Svartanatt – Starry Eagle Eye

Più convinzione nei propri mezzi, un sound che sposa atmosfere drammatiche, le tastiere dal mood profondo e porpora, ed un’altra ottima interpretazione del buon Jani Lehtinen al microfono, fanno del nuovo album un passo deciso verso una qualità artistica superiore.

A distanza di un anno dal buon esordio omonimo, tornano i rockers svedesi Svartanatt con il secondo album licenziato dalla The Sign Records.

Si continua a parlare di rock vintage anche in questo inizio d’anno ed il gruppo nordico, con questo Starry Eagle Eye, si inserisce di prepotenza tra le migliori realtà espresse ultimamente dalla scena scandinava, migliorando sensibilmente il proprio sound rispetto al disco precedente.
Più convinzione nei propri mezzi, un sound che sposa atmosfere drammatiche, le tastiere dal mood profondo e porpora, ed un’altra ottima interpretazione del buon Jani Lehtinen al microfono, fanno del nuovo album un passo deciso verso una qualità artistica superiore.
Parliamo sempre di hard rock a cavallo tra i sessanta ed il decennio successivo, pregno di sfumature blues e psichedeliche e mai sopra le righe per potenza, eppure la band una spinta in più la mette (Duffer) per non far perdere l’attenzione ai rockers dai gusti hard & heavy, ma è con brani  drammatici e carichi di pathos che gli Svartanatt convincono maggiormente.
Wolf Blues e Universe Of sono due perle blues che mescolano Beatles e Deep Purple in un vortice psichedelico, mentre il sound si fa più americano rispetto al passato, lasciando profumi d’asfalto bruciato in Hit Him Down e The Lonesome Ranger.
Più diretto del predecesore, Starry Eagle Eye ha una produzione secca e live e i brani se ne giovano, intrisi di atmosfere da jam, proprio come negli anni d’oro del hard rock blues.
Prodotto negli studi Soundtrade di Emil Drougge, l’album come detto è un notevole passo avanti per la band di Stoccolma, quindi assolutamente consigliato a chi del rock classico non può fare a meno.

Tracklist
1.The Children Of Revival
2.Wrong Side Of Town
3.Starry Eagle Eye
4.Duffer
5.Wolf Blues
6.Hit Him Down
7.Universe Of
8.The Lonesome Ranger
9.Black Heart

Line-up
Jani Lehtinen – Vocals,Guitar
Felix Gåsste – Guitar
Mattias Holmström – Bass
Daniel Heaster – Drums
Martin Borgh – Organ

SVARTANATT – Facebook

Supernaughty – Vol.1

Hard rock, stoner e sonorità novantiane nate dalle parti di Seattle, fanno parte del background dei nostri, ottimi interpreti di un sound che può essere sicuramente annoverato tra gli esempi più riusciti di alternative metal/rock dell’ultimo periodo.

Nati come cover band degli dei Black Sabbath, i nostrani Supernaughty giungono al debutto sulla lunga distanza tramite l’Argonauta Records.

La band toscana si impone all’attenzione del pubblico underground con questi sette brani che formano una raccolta di umori ed ispirazioni che, pur partendo da una base sabbathiana, si crogiolano nel pieno dell’ultimo decennio del secolo scorso.
Hard rock, stoner e sonorità novantiane nate dalle parti di Seattle, fanno parte del background dei nostri, ottimi interpreti di un sound che può essere sicuramente annoverato tra gli esempi più riusciti di alternative metal/rock dell’ultimo periodo.
L’elemento sabbathiano alla quale la band si ispira per il monicker (Supernaut, da Vol.4) è un’influenza che rimane soggiogata dalle forti ispirazioni stoner/grunge, almeno all’ascolto dei brani presenti sull’album, che succhiano linfa vitale dai Queen Of The Stone Age, Kyuss ed Alice In Chains.
L’album parte al meglio con il singolo Mistress, un brano dai riff pesantissimi e che mette subito in chiaro le intenzioni dei quattro rockers toscani: prendere per mano l’ascoltatore e portarlo in giro per il deserto della Sky Valley, mentre è già tempo di Bad Games, traccia che bilancia dosi di Alice In Chains e stoner rock in egual misura.
Il cantato di Angelo Fagni è melodico quel tanto che basta per aiutare i brani ad entrare in testa con facilità, in contrasto con i riff a tratti monolitici come in The Slicers e nel lento incedere di Andy’s Abduction.
Notevole e acida Kiss Of Death, che si muove lasciva tra le dune del deserto, psichedelica ed a tratti ipnotica, mentre Y.A.T. lascia a Fuck’n Drive il compito di chiudere tra fuochi d’artificio stoner & roll questo ottima mezzora di rock di battente bandiera tricolore.
Un buon esordio che non mancherà di soddisfare gli amanti del genere ed occhio ai live del gruppo, qualcosa mi dice che sul palco i Supernaughty siano una bomba.

Tracklist
1. Mistress
2. Bad Games
3. The Slicers
4. Andy’s Abduction
5. Kiss the Death
6. Y.A.T.
7. Fuck’n Drive

Line-up
Filippo Del Bimbo – Guitars
Alessio Franceschi – Drums
Angelo Fagni – Vocals, Guitars
Luca Raffon – Bass

SUPERNAUGHTY – Facebook

Burning Leaf – And The Fire Burns Inside

Nuova band per il batterista Steve Foglia, al debutto con i quattro brani racchiusi in questo primo ep dal titolo And The Fire Burns Inside.

Steve Foglia torna dopo Steve In Wonderland, il bellissimo secondo lavoro solista che l’ex batterista dei Jennifer Scream licenziò nel 2014: il musicista sannremese si ripresenta oggi con una nuova band, i Burning Leaf, e quattro brani racchiusi nell’ep d’esordio And The Fire Burns Inside.

Il quartetto è composto (oltre che da Steve Foglia alla batteria), da Federico Motta alla chitarra, Eric Locci al basso e Francesca Foglia al microfono.
Le quattro canzoni alternano hard rock, frustate street e sfumature dark anni ottanta, per una miscela esplosiva di generi ed influenze racchiuse in un sound che, a ben sentire, non manca di quel tocco di originalità necessario per non farlo passare inosservato.
Ovviamente è presto per dire dove potranno arrivare i Burning Leaf, sicuramente si può affermare che la loro musica nasce dall’interazione di musicisti dal passato differente, unito in un rock duro che non disdegna passaggi intimisti e strutture alternative, così da valorizzare brani come l’opener Wonderer (la più glam rock del lotto), l’alternativa So Slowly, l’hard rock che tanto sa di Who di You See I’m Free e la semi ballad Your Drum Still Shine, pezzo conclusivo nel quale spicca la prestazione della cantante.
Diamo il bentornato a Steve Foglia, augurandogli una buon proseguimento con la sua nuova band, e godiamoci And The Fire Burns Inside attendendo ulteriori buone nuove dai Burning Leaf.

Tracklist
1.Wonderer
2.So Slowly
3.You See, I’m Free
4.Your Drum Still Shine

Line-up

Steve Foglia – Drums
Francesca Foglia – Voclas
Federico Motta – Guitars
Eric Locci – Bass

BURNING LEAF – Facebook

https://youtu.be/voaisX5Z-p4

AElementi – Una Questione Di Principio

L’ennesima buona proposta dell’attivissima etichetta Andromeda Relix parla il linguaggio progressivo dei romani AElementi, quartetto romano nato una decina d’anni fa e solo ora giunto all’attenzione degli amanti del genere grazie al debutto Una Questione Di Principio.

L’ennesima buona proposta dell’attivissima etichetta Andromeda Relix parla il linguaggio progressivo dei romani AElementi, quartetto romano nato una decina d’anni fa e giunto solo ora all’attenzione degli amanti del genere grazie al debutto Una Questione Di Principio.

La band vede all’opera quattro ottimi musicisti come Daniele Lulli (chitarra), Francesca Piazza (voce), Manuele D’Anastasio (batteria) e Angelo Celani (basso), con la collaborazione di Dario Pierini (tastiere) creatori di un sound che pesca da varie correnti del mondo progressivo per un risultato apprezzabile.
Il cantato nel nostro idioma non inficia la resa di questi sei brani più intro, eleganti e sempre in bilico tra la tradizione italiana e le storiche band degli anni settanta, ed un più roccioso prog metal che modernizza e rende al passo coi tempi il sound di brani maturi e dalle gustose melodie come Lontananza, Straniero o Voce.
Le melodie, importantissime nella musica degli Aelementi, consemtono di fare agevolmente presa sull’ascoltatore, anche quello meno abituato alle impegnative sonorità del progressive rock, con il gruppo che, a camei strumentali dalle atmosfere settantiane e fughe strumentali che strizzano l’occhio al metal più raffinato, aggiunge linee vocali tradizionali nella musica tricolore: non solo rock quindi, ma anche piccoli passi nel pop d’autore.
P.F.M. e Le Orme vanno a braccetto con i più giovani e metallici Shadow Gallery e Threshold tra le trame di Vuoto e Addio, senza andare scalfire la spiccata personalità del gruppo capitolino.
Una Questione Di Principio è un buon lavoro rivolto non solo agli amanti del rock progressivo, ma sicuramente in grado di soddisfare una più vasta gamma di ascoltatori.

Tracklist
1.Principio
2.Lontananza
3.Vuoto
4.Straniero
5.Delirio
6.Voce
7.Addio

Line-up
Daniele Lulli – Guitars
Francesca Piazza – Vocals
Manuele D’Anastasio – Drums
Angelo Celani – Bass

Dario Pierini – Keyboards
Giordana Sanfilippo – Chorus
Carlotta Sanfilippo – Chorus

AELEMENTI – Facebook

Fear Not – Fear Not (25th Anniversary)

La Roxx Records ristampa il primo ed unico album dei Fear Not, gruppo statunitense che, in piena era grunge, licenziava questo bellissimo lavoro incentrato su un hard rock dai rimandi street che nel 1993 purtroppo risultava obsoleto ma che era invece composto da una serie di brani bellissimi.

Vale la pena soffermarsi un attimo sull’utilità di ristampe e riedizioni di vecchi album, specialmente dopo questa ottima iniziativa della label americana Roxx Records, specializzata in christian metal e hard rock, che scova abitualmente vere chicche da riproporre agli appassionati della nostra musica preferita.

Valgono poco, se non per i collezionisti, gran parte delle ristampe che abitualmente escono nei negozi riguardanti gruppi famosi del metal e del rock, mentre tutt’altro valore hanno queste iniziative che valorizzano album e band dimenticate o quasi sconosciute che spesso si rivelano piccoli gioiellini musicali.
Dunque la Roxx Records ristampa il primo ed unico album dei Fear Not, gruppo statunitense che, in piena era grunge, licenziava questo bellissimo lavoro incentrato su un hard rock dai rimandi street che nel 1993 purtroppo risultava obsoleto ma che era invece composto da una serie di brani bellissimi.
La band era composta da 3/4 dei Love Life, altro gruppo sconosciuto se non ai più attenti consumatori del genere: Rod Romero al basso, Gary Hanson alla batteria e Larry Worley alla chitarra e alla voce, più il chitarrista Chris Howell.
I quattro musicisti diedero alle stampe un album bellissimo, incentrato su tematiche cristiane ma dal forte impatto rock ‘n’ roll, una serie di brani adrenalinici, dai riff taglienti, i chorus dall’appeal melodico spiccato che non mollavano la presa dall’inizio alla fine, lasciando i titoli di coda all’unica ballad presente, Take Hold.
Il resto era un’apoteosi di hard rock americano, ormai spogliato da lustrini e pailettes ma in grado di smuovere una montagna a colpi di riff suonati sui marciapiedi di un Sunset Boulevard dimenticato dai fans.
Nominare un brano rispetto ad un altro è sminuire una track list vincente, comparsa sul mercato con quasi dieci anni di ritardo e per questo spinta in un angolo dalle nuove sonorità che, in quel periodo, portavano la piovosa Seattle agli onori delle cronache rock.
Skid Row, Mr.Big, Motley Crue, sono le band il cui sound si ritrova nella proposta dei Fear Not: l’album esce per la Roxx Records in versione limitata in vinile ed in cd con l’aggiunta di due bonus track.
Se dentro di voi batte un cuore da street rocker, non perdetevi questo bellissimo lavoro, tornato a risplendere grazie all’etichetta americana.

Tracklist
1. Give It Up
2. We Have A God
3. Mr, Compromise
4. Till The End Of My Days
5. Suicide Sunshine
6. Money Money
7. Easy Come Easy Go
8. There Is Love
9. Mad World
10. Take Hold
11. You Got Love (Bonus Track 2017)*
12. Love Is Alright (Bonus Track 2017)**

Line-up
Rod Romero – Bass
Gary Hanson – Drums
Larry Worley – Vocals, Guitars
Chris Howell – Guitars

Gabriels – Over the Olympus – Concerto for Synthesizer and Orchestra in D Minor Op. 1

Il progetto di questo disco è un affrontare l’ignoto, poiché nessuno aveva mai tentato di coniugare in un concerto i synth ed un’orchestra.

Potrebbe sembrare strano, ma ci sono ancora terre musicalmente vergini e piene di rigogliosi frutti che aspettano di essere colti.

Gabriels è molto più di un musicista e qualcosa in più di un compositore, è una mente ed un corpo votati totalmente alla musica, in quanto figlio d’arte e approfondito studioso della musica sia nella sua forma musicale che in quella fisica, come la foniatria. Innumerevoli sono le sue collaborazioni e le cose che ha fatto per la musica, spaziando dalla classica al metal, passando per il prog. Il progetto di questo disco è un affrontare l’ignoto, poiché nessuno aveva mai tentato di coniugare in un concerto i synth ed un’orchestra. Innanzitutto l’ascolto ci rende chiara l’assoluta godibilità di questo connubio, poiché come dice lo stesso Gabriels nell’intervista che ci ha rilasciato, se si trova la forma giusta si può fare tutto, e questo disco ne è la dimostrazione. Il concerto è una sorta di disco sugli dei dell’Olimpo, le loro gesta e le loro vicissitudini, quindi un qualcosa che deve essere rappresentato con maestosità. Il suono moderno del sintetizzatore si sposa molto bene con l’orchestra, e ci rimanda ai fasti sperimentali del prog anni settanta, quando la sperimentazione era la centro di molti percorsi musicali, totalmente scevri da qualsiasi intento commerciale, come è questo disco. La forza, la potenza e la bellezza della musica classica si incontrano con il suono moderno del sytnh per dare vita ad un qualcosa di totalmente nuovo che delizierà le vostre orecchie. Nella composizione l’attitudine è molto metal, poiché il synth viaggia spesso veloce e racchiude in sé ciò che potrebbe fare un gruppo musicale. Si viaggia veloce, ma tutto ha un suo tempo all’interno del disco, non c’è fretta poiché tutto segue un suo percorso ben preciso, e il genio di Gabriels tiene tutto assieme molto bene. Un disco che rimanda ad epoche lontane e ad alcune più vicine, sempre con la musica e l’amore per essa al centro, essendo questo una compenetrazione totale fra pensiero umano e composizione musicale. Musica classica progressiva.

Tracklist
01. Temple Valley (Andante)
02. By The Giant’s Eyes (Moderato)
03. Titans Versus Giants (Andante Con Moto)
04. Through White Clouds (Moderato)
05. The Magical Castle (Adagio)
06. Gods (Allegretto Con Fuoco)
07. Immortals (Epico)
08. Thunderbolts (Moderato)
09. Over The Olympus (Maestoso)

Line-up
Gabriels : composer
Strings Orchestra directed by Yusaku Yamada
Violins 1:
Ayaka Suzuki
Airi Tanaka
Daysuke Watanabe
Emi Inoue
Violins 2:
Goro Hayashi
Akemi Nakano
Kyoko Otonashi
Hitomi Miura
Junko Nakagawa
Violas:
Osamu Okamoto
Noriku Sakamoto
Aimi Ishii
Cellos:
Akane Maeda
Chira Abe
Emi Kimura
Hanako Inoue
Basses:
Izumi Yamamoto
Kaori Watanabe
Iroshi Shiba
Yusaku Godai
Piano:
Giovanni Puliafito
Harp:
Masakatsu Katsura
Percussions:
Hyo Shimizu
Timpani:
Kaori Matsumoto

GABRIELS – Facebook

Perfect Beings – Vier

I quattro brani, divisi in quattro splendide suite, nella versione in doppio vinile coprono ogni lato per un tuffo nel progressive d’autore, per una volta concepito fuori dalle mode del momento e più in linea con le creazioni dei mostri sacri del progressive rock settantiano.

I progsters statunitensi Perfect Beings le basi per arrivare a questo ultimo lavoro le hanno poggiate già da qualche tempo.

Ryan Hurtgen, Johannes Luley e Jesse Nason creano musica progressiva di altissimo livello da una manciata d’anni, prima con il debutto omonimo, seguito da II, licenziato nel 2015 e ora con Vier, mastodontico album di musica progressiva, come si faceva una volta.
I quattro brani, divisi in quattro splendide suite, nella versione in doppio vinile coprono ogni lato per un tuffo nel progressive d’autore, per una volta concepito fuori dalle mode del momento e più in linea con le creazioni dei mostri sacri del progressive rock settantiano.
Non fraintendetemi, Vier non è affatto un album vintage, lo spartito e la conseguente valanga di note che il gruppo ci riversa addosso ha i piedi ben piantati nel nuovo millennio, così che l’album si cibi di soluzioni moderne ma dall’approccio assolutamente tradizionale, facendone uscire qualcosa di imperdibile per gli amanti del rock progressivo.
Guedra, The Golden Arc, Vibrational e Anunnaki sono i titoli delle quattro suite, divise a loro volta in capitoli e che formano un opera d’altri tempi ma dal mood assolutamente targato 2018, tra bellissime melodie di fiati, digressioni jazzistiche, fughe rock ed un uso delle voci incantevole (Ryan Hurtgen nel suo personale approccio al canto si può certamente definire il nuovo Jon Anderson).
In tutta questa meraviglia sonora dalla durata proibitiva, se non si ha il tempo e la concentrazione necessaria per seguire l’opera nella suo lungo dipanarsi tra atmosfere sulfuree e sfumature fluttuanti, i tre musicisti navigano a vele spiegate verso una consacrazione meritata tra i raffinati e conservatori gusti degli appassionati di progressive rock, regalando la loro personalissima versione della musica di Yes, King Crimson e Genesis.
A tratti sorge il dubbio che l’atmosfera tradizionale di Vier possa far storcere il naso a chi apprezza le nuove sonorità progressive, e che i suoi arrangiamenti e le atmosfere moderne confondano i fans con più di un capello bianco, ma sono dettagli che la bellezza della musica spazza via per lasciare solo la sensazione di essere al cospetto di un album straordinario.

Tracklist
1.Guedra – A New Pyramid
2.Guedra – The Blue Lake Of Understanding
3.Guedra – Patience
4.Guedra – Enter The Center
5.The Golden Arc – The Persimmon Tree
6.The Golden Arc – Turn The World Off
7.The Golden Arc – America
8.The Golden Arc – For A Pound Of Flesh
9.Vibrational – The System And Beyond
10.Vibrational – Mysteries, Not Answers
11.Vibrational – Altars Of The Gods
12.Vibrational – Everywhere At Once
13.Vibrational – Insomnia
14.Anunnaki – Lord Wind
15.Anunnaki – Patterns Of Light
16.Anunnaki – A Compromise
17.Anunnaki – Hissing The Wave Of The Dragon
18.Anunnaki – Everything’s Falling Apart

Line-up
Ryan Hurtgen – Vocals, Piano
Johannes Luley – Guitar, Bass, Production
Jesse Nason – Keyboards
Ben Levin – Drums

PERFECT BEINGS – Facebook

Steve Hackett – Wuthering Nights: Live in Birmingham

Su un nuovo album dal vivo di Steve Hackett non c’è molto da dire, soprattutto se sia chi scrive sia chi legge concorda sul fatto che i miti si possono solo venerare e mai discutere.

Su un nuovo album dal vivo di Steve Hackett ci dovrebbe essere francamente poco da dire, soprattutto se sia chi scrive sia chi legge concorda sul fatto che i miti si possono solo venerare e mai discutere.

Per cui non resta che descrivere quello che, più o meno, è contenuto in questo Wuthering Nights: Live in Birmingham, lavoro che esce anche nel formato Dvd/Blue Ray oltre a quello in doppio cd: a grandi linee ci troviamo di fronte alla scaletta che Steve, con la sua band, ha portato in tour anche dalle nostre parti la scorsa estate, rispettando la stessa ideale suddivisione in due parti, con la prima dedicata ai brani della produzione solista e l’altra a quelli storici dei Genesis.
Rispetto al concerto che ho visto in quel di Vigevano a luglio, ho potuto almeno godermi la prima parte riuscendo ad ascoltare i brani senza dovermi preoccupare di difendermi dai nugoli di zanzare che avevano reso i miei connotati simili a quelli di The Elephant Man (e credo che anche lo stesso Hackett se lo ricordi, visto che a tratti lo si vedeva gesticolare sul palco manco fosse stato il Pete Townsend dei bei tempi …).
In questa prima sessione va rimarcata la riproposizione del brano capolavoro della produzione solista del chitarrista inglese, Shadow Of The Hyerophant, qui con l’apporto sul palco della voce femminile di Amanda Lehmann, oltre a diverse altre ottime canzoni (su tutte Every Day, da Spectral Mornings) e con la chiusura affidata a Eleventh Earl Of Mar, prima delle tracce tratte da Wind And Wuthering, l’album dei Genesis omaggiato nell’occasione per il suo quarantennale.
Il secondo cd è del tutto appannaggio della produzione dello storico gruppo, con la giusta attenzione al lavoro celebrato all’uopo, un disco la cui complessiva sottovalutazione da parte degli stessi fan dei Genesis è dovuta all’inevitabile paragone con quei 5-6 capolavori usciti precedentemente piuttosto che al suo oggettivo valore; e, in effetti il motivo di curiosità è appunto la riproposizione di brani che di solito non trovano molto spazio nelle scalette dei concerti, come Blood On The Rooftops, In That Quiet Earth e One For The Vine, più quella Inside And Out che finì fuori da Wind And Wuthering per essere relegata all’Ep Spot The Pigeon, mentre non è certo una novità l’evergreen Afterglow, che va a fare compagnia alle immortali Firth Of Fifth, The Musical Box e Dance On A Volcano, con il gran finale rappresentato come sempre da Los Endos.
La band che accompagna Hackett è quella ormai rodata da tempo, con magnifici musicisti capaci di assecondarne il sempre magico tocco chitarristico: in particolare, l’idea di rafforzare diverse parti di chitarra con l’ausilio dei fiati si rivela piuttosto azzeccata, andando ad enfatizzare il sound senza penalizzarne l’intensità.
L’unico dubbio in un simile contesto è la voce di Nad Sylvan, la cui timbrica sembra più adatta ai brani risalenti all’epoca Gabriel che non a quella successiva con Phil Collins nel ruolo di cantante e, indubbiamente, nel confronto con questi due giganti il pur bravo vocalist finisce inevitabilmente per soccombere, facendo scemare in alcuni frangenti la magia evocata da molte delle pietre miliari poc’anzi citate.
In ogni caso l’opera, in qualsiasi formato la si voglia prendere in considerazione, è dedicata ai fans più accaniti che non vogliono perdersi proprio nulla del loro musicista preferito; magari qualcuno avrà da eccepire sul fatto che Steve continui a incentrare i suoi concerti principalmente sui brani dei Genesis, ma credo che ne abbia tutti i diritti, non fosse altro che per la credibilità costruitasi nel corso di una carriera sempre foriera di soddisfazioni per gli appassionati, anche grazie ad album di inediti tutt’altro che superflui per qualità e voglia di esplorare nuove frontiere sonore.
Poi sappiamo bene che la dimensione live è una sorta di rito collettivo, nel corso del quale si versa più che volentieri qualche lacrima di commozione nell’ascoltare i classici suonati da chi ha contribuito fattivamente a farli diventare tali, sperando sia chiaro a tutti che ciò può essere solo avvicinato e mai eguagliato dalle pur ottime cover band che continuano a predicare fedelmente il verbo dei Genesis.
Il mito non si discute, si ama:  appunto …

Tracklist:
Disc 1
1. Every Day
2. El Niño
3. The Steppes
4. In The Skeleton Gallery
5. Behind The Smoke
6. Serpentine Song
7. Rise Again
8. Shadow Of The Hierophant
9. Eleventh Earl Of Mar

Disc 2
1. One For The Vine
2. Acoustic Improvisation
3. Blood On The Rooftops
4. In That Quiet Earth
5. Afterglow
6. Dance On A Volcano
7. Inside And Out
8. Firth Of Fifth
9. The Musical Box
10. Los Endos

Line-up:
Steve Hackett – Guitar, Vocals
Roger King – Keyboards
Nad Sylvan – Vocals, Tambourine
Gary O’Toole – Drums, Percussion, Vocals
Rob Townsend – Saxophone, Woodwind, Percussion, Vocals, Keyboards, Bass Pedals
Nick Beggs – Bass, Variax, Twelve String, Vocals
Guests:
John Hackett
Amanda Lehmann

STEVE HACKETT – Facebook

Zom – Nebulos

Nebulos è un disco di incontro e di sintesi di diverse maniere di intendere la musica pesante e non solo, ed è un tentativo molto riuscito.

Gli Zom sono una macchina di riff chitarristici potenti e contenenti un elevato tasso di groove dal gusto forte.

I tre americani provenienti da Pittsburgh non sono certamente un gruppo giovanile e lo si sente molto forte nel disco, hanno una grande esperienza e la usano tutta ed in maniera adeguata. In buona sostanza siamo dalle parti dello stoner fortemente imparentato con il grunge, e non tutti sanno fare questo ibrido, che è tale solo a parole, perché poi viene tutto molto naturale, siamo noi che dobbiamo sempre delimitare il territorio. Il trio è composto da Gero Von Dehn, anche nei Monolith Wielder, gruppo che abbiamo già potuto apprezzare sempre su Argonauta Records, Andrew D’Cagna dei Brimstone Coven e da Ben Zerbe, anche lui gravitante intorno ai Monolith Wielder. Gli Zom sono attivi dal 2014, questo è il loro debutto e sono molto chiari su cosa vogliono essere. Il loro suono è composto da un’importante base chitarristica, con la voce che va ad incastonarsi perfettamente con il lavoro del resto del gruppo, creando un groove molto coinvolgente, che seppur non rappresentando nulla di nuovo riesce ad essere molto incisivo e godibile. Nebulos si rivolge ad una platea ampia di amanti della musica pesante ma non solo, perché anche la componente grunge è ben presente e forma il dna di questo disco. Tutto il disco è pervaso da una consapevole malinconia di fondo, messa mirabilmente in musica e ogni passaggio ha un filo logico. Nebulos è un disco di incontro e di sintesi di diverse maniere di intendere la musica pesante e non solo, ed è un tentativo molto riuscito.

Tracklist
1. Nebulos/Alien
2. Burning
3. Gifters
4. Solitary
5. The Greedy Few
6. There’s Only Me
7. Bird On a Wire
8. Final Breath
9. New Trip

Line-up
Gero von Dehn
Andrew D’Cagna
Ben Zerbe

ZOM – Facebook

Steelpreacher – Drinking With The Devil

Quasi quaranta minuti di suoni che odorano di old school e rock’n’roll ipervitaminizzato come si usava un tempo, mentre i brani scivolano via tra chorus da cantare a squarciagola prima di far volare la propria bottiglia sulla grata.

Dopo lo split con i Dragonsfire e l’uscita del full length Devilution, gli Steelpreacher ritornano sul mercato con il loro lavoro migliore, Drinking With The Devil, licenziato originariamente nel 2008.

Il trio di sfrontati rockers tedeschi è attivo dai primi anni del nuovo millennio, nella loro discografia si contano cinque lavori sulla lunga distanza di cui Drinking With The Devil è il terzo della lista.
La band suona una divertente rivisitazione dell’hard & heavy tradizionale, tra citazioni famose e tanto rock’n’roll, quindi se siete amanti del genere, motociclisti in febbre da raduno o avventori di locali in strade deserte, con tanto di palco dove i gruppi intrattengono gli ospiti dietro a grate che le proteggono dalla pioggia di bottiglie di birra svuotate, gli Steelpreacher sono sicuramente la band che fa per voi.
Riff di potentissimo hard rock, solos heavy, note di blues marcito in fumose cantine ed atmosfere inorgoglite da un approccio old school, sono virtù che ogni rocker dal capello grigio non può non annoverare tra quelle principali di un buon album e Drinking With The Devil da questo lato non sbaglia un colpo.
Ac/Dc (all’irresistibile D.O.A. manca solo la voce del compianto Bon Scott), Motorhead, Saxon, Wasp ed ovviamente gli Accept sono le band da cui gli Steelpreacher hanno pescato per formare il loro sound, che risulta un tributo ai gruppi citati, ma che funziona e come detto diverte non poco.
Quasi quaranta minuti di suoni che odorano di old school e rock’n’roll ipervitaminizzato come si usava un tempo, mentre i brani scivolano via tra chorus da cantare a squarciagola prima di far volare la propria bottiglia sulla grata: gli Steelpreacher ringraziano.

Tracklist
1.Slave to the Cross
2.Hammered and Down
3.Blame It on Booze
4….of War and Vengeance
5.D.O.A.
6.Strung Out
7.Hooked on Metal
8.No One Knows…
9.Hell Bent for Beer
10.Drinking with the Devil

Line-up
Jens “Preacher” Hübinger – lead vocals, guitars
Andy “Mu” Hübinger – bass, lead and backing vocals
Hendrik “Beerkiller” Weber – drums, backing vocals

STEEPREACHER – Facebook

Iconic Eye – Into The Light

Manca forse il brano trainante, ma in generale Into The Light mantiene un songwriting di buon livello e degno di un ascolto interessato da parte del fans dell’hard rock melodico.

Si torna a parlare di AOR, il genere melodico per antonomasia della grande famiglia dell’hard rock e del metal.

Questa volta si vola nel regno Unito e precisamente a Wolverhampton, casa degli Iconic Eye, fondati dal chitarrista Greg Dean prima come progetto personale poi, col tempo, trasformatisi in band a tutti gli effetti.
Il primo album intitolato Hidden In Plain Sight, uscito due anni fa, vedeva all’opera due cantanti, Lee Small (Shy, Snowfall, Skyscraper) e Tim Dawkes, mentre dopo due anni la band britannica torna in pista con questo nuovo lavoro intitolato Into The Light che vede un cambio importante dietro al microfono, dove troviamo la cantante Jane Gillard a rendere ancora più melodica la proposta del gruppo di Greg Dean.
Into The Light è composto da undici brani di hard rock melodico, a tratti pomposo, in altri frangenti più diretti ma sempre legato al sound di scuola britannica nelle tracce dove le tastiere sono protagoniste, divenendo più americano quando la band decide di indurire il suono quel tanto che basta per tornare agli anni ottanta ed alla lezione impartita dei gruppi della West Coast.
La Gillard, in possesso di una voce perfetta per il genere, non fa certo rimpiangere i due bravi cantanti che l’hanno preceduta e l’album nella sua interezza si fa apprezzare.
Manca forse il brano trainante, quello che negli anni d’oro sarebbe stato l’hit da un milione di dollari (o in questo caso, di sterline) ma in generale Into The Light mantiene un songwriting di buon livello e degno di un ascolto interessato da parte del fans dell’hard rock melodico.

Tracklist
1.Am I the One
2.You Make It
3.Those Tears Won’t Last
4.Let It Rain Down
5.Black Country Lady
6.Better Place
7.Black Heart
8.All She Needed
9.Thanks for the Memories
10.Don’t Stop Me From Leaving
11.Never Get Through the Night

Line-up
Jane Gillard – Vocals
Greg Dean – Guitars, Keyboards
Robin Mitchard – Guitars
Michael Dagnall – Bass
Adrian Scattergood – Drums

ICONIC EYE – Facebook

Sirgaus – L’Amore, L’Ardore e L’Alviano

Un’opera che musicalmente si nutre di rock come di sinfonie orchestrali, di folk come di atmosfere teatrali, e il tutto viene usato da con maestria da Gosetti per dare vita alle storie che si sviluppano accompagnate dalla musica e dalle voci dei suoi protagonisti.

La vena creativa di Mattia Gosetti è lungi dall’ essere esaurita e, a distanza di un anno dall’ultima opera dei Sirgaus (Il Treno Fantasma), torna con una nuova storia raccontata attraverso la musica ed ambientata come sempre tra le montagne e le valli della sua terra, il bellunese.

Accompagnato dalla cantante e consorte Sonja Da Col, Gosetti da vita ad un altro splendido concept, dopo le fortune artistiche di Sofia’s Forgotten Violin licenziato nel 2013, il capolavoro Il Bianco Sospiro della Montagna, uscito a suo nome due anni dopo, ed appunto il precedente lavoro che confermava ancora una volta il talento compositivo del nostro e la bontà del sodalizio artistico con quella che è pure compagna di vita.
Questa volta il polistrumentista veneto fa quasi tutto da solo, aiutato al microfono dalla Da Col, da Diego Gosetti ai cori e dal tenore Matteo Brustolon nei panni di Bartolomeo d’Alviano.
L’Amore, L’Ardore e L’Alviano è dunque un concept che racconta le imprese di quel personaggio, degli eventi portati dal suo passaggio a Cibiana Di Cadore, della fabbricazione e del commercio delle chiavi, iniziato proprio in quel periodo e per cui è conosciuto il paese natale dei musicisti, la leggenda degli Sbroa Fen e la storia d’amore tra un soldato ed una guida paesana.
Ormai Gosetti ha una sua precisa identità artistica, quindi per chi conosce la sua musica, le atmosfere suggestive e le poetiche sfumature sinfoniche e folkloristiche non sorprendono più di tanto, ma ancora una volta ci mettono innanzi ad un musicista senza uguali nel panorama rock/metal, capace di dare vita ad un’opera che regala episodi bellissimi come La Marcia Dell’Alviano, Mi son Veneto, l’epica Mani Nella Neve, la splendida Cibiana, le sfumature folk di Chiavi e Profezie, l’epica sinfonia di La Battaglia Di Rusecco, che ci trasportano nel 1500 tra le case e le viuzze di Cibiana di Cadore, testimoni delle vicende narrate.
Un’opera che musicalmente si nutre di rock come di sinfonie orchestrali, di folk come di atmosfere teatrali, e il tutto viene usato da con maestria da Gosetti per dare vita alle storie che si sviluppano accompagnate dalla musica e dalle voci dei suoi protagonisti.

Tracklist
1.L’Amore, L’Ardore, L’Alviano
2.Il Disegno Suo
3.La Marcia Dell’Alviano, Mi Son Veneto
4.Mani Nella Neve
5.I Boschi Su Deona
6.Cibiana
7.Chiavi E Profezie
8.Tu Proteggi I Sogni Miei
9.I Sbroa Fen
10.Un Amore Di Montagna
11.La Battaglia Di Rusecco
12.La Serenissima Vittoria
13.Ritorno A Cibiana

Line-up
Sonia Da Col – Voce
Mattia Gosetti – Bass, Guitars , Vocals, Orchestral Synth e Programming

Matteo Brustolon – Vocals
Diego Gosetti – Chorus

SIRGAUS – Facebook

Roadkillsoda – Mephobia

Citazioni più o meno famose e cliché che nutrono di già sentito i brani, fanno di Mephobia un album godibile, e se un po’ di ripetitività lascia che qualche sbadiglio affiori verso la fine dell’ascolto, il tutto viene bilanciato dal almeno tre ottime tracce.

Quando si parla di Romania riguardo al metal viene spontaneo pensare al gothic ed al doom, generi che nel paese balcanico  vengono espressi in maniera qualitativamente alta.

Quindi i Roadkillsoda fanno parte di una scena (quella stoner rock) che sicuramente non fa pensare alle foreste ed ai castelli immersi nelle valli e sulla cime dei Carpazi, ma al caldo delle pianure americane: il quartetto di Bucarest infatti suona musica desertica, hard rock stonerizzato e, come da trend, alimentato da una vena nostalgica tra rock settantiano e alternative proveniente dagli anni novanta.
Niente di nuovo sotto il sole della capitale rumena, ma estremamente funzionale a quello che il gruppo vuole trasmettere, ovvero hard rock diretto, stonato e vintage.
In giro da ormai un po’ di anni, la band ha dato alle stampe quattro album, compreso quest’ultimo lavoro intitolato Mephobia, e ha avuto i suoi inevitabili aggiustamenti per quanto riguarda la formazione ed arriva carica e sul pezzo per farci sognare ancora di sabbia scaldata dal sole, crotali dai sonagli impazziti e lunghe camminate persi nel caldo asfissiante della Sky Valley.
Citazioni più o meno famose e cliché che nutrono di già sentito i brani, fanno di Mephobia un album godibile, e se un po’ di ripetitività lascia che qualche sbadiglio affiori verso la fine dell’ascolto, il tutto viene bilanciato dal almeno tre ottime tracce (Prometheus, Casuality e la psichedelica Dip).
I soliti Kyuss e Queen Of The Stone Age, con un po’ di Black Label Society a metallizzare quanto basta il suono di Mephobia, sono i primi nomi di una lunga lista di influenze accostabili al gruppo rumeno, ma se del genere non potete fare a meno i Roadkillsoda vi sapranno tenere buona compagnia.

Tracklist
1.Prometheus
2. Bipolar
3.Consequences
4.Easy
5.Casualty
6.Legless
7.Order
8.Dip
9.Backhander
10.Tonight
11.Trust

Line-up
Mircea Petrescu “Hotshot Eagle” – Vocals
Mihnea Ferezan “Panda Elixir” – Guitars
Victor “Vava” Ferezan – Bass
Mihai Nicolau “Baby Jesus” – Drums

ROADKILL SODA – Facebook

Magnum – Lost On The Road To Eternity

Lost On The Road To Eternity rimane un’opera al 100% Magnum, quindi consigliata ai rockers amanti delle melodie di scuola Clarkin/Catley, anche se manca in parte quel tocco epico/fantasy per cui la storica band britannica è famosa, ma al ventesimo lavoro non ci si può certo lamentare.

Il ventesimo album dei Magnum è il primo appuntamento importante dell’anno appena iniziato: Bob Catley e Tony Clarkin tornano ad un anno di distanza dalla raccolta di ballads che aveva fatto emozionare i cuori dei fans del gruppo (The Valley Of Tears-The Ballads) e a due dall’ultimo lavoro composto da inediti (Sacred Blood “Divine” Lies).

Lost On The Road To Eternity ha nella partecipazione di Tobias Sammet, come ospite nella title track, la sua più grossa novità, per il resto il nuovo lavoro viaggia con il pilota automatico nel mondo Magnum.
E’ un album riuscito, pregno di melodie sognanti, accenni al progressive, in molti punti cardine orchestrato a meraviglia e cantato ancora una volta da un menestrello che non conosce vecchiaia, almeno nella sua splendida ed inconfondibile voce.
Un’opera che si sviluppa su quasi settanta minuti di musica rock dagli elevati contenuti melodici, ma che non rinuncia ad elettrizzare l’ambiente con riff duri come il ferro e di cui Clarkin è autentico maestro (bellissima in questo senso Without Love).
Poi, dopo un inizio che ci regala il meglio del songwriting firmato Magnum (Show Me Your Hands, Welcome To The Cosmic Cabaret), l’entusiasmo si placa leggermente per una serie di brani di maniera, belli, altamente melodici ma che non accendono la sacra fiamma dell’emozionalità come il gruppo britannico ci ha abituato (Ya Wanna Be Someone e Forbidden Masquerade), ne esce un album che sicuramente verrà apprezzato dai fans del gruppo, ma che risulta leggermente inferiore al suo predecessore, avaro di punti deboli.
Lost On The Road To Eternity rimane un’opera al 100% Magnum, quindi consigliata ai rockers amanti delle melodie di scuola Clarkin/Catley, anche se manca in parte quel tocco epico/fantasy per cui la storica band britannica è famosa, ma al ventesimo lavoro non ci si può certo lamentare.

Tracklist
1. Peaches and Cream
2. Show Me Your Hands
3. Storm Baby
4. Welcome to the Cosmic Cabaret
5. Lost on the Road to Eternity
6. Without Love
7. Tell Me What You’ve Got to Say
8. Ya Wanna Be Someone
9. Forbidden Masquerade
10.Glory to Ashes
11. King of the World

Line-up
Tony Clarkin – Guitars
Bob Catley – Vocals
Rick Benton – Keyboards
Al Barrow – Bass
Lee Morris – Drums

MAGNUM – Facebook

Drive By Wire – Spellbound

La maturità compositiva è fuori discussione, il gruppo è già da tempo pronto per essere conosciuto dal grande pubblico e questo disco è un fantastico biglietto da visita.

Tornano gli olandesi Drive By Wire al loro decimo anno di attività, festeggiato con la ristampa su Argonauta Records del loro disco The Whole Shebang.

Il nuovo Spellbound ci mostra il gruppo nel suo massimo splendore, con un suono che è un felice incrocio di desert rock, stoner e molto blues, soprattutto nell’attitudine e nell’incedere. I Drive By Wire fanno molto bene e con più ruvidezza ciò che i Blue Pills hanno portato alla ribalta con il loro suono, e anche gli olandesi hanno una splendida voce femminile a guidarli, quella di Simone Holsbeek, bravissima a coprire una moltitudine di registri, versatile e calda. Il gruppo ci guida nel suo mondo, fatto di mistero, blues e note ruvide, con una voce calda e sognante che ci porta a seguirla sotto la luce della luna, benedicendo il femmineo. Si viene trascinati in questo sabba desertico da una musica che si fonde benissimo con la voce di Simone, e che raggiunge vette che pochi gruppi nel genere hanno saputo toccare. La qualità media del disco è molto alta, le tracce sono legate l’una all’altra non tanto da un concept, quanto da una comune visione che si esplica in una musica fortemente influenzata dal blues. Proprio quest’ultimo è il mojo principale di questo disco e la sua presenza è fortissima, sia nella composizione che nello spirito dell’album. Il coinvolgimento dello spettatore è una delle peculiarità maggiori degli olandesi, riescono a stimolare la tua curiosità e ti portano con un groove ipnotico. I riferimenti ci sono ma è tutto molto personale ed originale. I Drive By Wire riescono inoltre a dare una propria personale versione del desert rock che è una delle migliori in assoluto in giro, e questo disco è da primi dieci ascolti desertici da fare. La maturità compositiva è fuori discussione, il gruppo è già da tempo pronto per essere conosciuto dal grande pubblico e Spellbound è un fantastico biglietto da visita.

Tracklist
1. Glider
2. Where Have You Been
3. Mammoth
4. Apollo
5. Blood Red Moon
6. Superoverdrive
7. Van Plan
8. Lost Tribes
9. Devil’s Fool
10. Lifted Spirit
11. Spellbound

Line-up
Simone Holsbeek
Alwin Wubben
Jerome Miedendorp de Bie
Marcel Zerb
Rene Rutten

DRIVE BY WIRE – Facebook

Kaptain Preemo – Kaptain Preemo

La peculiarità migliore di questo gruppo è quella di saper rielaborare al meglio istanze musicali degli anni sessanta e settanta

Album d’esordio per i Kaptain Preemo da Parma, con la loro proposta di fuzz e psych, il tutto molto ben fatto e funzionante molto bene.

La peculiarità migliore di questo gruppo è quella di saper rielaborare al meglio istanze musicali degli anni sessanta e settanta. L’intento dei Kaptain Preemo è quello di farci vivere un’esperienza attraverso l’ascolto della loro musica. I generi sono il fuzz e la psych anni sessanta, non mancano momenti più duri alternati ad altre cose più dolci, e per tutto il disco aleggia lo spirito dei Kula Shaker, un gruppo che seppe fare un’ottima sintesi di generi diversi ed ingiustamente dimenticato. Ma qui abbiamo anche di più rispetto al gruppo inglese, dato che c’è un’impronta rock molto forte, che si esplica in cavalcate figlie di jam imperiose, che ci portano in territori molto lontani. I Kaptain Preemo sono attivi dal 2014, ma la loro capacità compositiva e la loro maniera di renderla presuppongono una maggiore esperienza. I nostri riescono a fondere la swingin’ London ad una forte presenza crawleyiana con la California degli anni sessanta, non solo quella baciata perennemente dal sole, ma anche quella più oscura dei seguaci di Manson. La psichedelia è un genere non semplice da maneggiare, ma questo gruppo lo fa molto bene, portando a galla aspetti originali; inoltre non troviamo nemmeno la distruzione totale della forma canzone come in taluni tipi di psych, ma il tutto è al servizio dell’esperienza da compiere. Un disco molto piacevole, ben composto e con ottime idee.

Tracklist
1.Intro: The Pentagram
2.I’ve Never Sold My Soul To Satan
3.Cosmic Plastic Lady
4.Who’s Who?
5.Drugs Are Working
6.I’m Gonna Save You Bobby
7.Magick Hangover
8.Diamond Shade

Line-up
Luke Zammarchi – Vocals, Guitar
Frank Fedi – Bass
Mek Spazio – Lead Guitar, Backing Vocals
Becky Sahira – Drums , Synth and Backing Vocals

KAPTAIN PREEMO – Facebook

Marc Vanderberg – Highway Demon

Highway Demon è un album ricco di suoni metallici di stampo classico, dall’hard rock all’heavy metal, vario nelle atmosfere, suonato e cantato bene, in buona sostanza un ascolto soddisfacente per chi ama il genere.

Secondo lavoro per il chitarrista tedesco Marc Vanderberg che, aiutato dal solo Raphael Gazal, cantante dei Bulletback e dei Tailgunners, ci invita all’ascolto di questa raccolta di brani dal taglio hard & heavy, ovviamente di ispirazione classica, dove il buon Vanderberg oltre alla sei corde suona tutti gli strumenti.

Highway Demon, pur senza picchi clamorosi, risulta un buon album: i brani mostrano un piglio aggressivo, sono cantanti bene e il nostro musicista mantiene un approccio funzionale alle tracce senza stancare con evoluzioni da guitar hero.
Si passa così da brani hard rock ad altri heavy metal con facilità, mentre a tratti sfumature epiche ci portano in pieni anni ottanta confermando la natura classica dell’album.
Bad Paradise graffia a dovere e mette subito in risalto la bravura tecnica del polistrumentista tedesco, che fino alla ballad How Do You Feel mette la quarta a brani dal piglio aggressivo con un Gazal che si dimostra un singer capace.
Ci si destreggia nei quaranta minuti scarsi di metallo classico con buona alternanza di atmosfere e la power metal song When I Turn The Key si rivela una cavalcata metallica dirompente, mentre You’re Like Poison risulta un brano dai forti impulsi hard rock.
Il mid tempo epico di The Last Battle si avvicina a quanto fatto dal compianto Ronnie James Dio con il suo gruppo, mentre Vanderberg ci delizia con un brano strumentale e dal piglio neoclassico vicino a sua maestà Malmsteen come la conclusiva Total Eclipse.
Highway Demon è un album ricco di suoni metallici di stampo classico, dall’hard rock all’heavy metal, vario nelle atmosfere, suonato e cantato bene, in buona sostanza un ascolto soddisfacente per chi ama il genere.

Tracklist
01. Highway Demon
02. Blue Eyes
03. Bad Paradise
04. The Last Battle
05. How Do You Feel
06. Indispensible
07. You´re Like Poison
08. When I Turn the Key
09. The Final Chapter
10. Total Eclipse (Instrumental)

Line-up
Mak Vanderberg – All Instruments
Raphael Gazal – Vocals

MARC VANDERBERG – Facebook

Mymisses – Straight On My Way

Con le Mymisses approdiamo all’hard rock sviluppatosi a cavallo del nuovo del nuovo millennio, contraddistinto da chitarre ruggenti, ritmiche grasse e cantato di grande forza espressiva.

Mymisses è un quartetto tutto al femminile nato a Cagliari due anni fa composto da Giorgia Pillai (voce), Laura Sau (chitarra), Stefania Cugia (basso) e Marta Camba (batteria).

Le quattro musiciste sarde si mettono in luce sul versante live, in giro per oltre un anno tra festival e piccoli club, prima di dare alle stampe l’agognato debutto, questo roccioso esempio di hard rock intitolato Straight On My Way; e la strada intrapresa dal gruppo non può che portarlo nelle terre assolate degli States, dove questo tipo di musica è nato, mentre quelle tortuose che si trovano nelle zone più aspre della loro isola si trasformano nelle desertiche pianure americane.
La band ci offre un hard rock moderno, leggermente stonerizzato, roccioso ma dal buon tasso melodico, grintoso e pesante, diretto e potente come fa capire subito l’opener War Cry: la title track possiede la forza di un carro armato, mentre il ritornello melodico sposta di continuo le coordinate stilistiche (un mix tra Black Label Society ed Alter Bridge).
Con le Mymisses si approda all’hard rock sviluppatosi a cavallo del nuovo del nuovo millennio, contraddistinto da chitarre ruggenti, ritmiche grasse e cantato di grande forza espressiva, come nella trascinante Face The Fear.
Diretto e ricco di chorus facilmente memorizzabili, Straight On My Way arriva al dunque senza tanti fronzoli, mentre Back To Fly smorza la tensione per poi ripartire con Slipping Away.
Be Bad è un brano alternative rock, mentre il cuore pulsa e pompa sangue metallico nella conclusiva Hard To Live, irresistibile brano on the road che mette la parola fine su un debutto assolutamente da non perdere per gli amanti dell’hard rock.
Le quattro rockers vanno dritte per la loro strada partendo alla conquista del mondo, collocandosi fin da subito tra le realtà da seguire con grande attenzione.

Tracklist
1.War Cry
2.Straight On My Way
3.Face The Fear
4.Back To Fly
5.Slipping Away
6.Be Bad
7.Hard To Leave

Line-up
Giorgia Pillai – Vocals
Laura Sau – Guitars
Stefania Cugia – Bass
Marta Camba – Drums

MYMISSES – Facebook

Social Crash – Burn Out

Quando mi sono messo all’ascolto di questo album, pensavo di trovarmi al cospetto del solito album hardcore/punk con qua e là qualche ritmica core per accontentare i fans del metal più cool.

Non avevo fatto i conti con la Wormholedeath ed il suo ormai famoso fiuto per band e sound che hanno qualcosa da dire (musicalmente parlando).
Se poi ci si aggiunge una buona vena satirica e l’irriverente sfrontatezza tipica del punk rock, ecco che i francesi Social Crash risultano una piccola fialetta di adrenalina punk/metal tra le chiappe di chi pensa che nel 2017 non si possa produrre musica personale.
Certo, a ben vedere il sound proposto da questo interessante debutto intitolato Burn Out accoglie tra il proprio spartito una serie di ispirazioni che a mio vedere, valorizzano il sound dei Social Crash, quindi va dimenticato  il classico punk rock da barricate e ribellione rock’n’roll, concentrandosi su quello che la band sagacemente introduce nella propria musica.
Quaranta minuti scarsi di rock/metal alternativo, suonato e soprattutto cantato con una personalità notevole, una serie di brani che si differenziano a seconda dell’ispirazione che la band usa a suo piacimento per rendere Burn Out il meno scontato possibile, tra accenni ai Clash, così come ai Primus e ai Rancid, con la sezione ritmica che è protagonista di un gran lavoro, sempre un passo avanti a quello che l’ascoltatore si aspetta seguendo l’andamento dei brani e la chitarra che si fa grossa con alcune bordate che richiamano l’hard rock.
Un album al quale l’etichetta punk sta un in effetti stretta e può andare per l’attitudine che il gruppo esibisce nelle trame di brani come Still Wolf To Man, Propaganda Melody e Dissidence, che si accompagna però con il rock alternativo di fine secolo.

Tracklist
1.The Whore Generation
2.Still Wolf To Man
3.My Banker Shot Me Down
4.Propaganda Melody
5.Burn Out
6.Weapon of Mass Seduction
7.Alive 8.Burning Karma
9.Straitjacket
10.Dissidence

Line-up
Manu Wild – vocals
Don Armando – guitar
Wilson Raych – drummer
Julien Harbulot – bass

SOCIAL CRASH – Facebook

The Sleeplings – Elusive Lights of the Long-forgotten

Con una sorpresa dopo l’altra, Elusive Lights of the Long-forgotten ci mostra una band che a spallate butta giù barriere e fortini in cui si barricano i generi musicali per fornirci una panoramica musicale il più ampia possibile.

Non è così semplice descrivere la musica creata da questo trio danese chiamato The Sleeplings, attivo da una decina d’anni e con un primo album targato 2008.

La band di Århus torna tramite la Marrowphone Recordings con Elusive Lights of the Long-forgotten, album di rock alternativo che tra il suo spartito accoglie e coccola molte sfumature ed ispirazioni da generi diversi, creando un sound originale, magari leggermente dispersivo ma oltremodo affascinate.
Con una sorpresa dopo l’altra, Elusive Lights of the Long-forgotten ci mostra una band che a spallate butta giù barriere e fortini in cui si barricano i generi musicali per fornirci una panoramica musicale il più ampia possibile.
Rock, alternative, progressive, indie e pop, con tutte le loro aperture e varianti, fanno da infinita cornice a questa raccolta di brani creata da Steen Lauridsen (batteria), Peter Just Rasmussen (piano, basso e tastiere) e Jesper Kragh (chitarra, basso voce) aiutati da una manciata di ospiti e tanto anticonformismo musicale che li porta a viaggiare tra la musica degli ultimi cinquant’anni.
L’opener Dead Horse, scelta come singolo, è probabilmente la più lineare tra le tracce proposte, essendo una canzone progressivamente alternative che ci da il benvenuto nel mondo del gruppo danese.
Apothecary, Mary The Quiet, la splendida Broken Light Spectre e via tutte le altre saltano tra un genere e l’altro e con abilità ci deliziano, con citazioni che vanno dai Beatles agli Smashing Pumpkins, dai Gentle Giant e Pink Floyd agli Waterboys, in un quadro ad acquarello dove le note sono come i colori usati da un pittore un po’ pazzo ma assolutamente geniale.
E i The Sleeplings di genialità ne hanno da vendere e come per i veri geni la loro opera va assimilata e compresa.

Tracklist
1. Dead Horse
2. Apothecary
3. Faye Valley Skeleton
4. Mary the Quiet
5. Fog Walkers
6. Broken Light Spectre
7. James
8. Long-forgotten

Line-up
Steen Lauridsen – drums
Peter Just Rasmussen – pianos, keys, double bass
Jesper Kragh – guitars, basses, vocals

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