Rancid – Trouble Maker

Trouble Maker è un album di buon livello, che piacerà ai nuovi fan della band ma che deluderà (non troppo) i vecchi.

Qui non si parla di una band qualsiasi, qui si parla dei Rancid, la band californiana pilastro del punk rock, probabilmente la realtà più grande della scena punk da più di 25 anni a questa parte.

In tutti questi anni abbiamo imparato a conoscerli e, come ben sappiamo, i Rancid non amano i cambiamenti. Certo, la band ha sperimentato molto, andando dal punk rock allo ska, dallo street punk all’hardcore, ma si trattava solo di brani sporadici, uno o due per album, e alla fine lo stile era quello. Infatti, Trouble Maker presenta esattamente le caratteristiche dei suoi predecessori: ritmiche rapide, basso esplosivo e ritornelli vivaci. Tuttavia, nonostante il sound sia sempre quello, c’è qualcosa che fa sì che la grinta e l’energia che trovavamo in album come Indestructible e …And Out Come The Wolves sia qualcosa di assente e ormai lontano.
Anche in Trouble Maker non mancano le solite sperimentazioni e si presenta comunque come un album molto variegato: è deducibile che la band voglia “tornare alle origini”, ma senza farsi mancare nulla. L’album si apre con una traccia (Track Fast) sì di breve durata ma anche molto potente, che quasi richiama l’hardcore. Vi è inoltre una canzone (Telegraph Avenue) che, come già ha detto qualcuno, cerca di unire ritmiche da ballata folk ai ritornelli in puro stile punk. Le altre tracce invece sono puramente punk rock stile Rancid, anche se meno potenti di brani ineguagliabili come “Hyena”.
La verità è che Trouble Maker non contiene brani “fatti male” o non validi, solo che non ne contiene nemmeno altri che possano dimostrare la crescita e la maturazione dei Rancid dopo i loro tanti anni di carriera. Una band finita? Forse, o forse no. Difficile dirlo. Ci sono troppe cose negative in questo album. Le tracce sono molte, è vero, ma quasi nessuna supera i due minuti e forse sono solo le prime tre che entusiasmano davvero. Non si sa se la carriera dei Rancid sia agli sgoccioli o la band abbia ancora tanto da dire, fatto sta che i loro vecchi fan sarebbero più che contenti di un “finale col botto”.
Trouble Maker resta comunque un album di buon livello, che piacerà ai nuovi fan della band ma che deluderà (non troppo) i vecchi. La band californiana ha sbagliato davvero poche volte nella sua carriera, perciò sicuramente i loro futuri lavori faranno sì (speriamo) che Trouble Maker diventi solo un ricordo.

Tracklist
1) Track Fast
2) Ghost of a Chance
3) Telegraph Avenue
4) An Intimate Close Up of a Street Punk Trouble Maker
5) Where I’m Going
6) Buddy
7) Farewell Lola Blue
8) All American Neighborhood
9) Bovver Rock and Roll
10) Make It Out Alive
11) Molly Make Up Your Mind
12) I Got Them Blues Again
13) Beauty of the Pool Hall
14) Say Goodbye to Our Heroes
15) I Kept a Promise
16) Cold Cold Blood
17) This Is Not the End
18) We Arrived Right on Time
19) Go On Rise Up

Line-up
Tim Armstrong – Vocals & Guitars
Lars Frederiksen – Vocals & Guitars
Matt Freeman – Bass
Branden Steineckert – Drums

RANCID – Facebook

Subterranean Masquerade – Vagabond

Vagabond è un album splendido, un lavoro progressivo che entusiasma e non può e non deve lasciare indifferenti gli amanti della musica in senso lato.

Ecco un altro album straordinario che valorizza a mio avviso un anno che sta regalando grosse soddisfazioni agli amanti del metal/rock, anche se come afferma qualcuno manca ancora l’opera che dovrebbe smuovere il mercato come avvenne negli anni novanta.

Ma a noi amanti del bello, a prescindere da stadi colmi e classifiche scalate, ci godiamo opere di un’altra categoria come Vagabond, ultimo parto della multinazionale progressiva Subterranean Masquerade, più che una band, un nugolo di talenti al servizio della musica a 360°, capitanata dal chitarrista israeliano Tomer Pink e con il contributo al microfono di Kjetil Nordhus (Green Carnation, Tristania).
Terza meraviglia targata Subterranean Masquerade, dopo il debutto nel lontano 2005 con Suspended Animation Dreams ed il precedente The Great Bazaar di un paio di anni fa, con  una manciata di musicisti che si alternano come ospiti tra le fila del gruppo e tanta musica che, pur strutturata su un progressive rock di ultima generazione, amoreggia con la musica etnica, per poi lasciare che sfumature estreme brutalizzino attimi di musica che risplende di note variopinte come, appunto (prendendo spunto dal titolo del precedente lavoro), se ci si trovasse in un bazaar.
Ogni nota una sorpresa, ogni canzone un viaggio in questa musica che più internazionale di così non si può, mentre non sono poche le ispirazioni del gruppo (King Crimson, Nightingale e Spock’s Beard) che ci appaiono come oasi musicali tra l’opener Place For Fairytales, la decisa e spettacolare Nomad e la splendida Ways .
Gli Orphaned Land sono presenti pure loro, e non potrebbe essere altrimenti  vista la quantità di atmosfere etniche che Vagabond porta con sé, mentre Kippur e  As You Are si specchiano nella musica rock/metal  degli ultimi quarant’anni tra splendide melodie, interventi in growl per niente fuori luogo ed una cover di Space Oddity che lascia senza fiato per intensità, interpretazione ed un inizio drammaticamente doom.
Mixato da Christer Andre Cederberg (Anathema, Tristania, Circus Maximus) e masterizzato da Tony Lindgren ai Fascination Street studio, Vagabond è un album splendido, un lavoro progressivo che entusiasma e non può e non deve lasciare indifferenti gli amanti della musica in senso lato.

Tracklist
1. Place for Fairytales
2. Nomad
3. Ways
4. Carousal
5. Kippur
6. Daled Bavos
7. As You Are
8. Hymn of the Vagabond
9. Space Oddity

Line-up
Kjetil Nordhus – Vocals
Eliran Weizman – Vocals
Tomer Pink – Guitars
Or Shalev – Guitars
Shai Yallin – Keyboards
Golan Farhi – Bass
Matan Shmuely – Drums

SUBTERRANEAN MASQUERADE – Facebook

Davide Berardi – Fuochi e Fate

Fuochi e Fate raccoglie ed imprime sullo spartito storie di vita raccontate con l’ausilio della musica, rock/pop nel più ampio senso del termine.

Rock d’autore sulle pagine di MetalEyes con Davide Berardi ed il suo Fuochi e Fate, album che ha potuto vedere la luce per merito del sempre più diffuso crowdfunding, con il quale i musicisti si affidano alla generosità dei propri ascoltatori per la realizzazione dei loro progetti.

Fuochi e Fate è un live registrato negli studi della Joe Black Production dove Berardi, in compagnia di Umberto Coviello (batteria e chitarra), Antonio Vinci (piano e tastiere) e Mino Indraccolo (basso), ci avvolge in un caloroso abbraccio fatto di rock d’autore, ombre jazzate e luci di musica fusion che raccontano undici storie, tra il serio ed il faceto, storie di vita, malinconiche e spiritose, perse nelle vicende quotidiane che potrebbe essere quell di ognuno di noi.
Il gruppo suona con maestria e talento, la musica scivola accompagnando i testi, maturi e sempre con un velo di ironia nascosta anche tra le pieghe più seriose dell’esistenza.
E’ originale la scelta di un live senza il pubblico, di un album in presa diretta con il quale il musicista interagisce con i suoi ascoltatori forte di un lotto di canzoni piacevoli come Bruxelles, Sudamerica e Povero Fesso.
Detto della cover di La Cura, l’immortale capolavoro di Battiato, ricordo che una parte del ricavato della vendita del disco verrà devoluta alla cooperativa sociale Eridanio, fondamentale per la realizzazione dell’opera.
Fuochi e Fate raccoglie ed imprime sullo spartito storie di vita raccontate con l’ausilio della musica, rock/pop nel più ampio senso del termine.

Tracklist
1. Povero Fesso
2. Indescrivibile
3. Bruxelles
4. Supervisionario
5. Mi Sento Una Formica
6. I Piedi E Gli Occhi
7. Roba Da Poco
8. La Cura
9. Che Meraviglia
10. Sudamerica

Line-up
Davide Berardi – Voce, Chitarra
Umberto Coviello – Batteria, Chitarra
Antonio Vinci – Piano, Tastierre
Mino Idraccolo – Basso

DAVIDE BERARDI – Facebook

Demon Head – Thunder On The Field

Diabolic rock come amano definire la propria musica, o semplicemente hard rock debitore dei Black Sabbath, con qualche sfumatura doorsiana che si evince dal tono vocale del singer, fatto sta che Thunder on the Fields risulta un buon lavoro, assolutamente perfetto per chi vive di rock

In piena tradizione settantiana e con uno spirito vintage mai domo arriva tramite The Sign Records il secondo album della hard rock/doom band danese dei Demon Head.

Diabolic rock come amano definire la propria musica, o semplicemente hard rock debitore dei Black Sabbath, con qualche sfumatura doorsiana che si evince dal tono vocale del singer, fatto sta che Thunder on the Fields risulta un buon lavoro, assolutamente perfetto per chi vive di rock che respira incenso, profumo liturgico che si mischia a quello dell’erba bruciata in cartine color canapa.
Band relativamente giovane, fondata solo cinque anni fa, i Demon Head hanno giù stampato una manciata di lavori tra full length e opere minori e la loro proposta si piazza tra il sound dai rimandi mistici e occulti dei primi anni settanta e quello che ricorda realtà con meno anni sulle spalle, come i canadesi The Tea Party folgorati sulla strada del doom.
I ritmi alternano una buona dose di hard rock ad atmosfere più legate alla musica del destino, ottima per esempio la traccia Hic Svnt Dracones, una lunga jam dalle atmosfere cangianti e progressive, mentre su We Are Burning si respira epicità classicamente metal.
Il gruppo canadese lascia il meglio alla fine, così che Gallows Omen e Untune The Sky formano un pezzo di granito doom metal, psichedelico ed avvolgente con la prestazione di M.F.L. al microfono che continua a regalare emozionanti parti evocative e lascivi vocalizzi psych/blues rock, alzando non poco il valore generale di questo Thunder On The Fields, album che, come le opere destinate a durare nel tempo, cresce con gli ascolti.

TRACKLIST
01. Menneskeaederen
02. We are burning
03. Thunder on the fields
04. Older now
05. Hic sunt dracones
06. Gallows omen
07. Untune the sky

LINE-UP
J.W- drums
M.S.F.- bass
B.G.N.- guitar
T.G.N.- guitar
M.F.L.- vocals

DEMON HEAD – Facebook

Freight Train – I

Il disco parte bene e finisce meglio, e la durata relativamente breve gioca a favore del gruppo che raccoglie il meglio di quanto composto in questi due anni

Si torna a parlare di hard rock melodico sulle pagine virtuali di MetalEyes con il debutto, tramite Rockshots Records, dei Freight Train, giovanissimo sestetto di Rimini.

Attivi da appena un paio d’anni avevano raggiunto molti appassionati con il primo videoclip, Any Way You Want It, cover del bellissimo brano dei Journey, incluso anche in I, lavoro che risulta la vera partenza per il gruppo nostrano.
Poco più di mezzora basta ai Freight Train per provare a conquistare fans dell’aor, grazie ad un buon talento compositivo in un genere in cui tecnica ed impatto vengono messi in ombra dall’importantissima forma canzone.
Il disco parte bene e finisce meglio, e la durata relativamente breve gioca a favore del gruppo che raccoglie il meglio di quanto composto in questi due anni, regalando ricami tastieristici supportati da chitarre che graffiano, prima di concedere solos di grande efficacia.
La materia è stata studiata e resa alla perfezione dai Freight Train che pescano dal cilindro almeno un trio di perle: You Won’t Fall, la splendida Another Chance e Reach For The Sky.
Influenze che a mio parere non si fermano solo all’America dei Journey, ma attraversano l’ Atlantico per giungere nel regno unito fino ed incontrare i Ten e proseguire per il nord Europa, ultima frontiera dell’hard rock melodico (dagli Europe cotonati degli anni ottanta, ai più giovani ma imperdibili Brother Firetribe).
Buona la prima, si dice in questi casi, album consigliato a chi cerca disperatamente nomi nuovi per continuare a sognare sulle ali dell’aor.

Tracklist
1. The Beginning
2. You Won’t Fall
3. Into the Fire
4. Another Chance
5. Here I Am
6. Somewhere, Someday
7. The Prelude
8. Reach for the Stars
9. Any Way You Want It
10. Into the Fire (Acoustic Version)

Line-up
Ivan Mantovani – Voce
Enrico Testi – Chitarra, Cori
Andrea Cappelletti – Chitarra
Anton Bagdatyev – Tastiere, Cori
Lorenzo Pucci – Basso, Cori
Mattia Simoncini – Batteria

FREIGHT TRAIN – Facebook

Märvel – The Hills Have Eyes

Sei tracce di rock’n’roll, vicino a quanto fatto dagli Hellacopters e con un’ispirazione settantiana che aleggia sul disco.

Che in Scandinavia si faccia rock’n’roll di altissima qualità non sono di certo io a dirlo, parla una lunga serie di nomi che sono diventati punti di riferimento per i rockers di tutto il mondo, partendo dagli storici Hanoi Rocks, passando dai Turbonegro per arrivare alla generazione che, come una gallina magica ha sfornato uova d’oro come Backyard Babies, Hellacopters e Hardcore Superstars.

Passata la tempesta rock’n’roll a cavallo tra gli anni novanta ed il nuovo millennio, i gruppi famosi sono tornati ultimamente sul mercato con buoni lavori accompagnati dalle nuove leve, meno numerose rispetto a quel periodo ma sempre di ottima qualità.
I Märvel per esempio provengono da Linköping, sono attivi dal 2002 e dopo aver consumato strumenti nelle cantine della loro città arrivano al debutto nel 2005 con l’album Five Smell City.
Warhawks Of War, rimane l’opera più famosa che vede ospiti comeDregen (Backyard Babies) and Robert Dahlqvist (Hellacopters) , a confermare l’ottima proposta del gruppo.
The Hills Have Eyes esce nel 2015, licenziato dalla Killer Cobra ed ora ristampato dalla The Sign .
Trattasi di un mini album composto da sei tracce di rock’n’roll, vicino a quanto fatto dagli Hellacopters e con un’ispirazione settantiana che aleggia sul disco.
Dunque siamo nel più puro e melodico hard rock che avvicina i quattro cavalieri mascherati più famosi del rock alla tradizione scandinava, con una deliziosa (e più melodica rispetto all’originale) cover del classico degli WASP, Love Machine, che valorizza tutta l’opera.
Buone trame acustiche, specialmente nella conclusiva Bring It On e maschere di cuoio a nascondere i visi dei tre protagonisti, benvenuti nel mondo dei Märvel !

TRACKLIST
1.Back In The Saddle
2.One Shining Moment
3.The Hills Have Eyes
4.Goodbye, Shalom!
5.Love Machine
6.Bring It On

LINE-UP
Ulrik Bodstedt – Bass
Tony Samuelsson – Drums
John Steen – Guitar & Vocals

MARVEL – Facebook

La Janara – La Janara

La musica del gruppo irpino ci avvolge e ci trasporta tra le montagne, in uno spazio temporale in cui roghi, streghe, spettri e tutte le creature del mondo occulto e mistico si prendono gioco degli uomini.

La label genovese Black Widow, che di musica di un certo spessore è portavoce da molti anni, ci presenta questo progetto in arrivo dall’Irpinia chiamato La Janara, creatura leggendaria di quei posti che, come molti altri luoghi sparsi per la nostra penisola, sono accompagnati da misteriosi racconti tramandati da generazioni.

In La Janara la musica è un bellissimo ed affascinante esempio di heavy metal, pregno di sfumature dark e progressive in linea con una tradizione nazionale consolidata, così come il fatto che venga rispettata all’estero e ignorata nel nostro paese, nonostante regali nel nuovo millennio ancora grande musica.
Accompagnata dalla voce della strega Raffaella Cangero (che è stata ospite anche nell’ultimo album degli Ecnephias), la musica del gruppo irpino ci avvolge e ci trasporta tra le montagne, in uno spazio temporale in cui roghi, streghe, spettri e tutte le creature del mondo occulto e mistico si prendono gioco degli uomini: le sonorità si sposano con i testi in italiano creando un alone di mistero, grazie anche ad atmosfere dark d’autore, sacrileghe ma raffinate, tra impennate metalliche, ritmiche doom, e bellissimi camei folk acustici.
La band passa dal metal classico, che si evince dai riff portanti dei brani Sul Rogo e Strega, marchiati a fuoco dal doom del maestri Paul Chain e The Black, al doom questa volta più classico della rocciosa Cuore Di Terra, mentre le trame acustiche di Orchi invitano al sabba di Requiem, altro brano atmosfericamente sopra le righe, valorizzato da un interpretazione varia e sentita della vocalist, ottima nel conferire un’anima ai testi mai banali dell’opera.
L’album è colmo di ispirazioni nobili come i già citati Paul Chain e The Black, a cui aggiungerei senza dubbio i grandi Death SS e, con le dovute differenze, si colloca vicino all’ultimo album degli Artemisia:  un gioiellino per il quale la parola arte non viene usata a sproposito.

Tracklist
1. Ianva
2. Sul Rogo
3. Spettri
4. Strega
5. Le Janare
6. Malombra
7. Cuore di Terra
8. Orchi
9. Requiem
10. Luce

Line-up
Nicola Vitale – Chitarra
Raffaella Cangero – Voce
Rocco Cantelmo – Basso
Stefano Pelosi – Batteria

LA JANARA – Facebook

Kayleth – Space Muffin Rusty Edition

Dopo il buon successo di Space Muffin, uscito sempre per Argonauta Records nel 2015, ecco la ristampa arricchita da Rusty Gold, il primo ep del gruppo pubblicato nel 2010, ormai finito fuori stampa da tempo.

Dopo il buon successo di Space Muffin, uscito sempre per Argonauta Records nel 2015, ecco la ristampa arricchita da Rusty Gold, il primo ep del gruppo pubblicato nel 2010, ormai finito fuori stampa da tempo.

L’ep presenta delle sorprese, essendo molto interessante per scoprire la genesi di questo gruppo italiano, che propone uno stoner rockeggiante e desertico, rielaborato in una maniera interessante attraverso un groove peculiare ed importante. Confrontando ep e disco di debutto si possono notate molte differenze, in primo luogo di produzione e composizione, ma l’essenza dei Kayleth rimane sempre ruvidamente uguale, dato che in nuce l’ep contiene molto di ciò che verrà sviluppato nel disco. Il desert stoner è un genere che comprende molti gruppi, ma lo scarto che ne rende interessante uno lo hanno in pochi, i Kayleth sono fra questi. Questa ristampa, differente ed arricchita anche nell’artwork, rende molto bene l’idea di quello che è questo gruppo, ovvero potenza, ampiezza delle visioni e tanto suono ruvido, il tutto amalgamato molto bene. Bisogna ammettere che risentire Space Muffin a distanza di due anni rende ancora meglio, segno che dopo una decantazione questo vino è ancora più buono. Un ulteriore segno di una bandin grande crescita, e questo  sarà fondamentale per loro il prossimo disco.

Tracklist
1.Mountains
2.Secret Place
3.Spacewalk
4.Bare Knuckle
5.Born to suffer
6.Lies of mind
7.Try to save the appearances
8.NGC 2244
9.The Electric Tongue Is Coming (bonus track)
10.Rusty Gold (bonus track)
11.Deepest Shadow (bonus track)
12.Oops, I Eat You (bonus track)
13.Old Man’s Legacy (bonus track)

Line-up
Massimo Dalla Valle: Chitarra
Alessandro Zanetti: Basso
Daniele Pedrollo: Batteria
Enrico Gastaldo: Voce
Michele Montanari: Synth

KAYLETH – Facebook

MaidaVale – Tales Of The Wicked West

Le quattro sacerdotesse di Fårösund, senza cercare di stupire a tutti i costi, svolgono il compito prefissato nel migliore dei modi, ed il loro album ne esce alla grande, vintage fino al midollo, suggestivo e pregno di atmosfere stregate dal blues e dalla psichedelia-

Ora che i suoni vintage, nel metal e nell’hard rock, sono la nuova via per piacere agli ascoltatori, i gruppi dediti a queste sonorità spuntano come i funghi, un male se pensiamo ad un ennesima inflazione del mercato, un bene per i fans dei suoni nati nella seconda metà del secolo scorso.

Nell’ underground non mancano nuove realtà che arrivano all’esordio prendendo come esempio le nuove new sensation dell’hard rock dai rimandi blues e psichedelici come i Blues Pills.
Dalla Svezia (e non è un caso, visto la tradizione per i suoni settantiani nel paese scandinavo) arrivano dunque le MaidaVale, gruppo tutto al femminile che tramite la Sign Records esordisce con Tales Of The Wicked West, bellissimo esempio di hard rock psichedelico e blues, ipnotico come una danza sotto la luna splendente sui boschi delle foreste nordiche.
Le quattro sacerdotesse di Fårösund, senza cercare di stupire a tutti i costi, svolgono il compito prefissato nel migliore dei modi, ed il loro album ne esce alla grande, vintage fino al midollo, suggestivo e pregno di atmosfere stregate dal blues e dalla psichedelia, con quel tocco sabbathiano che avvicina il sound agli hard rockers dai gusti vintage.
Blues e psichedelia sono un binomio più pericoloso di quello che si possa pensare, esaltato dalla voce di Matilda Roth in (If You Want The Smoke) Be The Fire o Restless Wanderer, con una Find What You Love And Let It Kill You che trasforma il verde della natura svedese nel color sabbia del deserto americano, in un trip che la voce femminile accentua facendo sognare dentro ad un caleidoscopio di musica rock sopra le righe.
Finirà questo fiume in piena che porta a valle tanta musica vintage e come sempre rimarranno solo i migliori, e le MaidaVale sono candidate a restare, non perdetevele.

TRACKLIST
01. (If You Want the Smoke) Be The Fire
02. Colour Blind
03. The Greatest Story Ever Told
04. Truth/Lies 05. Dirty War
06. Restless Wanderer
07. Standby Swing
08. Wish I’d Been Born At Sea
09. Find What You Love And Let It Kill You

LINE-UP
Johanna Hansson – Drums
Matilda Roth – Vocals
Linn Johannesson – Bass
Sofia Ström – Guitar

MAIDAVALE – Facebook

Eva Can’t – Gravatum

Ascoltando Gravatum più volte con il giusto approccio, memorizzandone i passaggi e lasciandosi compenetrare dalla potenza lirica e drammatica del racconto, si arriverà al punto di non poterne più fare a meno, come è tipico delle opere musicali di livello superiore.

Gli Eva Can’t sono un band bolognese formatasi agli albori del decennio e guidata da Simone Lanzoni, ovvero il clean vocalist protagonista degli ultimi due magnifici album degli In Tormentata Quiete.

Già questo dato potrebbe, da solo, attrarre l’attenzione di molti tra i possibili appassionati smarriti nel labirinto formato dai sottogeneri del metal e del rock e dal relativo flusso oceanico di uscite, ma è bene dire da subito che, con Gravatum, gli Eva Can’t ci hanno omaggiato di un vero e proprio capolavoro di arte musicale, capace di trasportare ai giorni nostri il potenziale evocativo e poetico che fu il tratto distintivo del progressive italiano degli anni ’70, uno dei movimenti musicali più significativi e peculiari nella storia moderna delle sette note, a detta non solo del sottoscritto, ma anche di commentatori ben più quotati e credibili.
Il fatto che il gruppo felsineo sia approdato a questi lidi, pur essendo formato sostanzialmente da musicisti dal robusto background metal, non deve sorprendere, visto che i prodromi di tutto questo sono riscontrabili in un percorso evolutivo che, partendo dall’heavy del debutto L’enigma delle ombre, si è poi snodato senza porsi particolari limiti di stile o di genere.
Quello che sicuramente non è mai cambiata, costituendo uno dei tratti distintivi della band, è la cura nella stesura dei testi, sempre ispirati, dal grande afflato poetico e pervasi da un costate contrasto tra lo smarrimento di fronte alla caducità dell’esistenza e la consapevolezza di quanto questa rappresenti dopotutto un regalo, benché gran parte dell’umanità non ne abbia colto né il senso né, soprattutto, il valore.
In Gravatum, gli Eva Can’t non lesinano comunque sull’espressione di un’amarezza di fondo ben esplicitata da un concept che racconta gli ultimi istanti dell’uomo sulla Terra, in un turbinio inesauribile di emozioni in cui le liriche non rivestono un ruolo affatto marginale, ma appaiono fondamentali esattamente quanto un struttura musicale che, come detto, si muove da una base prog rock per sconfinare nel folk (La Ronda di Ossa), senza dimenticare le radici metal che emergono soprattutto nella splendida title track.
Ma l’album è nient’altro che un percorso emotivo regalatoci da Lanzoni e dai suoi altrettanto bravi compagni d’avventura fin dalla prima ora (Luigi Iacovitti alla chitarra, Andrea Maurizzi al basso e Diego Molina alla batteria), nel corso del quale ci si imbatte in ogni istante in attimi di cristallina bellezza, in una forma d’arte talmente evoluta e perfetta in grado di commuovere lasciando un segno indelebile.
Sfido anche i meno sensibili a non provare qualche brivido quando Simone Lanzoni intona Terra su un toccante tappeto pianistico, un connubio che riporterà chi ha già qualche capello bianco ai momenti perduti nel tempo e ritenuti irripetibili del miglior Banco del Mutuo Soccorso, anche se chiaramente il vocalist non ha nulla in comune stilisticamente con il compianto Di Giacomo, se non una stessa intensità interpretativa ed un’espressività che non vengono mai meno, neppure nelle parti recitate o nei rari passaggi in growl.
In poco più di un’ora gli Eva Can’t rielaborano con grande competenza il meglio della tradizione rock/metal italiana, ammantando il tutto di un’aura poetica in grado di fare la differenza, con il suggello dei sedici minuti di straordinaria varietà e profondità della conclusiva Pittori Del Fulgido Astratto.
Se i tolemaici ascoltatori odierni del progressive avessero ancora orecchie per sentire, con la band bolognese avrebbero trovato finalmente un moderno punto di riferimento e qualcuno degno senza alcun dubbio di soppiantare diversi gruppi storici che, con tutto il dovuto rispetto ed altrettanta riconoscenza, negli ultimi decenni hanno vissuto solo della luce riflessa del proprio illustre passato; purtroppo (anche se spero di sbagliarmi) a gratificare della giusta attenzione un album di tale spessore saranno i soliti e deprecati “metallari” dalla mentalità più aperta, quelli che le emozioni le ricercano anche nel presente,  senza condizionamenti o pregiudizi di sorta.
Comunque sia, ascoltando Gravatum più volte con il giusto approccio, memorizzandone i passaggi e lasciandosi compenetrare dalla potenza lirica e drammatica del racconto, si arriverà al punto di non poterne più fare a meno, come è tipico delle opere musicali di livello superiore.

Tracklist
1. L’Alba Ci Rubò Il Silenzio
2. Apostasia Della Rovina
3. La Ronda Di Ossa
4. Oceano
5. Terra
6. Gravatum
7. Pittori Del Fulgido Astratto

Line-up:
Simone Lanzoni: guitars, vocals
Diego Molina: drums
Luigi Iacovitti: guitars
Andrea Maurizzi: bass

Guests:
keyboards by Andrea Roda
lead guitar on “Oceano” by Andrea Mosconi

EVA CAN’T – Facebook

Bone Man – III

Il modo particolare di approcciarsi al rock dei tedeschi Bone Man deriva dagli ultimi anni del secolo scorso e viene investito da un attitudine psichedelica, decollando e rimanendo in quota per tutta la durata di III.

Ci si può perdere anche nelle foreste della Germania, specialmente se veniamo rapiti dal sound di questo ottimo sesto lavoro dei Bone Man, trio che dell’ hard rock fa il suo credo, psichedelico e dai rimandi novantiani.

Infatti, il modo particolare di approcciarsi al rock dei tedeschi deriva dagli ultimi anni del secolo scorso e viene investito da un attitudine psichedelica, decollando e rimanendo in quota per tutta la durata di III.
Il trio picchia non poco, il rock graffiante dei primi Soundgarden viene stonato da tonnellate di mood psichedelico senza mai perdere la forma canzone, dunque dimenticatevi lunghe jam, care ai gruppi underground odierni (in linea con l’attitudine old school tanto cool in questi anni): tra lo spartito di III si respira rock, nascosto sotto una coltre di watt, ma dall’ottimo appeal.
Con These Days Are Gone, Wreck Under The Sea e il suo mood oscuro, Incognito con il basso che pulsa sotto l’effetto di allucinati rimandi ottantiani, e la furia stoner di Zeitgeist, si continua a girare intorno ad una radura con la brutta sensazione di esserci già passati più volte, mentre la fredda notte incalza e la speranza di tornare sulla retta via diventa una mera illusione.
Avvicinatevi con cautela a III, ma fatelo, non ve ne pentirete.

TRACKLIST
1.Pollyanna
2.Zeitgeist
3.These Days Are Gone
4.Cold Echo
5.False Ambition
6.Wreck Under The Sea
7.Incognito
8.Years Of Sorrow

LINE-UP
Marian Klein – Guitar
Arne Doepper – Bass
Dennis “Ötzi” Oelze – Drums

BONE MAN – Facebook

The Mustangs – Just Passing Through

Just Passing Through, nuovo album dei The Mustangs, è un viaggio tra le anime del blues contemporaneo degno dei più grandi interpreti americani e del Regno Unito.

Si vola sulle ali del blues con il nuovo album di una band britannica molto apprezzata nella scena, i The Mustangs.

Attivo dal 2001, il gruppo proveniente dall’Hampshire arriva quest’anno al traguardo della doppia cifra in quanto a lavori pubblicati, confermando tutto il valore espresso fino ad oggi e l’ottima reputazione che si è costruito negli anni tra gli amanti del genere e gli addetti ai lavori.
Blues rock d’autore, dunque, anche per questo nuovo Just Passing Through, licenziato dalla Trapeze Music con cui la band collabora da tempo: l’album è formato da un lotto di brani che seguono la tradizione del british blues, alternandolo con bellissimi camei d’ oltreoceano, quindi nella musica del gruppo inglese si rincorrono le due principali anime del genere, che si incontrano e si allontanano come amanti brucianti di passione.
E’ questa la caratteristica principale del sound dei The Mustangs, che confezionano un lavoro vario e piacevole,con la chitarra di Adam Norsworthy a ricamare armonie campestri ed il profumo dell’erba bagnata dalle pioggia del nord si mescola con quello del fieno nelle pianure a sud del nuovo continente.
L’album parte con il freno a mano tirato e i primi brani, fin da Hiding From the Rain, risultano attraversati da un mood cantautorale, con il sound a scivolare sulla chitarra del leader, ma da Just The Way It Is il sole fa capolino tra le nuvole, la temperatura si alza non poco tra le armonie di Because It’s Time ed i cori a cappella di Cry No More e la febbre che si alza nella Saturday Night dei The Mustangs.
Il blues della passionale e sanguigna Save My Soul e la straordinaria From Somewhere To Nowhere alzano non poco il valore di questo lavoro che, come suggerisce la copertina, è un viaggio tra le anime del blues contemporaneo degno dei più grandi interpreti americani e del Regno Unito.

Tracklist
1.One Way Ticket
2.Hiding From The Rain
3.Fingerprints
4.Beautiful Sleeper
5.Just The Way It Is
6.Because it’s Time
7.Cry No More
8.Saturday Night
9.What Lies Within
10.Vinegar Fly
11.Save My Soul
12.From Somewhere To Nowhere
13.How Short

Line-up
Adam Norsworthy – Lead Guitar, Vocals
Derek Kingaby – Blues Harp
Jon Bartley – Drums, Backing Vocals
Ben McKeown -Bass, Backing Vocals

THE MUSTANGS – Facebook

Gentle Knife – Clock Unwound

Undici musicisti impegnati in quasi un’ora di sublime musica che spazia a 360° nella musica contemporanea, creando uno splendido esempio di musica progressiva.

Nei paesi scandinavi si suonano metal e rock in tutte le loro forme, dal rock ‘n’ roll al metal estremo, con tradizioni ormai consolidate non solo nel death e nel black metal, ma anche nell’hard & heavy e nel progressive, generi che hanno sempre trovato terreno fertile in quelle terre.

Seguendo la tradizione del progressive classico, i norvegesi Gentle Knife tornano con un nuovo album dopo gli ottimi riscontri ottenuti dal loro primo ed omonimo lavoro uscito un paio d’anni fa.
Il gruppo, che ad oggi vede impegnati undici musicisti, una vera e propria orchestra rock, torna dunque con un’altra bellissima opera progressiva, prendendo spunto ed ispirazione dalla tradizione settantiana, ma tenendo più di un piede in questi primi anni del nuovo millennio.
Una musica cangiante, pregna di atmosfere soffuse, elegantemente rock come hanno insegnato i gruppi storici, ma che non disdegna sfumature moderne, intimiste e malinconiche tipiche dei migliori interpreti odierni.
Le note sprigionate dai Gentle Knife sono come l’acqua di un torrente nel mezzo della foresta norvegese, limpida e fluida nel suo scorrere tra le rocce, giocando con l’angusto letto come gli strumenti con lo spartito, a tratti spumeggianti ed elettrici, in altri melliflui e raffinati.
Poesia in musica come nelle migliori proposte del genere, l’album accoglie ed abbraccia una marea di idee e generi, passando dal progressive rock  ad attimi in cui le jam portano il gruppo su territori jazz e fusion, ad altri dove le trame intimiste creano un alone malinconico attorno al sound creato per Clock Unwonud.
Difficile trovare un brano che non abbia spunti fuori dal comune, anche se le mie preferite sono l’eccellente ed ariosa Smother e la crimsoniana Resignation, sunto del credo musicale dei Gentle Knife.
Undici musicisti impegnati in quasi un’ora di sublime musica che spazia a 360° nella musica contemporanea, creando uno splendido esempio di musica progressiva: quando il genere raggiunge certi livelli, rimane il punto più alto di un certo modo di intendere il rock.

Tracklist
1.Prelude: Incipit
2.Clock Unwound
3.Fade Away
4.Smother
5.Plans Askew
6.Resignation

Line-up
Astraea Antal – flutes, woodwinds and visuals
Pål Bjørseth – keyboards, vocals, trumpet
Odd Grønvold – basses
Thomas Hylland Eriksen – sax and woodwinds
Veronika Hørven Jensen – vocals
Håkon Kavli – vocals, guitars
Eivind Lorentzen – guitars and synths
Charlotte Valstad Nielsen – sax
Ove Christian Owe – guitars
Ole Martin Svendsen – drums, percussion
Brian M. Talgo – samples, words, vocals, visions and artwork

GENTLE KNIFE – Facebook

She Was Nothing – Reboot

L’album scorre via in maniera assolutamente gradevole, ben prodotto e ricco di brani orecchiabili, ma nel contempo è afflitto da una “leggerezza” che rischia di far perdere alla band molti degli estimatori dal background metallico.

Secondo album per i milanesi She Was Nothing, a 5 anni di distanza da Dancing Through Shadows, lavoro che ebbe una buona accoglienza all’epoca con la sua abbastanza audace mistura tra elementi metal ed elettronici.

Reboot, come suggerisce il titolo, sembra resettare in parte quanto fatto in passato, intanto “ripulendo” il sound quasi del tutto della componente metal, fatto salvo qualche riff disseminato in maniera omeopatica nei brani; il risultato è un album che scorre via in maniera assolutamente gradevole, ben prodotto e ricco di brani orecchiabili, ma nel contempo afflitto da una “leggerezza” che rischia di far perdere alla band molti degli estimatori dal background metallico.
Before It’s Too Late – Pt. I è, se vogliamo, emblematica del nuovo corso, con i suoi rimandi ai Linkin Park, trattandosi di una canzone appena sporcata da una vena rock e focalizzata su un chorus di immediato impatto, ma destinato a dissolversi come una bella ma effimera bolla di sapone; molto meglio, allora, Can’t Stop These Things, leggermente più robusta e vicina al sound di una band di notevole spessore artistico come furono gli AFI di inizio millennio.
La tendenza è, comunque, quella di proporre un rock talvolta spruzzato di dub ed elettronica (che sono i momenti in cui le cose tutto sommato funzionano meglio, come nella buona B.S.O.D.), in grado di catturare l’attenzione con una manciata di potenziali hit (la già citata opener, Man VS Beast, Cocoon), spingendosi su lidi abbastanza lontani da quelli di chi si nutre del rock e metal di matrice underground.
Reboot non è affatto un brutto disco, visto che consente di passare una cinquantina di minuti abbastanza spensierati, ma il suo problema è che, con tali caratteristiche, difficilmente potrà rendersi appetibile a chi è abituato ad altre sonorità

Tracklist:
1. Before It’s Too Late – Pt. I
2. Can’t Stop These Things
3. The Hunt
4. Digging Under Your Skin
5. Man VS Beast
6. Brick After Brick
7. Before It’s Too Late – Pt. II
8. Back to Sleep
9. B.S.O.D.
10. Another Day, Another Way
11. Cocoon
12. Reboot

Line-up:
Augusto Boido – Bass, Guitars
Claudio Lobuono – Vocals
Davide Malanchin – Drums
Leonardo Musumeci – Keyboards

SHE WAS NOTHING – Facebook

Dope Out – Scars & Stripes

Un ottimo album underground e una band in cui rifugiarsi quando la voglia di rock è tanta così come quella di un nome nuovo da fare vostro.

Quello tra hard rock e groove è un binomio che negli ultimi tempi si è consolidato grazie ad una miriade di uscite, più o meno interessanti, ma sicuramente tutte pregne di grinta ed irriverenza rock’n’roll.

I Dope Out arrivano da Parigi, il loro sound è statunitense di origine controllata, un hard & heavy potenziato da tonnellate di groove ed attitudine rock’n’roll appunto, come una band street impossessata dal demone del groove o semplicemente un hard rock band che suona cool (almeno di questi tempi).
Scars & Stripes è il secondo lavoro che segue di tre anni l’ album d’esordio Bad Seeds: si può dire tutto su questo lavoro, ma è indubbio che il sound in esso contenuto riesca a catturare l’attenzione dell’ascoltatore, bombardato da cannonate senza soluzione di continuità, con la melodia che fa a spallate con la mastodontica potenza ritmica e la sei corde che piazza solos che sprizzano rock’n’roll da tutti i pori.
Ritmiche rocciose, riff debordanti e chorus che si attaccano alla pelle come sanguisughe, sono le virtù di queste dieci deflagrazioni hard rock, dall’iniziale title track, passando per Dive, Lady Misfits e Balls To The Wall.
Ci si fa del male con Scars & Stripers, d’altronde difficilmente si riesce a stare fermi, mentre il mobilio di casa salta, sollecitato dal rock’n’roll moderno e pregno di groove del combo francese, tarantolato dopo essere stato sottoposto alle radiazioni rock di Sixx A.M., Velvet Revolver, Black Stone Cherry ed Alter Bridge.
Un ottimo album underground e una band in cui rifugiarsi quando la voglia di rock è tanta così come quella di un nome nuovo da fare vostro.

TRACKLIST
1.Scars & Stripes
2.Dive
3.The Freakshow
4.Lady Misfits
5.Clan Of Bats
6.Shooting Gun
7.Nose White
8.Balls To The Wall
9.Again
10.Soulmate

LINE-UP
Stoner – Vocals, Guitar
Crash – Lead Guitar, Backing vocals
Doc – Bass, Backing vocals
Mad – Drums

DOPE OUT – Facebook

Rex Brown – Smoke On This

Un buon lavoro, che sa sorprendere senza far gridare al miracolo e che sicuramente farà discutere, specialmente chi pensava di trovarsi al cospetto di qualcosa vicino ai Pantera o ai Down.

E’ venuto il momento anche per Rex Brown, storico bassista di Pantera, Down ed altre varianti metalliche più o meno riuscite ma che n e hanno fatto un musicista rispettato in tutto l’ambiente.

Vissuto per anni all’ombra di personalità debordanti come Phil Anselmo ed il compianto Dimebag Darrel, Rex ha avuto molto tempo per presentarsi in una versione solista e l’ha sfruttata a dovere, coniando per questo lavoro un sound tutto suo, evitando facili ispirazioni provenienti dal passato e lasciando che la suaindole lo spingesse verso lidi hard rock.
Rex, alle prese con basso, chitarra e voce (sanguigna, vissuta, da rocker) su Smoke On This ha collaborato con Lance Harvill, chitarrista/cantautore e suo amico di vecchia data, e con Christopher Williams , batterista di Nashville, da un paio d’anni dietro alle pelli degli Accept.
Prodotto da Caleb Sherman, Smoke On This è una raccolta di rock americano, classico, duro come la frontiera, intimista e malinconico, d’autore nei brani dove Brown lascia che siano le atmosfere semi acustiche o leggermente elettriche che sfiorano il southern rock, ma evitando di sconfinare nel groove e nell’hard & heavy: l’opera è suddivisa in undici capitoli di rock diretto e vissuto, come una vita spesa per la musica che lascia segni inevitabili, come molte volte solitudine od altrettanta inquietudine.
E’ un album vero e sincero Smoke On This, il volto riflesso in uno specchio di un artista che si dimostra completo ed in grado di andare oltre al solito sound per mettersi in gioco, riuscendoci con un lotto di brani piacevoli come Crossing Lines, Get Yourself Alright, il rock d’autore della delicata Grace, e l’hard rock polveroso di So Into You, mentre gira che ti rigira si finisce a parlare di blues, quello sporcato di rock duro, padre e figlio dell’America di provincia.
Un buon lavoro, che sa sorprendere senza far gridare al miracolo e che sicuramente farà discutere, specialmente chi pensava di trovarsi al cospetto di qualcosa vicino ai Pantera o ai Down.

Tracklist
1. Lone Rider
2. Crossing Lines
3. Buried Alive
4. Train Song
5. Get Yourself Alright
6. Fault Line
7. What Comes Around…
8. Grace
9. So Into You
10. Best Of Me
11. One Of these Days

Line-up
Rex Brown – Bass, Vocals, Guitars
Lance Harvill – Guitars
Christopher Williams – Drums

REX BROWN – Facebook

Bullet Height – No Atonement

“E’ stato chiaro da subito che sarebbe diventato qualcosa più grande di come ce lo saremmo mai aspettati”, sono le parole usate per descrivere questo recente lavoro, un full-length album di debutto che apre le porte a questo nuovo duo di grande impatto.

I Bullet Height sono nati dall’idea di Sammi Doll (tastierista della band IAMX che ha militato anche in altri gruppi) e Jon Courtney (cantante, chitarrista e tastierista della band Pure Reason Revolution) di dare vita ad un nuovo progetto insieme: un duo rock elettronico che potesse unire le caratteristiche personali di entrambi per creare qualcosa di innovativo e nuovo, diverso.

La sperimentazione musicale e l’attento songwrigting di Jon Courtney, affiancati alle doti canore di Sammi Doll, fanno dei Bullet Height un nuovo punto di svolta del rock, attingendo sia dal passato (band come i vecchi Garbage, Stabbing Westward o Snake River Conspiracy) che dal moderno e facendo del genere qualcosa di nuovo e proiettato nel futuro. L’album inizia con Fight Song, brano che già la dice lunga sul progetto in cui ci stiamo addentrando: una sferzata di chitarre e elettronica che sottolineano voci molto energiche, passando poi a Bastion, secondo brano, nel quale i Bullet Height fanno un piccolo “tributo” a Immigrant Song, portandola alle atmosfere del nuovo millennio. Di grande impatto il brano Fever, un duetto tra la splendida voce di Sammi Doll e la dolcezza del pianoforte che si trasforma in sonorità più dure affini al noise e all’industrial. “E’ stato chiaro da subito che sarebbe diventato qualcosa più grande di come ce lo saremmo mai aspettati“, sono le parole usate per descrivere questo recente lavoro, un full-length album di debutto che apre le porte a questo nuovo duo di grande impatto. Nel complesso il lavoro riesce ad unire molti elementi passando dal dark, al goth, all’avant-garde, all’hard rock e industrial con chitarre heavy, mescolando tutto alla perfezione e creando qualcosa di sperimentale e fortemente innovativo. Le voci della coppia si intrecciano perfettamente, creando a loro volta una melodia a sé stante e quasi ipnotica, che rende ogni brano una piccola perla. Un duo che ha buone basi per portare il rock elettronico in una nuova dimensione e sotto una nuova veste.

Tracklist
1. Fight Song
2. Bastion
3. Hold Together
4. Wild Words
5. Intravenous
6. Cadence
7. No Atonement
8. Break Our Hearts Down
9. Fever
10. Up to the Neck

Line-up
Sammi Doll – Keys, Vocals
Jon Courtney – Guitar, Vocals

BULLET HEIGHT

Affäire – Neon Gods

Gli Affäire riescono a farsi apprezzare già dal primo brano anche da chi non conosce la loro musica, ottenendo un ottimo compromesso tra atmosfere anni ’80 e l’aggiunta di qualche elemento moderno.

Dopo il full-length di debutto del 2015 At First Sight, gli Affäire tornano con un nuovo EP contenente anche una versione coverizzata del brano dei Beatles I Saw Her Standing There.

L’album inizia con la title track Neon Gods, introdotta da un riff di chitarra un po’ anticato, di stampo quasi country/blues, che si trasforma subito dopo in un aggressivo e rude sleaze. Degno di nota il brano All Messed Up, con il quale entriamo nel “Party Mood” in stile Crashdiet: ritornello orecchiabile e cori che accompagnano senza prevaricare la voce principale, sicuramente un brano che resterà nella testa dell’ascoltatore. Nonostante sia tratti di un EP di soli 5 pezzi, gli Affäire riescono a farsi apprezzare fin dal primo brano anche da chi non conosce la loro musica, ottenendo un ottimo compromesso tra atmosfere anni ’80 e l’aggiunta di qualche elemento moderno; insomma una band con un piede nel passato ed uno nel futuro, uno sleaze/glam rivolto non solo ai nostalgici ma anche alle nuove generazioni. Molto rilevante la cover del brano I Saw Her Standing There dei Beatles, un rock’n roll molto divertente in chiave originale e moderna, ma senza voler strafare rendendola una “brutta copia”. Il frontman Dizzy Dice Mike riesce a trasportare l’ascoltatore direttamente nelle atmosfere di ottantiana memoria, con la sua voce un po’ roca e rude tipica del glam e dello sleaze di quegli anni, splendidamente accompagnato dai cori nelle parti più significative dei brani. Le chitarre sono nel contempo “rozze” e cariche, senza mai debordare ma risaltando e spiccando nei giusti momenti, quasi a sottolineare la loro presenza. Il basso si fa sentire in tutte le canzoni, a volte prepotente, con uno spazio dedicato ad un piccolo assolo nell’introduzione del brano Shotgun Marriage, mentre la batteria rude e forte fa da accompagnamento in modo sapiente. Nel complesso Neon Gods è un EP molto interessante, che fa crescere l’attesa per un nuovo full-length e che, sicuramente, piacerà tanto agli affezionati del genere quanto ai nuovi ascoltatori che cercano qualcosa di vecchio stampo, ma allo stesso tempo con elementi che attingono dal moderno.

Tracklist
01. Neon Gods
02. All Messed Up
03. Shotgun Marriage
04. The Hitcher
05. I Saw Her Standing There

Line-up
J.P. Costanza – Drums, Backing Vocals
Rick Rivotti – Guitars, Backing Vocals
Dizzy Dice Mike – Vocals
Tawny Rawk – Bass, Backing Vocals

AFFAIRE – Facebook

Mother Nature – Double Deal

un lavoro piacevole, vario e scorrevole, duro ma con un occhio particolare verso melodie che catturano ed imprigionano, legati al filo del blues e della musica nera.

Operazioni dal retrogusto vintage o meno, è un fatto che l’hard rock sia tornato a fare la voce grossa sul mercato del metal/rock a tutti i livelli, dalle reunion live di gruppi storici alle proposte di un mondo musicale alternativo che non ha mai smesso di crederci, anche quando solo al pronunciare le due magiche parole (hard rock) si veniva tacciati e additati come immobili conservatori, amanti di un modo d’espressione ormai obsoleto.

Ma come sempre è successo in questo meraviglioso mondo, in questi ultimi anni, d’incanto, tutto è tornato al suo posto e l’hard rock nelle sue molte sfaccettature è tornato a far ruggire i leoni lungo criniti sui palchi di tutti il mondo.
E la nostrana Andromeda Relix non è certo stata a guardare mettendo sotto contratto vari gruppi impegnati nel rock duro come i Mother Nature, dal 1993 in giro a suonare hard rock zeppeliniano, dai rimandi al blues e in quota Bad Company.
Si parte da qui per descrivere il sound del gruppo pugliese, come detto da una vita ormai in sella, anche se non sono mancati problemi e stop forzati: un album uscito nel 1998 (Skin), un paio di demo precedenti che piacquero non poco alla stampa dell’epoca ed una predisposizione per tutto quel che riguarda il rock del delta, lasciato tre le mani di rockers che, con personalità e gusto, affrontano la materia seguendo le strade tracciate dai dinosauri settantiani, tra il Regno Unito e l’America(Aerosmith)
Ne esce un lavoro piacevole, vario e scorrevole, duro ma con un occhio particolare verso melodie che catturano ed imprigionano, legati al filo del blues e della musica nera (funky e soul fanno sicuramente parte del bagaglio musicale dei nostri).
Un album arioso, che parte come meglio non potrebbe con il riff dell’opener Spit My Soul, e mentre il sole scalda gli strumenti il ritmo prende il sopravento con l’irresistibile Magnet Girl.
L’inizio non poteva essere più promettente e adrenalinico, ed a confermare che non si tratta di un fuoco di paglia, Haze ci travolge, ipnotica e dal chorus melodico di una bellezza imbarazzante, mentre accenni alle nuove sfumature desertiche fanno capolino tra il groove ritmico di questo stesso brano e di Does It Suit You.
Gli Aerosmith a braccetto con gli Zep canticchiano Everything Will Follow, mentre gioiosi si incamminano verso il delta con il southern rock blues della splendida New Way: il gruppo qui si diverte e fa divertire come non succedeva da ormai vent’anni circa ed il sound esplode dagli altoparlanti, sanguigno e pieno come deve essere un disco del genere.
Un album che non lascia scampo e si fa amare, come un ragazza portata in un fienile nel tramonto di una sera d’estate, perdendosi tra le note mentre fuori, in un attimo, è già l’alba … magie del rock ‘n’ roll.

Tracklist
1.Spit My Soul
2.Magnet Girl
3.Haze
4.Pearl v3
5.Everything Will Follow
6.Ask Yourself
7.Double Deal
8.New Way
9.Does It Suit You
10.Boy, We Gotta Handle This

Line-up
Wlady Rizzi – vocals, guitars & harmonica
Luca Nappo – guitars & vocals
Francesco Candelli – bass & vocals
Francesco Amati – drums

MOTHER NATURE – Facebook

In A Testube – Immigration Anthems

Un album che si fa ascoltare, perfetto da inserire nel supporto mp3 della vostra automobile, melodico e non troppo metallico per essere gradito anche da chi il rock lo ascolta ogni tanto.

Non solo in America e nel Regno Unito si suona rock alternativo di una certa qualità: in ogni paese e specialmente in Europa il genere è suonato e seguito e nell’underground nascono tutti i giorni gruppi dediti ai suoni alternativi.

In Italia, per esempio, il genere può vantare una scena florida cresciuta negli ultimi anni, ma anche in Grecia non si scherza e gli In A Testube dimostrano i buoni propositi dell’underground di quel paese che ancora lotta per riprendersi da una devastante crisi economica.
Il gruppo proveniente da Salonicco, con Immigration Anthems cerca di uscire da quei  confini supportato dalla Dream Records con quest’ora di rock moderno, dall’ottimo appeal e con una manciata di brani che in altri tempi e, forse con altri natali da parte della band, avrebbero potuto fare il botto.
Auguriamo il meglio al quartetto di rocker che ha forse l’unico difetto di allungare un po’ troppo la vita di un album che, con una ventina di minuti in meno, sarebbe stato perfetto per sfondare tra gli amanti di un genere facile da assorbire ma altrettanto da dimenticare e per questo, perfetto quando risulta il più diretto possibile.
Tra i brani si segnalano il singolo C.I.C.O, la darkwave Limitless, Lucky Thirteen e la finalmente dura e grintosa Flying Away, canzoni ricche di sfumature elettroniche a delineare molto del sound di questo Immigration Anthems e la voce che rimane sempre al giusto livello di guardia, con appeale quel pizzico di ruffianeria obbligatoria se si vuole sfondare.
Dunque dimenticate Korn, Nine Inch Nails e System Of A Down, come scritto nella biografia del gruppo, e concentrate le vostre attenzioni si un sound più vicino ai Linkin Park e alla seconda generazione dei gruppi alternativi d’oltreoceano.
Un album che si fa ascoltare, perfetto da inserire nel supporto mp3 della vostra automobile, melodico e non troppo metallico per essere gradito anche da chi il rock lo ascolta ogni tanto.

TRACKLIST
1.Believe
2.In The End
3.C.I.C.O
4.Hey Lilly
5.CLOC
6.Limitless
7.Together As Two
8.Lucky Thirteen
9.Many Things
10.Flying Away
11.Digital Eyes
12.Slipping Away
13.Mythu

LINE-UP
Dennis Konstantinidis
Petros Kabanis
Panos Papadopoulos
Konstantinos Mentesidis

IN A TESTUBE – Facebook