars
Vincenzo Cuzzola – Drums
Alessandro Romeo – Bass

BLUESTONES – Facebook

Collapse Under Empire – The Fallen Ones

Non è solo post rock, o decostruzione dei fondamentali di quest’ultimo, ma qualcosa che si lega indissolubilmente alla nostra anima, e ci ricorda che non siamo solo corsa, fatica e numeri su un bancomat.

Definire i Collapse Under Empire un gruppo post rock è alquanto limitante nei loro confronti.

Certamente il loro genere di appartenenza è questo ibrido di rock ed altre cose, un dilatarsi moderno ma allo stesso molto antico per quello che provoca dentro chi lo sente e lo apprezza. I Collapse Under Empire hanno la missione di espandere la nostra coscienza, ma soprattutto di abbattere i confini dei nostri angusti mondi e proiettarci oltre, molto otre, per sfuggire alla bruttezza ed alla limitazione delle nostre vite. The Fallen Ones è il sesto disco di questo gruppo di Amburgo, ed è un cominciare a girarsi indietro ed omaggiare chi è caduto al nostro fianco, in un’età non più verde dove coloro che sono rimasti indietro cominciano ad essere molti. Una delle chiavi di lettura di questo disco, come di tutta la discografia dei Collapse Under Empire, è l’empatia, questo sentire insieme, l’avere le stesse emozioni, e qui di emozioni ce ne sono tante. Bisogna chiudere gli occhi e lasciarsi andare a suoni che non hanno nulla di predefinito o di caratterizzante, ma servono per raggiungere uno scopo, quello di emozionare l’ascoltatore; ci sono momenti di autentica beatitudine,  nei quali si viene trasportati in iperuranio dove la sofferenza è sublimata e la si rivive in un’altra maniera. Troppo spesso ci affanniamo, corriamo intorno alla nostra coda senza mai prenderla, mentre ci si dovrebbe fermare ed elevarsi al di sopra, ascoltando un disco come questo, un piccolo bosco incantato dove ci si può permettere una breve sosta per una magnifica terapia. I vari suoni del gruppo che scorrazza per generi diversi, cercando e trovando sempre la giusta soluzione sonora, ci portano in uno stato zen di calma e di contemplazione della bellezza, un ascoltare finalmente qualcosa di bello, di prezioso ed importante. Inoltre il duo tedesco ha una facilità di spiegarsi attraverso la sua musica, ed una grande umiltà che a volte spiazza. Non è solo post rock, o decostruzione dei fondamentali di quest’ultimo, ma qualcosa che si lega indissolubilmente alla nostra anima, e ci ricorda che non siamo solo corsa, fatica e numeri su un bancomat.

Tracklist
1.Prelude
2.The Fallen Ones
3.Dark Water
4.A Place Beyond
5.Blissful
6.The Forbidden Spark
7.The Holy Mountain
8.Flowers from Exile
9.The End Falls

Line-up
Martin Grimm
Chris Burda

COLLAPSE UNDER EMPIRE – facebook

Descrizione Breve

Autore
Massimo Argo

Voto
85

Genere – Sottogeneri – Anno – Label
Post Rock

Landscape

Cinematic

2017

Fall Has Come – Nowhere

I Fall Has Come continuano ad attraversare in lungo ed in largo l’America, senza scendere troppo a sud come nel primo album, ma riuscendo ad imprimere il loro marchio su una track list che avvicenda hard rock melodico a sferzante metallo alternativo valorizzato da melodie dall’appeal vincente.

I campani Fall Has Come tornano dopo due anni dal debutto con un nuovo lavoro e confermano quanto di buono si era scritto all’epoca dell’uscita di Time To Reborn.

La band guidata dal cantante Enrico Bellotta, dopo l’uscita dell’album precedente non è stata certo a guardare e ha girato per lo stivale e oltre confine suonando e calcando palchi, accumulando esperienze e stringendo amicizie: tutto questo è raccontato su Nowhere, nuovo album in uscita per Sliptrick Records e registrato a Napoli nei Black Eight Studio.
Questa sorta di diario in musica ci presenta una band compatta e affiatata, perfettamente in grado di reggere l’importante prova del secondo album senza deludere chi aveva apprezzato il sound proposto sul precedente lavoro.
E la musica non cambia, Bellotta è sempre il bravissimo cantante apprezzato in passato, il songwriting è ancora una volta di alto livello e l’innata propensione a creare melodie vincenti continua a mietere vittime anche su Nowhere.
Si parlava di rock americano, e infatti i Fall Has Come continuano ad attraversare in lungo ed in largo l’America, senza scendere troppo a sud come nel primo album, ma riuscendo ad imprimere il loro marchio su di una track list che avvicenda hard rock melodico a sferzante metallo alternativo valorizzato da melodie dall’appeal vincente.
Una manciata di hit che farebbero sciogliere le radioline nelle stanze dei college statunitensi, qualche accenno al new alternative metal ed atmosfere che si fanno epiche in un paio di canzoni capolavoro come l’opener Believe (che sa tanto di U2) e la stupenda Breathless, fanno di Nowhere un album dalle potenzialità enormi esaltato da un cantante che (senza sminuire il gran lavoro dei suoi compagni) è fuori categoria per il genere, strappando applausi in ogni sfumatura che caratterizza la sua performance.
Nowhere è un album nato per essere suonato dal vivo, una raccolta di brani memorizzabili e che non faranno prigionieri sotto un palco che brucerà come la fiamma del rock al suono delle varie Last Begin, Our Lives e One Minute To Be Alive.

Tracklist
01. Believe
02. Last Begin
03. Our Lives
04. Awaken
05. Carillon
06. Breathless
07. In Everything
08. It’s Over
09. One Minute To Be Alive
10. The Long Way To Run To Be A Human Again

Line-up
Enrico Bellotta – Vocals
Enrico Pasarella – Guitar
Raffaele Giacobbone – Guitar
Salvatore Laurella – Drums
Alberto Laurella – Bass

FALL HAS COME – Facebook

Unmask – One Day Closer

Gli Unmask sanno come amalgamare le varie ispirazioni cercando di apparire il più personali possibile e ci riescono, anche grazie ad un’ottima padronanza degli strumenti ed un songwriting che non scade mai troppo nel cerebrale e non esce dai binari di un ascolto che rimane interessante per tutta l’ora di durata dell’album.

Post rock, post metal, post dark, post progressive, la nuova moda che fa tanto cool è piazzare un bel post davanti ai soliti generi per avere qualcosa di nuovo su cui costruire una descrizione di un album o di una band, dicendo tanto o nulla a seconda dei casi.

Parla come sempre la musica, che viene manipolata dagli artisti a loro piacimento per donarla a chi ha la fortuna di poterla ascoltare.
Gli Unmask per esempio fanno rock progressivo, moderno, intimista e dal taglio alternativo ma pur sempre rock, il loro sound li porta a sedersi vicino a chi, nel nuovo millennio si è arricchito dell’eredità musicale dei Tool e dei Porcupine Tree, l’ha manipolata con il metal e l’ha rivestita di stoffa dark.
Nato a Roma più di dieci anni fa e con un primo lavoro (Sophia Told Me) licenziato nel 2010, il gruppo torna con One Day Closer, un album che sposa le varie sfumature del rock alternativo internazionale del nuovo millennio, di questi tempi non più una sorpresa, ma sicuramente un buon modo per fare rock al giorno d’oggi.
L’album è quindi un tuffo nelle sonorità moderne che hanno reso ancora più elaborato ed intimista il genere, e gli Unmask sanno come amalgamare le varie ispirazioni cercando di apparire il più personali possibile e ci riescono, anche grazie ad un’ottima padronanza degli strumenti ed un songwriting che non scade mai troppo nel cerebrale e non esce dai binari di un ascolto che rimane interessante per tutta l’ora di durata dell’album.
Musica che va comunque assimilata, dandole il tempo necessario per rendere affascinante l’ascolto di brani come Far Away, Childhood e soprattutto la splendida Now (l’unica traccia che porta con sé note progressive tradizionali) e  facendosi spazio in chi si lascerà ipnotizzare dai saliscendi umorali della musica degli Unmask.
Ottimo il singolo Memento, mentre la conclusiva Frammenti, unico brano cantato in italiano, chiude il lavoro e mette la parola fine su un album sentito, emozionale e ben suonato, vario negli umori e nelle sensazioni e con quel tocco passionale tutto Made in Italy.

Tracklist
1.Flowing
2.Far Away
3.Midnight Date
4.Childhood
5. Wanted
6. Now
7. Margot
8. Memento
9. Ancièn Regime
10. Frammenti

Line-up
Ignazio Iuppa – Voicals, Piano and Synth
Claudio Virgini – Guitars
Daniele Scarpaleggia – Bass guitar
Dario Santini – Drums

UNMASK – Facebook

Howling Giant – Black Hole Space Wizard: Part 2

L’unione delle due parti dell’album (la prima è uscita lo scorso anno) farebbe di Black Hole Space Wizard un lavoro di culto almeno per gli amanti dei viaggi musicali.

Nashville, Tenneessee, in un anno imprecisato tra il 2010 ed il 2014, tre ragazzi furono invitati sul disco volante apparso vicino alla loro tenda.

Quando tornarono a terra, ancora sbalorditi e sopresi da quell’avventura fondarono una band chiamata Howling Giant, era il 2014 appunto.
Dopo tre anni i tre musicisti americani arrivano al traguardo del terzo ep, la seconda parte del concept Black Hole Space Wizard, un viaggio doom psichedelico tra lo spazio e la mente, ancora probabilmente in trip dopo l’esperienza sull’oggetto volante non indentificato.
Mezz’ora di musica rock traviata da allucinate atmosfere space stoner, l’album si dipana così in una lunga jam divisa in sei capitoli, sei trip, sei acidi trovati sulla nave interstellare che ha portato Tom Polzine, Roger Marks e Zach Wheeler in giro per l’universo.
Ora non si sa bene se i tre abbiano raggiunto una tale pace interiore, magari dovuta al contatto con menti superiori o perché si siano trovati al cospetto di diavolerie chimiche provenienti da un altro pianeta con effetti devastanti sulla mente, fatto sta che brani come l’opener Henry Tate o i sette minuti da viaggio mentale di Visions sono un micidiale cocktail space/psych/stoner rock da urlo di Munch.
L’unione delle due parti dell’album (la prima è uscita lo scorso anno) farebbe di Black Hole Space Wizard un lavoro di culto almeno per gli amanti dei viaggi musicali.

Tracklist
1.Henry Tate
2.The Pioneer
3.Visions
4.The Forest Speaks
5.Circle of Druids
6.Earth Wizard

Line-up
Tom Polzine – Guitar and Vocals
Roger Marks – Bass and Vocals
Zach Wheeler – Drums and Vocals

HOWLING GIANT – Facebook

Honeymoon Disease – Part Human, Mostly Beast

Un altro album che merita la giusta attenzione: Part Human, Mostly Beast insegue a poca distanza i migliori lavori italiani del genere, risultando un ascolto gradito anche per i rockers più attempati.

Quando si parla di hard rock o classic rock il sottoscritto va in brodo di giuggiole, e i rockers svedesi Honeymoon Disease ce la mettono tutta per non deludere le aspettative create dal loro secondo lavoro, Part Human, Mostly Beast, successore dell’ottimo The Transcendence, debutto sulla lunga distanza uscito un paio di anni fa.

Un quartetto equamente diviso tra maschietti (il bassista Nick, ed il batterista Jimi) e gentil donzelle (la singer Jenna e la chitarrista Acid), un sound coinvolgente che del classic rock si nutre irrobustendolo di watt ed una raccolta di brani piacevolmente retrò o vintage, come usa dirsi di questi tempi, ma alla fine è solo rock ‘n’ roll, o meglio hard rock pregno di blues come si usava negli anni settanta e che oggi è tornato a fare la voce grossa sul mercato musicale grazie anche alle molte realtà scandinave.
Il gruppo ha nei Thin Lizzy i suoi padrini, ed ovviamente il sound si sposta sul classic rock di matrice britannica per poi spingersi tra le strade impervie del rock e finire sperduto tra le praterie americane degli anni cinquanta, quando il rock’n’roll era valvola di sfogo del popolo di colore e Chuck Berry faceva meraviglie con Johnny B.Goode (Fly Bird, Fly High e splendida in questo senso) e Suzi Quatro e le Girlschool sono state, in epoche diverse, le riot girl, dal rock all’hard & heavy.
Rymdvals è la perla blues di un lavoro che ha non poche frecce al proprio arco: chorus azzeccati, ottimi riff ed una buona alternanza tra atmosfere più dirette e rock ed altre più vicine al metal dei primissimi anni ottanta.
Un altro album che merita la giusta attenzione: Part Human, Mostly Beast insegue a poca distanza i migliori lavori italiani del genere, risultando un ascolto gradito anche per i rockers più attempati.

Tracklist
1 – Doin’ it Again
2 – Only Thing Alive
3 – Tail Twister
4 – Rymdvals
5 – Needle In Your Eye
6 – Fly Bird, Fly High
7 – Calling You
8 – Four Stroke Woman
9 – Night By Night
10 – It’s Alright
11 – Coal Burnin’
12 – Electric Eel

Line-up
Jenna – Vocals & Guitar
Acid – Guitar
Cedric – Bass
Jimi – Drums

HONEYMOON DISEASE – Facebook

Premiata Forneria Marconi – Emotional Tattoos

Il ritorno della Premiata Forneria Marconi è il trionfo della classe, del talento e della passione, è il veicolo ideale di quelle emozioni che solo la musica sa regalare, imprimendole virtualmente sulla nostra pelle affinché si trasformino in nutrimento per l’anima.

E’ sempre difficile raccontare ciò che contiene e restituisce in termini di sensazioni un disco qualsiasi, figuriamoci se questo corrisponde al ritorno ad un album di inediti dopo oltre un decennio da parte di musicisti che hanno fatto la storia del rock progressivo, non solo in Italia.

Stiamo parlando della Premiata Forneria Marconi, band che è stata una delle tre punte del movimento tricolore negli anni settanta assieme a Banco ed Orme ma che, magari, quelli un po’ meno vetusti del sottoscritto assoceranno più naturalmente al gruppo che diede una nuova veste alle canzoni di Fabrizio De Andrè, accompagnandolo a lungo in tour ed ottenendo un enorme successo.
Il tempo passa inesorabile (sono quarantacinque gli anni che ci dividono da Storia di Un Minuto), ma i due brillanti settantenni che rispondono ai nomi di Franz Di Cioccio e e Patrick Djivas hanno ancora voglia di mostrare a tutti quanto abbiano da dire; e proprio il tempo, con il suo inesorabile trascorrere, connesso alla necessità di cogliere l’attimo e sfruttare ogni occasione senza porsi alcun limite, men che meno anagrafico, è un po’ il filo conduttore di un lavoro che non è solo splendido da un punto di vista strettamente musicale ma, appunto, da quello concettuale.
Giusto per essere chiari fin da subito, Emotional Tattoos, è quanto più lontano si possa immaginare dal fiacco ritorno di un gruppo di reduci:  Di Cioccio e Djivas, assieme al loro storico sodale Lucio Fabbri, hanno radunato attorno a loro una band che è uno spettacolare mix tra esperienza e talento; così, alle tastiere troviamo due giovani come Alessandro Scaglione e Alberto Bravin (quest’ultimo si occupa anche della backing vocals), mentre alla batteria, ad alternarsi allo storico Franz, troviamo uno dei più richiesti professionisti dello strumento come Roberto Gualdi e, infine, alla chitarra, il non facile compito di sostituire per la prima volta su un album di inediti Franco Mussida è stato affidato al napoletano Marco Sfogli, uno degli astri nascenti delle sei corde, già ampiamente apprezzato anche fuori dai nostri confini in quanto titolare del ruolo nella band che accompagna James LaBrie in veste solista.
Con queste premesse, gli scettici potrebbero continuare a ritenere che, in fondo, dal punto di vista tecnico non ci sarebbe stato nulla da eccepire a prescindere, ma riguardo ai contenuti? Ecco, qui sta il bello: i tatuaggi emotivi evocati dal titolo si stampano adornando senza soluzione di continuità la pelle dell’ascoltatore, ed ogni immagine corrisponde ad un brano che mostra una ricchezza ed una qualità che, nonostante tutto, riesce ugualmente a stupire.
Gli undici brani rappresentano un viaggio nella memoria per i più anziani e l’eccitante scoperta per i più giovani di un epopea che magari si è persa in tempo reale, ma che nulla vieta di recuperare facendola propria a posteriori: Emotional Tattoos, però, è bene ribadirlo, non ha nulla di nostalgico a livello di sonorità, bensì appare in tutto e per tutto un album assolutamente al passo con i tempi, e se l’impronta della vecchia PFM è sempre lì, ben presente nel ricordarci chi siano gli autori di Celebration (Freedom Square), sono brani dal tocco più moderno come il favoloso singolo La Lezione o caleidoscopici come La danza degli specchi, con la quale i nostri portano a scuola diverse generazioni di musicisti, a risplendere con tratti quasi accecanti all’interno di una tracklist tutta da godersi e della quale appare quanto mai superfluo, se non irrispettoso, stare a raccontarne ogni singolo episodio per filo e per segno, facendo le pulci all’operato di musicisti ai quali andrebbero piuttosto intitolate vie e piazze in segno di imperitura gratitudine.
Come ciliegina sulla torta la PFM ha pubblicato Emotional Tattoos nel formato in doppio cd offrendo agli appassionati la possibilità di ascoltare l’album sia in lingua madre che in inglese: il mio consiglio è quello di godere di entrambe le versioni, in quanto alcuni brani si esaltano nella versione anglofona (The Lesson è molto più efficace rispetto a La Lezione), mentre in altri casi l’afflato poetico che l’italiano emana a prescindere fa la differenza nel confronto tra Il Regno e We’re Not An Island e tra La Danza degli SpecchiA Day We Share.
Il ritorno della Premiata Forneria Marconi è il trionfo della classe, del talento e della passione, è il veicolo ideale di quelle emozioni che solo la musica sa regalare, imprimendole virtualmente sulla nostra pelle affinché si trasformino in nutrimento per l’anima.

Tracklist:
CD 1 – English version
1. We’re Not An Island
2. Morning Freedom
3. The Lesson
4. So Long
5. A Day We Share
6. There’s A Fire In Me
7. Central District
8. Freedom Square
9. I’m Just A Sound
10. Hannah
11. It’s My Road

CD 2 – Italian version
1. Il Regno
2. Oniro
3. La lezione
4. Mayday
5. La danza degli specchi
6. Il cielo che c’è
7. Quartiere generale
8. Freedom Square
9. Dalla Terra alla Luna
10. Le cose belle
11. Big Bang

Line-up:
Franz Di Cioccio: lead vocals, drums
Patrick Djivas: bass
Alessandro Scaglione: keyboards, Hammond, Moog
Lucio Fabbri: violin
Marco Sfogli: guitars
Roberto Gualdi: drums
Alberto Bravin: keyboards, backing vocals

PREMIATA FORNERIA MARCONI – Facebook

A Devil’s Din – One Hallucination Under God

Il terzo album dei rockers canadesi A Devil’s Din è un’ opera che si destreggia tra il rock psichedelico a cavallo tra gli anni sessanta ed il decennio successivo.

Quest’anno verrà ricordato dagli amanti del rock (oltre che per una serie di reunion più o meno riuscite) per il giusto tributo ad un album che è stato uno dei più influenti della storia della musica, SGT Pepper’s Lonely Hearts Club Band, capolavoro dei The Beatles.

Partiamo da qui per raccontarvi in due parole One Hallucination Under God, terzo lavoro sulla lunga distanza del trio canadese denominato A Devil’s Din, opera che si destreggia tra il rock psichedelico a cavallo tra gli anni sessanta ed il decennio successivo.
Il trio canadese formato da David Lines (voce, chitarra e tastiere), Tom G. Stout (basso e chitarra) e Dominique Salameh (batteria) dà un seguito al primo album uscito nel 2011 (One Day All This Will Be Yours) e a Skylight, uscito lo scorso anno, con questo buon lavoro di rock vintage che qualche tempo fa avremmo probabilmente definito nostalgico, ma che in tempi di rivalutazione delle radici della nostra musica preferita fa bella mostra di sé seguendo i deliri consumati tra erba e LSD dei quattro geni inglesi.
Ovviamente sono passati cinque decenni di rock e gli A Devil’s Din la storia la conoscono a menadito, così che il confine del loro spartito si allarga per abbracciare altre icone e la loro musica si espande, viaggiando su una nuvola di space rock progressivo.
Quaranta minuti in contemplazione, nel giardino dalle siepi formate da piante illegali, abbandonati a sogni dove si incontrano Marc Bolan, Pink Floyd (era Syd Barret) e Hawkwind, il tutto rimaneggiato a creare un cocktail letale di musica psichedelica, rock che trascende per arrivare alla mente dell’ascoltatore in mille e più forme.
Un buon lavoro di musica vintage, consigliato a vecchi rockers dai sogni flower power, o semplicemente agli amanti del rock classico. 2017 s Psychedelic Rock 7.20

Tracklist
1. Eternal Now
2. Brave New World
3. Nearly Normal
4. Home
5. Who You Are
6. Where Do We Go
7. One Hallucination Under God
8. Sea of Time
9. Evolution

Line-up
Dave Lines – Guitar/Keyboards/Vocals
Tom G. Stout – Bass/Guitar/Vocals
Dom Salameh – Drums/Perc/Vocals

A DEVIL’S DIN – Facebook

Descrizione Breve

Autore
Alberto Centenari

Voto
72

Marygold – One Light Year

One Light Year è tutt’altro che un lavoro superfluo o anacronistico e, di conseguenza, le band come i Marygold vanno solo supportate  e ringraziate per la loro impagabile passione ed i brividi che riescono a trasmettere.

La storia dei Marygold parte piuttosto da lontano, dovendo risalire alla metà degli anni novanta per trovarne la prime tracce nelle vesti di cover band dei Marillion eraFish e dei Genesis.

Dopo aver intrapreso la lodevole strada della composizione di brani originali ed aver ottenuto buoni riscontri all’epoca della loro unica uscita su lunga distanza, The Guns of Marygold, datato 2006, la band veronese ha dovuto far fronte agli intralci tipici di chi dalla musica trae gratificazioni di tutti i generi fuorché quelle economiche.
Il ritorno, concretizzatosi un paio d’anni fa e che ha dato quale frutto l’uscita di One Light Year sotto l’egida della Andromeda Relix, si può a buona ragione definire tra l’affascinante e l’anacronistico: infatti, chi ha apprezzato nello scorso secolo tali sonorità dovrebbe trovare di che compiacersi per una loro riproposizione così ortodossa ed efficace ma, d’altro canto, lecitamente molti potrebbero chiedersi se oggi abbia ancora un senso proporre qualcosa che appare così marcatamente legato ad un epopea ben definita temporalmente.
La risposta ovvia a quest’ultima domanda è che comunque la buona musica un suo senso ce l’ha sempre, sia che possa sembrare obsoleta sia che pecchi manifestamente in originalità; a tale proposito ribalto le perplessità sui molti che accorrono a frotte ad ascoltare quella stessa musica riproposta da pur ottime cover band ignorando del tutto, nel contempo, chi invece prova a rinverdirne le gesta con brani di proprio conio.
I Marygold appartengono appunto a quest’ultima categoria e non fanno nulla per nascondere la devozione per i Marillion dei capolavori corrispondenti ai primi tre full length della loro discografia e, conseguentemente, anche quella per i primi Genesis, oltre a riferimenti ad altre importanti band della seconda ondata del prog inglese come gli IQ e i Pendragon.
Le composizioni che fanno parte di One Light Year sono facilmente riconoscibili per le loro trame grazie a un tocco tastieristico e chitarristico inconfondibile e un cantato che si ispira all’accoppiata Gabriel/Fish, con risultati apprezzabili per intensità anche se brillando un po’ meno rispetto alla sezione strumentale.
Il progressive dei Marygold è competente, elegante ed ispirato il giusto per rispedire al mittente qualsiasi obiezione: i sette lunghi brani non cambieranno la storia del genere ma sicuramente sono funzionali a rinsaldarne il peso all’interno della musica contemporanea: perché, diciamolo forte e chiaro, ascoltare queste canzoni nelle quali una chitarra rotheryana regala più di un passaggio da ricordare è un qualcosa che fa bene all’animo e allo spirito di chi quei bei tempi un po’ li rimpiange, non solo per motivi strettamente musicali.
One Light Year si trasforma così in un sempre gradito e ben poco disagevole viaggio a ritroso nel tempo: per quanto mi riguarda, l’ascolto di brani splendidi come Spherax H2O e Without Stalagmite (ne cito due quali esempi ma il discorso lo si può fare indistintamente anche per le altre cinque tracce) si rivela come una sorta di ritorno a casa, dove ad attendermi ci sono i dischi e le musicassette del genere che mi hanno sempre accompagnato fin dall’adolescenza, facendomi scoprire quanto siano irrinunciabili le emozioni che le sette note possono donare.
Ecco elencati i motivi per cui One Light Year non è affatto un lavoro superfluo e perché, piuttosto, le band come i Marygold vadano solo supportate  e ringraziate per la loro impagabile passione ed i brividi che riescono a trasmettere.

Tracklist:
Ants in the Sand
2.15 Years
3.Spherax H2O
4.Travel Notes on Bretagne
5.Without Stalagmite
6.Pain
7.Lord of Time

Line up:
Guido Cavalleri – Voce, Flauto
Massimo Basaglia – Chitarre
Marco Pasquetto – Batteria
Stefano Bigarelli – Tastiere
Baro – Basso

MARYGOLD – Facebook

Vinnie Jonez Band – Nessuna Cortesia All’Uscita

I Vinnie Jonez sono un gruppo fuori dal comune, hanno molti pregi ma uno su tutti è quello di raccontare storie in maniera mirabile ed introspettiva, con una sostanza musicale che è una ottima mistura di rock pesante, stoner e tanto, tanto grunge, sia nel dna che nell’espressione sonora.

Il nome Vinnie Jonez Band già dovrebbe risvegliare qualcosa in chi ama improbabili centrocampisti gallesi, molto più a loro agio a sudare nell’ombra e a mangiare polvere, ma sono questi i nostri eroi preferiti, e questo gruppo musicale di Palestrina lo ha capito perfettamente.

In questo album d’esordio troverete una rara maniera di elaborare rock pesante in lingua italiana, come non si sentiva da tempo. Le coordinate sono da ricercarsi oltreoceano per le modalità, ma come stile è tutto italiano, proveniente da quella scuola che arriva da molto lontano, ma è passata per gruppi come i Ritmo Tribale, i Timoria nella loro età di mezzo e tanti altri, magari misconosciuti. I Vinnie Jonez sono un gruppo fuori dal comune, hanno molti pregi ma uno su tutti è quello di raccontare storie in maniera mirabile ed introspettiva, con una sostanza musicale che è una ottima mistura di rock pesante, stoner e tanto, tanto grunge, sia nel dna che nell’espressione sonora. Non ci stancheremo mai di dire quanto il grunge abbia e stia influenzando un certo tipo di musica e di gruppi, e si potrebbe addirittura affermare che non sia stato mai vivo come ora. La dimostrazione è questo album, Nessuna Cortesia All’Uscita, un piccolo capolavoro di come si possa coniugare musica interessante e grandi testi in italiano. Non c’è nulla di scontato in questo disco, ma una materia che viene fuori a poco a poco, che proviene dalle nostre interiora, e cresce solo se scaviamo dentro. Il rock pesante dei Vinnie Jonez Band è una proposta che mancava nel novero dei gruppi underground italiani, ed è assolutamente da sentire, sia per chi ha amato alla follia gli anni novanta sia per chi ama il rock pesante fatto con classe, e qui ne trovate molta, assieme ad altrettante idee.

Tracklist
01. Polvere
02. Silenzio
03. Vipera
04. Corri
05. Supernulla
06. Idolum
07. Sangue
08. Mi chiamo fuori
09. Nessuna cortesia

Line-up
Gianluca Sacchi – voce e chitarra
Marco Cleva – chitarra
Ludovico Gatti – basso
Andrea Ilardi – batteria

VINNIE JONEZ BAND – Facebook