Slow – IV Mythologiae

Anche se a mio avviso Gaia riusciva a toccare con più continuità le corde dell’emotività, Mythologiae è l’ennesima dimostrazione di qualità da parte di un musicista unico e da preservare come patrimonio dell’umanità negli anni a venire …

Nuova uscita per il poliedrico musicista belga Déhà, oggi di stanza a Sofia dove è coinvolto in prima persona nella crescita di una scena bulgara che, anche grazie al suo impulso, denota un promettente fermento.

Quella esibita da colui che è dietro a progetti quali Deus, Merda Mundi, C.O.A:G., We All Die (Laughing), Imber Luminis e i più recenti Sources Of I, è l’incarnazione funeral doom denominata Slow, giunta con IV – Mythologiae al suo quarto atto, come si può facilmente arguire.
Déhà è ormai da diversi anni sinonimo di qualità, qualsiasi sia il genere prescelto per sfogare la sua incontenibile creatività, e questa nuova mastodontica opera della durata di un’ora esatta non fa eccezione: il disco è come al solito eccellente, ben suonato ed altrettanto ottimamente prodotto, e tutto sommato ricalca per contenuti e valore il precedente III – Gaia, dal quale differisce forse per una lieve attenuazione delle ruvidità, aspetto evidenziato da una certa preponderanza della componente ambient e dal frequente ricorso alle clean vocals.
Tutto ciò forse penalizza parzialmente quel pathos, quel senso di ineluttabilità che così si mostra solo a tratti nelle intense parti dominate da ritmi bradicardici e dal sempre efficace growl del musicista belga.
I – The Standing Giant, II – The Drowning Angel e IV – The Dying God sono strutturate in maniera simile, con una prima metà dai tratti liquidi ed atmosferici, minuti che trascorrono all’insegna di una pace apparente che prelude alle aperture drammatiche guidate da riff densi e diluiti, mentre III – The Suffering Rebel sfrutta maggiormente l’effetto evocativo della voce pulita in alternanza alla pesantezza del sound.
La pietra miliare, o meglio tombale, del lavoro è la conclusiva V – The Promethean Grief dove i conoscitori più esperti riconosceranno senza dubbio l’inimitabile growl di Daniel Neagoe, storico sodale del nostro in progetti magnifici quale Deos, Clouds e Vaer, nonché vocalist degli imprescindibili Eye Of Solitude; il brano si rivela un’ideale summa di quanto questa geniale coppia ha partorito in ambito doom estremo in questi ultimi anni.
Anche se a mio avviso Gaia riusciva a toccare con più continuità le corde dell’emotività, Mythologiae è l’ennesima dimostrazione di qualità da parte di un musicista unico e da preservare come patrimonio dell’umanità negli anni a venire …

1. I – The Standing Giant
2. II – The Drowning Angel
3. III – The Suffering Rebel
4. IV – The Dying God
5. V – The Promethean Grief

Line-up:
Déhà – all instruments, vocals

Daniel Neagoe – vocals on V – The Promethean Grief

SLOW – Facebook

Enshine – Singularity

A Singularity non manca proprio nulla per entrare a far parte trionfalmente del novero dei migliori dischi di death doom del 2015, e neppure agli Enshine fa difetto quel talento necessario per elargire in maniera naturale le emozioni che vengono ricercate da chi ama queste sonorità.

Avviso importante per gli appassionati del death doom melodico: se aspettavate con ansia il nuovo (e monumentale, non fosse altro che per le sue dimensioni, trattandosi di un triplo album) lavoro dei Swallow The Sun, Singularity degli Enshine si rivela ben più di un estemporaneo palliativo, trattandosi di uno dei dischi migliori del genere ascoltati non solo in tempi recenti ma in assoluto.

Una sorpresa? Non proprio, considerando che già il precedente Origin (2013) aveva convinto non poco e che lo stesso Jari Lindholm, solo qualche mese fa, aveva dato alle stampe un altro album superbo come Aphotic Veil, questa volta con l’insegna Exgenesis in compagnia del vocalist colombianoAlejandro Lotero (senza dimenticare il suo contributo all’unico parto su lunga distanza dei misconosciuti Slumber, l’eccellente Fallout del 2004)
Negli Enshine il polistrumentista svedese si avvale invece dell’ugola di una vecchia conoscenza della scena doom europea, Sebastien Pierre, già noto per il suo operato nei purtroppo disciolti Inborn Suffering e nella prima incarnazione dei Lethian Dreams; anche questa volta la spettacolare combinazione tra le partiture sonore di Lindholm e la voce del cantante transalpino si rivela irresistibile, rendendo Singularity l’ennesima preziosa gemma regalata da un genere musicale che continua ad estrarre emozioni a profusione dalla sua ideale cornucopia.
Rispetto agli Exgenesis il sound è più atmosferico, anche se i riferimenti ai più noti vicini di casa finlandesi sono sempre percepibili: quello che fa la differenza è un gusto melodico sorprendente, che si amalgama in maniera superba con i riff rocciosi ed il growl di Pierre; di certo il tocco chitarristico di Lindholm funge da ideale trait d’union tra le sue band, che si rivelano alla fine complementari nell’esibizione delle rispettive sfumature stilistiche.
Tracce eccezionali quali Dual Existence, In Our Mind e Dreamtide sono quelle in cui vengono raggiunti i picchi melodici garantiti dagli struggenti assoli di chitarra, mentre in altri brani la durezza del death opprime la componente doom senza soffocarne il melanconico incedere (Resurgence, The Final Trance).
Non vengono meno, infine, elementi che si ricollegano alla ben radicata tradizione del death melodico scandinavo, specie per quanto riguarda i suoni di band di seconda generazione tipo Insomnium, e diversi sconfinamenti in territori post metal, in particolare nel magnifico strumentale di chiusura Aphex.
Insomma, a Singularity non manca proprio nulla per entrare a far parte trionfalmente del novero dei migliori dischi di death doom del 2015, e neppure agli Enshine fa difetto quel talento necessario per elargire in maniera naturale le emozioni che vengono ricercate da chi ama queste sonorità.

Tracklist:
1. Dual Existence
2. Adrift
3. Resurgence
4. In Our Mind
5. Astarium Pt. II
6. Echoes
7. Dreamtide
8. The Final Trance
9. Apex

Line-up:
Jari Lindholm Guitars (2009-present)
See also: Exgenesis, ex-Slumber, Seas of Years, ex-Brugden, ex-Atoma, ex-Needlerust
Sebastien Pierre Vocals (2009-present)

ENSHINE – Facebook

Skepticism – Ordeal

In un mondo che si muove a velocità parossistica e senza una direzione precisa, questi bizzarri e geniali musicisti fissano un punto d’arrivo ben preciso, un non luogo con il quale tutti, prima o poi, dovremo fare i conti

Dopo sette anni tornano a far sentire la loro voce i finlandesi Skepticism, considerati a pieno titolo quali veri e propri padri putativi del funeral doom .

Ordeal è solo il quinto full length in una carriera ultraventennale, ma tra questi (Stormcrowfleet, Lead And Aether, Pharmakon e Alloy) non ce n’è uno che possa essere definito trascurabile, essendo ognuno di essi una pietra miliare del genere, e non solo.
Gli Skepticism sono, quindi, tra quelli che hanno contribuito a dar vita a questo movimento musicale e, pur essendo di poco posteriori come nascita ai connazionali Thergothon, a differenza di questi nel corso degli anni hanno continuato a spargere il lugubre seme del funeral, senza curarsi di scadenze od obblighi contrattuali, semplicemente lasciando che la musica sgorgasse in maniera spontanea.
Ordeal è stato registrato dal vivo a Turku nel gennaio di quest’anno ed esce quindi nel doppio formato in cd/dvd; inutile dire che poter assistere all’incisione dal vivo di un disco di inediti, per di più in odore di capolavoro, non è cosa di tutti i giorni e, nonostante l’invidia provata nei confronti dei presenti all’evento, la possibilità di godere anche delle immagini è un regalo inatteso quanto prezioso.
L’impatto emotivo viene accentuato dalle immagini che riprendono i nostri nella solita configurazione sul palco, con Eero Pöyry alla sinistra degli spettatori a riempire l’aria delle note solenni del suo organo, il carismatico Matti Tilaeus al centro a ringhiare nel microfono e Jani Kekarainen a destra a tessere assoli dolenti con maggior continuità rispetto al passato, sintomo di un parziale addolcimento del sound che sposta il genere su coordinate ancor più melodiche.
Abbigliati come orchestrali reduci da una sbronza che si ritrovano sul palco di un teatro deserto, gli Skepticism suonano la loro musica che scava nelle pieghe più profonde della psiche, tracciando per i vivi un consolatorio quanto ineluttabile cammino verso la fine e regalando, soprattutto, ai posteri un’opera fondamentale che annulla come per incanto questi sette anni nei quali la loro mancanza si è fatta decisamente  sentire.
L’intesità di Ordeal è qualcosa di difficile da spiegare a parole, ogni brano vive sulla tragica contrapposizione tra la solennità delle tastiere e la melancolica dolcezza della chitarra, sulle quali si staglia il growl del funesto cantore Matti.
You è la prima perla offerta che diviene un tutt’uno con Momentary, al termine della quale si sentono i primi timidi applausi di un pubblico annichilito da cotanta bellezza; The Departure è quello che, in un disco “normale”, potrebbe essere considerato il potenziale singolo, grazie al suo afflato melodico superiore rispetto alla media, almeno per gli abituali canoni della band finnica.
March Incomplete è la trave portante del lavoro, trattandosi “semplicemente” di uno dei brani più intensi e commoventi che abbia mai ascoltato: risulta uno sforzo vano quello di tentare di ricacciare indietro le lacrime, che sgorgheranno copiose quando nella parte centrale un crescendo irresistibile condurrà Jani Kekarainen a suonare l’assolo più bello della sua carriera.
E, paradossalmente, questo è l’unico peccato di un lavoro pressoché perfetto, perché dopo una tale meraviglia tutto ciò che ne segue finisce per soffrire del confronto, anche se The Road, Closing Music e Pouring, con le sue atmosfere da tregenda, sono brani che presi singolarmente farebbero la fortuna di qualsiasi altra band.
L’album si chiude come meglio non si potrebbe con la riproposizione della magnifica The March And The Stream, in origine seconda traccia di Lead And Aether.
In un mondo che si muove a velocità parossistica e senza una direzione precisa, questi bizzarri e geniali musicisti fissano un punto d’arrivo ben preciso, un non luogo con il quale tutti, prima o poi, dovremo fare i conti; percorrere questo doloroso cammino in compagnia degli Skepticism sarà meraviglioso e straziante allo stesso tempo.

Tracklist:
1. You
2. Momentary
3. The Departure
4. March Incomplete
5. The Road
6. Closing Music
7. Pouring
8. The March and the Stream

Line-up:
Lasse Pelkonen – Drums
Jani Kekarainen – Guitars
Eero Pöyry – Keyboards
Matti Tilaeus – Vocals, Keyboards, Percussion

SKEPTICISM – Facebook

Gateway – Gateway

Un album sorprendente ed efficacenella sua cruda essenzialità.

C’è doom e doom: specialmente quando ci si addentra nei meandri più estremi del genere si possono rinvenire espressioni consolatorie e malinconiche, capaci di indurre alla commozione, ed altre che invece cercano senza alcuna mediazione di sprofondare definitivamente l’ascoltatore in un abisso putrescente.

Questo è appunto il caso dell’album d’esordio dei Gateway, one man band belga appannaggio del musicista di Bruges Robin Van Oyen: per approcciarsi a questo lavoro bisogna essenzialmente dimenticarsi cosa sia un suono limpido e perfettino, perché qui, per una quarantina di minuti, riff densi e riverberati conducono le macabre danze accompagnati da un growl inumano (magari reso tale da qualche aiuto tecnologico, ma chi se ne importa) per un risultato che fotografa perfettamente le tematiche orrorifiche inerenti il medioevo e, come anticipato dalla copertina, le efferate pratiche di tortura alle quali venivano sottoposti diversi sventurati.
Un difetto dell’album? La sensazione di ascoltare dall’inizio alla fine lo stesso brano; un suo pregio? Esattamente lo stesso, proprio perché per tutta la sua lunghezza si è sottoposti ad una sorta di apnea musicale dalla quale sembra di non poter mai uscire.
A livello di influenze dichiarate dal musicista fiammingo vengono citati nomi come Winter ed Autopsy, e fin qui ci siamo, mentre mi trova un po‘ meno d’accordo l’accostamento agli Evoken, in quanto la band di John Paradiso è portatrice di un sound molto più ortodosso e raffinato, al confronto; semmai l’andamento ritmico, le connotazioni horror e lo stesso ossessivo approccio, mi spingono audacemente a pensare ad una versione priva di tastiere dei nostri Abysmal Grief.
Vox Occultus, Impaled e Vile Tempress e la pietra miliare The Shores Of Daruk, nella quale affiora qualche accenno di melodia, sono i picchi di un album sorprendente ed efficace nella sua cruda essenzialità, da ascoltare preferibilmente a volume esagerato, pur sapendo che i vicini invocheranno molto probabilmente l’intervento di un esorcista …

Tracklist:
1. Prolegomenon (Intro)
2. Vox Occultus
3. Kha’laam
4. Impaled
5. Corrumpert Interludium
6. Vile Temptress
7. Hollow
8. The Shores of Daruk
9. Portaclus (CD bonus track)

Line-up:
Robin van Oyen – Everything

GATEWAY – Facebook

Arrant Saudade – The Peace Of Solitude

Prodotto comunque superiore alla media, questo primo passo degli Arrant Saudade costituisce un buon viatico per la prosecuzione e lo sviluppo di questo progetto.

Arrant Saudade è l’ennesimo progetto che vede coinvolto Riccardo Veronese, uno dei principali protagonisti della scena Doom londinese.

Aphonic Threnody, Dea Marica e Gallow God sono band che abbiamo già trattato su queste pagine, tutte accomunate dalla presenza del chitarrista dalle chiare origini italiane.
La prima di queste, una delle migliori espressioni attuale del death doom continetale, annovera nella sua line-up anche il cileno Juan Escobar (Astorvoltaire, ma soprattutto vocalist dei magnifici e purtroppo non più attivi Mar De Grises), il quale anche qui accompagna Veronese occuoandosi di tutti gli strumenti ad eccezione della chitarra, assieme al vocalist francese Hangsvart, solitario protagonista di interessanti progetti quali Abysmal Growls Of Despair e Plagueprayer.
Questo stimolante mix di scuole e stili, pur sempre circostritto all’ambito doom, offre un frutto decisamente intrigante anche se non così prelibato come sarebbe stato lecito attendersi.
Nel lavoro, infatti, viene parzialmente meno quella linea continua di dolore ed oppressione che lo stesso Veronese era riuscito così bene ad evocare negli ultimi lavori degli Aphonic Threnody: una traccia magnifica come la lunga Drifting Reality non sempre trova il suo corrispettivo nel corso di un album che presenta più di un passaggio interlocutorio.
Forse è il mio pensiero di appassionato del genere ad essere troppo schematico, ma il brano appena citato contiene tutte le corrdinate ideali di ciò che dovrebbe scaturire dal funeral-death doom : una linea melodica, dolente e soffocante nel contempo, rotta solo da un growl impietoso e da improvvisi squarci di luce tremolante rappresentato dalle malinconiche pennellate della chitarra solista (a cura dell’ospite Josh Moran dei validi Vacant Eyes).
Decisamente meglio nella sua seconda metà (ottima anche la conclusiva No Dream Left in Me), The Peace of Solitude impiega un po’ troppo a decollare ma va detto che, quando ciò avviene, il palato degli intenditori viene decisamente appagato.
Prodotto comunque superiore alla media, il primo passo degli Arrant Saudade costituisce un buon viatico per la prosecuzione e lo sviluppo di questo progetto.

TRACKLIST
1. Only the Dead
2. Feel Like Your Shadow
3. The Peace of Solitude
4. Drifting Reality
5. No Dream Left in Me

LINE-UP
Juan Escobar – Bass, Drums, Keyboards, Vocals (backing)
Riccardo Veronese – Guitars
Hangsvart – Vocals

ARRANT SAUDADE – Facebook

Funerale – L’Inferno degli Angeli Appiccati

Il disco ha dalla sua quella patina di viscido e caliginoso anacronismo tale da renderlo, a suo modo, piuttosto affascinante, e passare sopra a certe imperfezioni può essere comunque più semplice per chi è del tutto a suo agio con queste sonorità.

Come ho già detto a proposito della quasi omonima band norvegese, scegliere Funerale come proprio monicker per dedicarsi al genere corrispondente può rivelarsi controproducente. Solo ad una band chiamata Death è riuscita l’impresa di identificarsi in maniera indelebile con un movimento musicale, ma questa è tutta un’altra storia.

Quella che ci interessa è invece relativa ai savonesi Funerale, nati nel 2011 dall’incontro di diversi musicisti coinvolti in progetti di matrice per lo più black metal, ma decisi a svoltare verso sonorità più plumbee adottando, così, un nome che non potesse lasciare alcun margine di dubbio.
Dopo un primo lavoro più conforme alla ragione sociale, l’album oggetto della recensione, uscito nel 2013, acquista umori diversi ondeggiando tra post metal e depressive, spostandosi in maniera abbastanza decisa dalle sonorità funeral cosi come siamo abituati a conoscerle.
L’inferno degli angeli appiccati è un album non privo di un suo fascino ma paga dazio ad una realizzazione minimale per arrangiamenti e produzione; l’uso della voce, accettabile ed appropriato quando è recitata o, comunque, semi-pulita, non è altezza delle uscite odierne nel momento in cui entra in scena un growl rantolante ma troppo piatto.
Peccato, perché i testi di Lev Byleth non sono affatto banali ma se, da una parte, la scelta di cimentarsi con la lingua italiana paga dal punto di vista di una comprensione immediata, dall’altra costringe il vocalist a forzature metriche non sempre efficaci.
Il disco comunque ha dalla sua quella patina di viscido e caliginoso anacronismo tale da renderlo, a suo modo, piuttosto affascinante, e passare sopra a certe imperfezioni può essere comunque più semplice per chi è del tutto a suo agio con queste sonorità.
Le cose sembrano funzionare meglio nei brani in cui si sceglie la strada di un sound più evocativo ed intimista (La ballata dell’odio) oppure allorchè l’influsso di una delle migliori band dei nostri tempi, gli Agalloch, si percepisce in maniera più decisa (L’inferno degli angeli appiccati).
Le sfumature depressive appaiono altresì valide, anche se si manifestano in maniera intermittente rendendo parzialmente disomogeneo il risultato d’insieme.
Infine, risulta coraggiosa e tutto sommato riuscita la “funeralizzazione” di una hit come Enjoy The Silence dei Depeche Mode.
Tirando le somme, questo album mostra diversi spunti apprezzabili ma è afflitto da altrettante approssimazioni che, quanto meno, depongono a favore di ampi margini di miglioramento da parte della band ligure; il fatto stesso che il lavoro risalga ormai a due anni fa, porta a pensare concretamente che una prossima uscita possa mostrare in maniera decisa quei passi avanti in grado di assecondare al meglio le buone intuizioni già messe sul piatto in quest’occasione.

Tracklist:
1. Cime abissali
2. L’inferno degli angeli appiccati
3. L’uomo solitario
4. La valle dei tumuli
5. La ballata dell’oblio
6. Spettri nella nebbia
7. Brezza dall’ignoto
8. L’ultimo solstizio
9. Anima condannata
10. Enjoy the Silence (Depeche Mode cover)

Line-up:
Knays – Bass
Lord Edward – Guitars
Deymous – Guitars
Lev Byleth – Guitars, Vocals

FUNERALE – Facebook

Soijl – Endless Elysian Fields

Promozione piena al primo tentativo per il bravo Mattias Svensson ed i suoi Soijl.

Mattias Svensson è un musicista svedese il cui nome è indissolubilmente legato alla sua presenza in veste di chitarrista ritmico nella line-up dei Saturnus che ha inciso il capolavoro “Saturn In Ascension”; tanto basta, forse, per rendere appetibile l’album d’esordio di questo suo progetto solista denominato Soijl che, volenti o nolenti, prende le mosse dal sound dei maestri danesi.

Ma il pedigree da solo non basta, servono anche le canzoni e quindi doti compositive non comuni ed è proprio grazie a questo che il buon Mattias, dopo aver arruolato il vocalist Henrik Kindvall, centra il bersaglio con Endless Elysian Fields.
Inevitabilmente, non appena la chitarra solista entra in scena, la mente corre al tocco di quello che è stato per qualche anno il suo compagno di avventura nei Saturnus, Rune Stiassny, ma non bisogna commettere l’errore di pensare ad un bieco lavoro di scimmiottamento (che, detto per inciso, a chi ama queste sonorità non può comunque dispiacere): i Soijl riescono spesso a fondere la dolente malinconia evocata dalla sei corde con tratti più minacciosi ed oscuri che rimandano oltreoceano ai magnifici Daylight Dies.
Questo connubio funziona perfettamente nel corso di un lavoro compatto nella sua ora scarsa di durata e capace di regalare i due brani migliori nei suoi estremi: la title track, posta in apertura, nella quale il vocalist sorprende con il suo growl davvero eccellente che solo a tratti riconduce a quello di Thomas Jensen (è più vicino, semmai, al ringhio di Paul Kuhr dei Novembers Doom), e la stupenda The Shattering, che chiude l’opera con la chitarra a tessere struggenti melodie.
Ma anche tutto ciò che sta nel mezzo è assolutamente degno di nota (ottime Dying Kinship, Drifter, Trickster e The Cosmic Cold), grazie ad umori che si avvicinano anche a due espressioni death doom di valore assoluto della scena svedese quali When Nothing Remains e Doom Vs.
Promozione piena al primo tentativo, quindi, per il bravo Mattias Svensson ed i suoi Soijl, e noi appassionati non possiamo che godere dei frutti prelibati che il rigoglioso albero dei Saturnus continua ad offrire …

Tracklist:
1. Endless Elysian Fields
2. Dying Kinship
3. Swan Song
4. The Formation of a Black Nightsky
5. Drifter, Trickster
6. The Cosmic Cold
7. The Shattering

Line-up:
Mattias Svensson – Guitars, Bass, Drums, Keyboards
Henrik Kindvall – Vocals

SOIJL – Facebook

MY DYING BRIDE – Intervista

In occasione dell’uscita dell’ultimo magnifico album dei My Dying Bride, “Feel The Misery”, abbiamo avuto l’onore di scambiare qualche parere al riguardo con Aaron Stainthorpe …

Grazie per questa telefonata. Mai avrei pensato a questa combinazione di eventi: The Angel and The Dark River è stato il primo disco comprato in assoluto nel rinomato Pagan Moon Records, il negozio della mia città (Torino). Avevo 16 anni e mi si apriva un universo autunnale che porterò sempre tra i più cari ricordi.

iye “Feel The Misery” è il tredicesimo album, a ben 23 anni da “As The Flower Withers”. I My Dying Bride sono a tutti gli effetti una leggenda della musica, allora ti chiedo: quale è la molla che vi spinge a produrre ancora dischi e calcare i palchi ?

Vedi … continuiamo ad amare ciò che facciamo. In tutto questo tempo non è scontato perdere la voglia, l’energia e il piacere di mettersi in discussione. L’unico denominatore comune a queste, che considero tre qualità, è sicuramente la passione. Non è certo importante essere cresciuti, anagraficamente almeno. Pensa che potrebbero scaturirne altri 25 anni di attività, in quanto nessuno di noi ha in mente di prestabilire qualcosa: divertimento e professionalità innanzi tutto.

iye Ad una sagace domanda, una corretta risposta; proseguendo sull’attuale pubblicazione … la sensazione, dopo diversi ascolti, è quella di trovarci tra le mani un album ispirato come forse non succedeva da tempo.
Senza voler sminuire la produzione precedente, “Feel the Misery” è quello che per valore complessivo più di avvicina agli storici primi 4 album. Anche tu hai avuto questa percezione ?

Di sicuro abbiamo sempre voluto creare qualcosa di innovativo e sorprendente pur seguendo sempre la stessa linea. Molti ascoltatori, senza necessariamente limitarci ai soli fans, hanno notato questa sottigliezza.
Può essere senz’altro dovuto al ritorno di Calvin e alla registrazione nei già conosciuti Academy Studios e forse per queste due coincidenze è ritornata un’atmosfera familiare. Principalmente, non è stata affatto una scelta quella di programmare un taglio ricorrente e così sembra d’essere tornati indietro nel tempo. Penso inoltre che abbiamo avuto sempre, detto con molta umiltà, un’attitudine naturale tanto nella sperimentazione quanto nella continuità. Non trovi?

iye Senza dubbio hai toccato due punti che anticipano gli argomenti delle prossime domande. A nostro avviso questa line-up è molto equilibrata, ricalcando come configurazione quella storica. Il ritorno di Calvin e il consolidamento in formazione di un talento come Shaun MacGowan hanno davvero portato qualcosa in più ai My Dying Bride?

Non è difficile risponderti: sì, direi. È piacevole riavere Calvin al fianco e sarebbe stato magnifico se avesse anche composto i riff. Come sai, sfortunatamente è riapparso quando le tracce erano quasi completate, quindi la percentuale del suo lavoro si è dovuta ridurre rispetto al suo potenziale. Andrew ha smisuratamente sgrossato le linee melodiche ( diciamo il 95%), Jeff ha ricamato con il suo unico stile qualche armonia da sovra incidere e … cosa vorresti di più come risultato? Tutto è perfetto! Ma di certo, se siete tutti in attesa di sentire Calvin come lo ricordate, sarà necessario attendere il nostro album successivo!

mdb

iye Avete aperto la strada a centinaia di band che hanno provato a seguire le vostre orme. Tutto ciò costituisce un motivo di soddisfazione oppure è anche un pungolo per continuare a essere oggi e in futuro un punto di riferimento ?

Abbiamo di certo ispirato molte altre band ma allo stesso tempo, noi stessi abbiamo tratto suggestioni da altre a seguire. Intanto è sempre piacevole constatare quanta sia l’eredità che lasci alla successiva generazione, e notare che molti giovani musicisti prendano in considerazione una tecnica o un’attitudine ci lascia decisamente rinfrancati. Ci ricordiamo quando noi stessi eravamo dall’altra parte … Ciò che permane è la necessità di creare la propria musica sotto una seconda influenza, ovvero non in riferimento al gruppo in questione quanto al messaggio che diffonde. Ecco, vedi perché non ci stupisce più se un fan di 15 soli anni è perso nell’universo My Dying Bride, nella fragilità dei testi magari più che sulla storia di Calvin (lo dice sorridendo – ndr) … Tutto questo accade in modo talmente naturale da farci sentire orgogliosi e rivestiti di armonia.

iye Mi permetto di chiederti se lo stesso vale per la scena che assieme ad altri pilastri (cito Anathema, Cathedral e Paradise Lost) voi avete edificato e sostenuto. Oltre a possedere simili affinità, allacciate un reciproco scambio affettivo o predomina una punta di rivalità?

Dunque, la domanda può sembrare scontata ma non lo è del tutto. Ad ogni modo freno subito il tuo entusiasmo nel creare un polverone: nessuna tensione. Sai bene che siamo cresciuti nella stessa zona, abbiamo avuto la medesima etichetta e suonato lo stesso genere, contemporaneamente in diverse parti del mondo. Ciò porta tuttavia al costante perfezionamento che lo spirito di aggregazione mette in competizione …
Migliorare, perfezionare e cablare il tiro porta a questo ripiegamento, ma verso sé stessi, non di certo verso i “colleghi”. Essere lontani dall’Inghilterra e scoprire che i Paradise Lost sono nella stessa zona, ci permette ancora di ritrovarci in uno stesso tavolo e passare del tempo assieme … Questo nonostante si sia comunque diversi nell’attitudine e nella scelta musicale! Poi sai bene come va, la birra aiuta spesso …

iye Nel corso della vostra ricca discografia avete provato a modificare in maniera sostanziale il vostro sound con il solo “34,788% … Complete”, un esperimento tutto sommato riuscito che però non ebbe più seguito. Come valuti a distanza di molti anni quel disco ?

Aspettavo questa citazione perché rappresenta un punto focale sul quale porre l’attenzione. La scelta è stata chiara dal primo momento in cui speravamo in un cambio direzionale, seppur momentaneo. E non abbiamo avuto dubbi nel pubblicarlo, seppure fosse apparsa una scelta difficile per come avevamo abituato con i dischi precedenti il nostro pubblico, anzi parliamo di ascoltatori in questo caso, visto che il disco non è mai stato suonato dal vivo. In compenso ne abbiamo avuto la prova soltanto dopo dell’aver fatto qualcosa era uscito addirittura fuori dai nostri stessi schemi e per questo riuscito nella sua idea embrionale. E’ un gran bell’album, il tempo è riuscito a farlo maturare, oltre ad averlo collocato in una cronologia perfettamente logica. La cover, intendo la copertina, è effettivamente inusuale, il titolo ancora di più. Direi quindi che la forma ha reso estraneo un suono fin troppo classico alla My Dying Bride. Tant’è che oggigiorno rimane uno degli album preferiti dai nostri fan, probabilmente troppo concentrati all’epoca su qualcosa che non è mai avvenuto.

iye Piacevole descrizione, minuziosa e logica, mi confermi con questo che è sempre necessario non giudicare il libro dalla copertina! Siamo giunti alla coda dell’intervista che si concluderà con altre due domande, ma anticipatamente ti ringrazio a nome dello staff per la gentilezza e degli stessi IYEziners che attendono con piacere di leggere questo scritto. La tua voce è un marchio di fabbrica inconfondibile. Per curiosità, in quale momento e perché, negli anni novanta, maturasti la decisione di abbandonare il gutturale per approdare alla decadente tonalità che ti contraddistingue ?

Dunque … Io non suono nessuno strumento musicale, quindi posso solo utilizzare al meglio la mia voce. Non mi piace, né trovo stimolante ripetermi allo stesso modo in ogni album: oltre ad annoiare me stesso, provocherei la stessa reazione nei fan. Tuttavia la musica creata in tutti questi anni, lenta, veloce, heavy, malinconica e crepuscolare prevede un simultaneo cambio che non prevede un cantato death. Tanto più se entrano i violini e sai bene ancora una volta che se qualcosa ricade in una programmazione, ci porterà lontani dalla passione svincolante e libera che abbiamo per la musica, in cui tutto è pur sempre possibile e lecito. Ho cercato in questo album di portarmi ad un’espansione vocale che, purtroppo, solo un evento casuale (e quindi sentito) ha provocato: il trapasso di mio padre, in un certo senso, mi ha ripulito dai singulti vocali. E’ davvero sottile, ma se mi capisci il “pianto” è lo stesso, ma nel contempo ben più chiaro e diretto. La percezione del dolore rimane la stessa, ma in fondo c’è ancora una natura positiva che cela sempre meno un grido di trionfo in grado di redimermi (effettivamente, citando il fatto personale, si nota come l’emotività non faccia fatica a rivelarsi – ndr) . I sospiri mi accompagnano per antonomasia, ma riuscire a spingere la voce al di là della propria emotività, rivela il mio lato intimo più sicuro e fiducioso. In ogni album farò quei passi necessari per sentirmi sempre più a mio agio, nonostante non sia Mariah Carey il mio traguardo …

iye Porterete in tour “Feel the Misery” e, in tal caso, approderete anche in Italia ?

Decisamente, peraltro il nostro tour manager è italiano. Abbiamo un’ultima data quest’anno in Germania, ma il prossimo anno tra marzo e aprile (se non maggio) porteremo finalmente questo album in Italia facendo un vero tour di qualche tappa. I nostri fan italiani (fatico a crederci …) ci seguono dal 1990 e a momenti ne sanno più loro dei nostri ricordi. Sarà, come è già da anni, un lavoraccio, perché ad ogni tour concluso, se non tra una data e l’altra, tendiamo a ritornare a casa nostra per ritemprarci. Il motivo è che ad ogni live cerchiamo e spesso riusciamo a dare qualcosa che vada oltre al solo impatto sonoro. E’ molto facile adagiarsi ed essere superficiali, un po’ più difficile essere originali ma non è impossibile trasmettere qualche cosa di simile all’empatia … almeno tra le varie possibilità questa è la nostra prima scelta, trasmettere reciprocamente la
stessa empatia che riceviamo dal nostro pubblico.

Intervista telefonica delle 20:00 (GMT+1) del 21/9/2015
Collaborazione tra Stefano Cavanna e Enrico Mazzone
Grazie alla disponibilità di Aaron Stainthorpe e ai riferimenti di Pamela Scavran.

SATURNUS + HELEVORN – 20/9/15 Collegno, Padiglione 14

Tre ore di musica magnifica; peccato per chi non c’era …

Nel raccontare una giornata di questo tipo la cosa più complessa è scegliere da che parte iniziare: quindi, seguendo un po’ l’istinto, un po’ le convenzioni, darò prima la notizia cattiva rispetto a quella buona.

La cattiva notizia è che organizzare concerti doom in Italia si sta rivelando un cimento per temerari (rappresentati nello specifico da Alex e Simone della House Of Ashes) che antepongono la passione al mero interesse economico, e se la cosa può valere in senso lato per molti di coloro che ci provano con buona parte del metal underground, lo è a maggior ragione con un genere che, in particolare dalle nostre parti, riscuote l’interesse di un numero davvero limitato di persone.
Josep Brunet, vocalist degli splendidi Helevorn, nonché ennesima bella persona che ho avuto la ventura di conoscere tra coloro che calcano i palchi metal, mi confidava d’essere più stupito che amareggiato non tanto per la propria band quanto per il fatto che ad assistere ad un concerto dei Saturnus (cosa che per chi ama il doom dovrebbe costituire un appuntamento imperdibile) ci fossero circa 30 persone, che erano ancora meno durante l’esibizione della band maiorchina.
Non è un dogma assoluto, sia chiaro, ma il fatto che per ascoltare doom, specialmente quello più estremo pur se dai connotati melodici, sia necessario possedere una buona dose di sensibilità, mi porta a pensare, alla luce delle scarse presenze (peraltro confermate in qualche modo nella precedente data bresciana), che la deriva del nostro paese verso un protervo ed edonista menefreghismo sia del tutto inarrestabile.
Del resto, in una nazione in cui nessuno pare abbia voglia di muovere il proprio culo per andare ai concerti e, anzi, da più parti si invoca persino la chiusura degli spazi all’aperto dedicati alla musica rock e metal (successo a Genova quest’estate), folle oceaniche si spostano solo quando il tutto viene insignito del marchio dell’evento epocale, al quale non si può mancare pena l’oblio eterno sui social network, che pare essere la peggiore delle condanne; aggiungiamo poi che, per organizzare l’ultimo di questi (il campovolo ligabuesco), pare addirittura che un intero quartiere di Reggio Emilia sia stato di fatto messo sotto sequestro, impedendo ai residenti di uscire o ancor peggio di entrare a casa propria: cosa dobbiamo pensare od aspettarci ancora ? Non lo so, fatto sta che, al netto di queste tristi ma dovute considerazioni, la serata al Padiglione 14 di Collegno (ecco la notizia positiva) resterà a lungo impressa nella mia memoria.
Diciamoci la verità, se da una parte constatare la sordità della maggior parte delle persone fa rabbia, dall’altra, egoisticamente, si trasforma in un vantaggio non da poco potersi godere una delle proprie band preferite (i Saturnus) ed un’altra che è sulla buonissima strada per diventarla (gli Helevorn) come se si fosse nel salotto di casa propria, a stretto contatto con i musicisti e con quelle altre poche anime unite dalla comune passione per sonorità inimitabili sotto l’aspetto evocativo.
Tre ore di musica magnifica, quindi, resa tale anche da suoni tarati ottimamente, che i pochi ma buoni della famiglia doom (come ha simpaticamente detto Josep all’inizio dell’esibizione degli Helevorn di fronte allo sparuto gruppo di spettatori) si sono goduti alla faccia di chi, nel contempo, altrove stava partecipando ad un rituale di massa con il solo scopo di poter dire “io c’ero …”, probabilmente osservando il proprio intoccabile idolo a centinaia di metri di distanza.
Gli Helevorn provenivano da un album entusiasmante come Compassion Forlorn e sul palco hanno confermato ampiamente il loro valore come musicisti e performer: Josep Brunet ha padroneggiato con disinvoltura le clean vocals che forniscono un tocco decisamente più gothic al sound degli spagnoli, mantenendo peraltro inalterato il proprio eccellente growl, Samuel Morales ha offerto una fondamentale impronta melodica con la chitarra solista, il tutto sopra il tappeto atmosferico creato dalle tastiere di Enrique Sierra; non da meno sono stati il simpaticissimo Sandro Vizcaino alla chitarra ritmica, Xavi Gil alla batteria e Guillem Calderon al basso.
I nostri hanno proposto, in un set purtroppo breve ma intenso, alcune delle perle tratte dall’ultimo album (su tutte il singolo Burden Me ed il capolavoro Delusive Eyes) oltre alla ben nota From Our Glorious Days, uno dei picchi assoluti della loro precedente discografia.
Dopo una breve pausa, l’incipit di Litany Of Rain ha annunciato la salita sul palco dei Saturnus, band per la quale ho già sprecato in passato tutti gli elogi e gli aggettivi a disposizione del mio limitato vocabolario. Posso solo aggiungere che poter ascoltare dal vivo brani capaci già di indurre alle lacrime quando si sta comodamente seduti sul divano di casa, può avere un impatto emotivo davvero devastante, ovviamente in senso positivo.
Credo che l’assunzione di nessuna droga al mondo possa esser capace di farmi provare lo stesso livello di estasi raggiunta quando i Saturnus, a circa 5 metri da me, hanno suonato quello che è il brano più bello mai composto, il cui titolo, inutile dirlo, è I Long
Devo trovare un difetto ai grandi danesi ? Eccolo: I Long meriterebbe il posizionamento come ultimo brano in scaletta, magari come bis, perché il climax che si raggiunge al termine di quelle note non può più essere ricreato successivamente dagli altri brani, per quanto ugualmente magnifici.
Altro da aggiungere ? Thomas Jensen aveva la solita aria di chi è capitato lì per caso, poi quando si è palesato il suo growl dal timbro unico si è capito che, invece, è stato lì collocato per qualche disegno superiore, e lo stesso è accaduto con i passaggi in recitato (come nella coinvolgente All Alone); i lungocriniti Gert Lund (chitarra ritmica) e Brian Hansen (basso), oltre al preciso contributo musicale hanno fornito anche una notevole presenza scenica, Henrik Glass ha picchiato il giusto senza esagerare, come il genere richiede, ed il giovane Mika Filborne si è rivelato il tastierista che fino a qualche anno fa mancava on stage ai Saturnus.
Ma il protagonista, non me ne vogliano gli altri, è stato come sempre Rune Stiassny, chitarrista che senza tecnicismi circensi, sa far parlare al cuore il proprio strumento (“You make me cry too much” gli ho confidato scherzando, ma non troppo, al termine del concerto): le linee melodiche del musicista nordico sono realmente indimenticabili, dal vivo come su disco, e sono capaci di far sprofondare la mente in un pozzo di malinconia dal quale, solo al termine, se ne verrà fuori depurati finalmente dalle brutture di un’attualità allarmante e dalle nequizie di un’umanità dai tratti ripugnanti.
Litany Of Rain, Wind Torn, I Love Thee, Christ Goodbye, ovviamente I Long e il gradito bis A Father’s Providence, sono state solo alcune delle gemme che i Saturnus hanno regalato ai pochi ma davvero fortunati presenti.
Uno degli aspetti che più mi ha colpito, anche se non è certo una novità in simili occasioni, è la convinzione ed il piacere di suonare che ogni musicista ha dimostrato, nonostante un’audience così risicata: non uso volutamente il termine “professionali” perché preferisco associarlo a persone che svolgono con impegno un compito loro malgrado: nulla a che vedere con volti che apparivano rapiti dalla loro stessa musica, un atteggiamento che ha accomunato Helevorn e Saturnus con la trentina di appassionati che, immagino, mai come questa volta abbiano avuto la percezione di sentirsi un tutt’uno con chi si trovava sul palco.
A proposito di professionalità, un’avvertenza: quando parlo dei Saturnus la mia obiettività è uguale a zero, ma se chi legge queste righe ama come me tali sonorità non faticherà a ritenermi del tutto attendibile ….

P.S. Un ringraziamento speciale ai “temerari” della House Of Ashes, ai miei compagni di viaggio e a chi ha ripreso con mano ferma le immagini che potete vedere sotto.

Helllight – Journey Through Endless Storm

Journey Through Endless Storm è l’album che saluta il definitivo ingresso degli Helllight nel gotha del funeral/death doom melodico

I brasiliani Helllight giungono, con Journey Through Endless Storm, alla quinta tappa su lunga distanza in una carriera che ha preso l’avvio nel secolo scorso ma che, di fatto, ha assunto forma e consistenza a partire dall’album d’ersordio “In Memory of the Old Spirits”, datato 2005.

La band, guidata dal cantante e chitarrista Fabio De Paula, ha avuto un processo evolutivo piuttosto lento ma costante, passando dalle ingenuità non prive di momenti brillanti dei primi due dischi (specie nel programmatico “Funeral Doom”) fino all’odierna forma compiuta e pressoché perfetta dal punto di vista della costruzione di un sound evocativo e nel contempo compatto ed elegante.
Rispetto ai già buonissimi “…and Then, the Light of Consciousness Became Hell…” e “No God Above, No Devil Below”, la nuova opera non mostra debolezze (se non vogliamo considerare tale una durata che sfiora gli ottanta minuti) in virtù di una tracklist uniforme per il valore dei singoli brani e per un netto miglioramento delle clean vocals di De Paula, un elemento importante nell’economia del suono degli Helllight che, nei precedenti lavori, veniva proprosto in maniera stentorea ma un po’ troppo forzata.
Sempre rispetto alla passata produzione, non si può fare a meno di notare quanto si sia concretizzata una “saturnizzazione” del suono, che viene così disseminato costantemente di melodie chitarristiche capaci di evocare atmosfere cariche di brumosa malinconia.
La quadratura nel cerchio trovata dagli Helllight viene ampiamente dimostrata da una tracklist priva di punti deboli: uniforme, certamente, con una pioggia battente a fare da sfondo al susseguirsi dei vari brani tra i quali, però, non ce n’è uno che non meriti di essere assaporato in tutto il suo lento incedere, con punte di toccante lirismo raggiunte nelle meravigliose Time e Shapeless Forms of Emptiness.
Tastiere avvolgenti, una chitarra solista che regala a profusione assoli dolenti ed un growl efficace, sono le componenti che ci fanno amare a dismisura una band come i Saturnus e di conseguenza tutte quelle, come gli Helllight, che dai maestri danesi hanno preso spunto, consapevolmente o meno.
Volendo proprio trovare un termine di paragone ancor più preciso, però, la band paulista oggi si muove parallelamente ai Doom Vs. di Johan Ericson, sia per un impronta maggiormente drammatica, con più di un elemento funeral conferito al sound, sia per il già citato ricorso alle clean vocals che, solo quando sono appropriate come avviene in questo lavoro, si rivelano un valore aggiunto e non un elemento di rottura del pathos creato dallo sviluppo strumentale.
Journey Through Endless Storm è l’album che saluta il definitivo ingresso degli Helllight nel gotha del funeral/death doom melodico, grazie a un sound inspirato e di matrice chiaramente europea ma che racchiude al suo interno, sebbene non venga esibito mai in maniera particolarmente esplicita, un senso di nostalgico abbandono tipicamente latino.

Tracklist:
1. Journey Through Endless Storm
2. Dive in the Dark
3. Distant Light that Fades
4. Time
5. Cemetherapy
6. Beyond Stars
7. Shapeless Forms of Emptiness
8. End of Pain

Line-up:
Alexandre Vida – Bass
Fabio de Paula – Guitars, Vocals, Keyboards
Rafael Sade – Keyboards
Phill Motta – Drums

HELLLIGHT – Facebook

My Dying Bride – Feel The Misery

“Feel the Misery” ricolloca i My Dying Bride al posto che loro compete, ovvero quello di guida e riferimento per chiunque si cimenti un settore musicale che fornisce linfa e nutrimento spirituale a quel nugolo ben nascosto di anime sensibili, romantiche ed inquiete.

L’ennesimo album (il tredicesimo, per l’esattezza) di una delle band che, in un modo o nell’altro, ti ha accompagnato per oltre un ventennio lungo i tortuosi sentieri dell’esistenza, è sempre un appuntamento al quale si giunge tra speranze e timori equamente suddivisi.

Dover parlare dei My Dying Bride cercando di restare obiettivo diventa così per me piuttosto difficile: sembra ieri quando, con una video camera in super 8, riprendevo le prime espressioni e la beata inconsapevolezza di mia figlia appena nata, con quel capolavoro di “The Angel And The Dak River” come sottofondo musicale.
Dopo vent’anni e tanta vita e troppa strada alle spalle, ritrovare Stainthorpe e soci nuovamente all’altezza dei fasti raggiunti in quei tempi è stata una gioia che va ben oltre il mero aspetto musicale.
Non posso negare che, ormai da circa un decennio, i My Dying Bride erano diventati più un caro ricordo di gioventù piuttosto che una band capace di accompagnarmi quotidianamente: altri erano i nomi che in ambito doom li avevano soppiantati nelle mie preferenze, riuscendo a comunicarmi le dolorose emozioni che i maestri di Halifax parevano non essere più in grado di riproporre con la stessa forza evocativa.
Feel The Misery ricolloca i nostri al posto che loro compete, ovvero quello di guida e riferimento per chiunque si cimenti un settore musicale che fornisce linfa e nutrimento spirituale a quel nugolo ben nascosto di anime sensibili, romantiche ed inquiete.
Sarà probabilmente un caso, ma il ritrovamento di una configurazione più o meno simile a quella dei tempi d’oro pare aver concorso non poco alla riuscita dell’album: il ritorno in formazione di uno dei fondatori, il chitarrista Calvin Robertshaw, unito al consolidamento di uno Shaun Macgowan splendido protagonista con il suo violino (e sorta di reincarnazione del Martin Powell che fu …), contribuiscono a ricreare quelle atmosfere che rimandano direttamente all’ultimo decennio del secolo scorso, quando la gotica decadenza dei MDB era un marchio di fabbrica magnifico ed indelebile.
And My Father Left Forever, posta in apertura e in tutti i sensi traccia apripista dell’album, fuga subito ogni residua perplessità relativa all’ispirazione dei nostri: l’incedere dolente e melanconico del sound e il tipico timbro vocale di Aaron equivalgono ad una sorta di agognato ritorno a casa dopo una prolungata assenza, al riappropriarsi di un qualcosa che si è sempre sentito proprio ed oggi tirato a lucido dopo essere stato ricoperto per diverso tempo da un velo di polvere.
La differenza, in Feel The Misery, la fa la ritrovata capacità dei My Dying Bride (già parzialmente esibita in “A Map of All Our Failures”) di proporre un lotto di brani relativamente fruibili, pur nel consueto ambito plumbeo.
Il vocalist alterna la sua consueta, ma unica, voce sofferente ad un growl sempre convincente, ergendosi a protagonista nel contesto di un lavoro comunque d’insieme, nel quale ogni musicista pare davvero offrire il meglio di sé senza il bisogno di dover strafare.
Se l’opener è un brano magnifico, non si può che dire altrettanto della successiva To Shiver in Empty Halls grazie ad una linea melodica portante di grande impatto, mentre A Cold New Curse e Feel the Misery appaiono quasi complementari nel loro incedere coinvolgente ma, invero, piuttosto simile, specie nelle parti iniziali.
La seconda metà dell’album è, a mio avviso, ancora superiore a quella che l’ha preceduta: A Thorn of Wisdom è una traccia emozionante, atmosferica e melodica che non può lasciare indifferenti, I Celebrate Your Skin cambia volto in più frangenti, mantenendo quale tratto comune un’esasperante ed inebriante lentezza; I Almost Loved You equivale alla perla “For My Fallen Angel” (da “Like Gods Of The Sun”), con Stainthorpe ed il violino di Macgowan ad edificare muri di lacrime su un toccante tappeto pianistico, mentre Within a Sleeping Forest non è solo l’unica traccia che valica i dieci minuti di durata ma costituisce davvero la chiusura di un cerchio, con il suo forte ed ispirato richiamo alle sonorità dei primi seminali album dei My Dying Bride.
Sinceramente, fatico a smettere di ascoltare Feel The Misery, pur essendo consapevole che per un’altra ora lo smarrimento e lo sgomento di un’anima tormentata saranno la mia sola compagnia.
Ma gli appassionati di doom questo chiedono, nient’altro, e farsi avvolgere nuovamente dal velo della sposa morente sarà un piacere esclusivo riservato a questi fortunati …

Tracklist:
1. And My Father Left Forever
2. To Shiver in Empty Halls
3. A Cold New Curse
4. Feel the Misery
5. A Thorn of Wisdom
6. I Celebrate Your Skin
7. I Almost Loved You
8. Within a Sleeping Forest

Line-up:
Calvin Robertshaw – Guitars
Andrew Craighan – Guitars
Aaron Stainthorpe – Vocals
Lena Abé – Bass
Shaun Macgowan – Keyboards, Violin

MY DYING BRIDE – Facebook

Il Vuoto – Weakness

Non si può che restare piacevolmente stupiti dal manifestarsi di questa nuova splendida realtà musicale, protagonista di una delle prove più convincenti ascoltate di recente.

Nuovo progetto italiano dedito al funerale doom, Il Vuoto si rivela una graditissima novità in un settore specifico nel quale la produzione nel nostro paese non è mai stata particolarmente ricca.

Anche se, come influenze dichiarate in partenza, vengono citati tra gli altri nomi come Shape Of Despair e Nortt, diciamo che le due band in questione, piuttosto che una vera e propria fonte di ispirazione costituiscono, con i rispettivi stili piuttosto distanti tra loro, una sorta di spettro sonoro entro il quale Il Vuoto si muove .
Anche se la sensazione è che si tratti di una one man band, di questa entità sappiamo poco o nulla a livello di musicisti coinvolti (un po’ come gli Ea, peraltro altra band il cui imprinting affiora talvolta nei brani), salvo che la voce è affidata all’ospite Jurre Timmer degli olandesi Algos.
Poco male, visto che qui, come deve essere, ciò che conta è la musica, elemento che viene espresso in quest’occasione a livelli sorprendentemente ragguardevoli.
Se la propensione, per Il Vuoto, è naturalmente rivolta verso un funeral atmosferico, non mancano però i momenti più aspri uniti ad altri dai tratti post metal così che, al termine dell’ascolto, si può affermare tranquillamente che l’approccio al genere della band italiana è sicuramente personale proprio in virtù delle diverse sfaccettature offerte in un ambito in cui di solito, invece, prevale un’ottundente (per quanto gradita agli appassionati) monoliticità.
Sonorità più tenui e malinconiche, con ampie aperture di chitarra e tastiera, contraddistinguono l’opener And Night Devours Me, ma vengono spazzate via da un episodio dall’incedere pachidermico e minaccioso come The Harvest, forse il brano più autenticamente collocabile nel filone funeral dell’intero album assieme alla successiva Sea Of Emptiness, traccia che per quanto mi riguarda costituisce uno dei picchi compositivi dell’album, segnata com’è da una melodica drammaticità che si snoda nella sua prima metà prima di lasciare repentinamente spazio ad un delicato arpeggio.
Il bell’intermezzo srumentale And Night Took Her introduce la breve Through Mirrors I Saw the Ghost of Me, resa disperatamente intensa anche dalla prova notevole di Timmer; I, Essence of Nothingness, che è un altro momento cardine del lavoro, viene dominata da un lavoro chitarristico di matrice solista davvero pregevole, capace di condurre il brano in quegli alvei malinconici dai quali è impossibile uscire indenni.
Closure XXVII è in pratica una lunga outro atmosferica posta a suggello di un’opera di enorme pregio, che va colmare parzialmente “il vuoto” (mi scuso per l’inevitabile gioco di parole) in un sottogenere del doom che in Italia non ha una tradizione consolidata anche se le ottime band non mancano, pur se nessuna di queste può essere considerata “funeral” nel senso più autentico del termine (Consummatum Est, Urna, Malasangre, Plateau Sigma, In Lacrimaes Et Dolor, senza dimenticare i grandi Void Of Silence). Ma, al di là delle etichette che in fondo lasciano il tempo che trovano, e considerando che il progetto ha preso vita solo in questo 2015 con l’uscita di due demo parzialmente confluiti in Weakness, non si può che restare piacevolmente stupiti dal manifestarsi di questa nuova splendida realtà musicale, protagonista di una delle prove più convincenti ascoltate di recente.

Tracklist:
1. And Night Devours Me
2. The Harvest
3. Sea of Emptiness
4. And Night Took Her
5. Through Mirrors I Saw the Ghost of Me
6. I, Essence of Nothingness
7. Closure XVII

IL VUOTO – Facebook

Eye Of Solitude & Faal / Eye Of Solitude & Faal

Magnifico questo split album pubblicato dalla solita Kaotoxin, che riunisce due delle migliori band europee dedite al funeral death doom, ovvero gli olandesi Faal e gli inglesi Eye Of Solitude.

Magnifico questo split album pubblicato dalla solita Kaotoxin, che riunisce due delle migliori band europee dedite al funeral death doom, ovvero gli olandesi Faal e gli inglesi Eye Of Solitude.

Oddio, per questi ultimi dovrei correggere il tiro visto che non sono una delle migliori, bensì la migliore in assoluto oggi: uno status, questo, conquistato con due capolavori come “Canto III” e “Dear Insanity” e che, per chi non ne fosse ancora del tutto convinto, viene rafforzato grazie a questa decina di minuti drammaticamente intensi, capaci di far piombare chiunque nella più cupa disperazione prima che l’effetto catartico e terapeutico del doom lasci in dote solo un senso di benefico stupore.
Obsequies, fin dal titolo, non lascia spazio ad equivoci di sorta, trattandosi della trasposizione musicale di un rito funebre, con tanto di dolenti e stonate sonorità bandistiche ad introdurre quello che è ormai un marchio di fabbrica vincente: melodie struggenti violentate dal terrificante growl di Daniel Neagoe. Un solo piccolo appunto rispetto alle uscite precedenti va fatto ad una produzione che non valorizza come al solito proprio la prestazione del vocalist rumeno.
Dopo una simile esibizione di dolore, il compito degli olandesi Faal si rivela, sulla carta, piuttosto arduo: la band di Breda è attiva da circa un decennio nel corso del quale ha rilasciato due ottimi album. Questa uscita giunge molto gradita a tre anni di distanza da “The Clouds Are Burning” e un brano come Shattered Hope ci dimostra che l’ispirazione è sempre al massimo, consentendo ai nostri di non sfigurare affatto dinnanzi ai propri compagni di split (con i quali peraltro hanno condiviso il palco più di una volta in tempi recenti).
Certo, i picchi emotivi toccati dagli Eye Of Solitude non sono facilmente raggiungibili, ma il funeral death doom dei Faal è di ottima qualità e rischia di non risplendere come meriterebbe esclusivamente  a causa del confronto ravvicinato con una band che, più di ogni altra oggi (ad esclusione dei Saturnus che si muovono però su un piano meno estremo), è capace di di provocare emozioni a profusione con la propria musica.
Detto ciò, lo split album in questione per gli amanti del funeral death doom è senz’altro un oggetto da accaparrarsi senza alcun indugio.

Tracklist:
1. Eye of Solitude – Obsequies
2. Faal – Shattered Hope

Line-up:
Eye of Solitude
Daniel Neagoe – Vocals
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Steffan Gough – Guitars

Faal
Gerben van der Aa – Guitars
Marcelo – Synthesizer
Pascal – Guitars
William – Vocals
Sarban Grimminck – Drums
Vic van der Steen – Bass

EYE OF SOLITUDE – Facebook

FAAL – Facebook

Bell Witch – Four Phantoms

I Bell Witch sono un altro nome da appuntare sul taccuino degli appassionati del doom più estremo.

Se qualcuno pensa erroneamente che a Seattle si suoni solo e sempre giunge, o comunque rock alternativo, provi ad ascoltare questo terrificante monolite sonoro eretto dal duo denominato Bell Witch.

Dylan Desmond e Adrian Guerra (quest’ultimo già live drummer dei formidabili Shadow of the Torturer) impiegano oltre un’ora per srotolare quattro brani dalla lentezza quasi esasperante, proponendosi come una sorta di versione d’oltreoceano dei tedeschi Worship.
Questo almeno avviene nella traccia cardine del lavoro, l’iniziale Suffocation, A Burial: I – Awoken, che si dipana in maniera appunto soffocante per oltre venti minuti segnati da uno sbocco melodico davvero lacerante nella sua parte finale.
A parte le più rarefatte sembianze di Judgement, In Fire: I – Garden, il resto dell’album vive sulle precedenti coordinate, anche se in Suffocation, A Drowning: II – Somniloquy qualche minima variazione, sotto forma di clean vocals dai toni evocativi, la si riscontra, spazzata via bellamente, comunque, dal growl belluino che sovrasta di nuovo il bradicardico incedere della conclusiva Judgement, In Air: II – Felled.
In sintesi, i due musicisti statunitensi con Four Phantoms hanno prodotto un’ottima opera che necessita inevitabilmente, però, di molta familiarità con il versante più opprimente e meno atmosferico del funeral.
I Bell Witch sono un altro nome da appuntare sul taccuino degli appassionati: se in futuro riusciranno anche a ripulire un pizzico il loro sound (anche se tutto sommato una produzione non proprio cristallina si confà al genere) e a ricreare con più continuità quel senso di dolore ottundente che dimostrano a tratti d’avere nelle corde, il prossimo lavoro potrebbe rivelarsi qualcosa di memorabile.

Tracklist:
1. Suffocation, A Burial: I – Awoken (Breathing Teeth)
2. Judgement, In Fire: I – Garden (Of Blooming Ash)
3. Suffocation, A Drowning: II – Somniloquy (The Distance of Forever)
4. Judgement, In Air: II – Felled (In Howling Wind)

Line-up:
Dylan Desmond – Bass, Vocals
Adrian Guerra – Drums, Vocals

BELL WITCH – Facebook

Indesinence – III

Un lavoro che si propone tra i migliori dell’anno in ambito doom per la sua grande intensità.

I londinesi Indesinence tornano a proporre il loro oscuro death doom a tre anni di distanza dall’ottimo “Vessels of Light and Decay”.

III è, come si intuisce facilmente, il terzo full length della band, nata all’inizio del secolo ma non troppo prolifica in quanto ad uscite discografiche, in linea del resto con la gran parte di chi si dedica al genere; peraltro, a tale proposito, non va dimenticato che spesso queste uscite superano di gran lunga l’ora di durata e questa non fa eccezione.
È molta, quindi, la carne al fuoco per gli appassionati, i quali hanno la possibilità di ascoltare una delle band migliori quanto sottovalutate dell’intera scena.
La peculiarità degli Indesinence risiede fondamentalmente nell’esibire una versione minacciosa ed irrequieta del death doom, nel senso che l’aspetto consolatorio del genere viene sovente rimpiazzato da violente accelerazioni, quasi uno strappo volto a reagire al destino ineluttabile.
Le sfuriate in doppia cassa si manifestano senza preavviso e contribuiscono a tenere sempre sul chi vive l’ascoltatore, quasi con la funzione di impedirgli di essere sopraffatto dalla malinconia abbandonandosi all’illanguidimento.
Il sound della band è in linea con quello della scuola britannica, quindi con gli Esoteric quale parziale riferimento ma, ovviamente, con un’anima estrema ben più evidenziata ed un impatto senz’altro maggiormente diretto, in un ambito stilistico pertanto più vicino al death che non al funeral .
Nostalgia, primo vero brano dopo l’intro Seashore Eternal, fotografa al meglio il sound degli Indesinence : in questa traccia troviamo tutto ciò che il trio londinese immette nel proprio sound: rallentamenti, sfuriate, evocative melodie ed l’efficace growl di Ilia Rodriguez.
Embryo Limbo si muove sulla falsariga del brano precedente, mentre Desert Trail  si ammanta di un’oscurità annichilente, sia nelle sue sembianze funeral sia in quelle quasi brutal che l’ottimo assolo chitarristico finisce per unire idealmente.
Strana, e non poco, Mountains of Mind / Five Years Ahead che, già dal titolo parrebbe essere costituita da due tracce diverse, e così è di fatto, con lo stacco non da poco tra le atmosfere mortifere che si dipanano per oltre dieci minuti  ed il più orecchiabile gothic doom alla Paradise Lost degli ultimi tre giri d’orologio; scelta bizzarra ma dal risultato finale comunque convincente.
L’impronta disperata della voce in Strange Meridian si staglia su tastiere dolenti lungo i suoi diciassette minuti senz’altro difficili da digerire ma invero magnifici, nei quali la luce lasciata filtrare dalla chitarra solista nella seconda parte è qualcosa in più di un semplice barlume.
La title track, infine, altro non è che una lunghissima traccia di matrice ambient drone, di buona fattura ma che nulla aggiunge o toglie al valore di un lavoro che si propone tra i migliori dell’anno nel settore per la sua grande intensità.

Tracklist:
1. Seashore Eternal
2. Nostalgia
3. Embryo Limbo
4. Desert Trail
5. Mountains of Mind / Five Years Ahead
6. Strange Meridian
7. III

Line-up:
Andy McIvor – Bass, Lead Guitar
Ilia Rodriguez – Lead & Rhythm Guitars, Vocals, Keyboard
Paul Westwood – Drums

INDESINENCE – Facebook

Mythological Cold Towers – Monvmenta Antiqva

“Monvmenta Antiqva” è un lavoro lungo ma che lievita dopo ogni ascolto, composto ed eseguito al meglio da una band di valore che, probabilmente, ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato a livello di popolarità.

I Mythological Cold Towers sono una delle realtà brasiliane più importanti in ambito doom, benché la loro notorietà sia di fatto confinata a pochi addetti ai lavori.

Autrice di pochi album diluiti in un arco temporale piuttosto vasto, la band paulista si è progressivamente spostata da una forma epica di black doom, grezza quanto di rara efficacia, espressa specialmente nel magnifico “The Vanished Pantheon”, per approdare ad un death doom dalle sfumature gotiche e dalle connotazioni sempre molto evocative.
I Mythological Cold Towers riescono così a trasmettere in maniera compiuta gli umori cupi e decadenti del genere senza però smarrire quell’aura epica che da sempre è nel loro dna.
Monvmenta Antiqva riesce piuttosto bene in tale intento grazie anche ad uno splendido operato della chitarra solista, capace di rendere al meglio, sia pure in maniera molto essenziale, quelli che sono gli umori di un lavoro che conferma l’elevato standard qualitativo messo in mostra anche nel precedente “Immemorial”.
Beyond the Frontispiece apre splendidamente un album che tocca vette emotive altissime in un brano come Of Ruins and Tragedies, che ha il solo difetto di perdersi in una parte finale interlocutoria andando ad intaccare parzialmente un crescendo emotivo che meritava un migliore epilogo.
Sand Relics riparte nuovamente con il marchio dell’opener, con tastiera e chitarra a costruire partiture solenni sulle quali Samej recita le sue malsane litanie, utilizzando un growl semi recitato assolutamente funzionale al contesto in cui si va ad inserire.
Lo spirito dei Septic Flesh di “Esoptron” aleggia invece nella prima parte di Baalbeck, dove un tocco pianistico apparentemente elementare eleva a dismisura il pathos del brano nella sua fase discendente.
Anche Strange Artifacts segue lo schema vincente di Beyond the Frontispiece, mentre Vestiges è la degna chiusura di un album davvero molto bello, con il quale i Mythological Cold Towers riescono a toccare le corde più recondita dell’animo senza ricorrere a particolari artifici, bensì esibendo un sound fruibile e decisamente poco propenso ad accelerazioni o sfuriate di matrice death o black.
Monvmenta Antiqva è un lavoro lungo ma che lievita dopo ogni ascolto, composto ed eseguito al meglio da una band di valore che, probabilmente, ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato a livello di popolarità, peraltro all’interno di un genere che già di suo si colloca orgogliosamente agli antipodi del mainstream musicale.

Tracklist:
1. Beyond the Frontispiece
2. Vetustus
3. Votive Stele
4. Of Ruins and Tragedies
5. Sand Relics
6. Baalbeck
7. Strange Artifacts
8. Vestiges

Line-up:
Samej – Vocals
Shammash – Guitars
Nechron – Guitars, Keyboards, Vocals
Hamon – Drums

MYTHOLOGICAL COLD TOWERS – Facebook

Dead Hand – Storm Of Demiurge

I Dead Hand, con la loro prima prova su lunga distanza , riescono a catturare l’attenzione in virtù di una scrittura mai banale e che, nel contempo, pare garantire ulteriori ed oltremodo interessanti sviluppi.

Gli statunitensi Dead Hand sono di formazione piuttosto recente, visto che la loro genesi risale al 2013, e Storm Of Demiurge è il primo full-length che include anche i due brani (Ground to Ash e The Last King) presenti nell’Ep uscito l’anno scorso.

Se il buongiorno si vede dal mattino, il futuro della band georgiana si prospetta fangosamente entusiasmante, visto che lo sludge messo in mostra in questi tre quarti d’ora abbondanti di musica appare fina da subito di primissima qualità.
Se Resign to Complacency si presenta come una sorta di intro per poi sfociare in un riff ripetuto ad oltranza, con la già citata Ground to Ash si entra nel vivo del lavoro grazie alle sue atmosfere cupe che, a tratti, vengono stemperate da umori post metal funzionali ad incrinare l’incedere di un sound per sua natura piuttosto monolitico.
In effetti, nonostante le premesse iniziali, una certa componente melodico-acustica prende sovente piede, regalando quell’alternanza di sensazioni in grado di rendere più peculiare la proposta della band.
La voci sono in linea con la tradizione sludge-post metal, e ben si sposano con la atmosfere minacciose che trovano una prima loro sublimazione in Trailed by Wolves, traccia lunghissima che si rivela emblematica delle capacità e delle caratteristiche dei Dead Hand, i quali non dimenticano mai di imprimere tratti riconoscibili ai loro brani.
L’album vive di una tensione emotiva continua, accentuata dall’andamento comune a tutti brani, con un inizio quasi soffuso e dai tratti acustici al quale segue un crescendo, più o meno netto, con quale il trio aumenta progressivamente il tiro fino al raggiungimento del climax (cosa che avviene ugualmente, ma in maniera meno accentuata, nella title track).
La chiusura affidata all’altro brano già edito, The Last King, conferma appieno la vena compositiva dei Dead Hand, capaci fin dalla loro prima prova su lunga distanza , di catturare l’attenzione in virtù di una scrittura mai banale e che, nel contempo, pare garantire ulteriori ed oltremodo interessanti sviluppi.

Tracklist:
1. Resign to Complacency
2. Ground to Ash
3. Trailed by Wolves
4. Storm of Demiurge
5. 1/13/12
6. The Last King

Line-up:
Matt – Guitar, Vocals
Clifton – Guitar, Vocals
Stephen – Bass
Shannon – Keyboards, Vocals
J.R. – Drums

DEAD HAND – Facebook

Black Capricorn / Bretus – 7″ Split

Un sette pollici che regala enorme piacere e che fa vedere la bontà della scena italiana in quanto a musica oscura e pesante.

Semplicemente due tra le migliori band di musica pesante in Italia uniscono le loro forze e ci presentano una coppia di inediti davvero ottimi.

Sul lato A di questo sette pollici, stampato in trecento copie dalla The Arcane Tapes, ci sono i Bretus, macchine calabresi di sonorità doom classiche, con grandi composizioni che arieggiano la disperazione e il cantato davvero fuori dal comune dei Candlemass, ma oggi sono meglio di questi ultimi. La canzone si ispira ad un racconto dalle stesso titolo molto importante nella produzione lovecraftiana, ed è un ulteriore invito a leggere il Maestro.
Sul lato B le bestie di Satana sarde Black Capricorn, che si sono rivelati nel 2014 con “The Cult of Balck Friars” come uno dei migliori gruppi nel genere doom versante occulto. Le loro abrasioni sonore sono fuori dal comune e questo inedito li conferma come un gruppo che può suonare quello che vuole. The Hound of Harbinger God  è un pezzo di quasi nove minuti ipnotico ed iniziatore, basta seguirlo ed andarci dietro, non cercando la luce in questa bellissima oscurità.
Un sette pollici che regala enorme piacere e che fa vedere la bontà della scena italiana in quanto a musica oscura e pesante.
Una chicca.

Tracklist:
Lato A Bretus – The Haunter Of The Dark
Lato B Black Capricorn – The Hound of Harbinger God

Line-up:
Bretus
Zagarus – vocals
Ghenes – bass
Faunus – guitars
Striges – drums

Black Capricorn
Fabrizio “kjxu” Monni – guitars, vocals, 2nd guitar solo
Daniele Manca – guitars, 1st guitar solo
Virginia Piras – bass
Rachela Piras: drums

BRETUS – Facebook

BLACK CAPRICORN – Facebook

Fallen – Fallen

Riedizione dell’unico album pubblicato dai Fallen con l’aggiunta di due tracce inedite.

È tempo di riedizioni per le creature musicali di Anders Eek, uno dei protagonisti principali della scena doom norvegese.

I Fallen erano una band parallela dei più noti Funeral (dei quali parleremo appunto nei prossimi giorni trattando la ristampa del loro secondo album) e, nel corso della loro breve esistenza artistica, hanno lasciato una sola testimonianza su lunga distanza, A Tragedy’s Bitter End, un lavoro uscito nel 2004 che ottenne buoni riscontri a livello di critica.
Purtroppo, la prematura morte del chitarrista Christian Loos decretò l’interruzione dell’attività per i Fallen, con Eek che passò a dedicarsi a tempo pieno al suo principale progetto.
La Solitude offre oggi questa riedizione, che viene definita impropriamente una compilation, visto che si tratta di fatto della riproposizione dell’unico album con l’aggiunta di due brani registrati prima della scomparsa di Loos.
Musicalmente, A Tragedy’s Bitter End contiene una forma di funeral piuttosto scarna ma indubbiamente coinvolgente anche se non sempre del tutto a fuoco; la possibilità di parlare di questo vecchio album mi fornisce lo spunto per chiarire un personalissimo punto di vista sulla materia trattata: per quanto mi riguarda, l’unica forma vocale possibile per un disco funeral è il growl, punto, e “tutto il resto è noia” (nel vero senso della parola), come qualcuno cantava molti anni fa …
Il tono profondo e forzato di Kjetil Ottersen è piuttosto simile a quello utilizzato da Kostas Panagiotu nei Pantheist, il che tende sicuramente a fornire al sound un’aura più decadente (oltre all’indubbio vantaggio di poter cogliere il contenuto lirico senza l’ausilio di un testo scritto), ma con lo sgradevole effetto collaterale di dover ascoltare una sorta di Andrew Eldritch afflitto da adenoidi.
Per contro, l’attitudine e la competenza nel trattare il genere da parte di Eek e compagni è al di sopra di ogni sospetto, e si percepisce chiaramente quanto il tragico e ineluttabile sentore di morte che aleggia costantemente lungo ogni singola nota dell’album non sia frutto di un’esibizione manieristica.
Un brano splendido come Now that I Die, con i suoi diciassette minuti ed oltre di dolore che si fa musica, è emblematico della bontà intrinseca di un lavoro che è giustamente rimasto ben impresso nella memoria degli appassionati più incalliti.
Le due composizioni che vanno ad integrare la scaletta di A Tragedy’s Bitter End sono Drink Deep My Wounds, che si muove sulla falsariga dei brani precedenti pur rivelandosi in certi frangenti più arioso, e la cover di Persephone dei Dead Can Dance, piuttosto stravolta rispetto all’originale ma non per questo meno efficace (anche grazie al ricorso ad un timbro vocale meglio tarato da parte di Ottersen).
I motivi per far propria questa uscita quindi non mancano, inclusa la possibilità di avere per le mani un album che, all’epoca, venne stampato in un numero limitato di copie e che, oggi, viene oltretutto riproposto con una nuova e più soddisfacente veste grafica.

Tracklist:
1. Gravdans
2. Weary and Wretched
3. To the Fallen
4. Morphia
5. Now that I Die
6. The Funeral
7. Drink Deep My Wounds
8. Persephone – A Gathering of Flowers (Dead Can Dance cover)

Line-up:
Anders Eek – Drums
Christian Loos – Guitars
Kjetil Ottersen – Vocals, Keyboards, Guitars, Bass

AA.VV. – A Treasure To Find, un Omaggio ai Novembre

Un’operazione del tutto azzeccata per la qualità intrinseca dei brani scelti e delle rispettive riproposizioni.

Prima di cominciare a parlare di questo album devo fare doverosamente outing: i Novembre non mi hanno mai fatto impazzire. Intendiamoci, non ho alcuna intenzione di sminuire (e del resto chi sono io per pensare di farlo ?) il valore oggettivo di una band che ha influenzato centinaia di musicisti, non solo nel nostro paese: il fatto è che il sound della creatura dei fratelli Orlando non è mai riuscito del tutto a far breccia in un cuore come il mio, che pure è propenso per natura ad emozionarsi ascoltando brani intrisi di malinconia come sono in effetti quelli dei Novembre. Come cantava qualcuno molti anni fa, evidentemente, è solo “una questione di feeling”.

Questa premessa, che ai più forse parrà superflua, è doverosa in quanto l’apprezzamento che andrò a descrivere nei confronti di questa ottima iniziativa della Mag-Music, non è quello del fan accecato dalla passione, bensì deriva esclusivamente dalla bontà delle rielaborazioni dei brani dei Novembre contenuti nel tributo.
Nove sono le tracce proposte con il contributo di dieci realtà musicali (in quanto Cold Blue Steel viene brillantemente rielaborata dall’accoppiata Vostok / Australasia), diverse per background e stile ma ugualmente ispirate nei rispettivi percorsi musicali dalla seminale band capitolina .
Nella scelta dei brani la parte del leone la fa il penultimo album “Materia” con quattro tracce (in effetti cinque se consideriamo che L’Alba di Morrigan propone mirabilmente in un sol colpo Aquamarine / Geppetto) lasciando il resto ai vari “Classica” (2), “Wish I Could Dream It Again…”, “Arte Novecento” e “Novembrine Waltz” (uno ciascuno), e tralasciando misteriosamente del tutto l’ultima testimonianza su lunga distanza “The Blue”.
Nel complesso l’operazione si rivela, comunque, del tutto azzeccata per la qualità intrinseca dei brani scelti e delle relative riproposizioni, con note di merito per l’operato di Lenore S. Fingers, dove possiamo apprezzare ancora una volta la splendida voce di Lenore, Shores Of Null, la band più metal del lotto che, non a caso, si appropria da par suo di The Dream Of The Old Boats ,uno dei brani più datati dei Novembre, e, come detto L’Alba di Morrigan con la poetica accoppiata tratta da “Materia”.
Di sicuro gradite a chi ha familiarità con la musica proposta, per assurdo questo tipo di iniziative possono rivelarsi utili soprattutto incuriosendo chi magari conosce solo di fama le band oggetto dei tributi, tanto più in questo caso specifico alla luce del recente annuncio (al punto che viene da chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina …) dell’imminente ritorno dei Novembre, guidati dai soli Carmelo Orlando e Massimiliano Pagliuso, a ben otto anni di distanza da “The Blue”.
Da applaudire quindi per la brillante intuizione i promotori del tributo, Marco Gargiulo della Mag-Music e Stefano Morelli di Rumore, a maggior ragione per la decisione di offrirne i contenuti in download gratuito.

Tracklist:
1. Valentine – Lenore S. Fingers (Novembrine Waltz)
2. The Dream Of The Old Boats – Shores Of Null (Wish I Could Dream It Again)
3. A Memory – Demetra Sine Die (Arte Novecento)
4. Aquamarine/Geppetto – L’Alba Di Morrigan (Materia)
5. Cold Blue Steel – Vostok & Australasia (Clasica)
6. Nostalgiaplatz – Arctic Plateau (Classica)
7. Memoria Stoica/Vetro – Shape (Materia)
8. Nothijngrad – Electric Sarajevo (Materia)
9. Jules – Lauren Vieira (Materia)

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