Nel complesso un’altra uscita di valore per la GS Productions, tutt’altro che superflua in quanto consente di verificare i progressi di realtà emergenti quali gli In Lacrimaes Et Dolor, The Blessed Hellbrigade e Y’ha-nthlei, confermando nel contempo lo stato di grazia degli Aphonic Threnody.
Altra uscita da parte dell’etichetta russa GS Productions, evidentemente specializzata in split album, questa volta con un lavoro che vede all’opera quattro diverse band, tre delle quali italiane più gli inglesi Aphonic Threnody, anch’essi dotati comunque di una cospicua componente tricolore.
A poche settimane di distanza da “In Memoriam” ritroviamo gli i In Lacrimaes Et Dolor i quali, ancora una volta, convincono con un funeral death doom che, rispetto alla precedente uscita, ritorna a calcare sentieri più classici, andando a lambire più volte con Of Poison and Deceit umori e suoni degli Skepticism. L’uso dell’organo agevola indubbiamente questo accostamento, e del resto l’ottimo growl di Francesco Torresi non è da meno rispetto a quello di Matti Tilaeus. Ancora un’ottima prova quindi per il musicista di Macerata Dany Noctis, in attesa di un nuovo full length che, viste le basi poste in questi ultimi anni, potrebbe rappresentare una folgorazione per molti.
Il secondo brano vede all’opera i novaresi The Blessed Hellbrigade i quali, rispetto ai più giovani colleghi marchigiani, propongono un doom dai tratti più epici che funerei, spesso sporcato da ritmiche di matrice black; la cosa non sorprende visto che i due musicisti impegnati, M. e Mayhem, sono due vecchie conoscenze della scena black del norditalia. Il brano, Maudit et Superieur, è decisamente intrigante, mostrando per di più una certa discontinuità rispetto a quanto proposto dalle altre tre band.
Gli Aphonic Threnody sono la band più conosciuta del lotto, oltre ad essere l’unica sulla carta non italiana, nonostante il vocalist Roberto ed il batterista Marco siano due musicisti sardi ben conosciuti per essere i motori di band come Urna ed Arcana Coelestia ed il nuovo chitarrista Zack provenga anch’egli dalla nostra penisola. Il gruppo guidato dal londinese Riccardo (chitarra e basso) e che presenta alle il neo-entrato Juan, tastierista cileno ex Mar De Grises, dopo altri due split, un Ep ed un magnifico album come “When Death Comes”, continua a proporre ottima musica con questo brano, Bury Them Deep, che esplora un versante meno funeral e più evocativo rispetto a quanto esibito di recente.
Chiude il lavoro il brano offerto da un altro duo, quello formato dai Y’ha-nthlei dei musicisti lombardi Sadomaster ed Omrachk, i quali, con The Tomb’s Penumbra offrono una traccia all’insegna di un funeral più ostico e scarno rispetto al resto della compagnia. Il sound lascia poco spazio ad aperture melodiche privilegiando un andamento dall’impatto decisamente più disturbante per quanto ugualmente efficace.
Nel complesso un’altra uscita di valore per la GS Productions, tutt’altro che superflua in quanto consente di verificare i progressi di realtà emergenti quali gli In Lacrimaes Et Dolor, The Blessed Hellbrigade e Y’ha-nthlei, confermando nel contempo lo stato di grazia degli Aphonic Threnody.
Tracklist:
1. In Lacrimaes Et Dolor – Of Poison and Deceit
2. The Blessed Hellbrigade – Maudit et Superieur
3. Aphonic Threnody – Bury Them Deep
4. Y’ha-nthlei – The Tomb’s Penumbra
Line-up: In Lacrimaes Et Dolor
Francesco Torresi – Vocals
Dany Noctis – Keyboards
Mauro Ulag – Bass
Francesco Castricini – Guitars
Alina Lilith – Songwriting
The Blessed Hellbrigade
Mayhem – Drums
M. – Vocals, Guitars, Bass
Aphonic Threnody
Juan – Keyboards, Piano
Zack – Guitars
Marco – Drums
Roberto – Vocals
Riccardo – Guitars, Bass
Il death doom degli Woccon appare piuttosto peculiare nel suo incedere, proprio per i suoi tempi mai eccessivamente rallentati ed un mood molto meno cupo rispetto alla media.
Al terzo anno di attività arrivano al debutto sui lunga distanza gli statunitensi Woccon, che si erano già messi in luce nel 2012 con l’ottimo Ep “The Wither Fields”, un lavoro che all’epoca mi venne segnalato dallo stesso vocalist e chitarrista Tim Rowland, consentendomi di scoprire una nuova, stimolante realtà, nei confronti della quale non era necessario possedere particolari doti divinatorie per predirne un roseo futuro.
Proprio le basi poste con quell’uscita costituiscono il solido appoggio sul quale gli Woccon creano il loro death-doom invero non del tutto convenzionale, a causa delle frequenti sfumature post rock che talvolta arrivano ad addolcire un sound che, sicuramente, prende come punto di riferimento principale i magnifici connazionali Daylight Dies, senza che ciò vada a discapito della personalità, tutt’altro.
Lo stile della band della Georgia, infatti, appare piuttosto peculiare nel suo incedere, proprio per i suoi tempi mai eccessivamente rallentati ed un mood molto meno cupo rispetto alla media, privilegiando talvolta un aspetto melodico più sognante che malinconico (ed ecco l’aggancio con il post rock di cui si parlava poc’anzi).
L’ottima interpretazione vocale di un Tim Rowland che, per fortuna, non cede alla tentazione di stemperare con passaggi “clean” il suo notevole growl, non sorprende alla luce di quanto di buono aveva mostrato già in occasione dell’Ep, e conferisce al sound quella stabilità che porta gli Woccon ad offrire quasi un’ora di musica avvincente, davvero priva di cali e con alcuni picchi emotivi realmente entusiasmanti quali le splendide Impermanence e Behind The Clouds, senza dimenticare le pennellate più tenui di una traccia come la strumentale Valadiliene, veri colpi di classe che fin da ora collocano la band di Athens su livelli prossimi ai maestri del genere.
Tracklist:
1. Intro
2. Giving up the Ghost
3. Atrophy
4. This Frozen Soil
5. And the World Wept
6. Impermanence
7. Valadilene
8. An Enduring Remorse
9. Behind the Clouds
10. Wherever I May Be
11. Wandering
Line-up:
Tim Rowland – Vocals, Guitars
Tiler Kuykendall – Guitars
Sam Dunn – Bass
Chris Wilder – Guitars
Kellen Harris – Drums
L’Ep scorre in maniera oltremodo piacevole, collocando Luna tra i prospetti da tenere sotto stretta osservazione nel prossimo futuro
Ritroviamo, dopo circa sei mesi, questo progetto solista del musicista ucraino DeMort sotto forma di un breve Ep che su rivela, però, piuttosto interessante per diversi motivi.
Dall’ascolto di “Ashes to Ashes”, album uscito lo scorso anno sempre per la Solitude, era rimasta l’eredità delle pesanti influenze di band come Ea e Monolithe, benché di per sé ciò non debba essere considerato in assoluto un male ed il lavoro non fosse affatto disprezzabile: l’adesione a quei modelli appariva però eccessiva, e la presenza saltuaria di buoni spunti melodici non giustificava del tutto la totale rinuncia ad un proprio tratto personale; nei due brani pubblicati in questa occasione, DeMort pare invece essersi svincolato in buona parte da tali spunti stilistici, approdando ad una forma di doom atmosferico dai tratti meno funerei e dalle ampie aperture melodiche, non prive peraltro di una certa solennità. There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Maskscorre pertanto in maniera oltremodo piacevole, collocando Luna tra i prospetti da tenere sotto stretta osservazione nel prossimo futuro.
Meno di un quarto d’ora di musica, ma ben focalizzata ed altrettanto ottimamente eseguita, costituisce infatti il viatico ideale per un prossimo full length che potrebbe garantire l’auspicabile salto di qualità alla one man band ucraina.
Resto, come sempre, lievemente perplesso al cospetto di proposte dal formato interamente strumentale (il ricorso ad un buon growl costituirebbe un valore aggiunto non da poco) ma, indubbiamente, questa è una prova che merita la dovuta attenzione ed un doveroso ascolto da parte degli appassionati alla ricerca di nomi nuovi.
Tracklist:
1. In a Silver Velvet of the Moon
2. There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask
Una prova interessante, nel suo complesso, che pone le basi per un’ulteriore progressione della band danese.
I danesi Woebegone Obscured, dopo due full length, l’ultimo dei quali risalente al 2013 (“Marrow Of Dreams”), si rifanno vivi con questo Ep uscito il mese scorso.
La band nordica è dedita ad un funeral-death doom piuttosto cangiante per gli standard del genere, visto che le consuete partiture plumbee sono spesso alternate ad ariose aperture melodica con tanto di clean vocals: nel precedente album questa soluzione si rivelava sicuramente interessante ma la sensazione era che le varie componenti risultassero ancora piuttosto slegate tra loro.
Vanno senza’altro meglio le cose in Deathscape MMXIV, dove, oltre a due cover, ci vengono proposti circa 25 minuti di musica inedita, tra i quali spiccano la title track, ottimo brano che spiega più di tante parole quale sia il modus operandi degli Woebegone Obscured (un inizio canonico a ritmi lentissimi che si stempera in un intermezzo acustico propedeutico all’ingresso di una stentorea voce pulita), e la bellissima e soave While Dreaming in the Ethereal Garden, traccia che pare uscita da un album della 4AD degli anni ’90.
In mezzo, Catharsis of the Vessel si rivela un episodio leggermente più cervellotico, per quanto non privo di spunti interessanti che mi hanno riportato alla mente una misconosciuta quanto valida band di due decenni fa quali furono i tedeschi Dark Millennium.
L’Ep si chiude con due cover piuttosto impegnative, visti i nomi che sono chiamati in causa, e bisogna dire che i danesi se la cavano bene in entrambe le occasioni, pur dovendo affrontare due stili diametralmente opposti: sia la bathoriana Call From The Grave, sia soprattutto Xavier, una delle canzoni in assoluto più belle (per chi scrive) tra le tante composte dai Dead Can Dance, vengono rese in maniera piuttosto fedele per quanto adeguatamente “doomizzate”.
In fondo, la contrapposizione tra questi due brani è un po’ la fotografia del sound degli Woebegone Obscured, i quali cercano lodevolmente di far convivere queste loro diverse pulsioni riuscendoci tutto sommato abbastanza bene; inoltre depone certamente a loro favore il fatto che, rispetto al precedente album, sia decisamente migliorata la qualità delle clean vocals e sia stato fatto un notevole passo in avanti anche per quanto riguarda la produzione.
Una prova interessante, nel suo complesso, che pone le basi per un’ulteriore progressione della band danese.
Tracklist:
1. Deathscape MMXIV
2. Catharsis of the Vessel
3. While Dreaming in the Ethereal Garden
4. Call from the Grave (Bathory cover)
5. Xavier (Dead Can Dance cover)
Line-up:
D. Woe – Drums, Keyboards, Vocals
Q. Woe – Guitars, Keyboard, add. Vocals
M. Woe – Guitars
Andreas Tagmose Grønkjær – Fretless Bass, Cello
Un ottimo split album che conferma lo status raggiunto dai My Shameful e che, invece, fa presagire qualcosa di molto interessante per il futuro in casa degli Who Dies In Siberian Slush
Altro split album dai tratti funerei, questa volta ad opera della label moscovita MFL Records che propone la band di “casa”, Who Dies In SIberian Slush, in coppia con i finlandesi My Shameful.
Come sta accadendo da diverso tempo, le uscite in questo formato si stanno rivelando prodighe di ottima musica, mostrando per di più sfumature diverse di uno stesso genere musicale grazie alla diversa interpretazione delle band coinvolte.
L’apertura è affidata ad uno dei nomi storici del doom estremo nell’area ex-sovietica, gli Who Dies In Siberian Slush di Evander Sinque che, come da loro abitudine, propongono un funeral-death che non punta tutto sulle atmosfere bensì su un impatto più disturbante, con il suo andamento sghembo sempre in bilico tra il drammatico ed il dissacrante; meglio di altre volte, i moscoviti esprimono questo mood peculiare, particolarmente nell’ottima The Tomb of Kustodiev, dove passaggi ultrarallentati vengono rimarcati dall’uso di un trombone: non è difficile, chiudendo gli occhi, associare questo sound alle immagini di una banda che, con passo incerto accompagna il defunto verso la sua ultima e definitiva dimora. Se vogliamo, lo stile degli Who Dies In Siberian Slush mostra sovente tratti più grotteschi che non drammatici, ed è senz’altro un modo diverso dal solito di fronteggiare il dolore della perdita o l’approssimarsi della fine, forse meno evocativo nell’immediato ma ugualmente di grande interesse, come rimarcato anche dall’altro brano affidato alla band russa, And It Will Pass.
La seconda metà dello split è affidata ai My Shameful di Sami Rautio, che si ripongono a breve distanza dall’uscita del ottimo “Hollow”: i due brani presenti, per forza di cose, mostrano una certa contiguità rispetto a quanto mostrato nel full-length, ribadendone la bontà e rafforzando l’idea di una raggiunta focalizzazione dello stile da parte della band finlandese, che oggi pare aver trovato brillantemente il giusto equilibrio tra la ruvidezza della base death ed il malinconico incedere del doom. The Land of the Living possiede le stimmate del miglior funeral, mentre Downwards mostra tratti più melodici, rivestita com’è di una certa patina gotica: senza dubbio due brani eccellenti, che fugano così il dubbio che in questo split i My Shameful potessero riversare degli “scarti” di “Hollow”.
E’ possibile invece che questi brani siano stati sacrificati in quel frangente per non appesantire oltre un album piuttosto lungo, il che dimostra comunque l’elevata qualità media delle composizioni di una band piuttosto prolifica rispetto alle abitudini di chi si cimenta con il genere.
Un ottimo split album che conferma lo status raggiunto dai My Shameful e che, invece, fa presagire qualcosa di molto interessante per il futuro in casa degli Who Dies In Siberian Slush, alla luce anche del recente splendido lavoro degli Unmercenaries (che ha visto protagonisti Gungrind ed Evander Sinque, oltre a Jürgen Frohling degli Stessi My Shameful, a ribadire lo stretto legame che intercorre tra le due band).
Tracklist:
1. Who Dies in Siberian Slush – The Tomb of Kustodiev
2. Who Dies in Siberian Slush – And It Will Pass
3. My Shameful – The Land of the Living
4. My Shameful – Downwards
“The Dark Matter” si rivela un’opera prima davvero riuscita, alla quale forse manca ancora qualcosina per attestarsi ai piani più alti della scena death-doom, ma la strada per giungervi non sembra né troppo lunga né particolarmente impervia per i bravi Nangilima.
Band dall’incerta collocazione geografica, vista le diverse nazionalità e le residenze dei musicisti coinvolti, i Nangilima esordiscono con un album all’insegna di un death-doom piuttosto avvincente.
Infatti, una notevole propensione melodica pervade l’intero lavoro nel quale, peraltro, sono spesso le tastiere ad ergersi a protagoniste più di quanto non facciano più prevedibilmente le chitarre.
La particolarità dell’album sta soprattutto in questa dicotomia tra l’incedere plumbeo del doom nelle sue vesti più estreme ed i tratti quasi progressive delle parti tastieristiche, per una volta maggiormente protagoniste rispetto al più consueto compito di sottolineare la drammaticità del sound.
Va detto che la genesi della band è stata piuttosto laboriosa: partita come duo in quel di Malmö, dopo la pubblicazione del singolo “Thanathos” il compositore e polistrumentista C.L. abbandonava la sua creatura nelle mani del vocalist Emilio Crespo, residente in Svezia ma di origini spagnole; questi, deciso a continuare l’avventura chiamava a collaborare con sé, prima gli altri due musicisti iberici Khalvst ov Mhurn e Amarok e, dopo la fuoriuscita anche di quest’ultimo, il musicista bulgaro Nikolay Velev.
Trovata finalmente una line-up stabile, i Nangilima, senza tanti proclami né particolari aspettative, piazzano un esordio davvero riuscito che, grazie a brani dotati di quella dolente melodia che piace agli estimatori del genere, arriva al suo epilogo senza aver mai mostrato la corda. Al netto di intro ed outro, i quatto brani portanti sono ugualmente convincenti, anche se Crimson Shroud si staglia sul resto della tracklist per il suo maggiore potenziale evocativo.
La musica non assume quasi mai tratti eccessivamente funerei, se si fa eccezione per la prima metà di The Link of Reminiscence: infatti, il death-doom del trio punta molto più sulla melodia che non sull’impatto, anche se un growl come quello di Emilio Crespo, che non sfigura affatto neppure di fronte ai massimi esponenti di questo stile vocale, inasprisce non poco le partiture messe in opera dai propri compari.
La title-track merita una citazione in quanto l’utilizzo molto particolare delle tastiere porta il sound verso inattesi lidi progressive, pur senza snaturarne la matrice doom: proprio questo brano mostra quella piacevole peculiarità che talvolta fa difetto a chi si cimenta con il genere, The Dark Matter si rivela, infine, un’opera prima davvero riuscita, alla quale forse manca ancora qualcosina per attestarsi ai piani più alti della scena death-doom, ma la strada per giungervi non sembra né troppo lunga né particolarmente impervia per i bravi e (almeno per me) sorprendenti Nangilima.
Tracklist:
1. Chemin vers le néant (Intro)
2. Stain of a Broken Life
3. Crimson Shroud
4. The Link of Reminiscence
5. The Dark Matter
6. Éternel sommeil (Outro)
Line-up
Emilio Crespo – Vocals
Khalvst Ov Mhurn- Keyboards, Drums
Nikolay Velev – Guitars, Bass, Keyboards
Operazione interessante che mette in luce le buone potenzialità dei The Lumberjack Feedback.
Che la Kaotoxin Records si renda protagonista di uscite non troppo convenzionali non è certo una novità, così chi conosce abbastanza bene le abitudini della label di Lille non resterà stupito più di tanto da questo Ep dei suoi concittadini The Lumberjack Feedback.
In questo caso la particolarità dell’operazione non risiede tanto nella musica proposta, uno sludge doom strumentale di indubbio impatto, quanto nel fatto che i primi due brani, Salvation e The Dreamcatcher, sono stati registrati dal vivo in una chiesa sconsacrata (quella che campeggia sulla copertina), sfruttando al meglio un ambiente capace di restituire al massimo i riverberi di un sound che di questa sua caratteristica ne fa un vessillo.
La mezz’ora abbondante di musica offerta si rivela così piuttosto interessante con il proprio incedere fangoso, per quanto mi sia già espresso più di una volta su quanto non possa fare a meno di attribuire a gran parte dei lavori esclusivamente strumentali quel senso di incompiutezza provocato dall’assenza della voce.
Detto ciò, i The Lumberjack Feedback ci danno dentro senza risparmiarsi: Salvation è un brano inedito che farà parte del full length di prossima pubblicazione, dimostrandosi così una gradita anticipazione, mentre la successiva The Dreamcatcher era già compresa nell’Ep “Hand Of Glory” del 2013.
Per entrambe le tracce la band francese ha realizzato dei video che la immortalano all’opera in quello che fu un luogo di culto: immagini affascinanti, attraverso le quali si può anche cogliere il ricorso da parte dei nostri alla doppia batteria, un espediente che sicuramente accresce l’impatto ritmico del loro sound. Mein Gebush Hat Hünger è invece un brano per il quale bisogna tornare al 2009, quando venne pubblicato come singolo d’esordio: di durata considerevole, in virtù degli oltre sedici minuti di durata, la sua riproposizione è sicuramente utile vista in un’ottica di divulgazione delle capacità della band, visto che, specie nella sua seconda metà, questo monolite sludge si snoda in un lento crescendo avvalendosi di un riffing ossessivo ma, nel contempo, molto convincente e rivelandosi una traccia di grande valore.
Il fatto che il brano più datato sia anche il migliore del lotto potrebbe non deporre del tutto a favore dei The Lumberjack Feedback, ma va detto anche che la buona qualità espressa nella traccia inedita Salvation lascia piuttosto fiduciosi sulla resa del lavoro su lunga distanza programmato in questo 2015.
In ogni caso un’operazione decisamente riuscita, specie se lo scopo principale era quello di destare un certo interesse nei confronti della band di Lille.
Il lavoro è scaricabile gratuitamente presso il Bandcamp della Kaotoxin Records.
Tracklist:
1.Salvation (live)
2.The Dreamcatcher (live)
3.Mein Gebush Hat Hünger
Line-up
Current line-up:
Simon Herbaut – guitars
Arnaud Silvert – guitars
Sebastien Tarridec – bass
Nicolas Tarridec – drums
Olive T’Servrancx – drums
“Mein Gebush Hat Hünger” line-up
Simon Herbaut – guitars
Christophe Ramin – guitars
Nicolas Herwegh – guitars
Julien Kamani – bass
Nicolas Tarridec – drums
“Another Dimension Of Pain” mostra una band che, probabilmente, avrebbe avuto bisogno di qualche altra uscita su distanza ridotta prima di cimentarsi in un lavoro vicino all’ora di durata.
I polacchi Oktor arrivano al primo full length dopo oltre dieci anni d’attività anche se, di fatto, il loro materiale inedito più recente risale ormai al 2005.
Questo Another Dimension Of Pain mostra una band che, probabilmente, avrebbe avuto bisogno di qualche altra uscita su distanza ridotta per testarsi prima di cimentarsi in un lavoro vicino all’ora di durata.
Infatti, quel che si evince dopo ripetuti ascolti dell’album, è che il sound appare frammentario, con troppi momenti interlocutori che vanno ad interrompere il flusso di un death doom talvolta anche pregevole: tutto ciò comporta, inevitabilmente, che poco o nulla di ciò che si è ascoltato è destinato a restare impresso.
Fondamentalmente il lavoro si compone di tre brani portanti, tutti di considerevole lunghezza, tra i quali la sola Conscious Somatoform Paradise si rivela davvero competitiva, forse perché è quella in cui il trio polacco indulge meno in svenevolezze decadenti, come avviene invece in Mental Paralysis (soprattutto) e in Hemiparesis of the Soul; l’assimilazione delle parti in clean vocals, già di per sé non brillantissime, non vengono certo agevolate dall’utilizzo della lingua madre, mentre ad appesantire il tutto gli Oktor collocano tra queste tracce degli intermezzi pianistici invero minimali, tali da apparire quasi l’accompagnamento musicale dei vecchi film muti (anche se la cosa fosse stata voluta, l’effetto evocativo si rivela decisamente scarso).
Chiude la fatica Undone, brano che vede la voce pulita a sovrapporsi al suddetto stile pianistico, non aggiungendo alcunché ad un album che non riesce mai a decollare: da questo genere ci si aspettano emozioni a profusione oppure sensazioni di straniamento capaci di avvolgere nella loro spira l’ascoltatore ma, in Another Dimension Of Pain nulla di tutto ciò accade, forse perché gli Oktor hanno voluto fare il passo più lungo della gamba.
In tal caso, auspicando un aggiustamento di tiro, li aspettiamo alla prossima occasione con idee compositive focalizzate su un death doom magari più lineare ma, nel contempo, più omogeneo ed efficace.
Tracklist:
1. Another
2. Conscious Somatoform Paradise
3. Dimension
4. Mental Paralysis
5. Of
6. Hemiparesis of the Soul
7. Pain
8. Undone
Line-up:
Jerzy Rajkow-Krzywicki – Guitars, Bass, Keyboards, Drums, Vocals
Jan Rajkow-Krzywicki – Guitars, Drums, Vocals
Piotr – Vocals (clean)
“Transient” offre oltre un’ora di funeral-death doom di grande qualità, con una produzione magari perfettibile ma tutto sommato accettabile e, soprattutto, ricco di grande pathos.
Transientè l’album d’esordio della band brasiliana Lachrimatory, pubblicato come autoproduzione nel 2011 e riedito quest’anno dalla sempre attenta label russa Solitude Productions.
Non sempre le riedizioni di album usciti diversi anni prima si rivelano operazioni necessarie o comunque stuzzicanti ma, in questo caso, basta ascoltare i primi due-tre brani del lavoro composto dal gruppo di Curitiba per renderci conto che un simile gioiellino merita d’essere riproposto, visto che ai più (compreso il sottoscritto) probabilmente all’epoca della sua prima pubblicazione era sfuggito. Transientoffre oltre un’ora di funeral-death doom di grande qualità, con una produzione magari perfettibile ma tutto sommato accettabile e, soprattutto, ricco di grande pathos: i Lachrimatory, del resto, non sono dei neofiti del genere, infatti i loro primi passi risalgono addirittura al 1999, ma prima di dare alle stampe un full-length hanno voluto a tutti i costi avere per le mani del materiale all’altezza, riuscendo senz’altro in questo intento.
Peraltro, pur facendo propri gli insegnamenti delle band più note in tale ambito, alla fine il sound dei brasiliani non appare neppure particolarmente derivativo, finendo per non assomigliare a qualcuno in particolare; l’uso del violoncello, che sovente va a sostituire la chitarra nelle parti soliste (vedi lo splendido finale di Void), offre una connotazione particolare alle composizioni, che durano mediamente una decina di minuti e che vivono su atmosfere malinconiche, nelle quali la parte del leone la fa indubbiamente Ávila Schultz, vocalist e tastierista. Transientha forse il solo difetto d’essere un po’ sbilanciato a livello di scaletta, per cui i primi tre brani Seclusion, Lachrimatory e Twilight, appaiono molto più efficaci ed evocativi rispetto alle successive Clarity e Deluge, mentre Void, come detto, vede i suoi momenti miglior nella parte conclusiva.
L’impressione (e auspicio) è che questa band, ottenuta una certa visibilità grazie alla riedizione di questo ottimo album, possa trovare il giusto impulso per proporre nel prossimo futuro qualcosa di ancor più convincente.
“Fallen In Disbelief”, esordio degli Unmercenaries, si rivela in extremis una delle migliori uscita dell’anno in ambito doom.
Fallen In Disbelief, esordio degli Unmercenaries, si rivela in extremis la migliore uscita dell’anno nell’ambito del doom russo, una scena , questa, che ci aveva abituati molto bene negli anni passati ma che, nel 2014, non ha offerto stranamente lavori sopra la media, almeno nei suoi versanti più estremi quali funeral e death doom.
Gli Unmercenaries non sono certo degli sconosciuti, infatti trattasi di un progetto voluto da Gungrind, chitarrista degli Who Dies In Siberian Slush, il quale, ovviamente, alla voce non poteva che avvalersi di Evander Sinque, frontman di quell’ottima band nonché anima della MFL Records, la label moscovita (MFL è l’acronimo di Moscow Funeral League, per amor di precisione) che pubblica il lavoro; assieme ai due musicisti russi troviamo alla batteria Jürgen Fröhling dei My Shameful, mentre le tastiere sono suonate in veste di ospite dalla ben nota I.Stellarghost degli Abstract Spirit.
Inevitabilmente, specie nei primi due brani, affiorano tratti comuni con i WDISS e, francamente sarebbe stato strano il contrario, ma se ciò avviene è solo per una naturale contiguità stilistica e non a causa di un songwriting asfittico: infatti, se Among the Stars, traccia d’apertura, conserva quelle caratteristiche tipiche del doom moscovita prima d’aprirsi nella sua parte centrale a melodie struggenti delineate dalla brava tastierista, la successiva A Portal, dopo una breve e cacofonica sfuriata strumentale che ritroviamo anche in chiusura, si staglia in tutta la sua dolente solennità, andando a costituire un monolite di dolore nel quale la chitarra di Gungrind recita le proprie magnifiche litanie a supporto del ben noto growl di Evander; questo brano è in assoluto uno dei migliori ascoltati nel genere quest’anno, rivelandosi un’ipotetica summa tra i parametri della scuola ex-sovietica e l’influsso nobile degli Skepticism. Circles Of Disbelief mantiene elevatissimo il pathos del lavoro e si rivela oltremodo interessante per la presenza alle clean vocals di Daniel Neagoe, il quale ricambia così il favore ad Evander, che aveva cantato una breve parte nel capolavoro degli Eye Of Solitude “Dear Insanity; come talvolta accade (e a mio avviso ciò non è in assoluto un male) la presenza dell’ospite indirizza in qualche modo il sound verso la band di appartenenza di quest’ultimo: è innegabile, infatti, che la traccia possieda i tratti malinconici e drammatici al contempo che contrassegnavano il precedente “masterpiece” degli EOS, “Canto III”. Considerando anche che Evander è uno dei pochi “umani” in possesso di un growl in grado di reggere il confronto con quello di Daniel, appare evidente che qui abbiamo tutti gli ingredienti per la riuscita di un altro brano magnifico, al quale le tastiere di I.Stellarghost donano davvero una particolare enfasi. A Beggar’s Lesson si snoda per lo più su una linea melodica che richiama le atmosfere austere ed affascinanti dell’estremo est europeo, e la sua considerevole lunghezza viene stemperata da un finale molto evocativo che suggella in maniera ideale uno splendido album.
Senza dimenticare il prezioso contributo del drummer tedesco Jürgen Fröhling e dello stesso Gungrind per quanto riguarda la parte ritmica, l’unico rimpianto è che questo lavoro sia stato pubblicato successivamente alla compilazione delle inevitabili charts di fine anno; oddio, non credo il fatto di trovarsi tra i primi posti nella mia personale graduatoria avrebbe cambiato la vita agli ottimi Unmercenaries, ma è fuor di dubbio che un posticino tra i migliori 5 album doom dell’anno l’avrebbero tranquillamente trovato.
Poco male, per loro, e molto bene, invece, per noi appassionati, che ci ritroviamo come regalo di Natale (il disco è uscito proprio il 25 dicembre …) una nuova grande band capace di proporre ai massimi livelli il nostro genere preferito.
Tracklist:
1.Among the Stars
2.A Portal
3.Circles Of Disbelief
4.A Beggar’s Lesson
Intervista con Daniel Neagoe, vocalist e principale compositore degli Eye Of Solitude, la band funeral-death doom che ha chiuso al primo posto nella mia personale classifica del 2014.
Gli Eye Of Solitude sono da almeno due anni la migliore doom band del pianeta, capace di coniugare una qualità stupefacente ad una frequenza di uscite elevata, almeno se rapportata agli standard del genere in questione: l’Ep Dear Insanity si è rivelato, infatti, un altro capolavoro giunto a bissare dopo circa un anno quell’altra pietra miliare intitolata Canto III.
Non a caso quindi, nell’anno solare che sta volgendo al termine, per quanto mi riguarda Dear Insanity è stato per distacco il miglior lavoro pubblicato tra tutti quelli che ho avuto modo di ascoltare, come testimonia il best of … pubblicato nei giorni scorsi.
Grazie all’intercessione di una label che non sbaglia un colpo da diverso tempo come la francese Kaotoxin Records, nella persona di Nico, ho avuto la possibilità di porre una serie di domande all’uomo che, di fatto, è il motore della band, ovvero il vocalist Daniel Neagoe.
Pur senza conoscerlo personalmente, mi sono da subito fatto l’idea che, contrariamente a quanto farebbe pensare il genere proposto dagli EOS, Daniel potesse essere una persona dotata di grande senso dell’humour, e questo mi ha spinto a porgli anche dei quesiti piuttosto originali che, per fortuna, paiono aver riscosso un certo successo nei confronti del mio interlocutore.
Ne è venuta fuori, così, una chiacchierata davvero interessante per il cui esito devo ringraziare doppiamente il mio grande amico Alberto Carmine: infatti, è grazie alla sua smisurata competenza che ho potuto scoprire gli Eye Of Solitude in occasione della pubblicazione di Canto III; inoltre, sfruttando la sua conoscenza della lingua inglese sicuramente meno scolastica della mia, gli ho chiesto di ritoccare le domande in modo che Daniel fosse indotto a ridere solo per i loro contenuti e non per la forma con la quale venivano poste …
L’operazione pare essere riuscita in pieno; buona lettura, quindi.
iye Ciao Daniel, grazie per la tua disponibilità. Comincio con una domanda che ti potrà apparire strana: se ti dicessi che tu sei la persona che più mi ha fatto piangere gli ultimi dodici mesi, come ti sentiresti?
Sarei onorato e felice che la musica possa aver avuto per te una funzione catartica, come è destinata ad avere. Vivrei con grande soddisfazione il fatto che qualcuno ascolti e capisca la nostra musica con la massima intensità e viva quel momento attraverso il dolore.
iye Quelli che non sanno cosa sia il doom pensano che sia chi lo suona sia chi lo ascolta siano un’accozzaglia di depressi con spiccate tendenze suicide. A giudicare da quanto si può intuire dal tuo profilo Facebook fornisci l’impressione d’essere agli antipodi rispetto a questa immagine e io stesso, che del genere ne sono un fruitore compulsivo, sono ritenuto da chi mi conosce bene una persona piuttosto divertente. Allora ti chiedo: secondo te, da dove scaturisce l’urgenza di esprimere tutto questo dolore in chi suona e il desiderio di immergervisi da parte di chi lo ascolta?
Questa è la vita, in ogni suo momento, e spetta a ogni individuo esprimere la propria sofferenza interiore.
Ciò che siamo nella vita reale non ha nulla a che fare con la musica che creiamo, anche se purtroppo potrebbe sembrare così.
Alcuni sono davvero depressi ed antisociali, distanti e solitari, ma questo è nella loro natura e nessuno può farci nulla.
Tutta la musica, di qualsivoglia natura, è destinata ad essere catartica, indipendentemente da quello che è il proprio stato emotivo; il doom, tuttavia, è quello che mi permette di liberarmi di tutta la negatività, è il mio modo di sfuggire allo stato di depressione e mi permette di essere normale nella mia vita quotidiana.
iye Parliamo degli Eye Of Solitude: avevo definito “Canto III” un capolavoro inarrivabile, poi però avete pensato bene di smentirmi pubblicando un’altra pietra miliare come “DearInsanity”. Ci racconti come si sviluppa un disco degli EOS e come è distribuito il lavoro compositivo?
La musica arriva in maniera spontanea, questo è più o meno tutto ciò che potrei dire per quanto riguarda la domanda.
Il flusso deve essere mantenuto costante ed è qualcosa che va a mio sfavore, visto che significa essere costretto a dedicare alla musica anche il tempo che dovrei utilizzare per dormire o fare qualcos’altro.
Tuttavia, questa è stata una mia scelta e ci convivo benissimo. Non scrivo perché devo, bensì perché ne ho bisogno e lo voglio.
iye L’uscita dalla band di Indee Rehal-Sagoo e di Pedro Caballero ha influito sulla direzione più orientata al funeral intrapresa con “Dear Insanity”? Apparentemente parrebbe così, alla luce di una decisa riduzione delle parti soliste di chitarra e dell’accompagnamento atmosferico delle tastiere.
Non necessariamente, anche se un cambiamento doveva verificarsi, date le circostanze.
Noi consideriamo Eye Of Solitude come un’entità che ha bisogno di sperimentare e di progredire, piuttosto che seguire ancora e ancora le proprie orme.
“Dear Insanity” era già programmato, questo è sicuro, e Indee e Pedro hanno portato il loro contributo alle composizioni, naturalmente; tuttavia, dal momento che non eravamo più insieme, la musica stessa avrebbe potuto prendere una piega più o meno differente, non necessariamente in senso peggiorativo.
Il lato funeral della nostra musica deriva da una maggiore inclinazione e un diverso orientamento, e sarebbe emerso con o senza Indee e Pedro.
iye Il tuo growl è oggettivamente qualcosa di realmente impressionante : esiste una tecnica particolare per raggiungere simili risultati oppure è tutto frutto di una tua naturale predisposizione?
Haha, sei troppo gentile nelle tue affermazioni … Comunque, ti ringrazio, è una bella iniezione di fiducia, questo è sicuro.
La tecnica è qualcosa che ho acquisito in diversi anni di pratica e di sviluppo professionale come cantante; ho voluto questo e per farcela ho dovuto lavorare duramente.
E poiché la musica è così per sua natura, la necessità di aggiungere la voce come se fosse un altro strumento era di vitale importanza.
iye È bizzarro, però, che in “Dear Insanity” abbiate affidato una breve parte ad un altro che in quanto a growl non scherza affatto, come Evander Sinque (Who Dies In Siberian Slush). Se non fosse stato lo stesso vocalist russo ad indicarmi quale parte aveva interpretato, avrei faticato non poco a distinguere i vostri timbri vocali. Come mai la scelta è ricaduta proprio su di lui e non su qualcun altro dalla tonalità più lontana dalla tua?
La risposta potrebbe apparire sorprendente, ma l’unico motivo è la continuità: penso che Evander sia un grande cantante non solo nel doom, ma in molti altri generi, e la mia ammirazione per lui cresce continuamente.
Era la soluzione perfetta per questo materiale e quando ha mi ha mandato il suo demo sono rimasto particolarmente colpito. E’ avvenuto così, in maniera naturale.
iye Anche l’aiuto di quell’altro genio del tuo amico Déhà è stato importante nell’ultima parte del lavoro, o sbaglio?
Vero, Déhà è uno dei miei migliori amici e lavorare con lui è stato più o meno come mettere assieme i piselli e le carote. Io e lui la pensiamo più o meno allo stesso modo quando si tratta di musica, e se le idee sono grandi, perché non usarle in modo creativo e costruttivo?
iye Deos, Slow, Eye Of Solitude, Clouds, Imber Luminis, Sidious, We All Die (Laughing) e mi fermo qui: tutte band o progetti eccezionali che vedono impegnati tu o Déhà e, in alcuni di questi (Deos e Clouds) assieme. So che tra l’altro è alle porte un vostro nuovo progetto black metal denominato Vær: mi chiedo dove troviate l’ispirazione e, soprattutto, il tempo per riuscire ad operare contemporaneamente si tutti questi fronti.
Come ho detto prima, dedico la maggior parte del mio tempo per scrivere e registrare musica. Questo è un qualcosa che io e Déhà facciamo entrambi, da qui nasce anche lo stretto rapporto di amicizia e collaborazione che abbiamo.
Comunque vorrei precisare che Vær è un progetto creato esclusivamente da Déhà, io ho avuto solo l’onore di contribuirvi con la voce.
Per quanto riguarda l’ispirazione, questa proviene da molte cose, buone o cattive, positive o negative che siano, non fa differenza. E’ una maniera per esprimere se stessi e praticamente potrei definirlo un modo di vivere.
iye In “Canto III” vi eravate misurati, correndo anche qualche rischio, con l’opera del nostro sommo poeta, in “Dear Insanity”, invece, qual è il tema portante?
Con “Dear Insanity” abbiamo cercato di creare un semplice sequel di “Canto III”, che ci crediate o no. “Canto III” è incentrato del tutto sulla discesa agli inferi, come il poema racconta. Con “Dear Insanity” abbiamo voluto tratteggiare, invece, lo scenario di follia nei momenti che precedono la discesa.
E ‘introspettivo e personale, ovviamente, ma ciò che personalmente volevo descrivere era la calma prima della tempesta, il diluvio dolente e il dolore che lascia senza respiro prima della morte: quindi la pazzia, la perdita del controllo mentale e lo sperimentare la tortura fisica e psichica prima della fine.
Potrei andare avanti su questo argomento per tre giorni e non sarebbe sufficiente per descrivere quello che avevo in mente come concetto …
iye Tu sei rumeno, Adriano Ferraro è italiano, Mark Antoniades dal cognome direi che ha origini greche, Indee Rehal-Sagoo era chiaramente asiatico e Pedro Caballero ispanico. L’unico inglese “vero” parrebbe Chris Davies. Io vi ho definiti, ai tempi di “Canto III”, “un’internazionale del dolore”: ti piace questa definizione e inoltre, ritieni che questo mix culturale contribuisca in qualche modo al processo creativo?
Haaha, in realtà mi è piaciuto molto! E’ certamente qualcosa di diverso quando hai diverse nazionalità all’interno di una band. Ci sono cinque differenti input dei quali possiamo approfittare quando si tratta di musica, quindi credo che la cosa funzioni perfettamente.
iye Quando si parla di metal e Romania l’associazione di idee porta inevitabilmente a pensare ai Negură Bunget e alla diaspora che ha portato poi alla nascita dei DorDeDuh. Conosci personalmente qualcuno di questi musicisti e, nel caso, che idea ti sei fatto della vicenda?
Conosco i ragazzi dei DorDeDuh personalmente, così come ciò che resta dei Negură Bunget. Comunque mi scuso in anticipo se sarò laconico al riguardo, ma mi piace solo la musica e preferisco tenere fuori il gossip.
Tutto quello che so è che ognuno di loro si trova molto più a proprio agio nella situazione attuale.
iye Fermo restando che, dipendesse da me, vorrei che uscisse un nuovo lavoro degli Eye Of Solitude ogni settimana, ho visto che per l’anno prossimo avete già programmato uno split ed un altro album. Rispetto alla maggior parte delle band funeral-death doom siete decisamente prolifici, non avete pura, per assurdo, di pubblicare troppo materiale in tempi ravvicinati?
Sì, rilasceremo uno split album con i nostri buoni amici Faal e stiamo ri-registrando il nostro album di debutto “The Ghost”, il che ci terrà occupati per un bel po’.
Stiamo anche lavorando su un altro full length, tuttavia, con l’ingresso di Steffan (Gough, ndr) alle chitarre, vorremmo prenderci il tempo necessario per esplorare maggiormente le sue idee ed il suo apporto alla band.
Posso però dire che abbiamo pronto un set di otto nuove canzoni davvero bello e ragguardevole, ma stiamo scrivendo sempre di più e presto inizieremo ad selezionare il materiale.
Vogliamo fortemente che il prossimo nuovo album sia qualcosa di speciale, quindi l’impegno sarà raddoppiato.
Mi piacerebbe anche pubblicare un nuovo lavoro ogni settimana, davvero, e me non me ne può importare di meno di quello che qualcuno potrebbe avere da dire al riguardo. Noi non stiamo seguendo un insieme specifico di regole o di una tendenza, o cercando di diventare una cult band con idee cult e tutte quelle stronzate. Noi siamo musicisti e stiamo facendo ciò che conosciamo meglio: la musica; se si ha la fortuna di poter scrivere più del solito, allora perché non rilasciare un album ogni anno?
Quindi credo che la risposta alla tua domanda potrebbe essere: noi in effetti scriviamo “troppa musica” e ci piace che i nostri fan la sentano. E ciò non la rende mediocre, meno interessante o poco rifinita.
iye Avete mai pensato di fare un concerto suonando prima come Sidious (eccellente progetto black metal che coinvolge quasi tutti i membri della band, ndr) e poi come Eos, o viceversa, potrebbe essere un’idea originale …
No. Sidious e Eos sono due entità diverse che suonano due generi diversi; abbiamo differenti identità e vorremmo rispettare una certa privacy nella pianificazione quando si tratta delle due band.
iye A proposito di concerti, se io fossi un condannato a morte, come ultimo desiderio chiederei di vedervi suonare dal vivo in Italia: per, esempio c’è qualche possibilità di vedere gli EOS dividere il palco con gli Esoteric il prossimo 31 marzo al Colony di Brescia ?. Ho qualche speranza prima che mi venga fatta l’iniezione letale? (l’intervista è stata fatta prima che fosse ufficializzato il bill del concerto in questione che, purtroppo, nonostante sia comunque di altissimo livello, probabilmente non comprenderà gli Eye Of Solitude, ndr)
Hahahaha. questa sì che è una domanda !!!! E’ meglio sperare che il concerto di cui sopra si svolga al di fuori delle circostanze citate 🙂
Ci piacerebbe davvero suonare in Italia, finora non abbiamo mai visitato la vostra bella patria.
iye Mi dici quali sono i tre dischi funeral-death doom che hanno maggiormente influenzato la tua formazione come musicista e, in generale, quali sono le band che ritieni determinanti nell’averti spinto a diventare un musicista?
Il primo album doom che ho ascoltato è stato “Serenades” degli Anathema.
Questo è ciò che ha dato inizio a tutto: con il passare degli anni sono sempre stato più attratto dal doom e dai suoi sottogeneri.
Ci sono stati gruppi come Esoteric, Skepticism, Pantheist e così via, che hanno influenzato il mio range musicale. Ma, pur essendo un appassionato di doom metal, ho anche avuto un interesse verso il death ed il black metal. La musica è la mia passione da quando avevo 11 anni.
iye So che hai un bimbo piccolo: io sono un po’ più vecchio di te, mia figlia ha quasi vent’anni e ancora oggi mi accusa scherzosamente di averle creato delle turbe psichiche facendole ascoltare mentre era in culla i My Dyng Bride … Dall’alto della mia “esperienza” ti consiglierei quindi di non fare altrettanto e soprattutto di non cantargli la ninna-nanna in growl …
Questo è davvero cool haha … Mio figlio è abbastanza freddo quando ascolta la musica.
Finora non è stato distrutto dal growl di papà, al contrario, sembra solo interessato e probabilmente si chiede perché papà stia urlando come un pazzo a volte.
Io, naturalmente, cerco di fare il meglio per lui ascoltando musica metal, ma alla fine la scelta sarà sua; potrò essere solo d’accordo e rispettare ogni sua scelta nella vita.
iye Ti ringrazio per aver risposto a tutte le domande, anche a quelle più scherzose. Nel congedarci puoi dirci quali sono i programmi imminenti degli Eye Of Solitude e, in subordine, i tuoi?
Grazie per l’intervista così interessante: onestamente, è stato un vero piacere rispondere alle tue domande, seriamente non ricordo quando è stata l’ultima volta che ho mi sono divertito così tanto rispondendo ad un’intervista, quindi ti ringrazio per questo.
Come Eye Of Solitude, come detto, pubblicheremo lo split con i Faal, e ri-registreremo l’album di debutto “The Ghost”, quindi ci lanceremo in un mini-tour con i Saturnus ed i nostri buoni amici Marche Funebre, e terremo qualche concerto qui e là oltre a partecipare ad un grande festival dal nome prestigioso nel Regno Unito.
Personalmente, continuerò a scrivere musica per un paio di miei progetti ed aiuterò un buon amico a portare avanti il proprio personale progetto di vita, quindi sarà un anno molto impegnativo per me.
Ancora una volta, grazie per le tue gentili parole e la possibilità di far sentire la nostra voce in Italia! Grazie Mille!
“Funeral Impressions” si dimostra una prova di grande spessore qualitativo nel corso della quale viene esibita un’ora abbondante di suoni dolenti ma arricchiti da una connotazione melodica sempre in bella evidenza.
Dopo il riuscito split con gli Aphonic Threnody ritroviamo i Frowning, ovvero il progetto solista del musicista tedesco Val Atra Niteris, alle prese con la prima prova su lunga distanza.
Dopo aver ottenuto un deal prestigioso con quella che è ormai la casa madre del doom europeo, la label russa Solitude Productions, ed aver testato il responso degli appassionati con l’uscita in coabitazione con la band inglese autrice del recente “When Death Comes”, c’erano tutte le condizioni favorevoli perché questa opera prima potesse rivelarsi un nuovo importante tassello in ambito funeral.
Ebbene, si può affermare con certezza che le premesse sono state abbondantemente mantenute, visto che Funeral Impressions si dimostra una prova di grande spessore qualitativo nel corso della quale Val sciorina un’ora abbondante di suoni dolenti ma arricchiti da una connotazione melodica sempre in bella evidenza.
Se la traccia strumentale Day In Black é un episodio meraviglioso quanto parzialmente atipico, nel corso del quale il musicista tedesco esibisce le proprie pregevoli doti di chitarrista, il resto del lavoro si snoda sui ritmi rallentati allo spasimo che il genere impone, raccogliendo svariate influenze, quali soprattutto Mournful Congregation ed Evoken tra quelle dichiarate, oltre ad Ea e Eye Of Solitude per quanto concerne la ricerca della melodia all’interno di partiture gonfie di una malinconica oppressione.
Emblematico in tal senso un brano come Sleep Eternally, che brilla per una parte centrale realmente da brividi, con una chitarra che esprime un dolore quasi lancinante nel suo splendido sviluppo melodico.
E, in effetti, il lavoro prende ulteriormente quota da questo brano fino alla sua conclusione, con le più lunghe ed altrettanto valide Murdered by Grief e A Way into Relief, evidenziando una piacevole progressione che consente al’ascoltatore di mantenere sempre viva l’attenzione. Frowning si conferma così un altro nome certo sul quale contare negli anni a venire: alla creatura di Val Atra Niteris non manca proprio nessuna delle peculiarità che rendono il funeral doom una delle più efficaci rappresentazioni artistiche del dolore e dell’angoscia destinate ad attanagliare, prima o poi, ogni essere umano.
Tracklist:
1. Intro
2. Obsessed
3. Receive my Tears
4. Day in Black
5. Sleep Eternally
6. Murdered by Grief
7. A Way into Relief
I brasiliani Jupiterian fanno il loro esordio con questo ep all’insegna di un death doom dai connotati piuttosto tradizionali.
I brasiliani Jupiterian fanno il loro esordio con questo ep all’insegna di un death doom dai connotati piuttosto tradizionali.
Se il Brasile ha dato alla luce band formidabili in ambito power (Angra) o death/thrash (Sepultura), lo stesso non si può dire per il doom, dove le uniche realtà di una certa rilevanza, resesi protagoniste comunque di buone uscite in tempi recenti, sono i Mythological Cold Towers e gli HellLight, nomi comunque di non primissima fila; se vogliamo, il sound dei Jupiterian si rifà maggiormente ai lavori più datati dei primi pur senza toccarne le vette a livello di epicità.
Soprattutto nei primi due brani, Archaic fa emergere una band piuttosto consistente, in grado di trasformare un approccio relativamente grezzo in qualcosa di davvero efficace: un buon growl, riff pastosi e dilatati e una discreta vena evocativa rendono la title-track e Procession Towards the Monolith tracce senz’altro valide, a testimonianza di un potenziale da non sottovalutare.
Meno efficace, in quanto appesantita da soluzioni ripetitive, appare invece la conclusiva Currents of Io, che pure mostra alcuni sprazzi pregevoli, ma con l’aggravante di diluirli in oltre dieci minuti di durata, nel corso dei quail i Jupiterian propongono tutti gli stilemi del genere.
Decisamente valida quindi la prima metà del lavoro, al contrario della seconda che invece evidenzia qualche limite della band paulista.
Per sapere quale dei due volti sia effettivamente quello più rappresentativo dei Juptiterian non resta che attenderli alla prova del full-length, collocandoli per ora nel novero delle band da tenere sotto osservazione.
Tracklist:
1. Archaic
2. Procession Towards the Monolith
3. Currents of Io
Line-up:
R – Bass
G – Drums
A – Guitars
V – Vocals, Guitars
Molto interessante questo split album, che vede all’opera tre diverse realtà dedite al funeral doom, unitesi con l’intento di dedicare la loro musica alle vittime del conflitto che sta lacerando da mesi l’Ucraina.
Molto interessante questo split album, che vede all’opera tre diverse realtà dedite al funeral doom, unitesi con l’intento di dedicare la loro musica alle vittime del conflitto che sta lacerando da mesi l’Ucraina.
Abysmal Growls Of Despair, In Lacrimaes Et Dolor e Until My Funerals Began sono tre progetti solisti rispettivamente provenienti da Francia, Italia e Ucraina e l’opera di assemblaggio è avvenuta grazie all’operato dell’attiva label russa GS Productions, che abbiamo imparato a conoscere grazie ad altri split album con protagonisti di livello quali, tra gli altri Aphonic Threnody, Ennui e Frowning.
La peculiarità di questo lavoro è, intanto, quella di mostrare tre maniere differenti di approcciarsi alla materia, anche se, ovviamente. per saper cogliere tali sfumature è necessario avere una certa dimestichezza con il genere.
L’apertura è affidata alle due tracce degli Abysmal Growls Of Despair, progetto dell’iperattivo musicista di Tolosa, Hangvart: ben quattro, infatti, sono gli album pubblicati negli ultimi due anni, tre dei quali solo nel 2014.
Rispetto ai compagni di split, il transalpino è quello che propone una versione decisamente meno accessibile del funeral, nonostante il primo dei due brani a sua disposizione, Nimis Sero, sia in effetti la pregevole rilettura di un tema arcinoto come quello della marcia funebre di Chopin: le atmosfere restano quasi sempre opprimenti, complici un growl che è soprattutto un rantolo e una scrittura pressoché priva di particolari aperture, benché in Quiet Moments faccia capolino una minima parvenza di melodia che attenua solo parzialmente il senso di soffocamento, sintomo di un dolore che implode letteralmente piuttosto che trovare uno sbocco verso l’esterno.
Superata questa fase di non facile decrittazione, le due tracce affidate agli In Lacrimaes Et Dolor di Dany Noctis, musicista residente a Macerata ma originario dell’est europeo, spostano gli scenari su terreni parzialmente più accessibili. Dolor Aeternum e On Death’s Row sono le nuove testimonianze di un talento musicale al quale non manca davvero nulla per raggiungere i vertici qualitativi del genere: il suo funeral è decisamente melodico e atmosferico ma rifugge ogni banalità, arricchito com’è da una sensibilità artistica e personale che va a riversarsi in toto nelle composizioni. Se Dolor Aeternum è un bel brano, con l’uso delle clean vocals che ricorda parzialmente i Pantheist più recenti, On Death’s Row è una traccia magnifica che sfoggia una linea portante dal grande potenziale evocativo.
Ritroveremo tra breve gli In Lacrimaes et Dolor alle prese con un altro split, questa volta a quattro, con la presenza tra gli altri degli Aphonic Threnody, il cui cantante Roberto Mura (anche Arcana Coelestia e Urna) ha curato assieme a Dany stesso la parte grafica di In Memoriam, non facendo nulla per nascondere gli orrori della guerra e la stupida caducità del genere umano, anche attraverso immagini piuttosto crude.
Il compito di chiudere l’album è affidato agli Until My Funerals Began di Rumit, che è proprio di Donetsk, ovvero la città all’interno dei confini ucraini che più di altre è stata funestata da morti di civili derivanti dal conflitto. Luctus è un brano già edito, per l’esattezza nell’Ep “May 2, 2014”, ed è costituito principalmente da una musica carica di tensione emotiva che funge da accompagnamento a voci campionate connesse alla guerra in atto, mentre Burn My Flesh è un’altra traccia dall’elevato tasso di drammaticità che conferma quanto di buono era già emerso dal precedente full-length “False Horizon”.
E’ indubbio il fatto che Rumit, toccato molto da vicino dagli eventi che vengono trattati in questo lavoro, sia riuscito ad imprimere nelle proprie composizioni quel qualcosa in più in grado di far risaltare in maniera quasi fisica rabbia, dolore e disperazione.
Uno split album decisamente riuscito, quindi: per qualcuno magari potrebbe costituire lo spunto per informarsi meglio riguardo ad avvenimenti che superficialmente si tendono a sottovalutare in quanto lontani geograficamente ma che, in realtà, sono molto più vicini a noi di quanto vogliamo ammettere.
L’album può essere acquistato presso la GS Productions oppure contattando direttamente le band.
Tracklist:
1.Abysmal Growls Of Despair – Nimis Sero
2.Abysmal Growls Of Despair – Quiet Moments
3.In Lacrimaes Et Dolor – Dolor Aeternum
4.In Lacrimaes Et Dolor – On Death’s Row
5.Until My Funerals Began – Burn My Flesh
6.Until My Funerals Began – Luctus
Dopo un Ep e due split album gli Aphonic Threnody giungono al full-length d’esordio non tradendo le attese che i lavori in coabitazione con gli Ennui prima, e con i Frowning poi, avevano indubbiamente creato.
Dopo un Ep e due split album gli Aphonic Threnody giungono al full-length d’esordio non tradendo le attese che i lavori in coabitazione con gli Ennui prima, e con i Frowning poi, avevano indubbiamente creato.
Nell’occasione avevo benevolmente bacchettato il combo di Riccardo Veronese affermando che, mettendo assieme le tracce presenti nei due split, ne sarebbe venuto fuori un album eccellente invece di disperdere tale potenziale in uscite diverse.
Non ho certo cambiato idea al riguardo, ma per fortuna il musicista inglese ha messo sul piatto un’altra ora abbondante di funeral death-doom di grande spessore, dimostrando una vena compositiva decisamente molto fertile.
Veronese, che ritroviamo anche con altre due ottime band come Gallow God e Dea Marica, negli Aphonic Threnody si avvale della collaborazione di nostri due connazionali, i sardi Roberto M. alla voce (Dea Marica, Arcana Coelestia, Urna) e Marco Z. (Arcana Coelestia, Urna), del belga Kostas P. alle tastiere (Pantheist, Clouds), il quale, con questo disco, ha concluso la sua collaborazione con la band, e dell’ungherese Abel L. al violoncello.
Il ricorso a line-up dalle nazionalità variegate pare essere una costante per le band dedite al doom di base a Londra, basti pensare anche agli Eye Of Solitude: probabilmente è un caso, visto che spesso il peso compositivo ricade su un solo componente, ma verrebbe da pensare che questi autentici mix culturali siano in grado di far scoccare la scintilla in grado di accendere la creatività di tutti i musicisti coinvolti. When Death Comes è, infatti, un lavoro magnifico, che rappresenta esattamente ciò che un appassionato di questo genere vorrebbe sempre ascoltare: linee chitarristiche struggenti, tastiere avvolgenti, capaci di evocare atmosfere solenni e drammatiche allo stesso tempo, un growl di rara efficacia, una base ritmica dinamica nonostante l’andamento sia inevitabilmente compassato, ed il violoncello che, in diversi frangenti assesta ai brani un’ulteriore pennellata di tinte oscure e malinconiche.
Indubbiamente la prima mezz’ora del disco è stupefacente per la bellezza delle linee melodiche proposte da Riccardo, capaci di far piombare l’ascoltatore in un’ovattata sensazione di ineluttabile dolore, facendo sì che la lunghissima Death Obsession finisca per essere un ideale prolungamento portato alle estreme conseguenze della già splendida traccia d’apertura The Ghost’s Song. Dementia non è certo un brano trascurabile, ed è forse quello più vario all’interno della tracklist, ma risente parzialmente della sua collocazione immediatamente dopo questi due dolenti monoliti sonori, rispetto ai quali risulta meno evocativo. The Children’s Sleep riporta le coordinate sonore verso vette emotive non comuni , grazie anche al contributo di ospiti illustri quali sua maestà Greg Chandler (Esoteric) alla chitarra e David Unsaved (Ennui) alle backing vocals.
Due minuti di delicati tratteggi pianistici introducono la nuova straziante esibizione di angoscia e sofferenza rappresentata da Our Way To The Ground, un altro brano, l’ultimo, che ci consegna una band capace di collocarsi al primo colpo ai piani nobili del funeral death-doom melodico, divenendo così un nuovo punto di riferimento per gli adoratori di Saturnus, Officium Triste e, ovviamente, My Dying Bride.
P.S. : l’ascolto di “When Death Comes” in funzione della scrittura della recensione è coinciso con un evento tragico che ha colpito persone alle quali sono molto legato: questo, indubbiamente, mi ha fatto trovare privo di difese di fronte alla sofferenza evocata dagli Aphonic Threnody, costringendomi a versare infine quelle lacrime liberatorie che, fino ad un certo punto, ero riuscito a trattenere. Queste righe sono dedicate ad Ale, che un destino atroce ha sottratto a genitori ed amici troncando bruscamente quello che sarebbe dovuto essere il suo lungo cammino su questa terra …
Tracklist:
1. The Ghost’s Song
2. Death Obsession
3. Dementia
4. The Children’s Sleep
5. Our Way to the Ground
Line-up:
Riccardo V. – Guitars, Bass
Roberto M. – Vocals
Abel L. – Cello
Marco Z. – Drums
Kostas P. – Keyboards, Piano
Guests :
Greg Chandler – Guitars on “The Children’s Sleep”
Josh Moran – Guitars on “Dementia”
David Unsaved – Backing Vocals on “The Children’s Sleep”
I My Shameful sciorinano oltre un’ora di dolorose litanie prive di sbocchi atmosferici ma intrise di un mood opprimente.
Per essere una band dedita al funeral-death doom, i finlandesi My Shameful sono senz’altro piuttosto prolifici, visto che Hollowè il loro sesto album in poco più di un decennio (dal 2003, anno della pubblicazione di “Of All the Wrong Things”), alla luce anche della pausa di 5 anni intercorsa tra il quarto ed il quinto full-length.
Il ritorno con “Penance”, avvenuto lo scorso anno, era stato buono ma non eccezionale, anche se nel sound della creatura di Sami Rautio emergeva quale tratto distintivo un umore molto più cupo che non malinconico, finendo per rendere decisamente più impegnativo l’ascolto.
Tratti distintivi, questi, che non subiscono mutamenti particolari in Hollow, dove vengono semmai accentuati e focalizzati tali aspetti, sciorinando oltre un’ora di dolorose litanie prive di sbocchi atmosferici ma intrise di un mood opprimente ai limiti dell’asfissia.
Pregio e limite, questo, per un disco la cui lunghezza certo costituisce un parziale ostacolo ad una fruizione agevole e, del resto, il genere non è fatto per essere cantato sotto la doccia ma, semmai, per essere assimilato con calma e pazienza pari alla lentezza dei tempi dilatati lungo i quali i musicisti che vi si dedicano srotolano le loro lunghe composizioni.
Il lavoro pare comunque vivere di due fasi piuttosto distinte: infatti, se i primi quattro brani mostrano un passo decisamente più lento, salvo le accelerazioni presenti nell’opener Nothing Left At All, culminante nel soffocante funeral di Hour Of Atonement, da The Six in poi il sound prende a lambire sonorità dai tratti meno claustrofobici; in questa traccia, in particolare, la migliore del disco a mio avviso, i My Shameful si muovono come se fossero una versione più dinamica degli Worship, anche se, nel complesso, la scuola funeral finlandese è quella che imprime il proprio marchio indelebile nel sound di Sami, partendo dagli imprescindibili Thergothon, passando per i Colosseum senza dimenticare Shape Of Despair e Skepticism, pur se depurati dall’uso delle tatsiere.
Sprazzi chitarristici di matrice gothic si affacciano nella successiva Murdered Them All ma è un apparizione fugace, visto che No Greater Purpose ci fa ripiombare una disperazione composta ma terribilmente plumbea, per un altro degli episodi chiave dell’album. Now And Forever, titolo che non fa presagire certo una chiusura rivolta ad un futuro roseo, con il suo finale magnifico e leggermente più ritmato mette la pietra tombale sul quello che è il miglior album che potessero pubblicare oggi i My Shameful, con suoni essenziali ma sorretti da una buona produzione, e una prestazione vocale davvero efficace per la cruda negatività che Sami Rautio riesce ad evocare.
Con la dipartita, ahimè forzata, dei Colosseum e l’ormai (troppo) lungo silenzio di Skepticism e Shape Of Despair, i My Shameful, meritatamente, si dividono oggi con i Profetus lo scettro del funeral doom nordeuropeo.
Tracklist:
1. Nothing left at all
2. Hollow
3. And I will be worse
4. Hour of atonement
5. The Six
6. Murdered them all
7. No greater purpose
8. Now and forever
Line-up:
Sami Rautio – vocals, guitars
Twist – bass
Jürgen Fröhling – drums
Il suono di questo disco è fangoso e non lascia speranza, accompagnandoci per mano verde e lasciva nell’antico porto di Innsmouth.
Nuovo disco della band doom catanzarese Bretus, una delle migliori in Italia e non solo.
Alla fine, è successo ciò che era nei nostri migliori incubi, ovvero che il lento e corrosivo suono dei Bretus incontrasse il più grande medium di incubi di tutti i tempi: H.P. Lovecraft.
La quinta fatica discografica dei Bretus, dopo l’epico split con i Black Capricorn (difficile immaginare uno split migliore), è incentrata su uno dei racconti del ciclo di Cthulhu.
Innsmouth e il suo porto sono una discesa verso gli inferi, anzi chi conosce Lovecraft sa che c’è qualcosa di ben peggiore dell’inferno.
I Bretus mettono superbamente in musica tutta l’angoscia dello scrittore ed effettivamente il doom metal è forse la musica più indicata per musicare l’angoscia lovecraftiana: la sua lentezza, la sua profondità, lo scavare incessante ma senza fretta, il lasciare grande spazio all’immaginazione dell’ascoltatore sono tutte caratteristiche che questo genere musicale condivide con l’uomo di Providence.
I Bretus portano avanti dal 2000 l’incubo in musica, ispirandosi ad un immaginario ben definito e ben presto si conquistano la loro fama nella scena tanto da essere invitati al Malta Doom Fest e più recentemente al Doom Over Vienna IX. Il festival maltese è uno dei migliori festival doom del globo anche perché a Malta c’è un’ottima scena, forse eredità dei Templari ?
Nel 2012 pubblicano “In Onirica” che è appunto un disco maggiormente sognante e con un suono più etereo rispetto a questo; in The Shadow Over Innsmouthil velo dell’incubo notturno è un dolce ricordo, poiché l’incubo diventa realtà, anche se in Lovecraft c’è sempre il dubbio di cosa sia davvero reale o no, lasciandoci con una domanda : è la nostra vita in fondo ad essere un incubo, o gli incubi sono la vita ?
Il suono di questo disco è fangoso e non lascia speranza, accompagnandoci per mano verde e lasciva nell’antico porto di Innsmouth.
Forse è l’opera migliore dei Bretus fino a questo momento, anche se essendo una band dalle infinite potenzialità ci aspettiamo sempre qualcosa di grandioso.
Recentemente ho letto che alcuni studiosi, cosiddetti eretici, affermano che le opere di Lovecraft non siano affatto di fantasia, ma che descrivano, in maniera romanzata qualcosa che esiste davvero, siano essi annunaki o antichi dei di qualche pianeta lontano.
A voi la scelta.
Tracklist:
1 Intro
2 The Curse Of Innsmouth
3 Captain Obed Marsh
4 Zadok Allen
5 The Oath Of Dagon
6 Gilman House
7 The Horrible Hunt
8 A Final Journey
Quello che forse hanno perso a livello di peculiarità del sound, i Dantalion lo hanno guadagnato in immediatezza senza per questo smarrire quel gusto per composizioni dai tratti oscuri e malinconici che li contraddistingueva anche nella loro precedente incarnazione.
Gli spagnoli Dantalion sono attivi già da diversi anni, nel corso dei quali sono passati dalle sonorità di stampo black degli esordi, stemperate con il tempo in umori più melodici e dalle sfumature depressive per approdare infine all’attuale forma di gothic-death doom.
La trasformazione riuscita in maniera sicuramente efficace, a giudicare dalla resa di questo ultimo album Where Fear Is Born, che presenta una serie di brani piuttosto efficaci per quanto del tutto in linea con le tendenze del genere. La band di Vigo mette sul piatto tutta la propria esperienza ner disegnare passaggi struggenti, per lo più affidati ad un lavoro chitarristico che non lesina anche assoli prolungati.
Brani medio lunghi si susseguono senza particolari momenti di stanca, mostrando al contrario più di un episodio di splendida fattura tra i quali, su tutti, spicca The Tree of the Shadows.
Il rimpasto di line-up che vede quali superstiti della formazione originaria i soli Villa e Brais, si è rivelato funzionale al nuovo corso intrapreso dai Dantalion: l’attuale vocalist Diego è pressoché antitetico al predecessore Sanguinist, dall’urlo di matrice depressive, esibendo un ottimo growl, mentre appare meno convincente nelle parti pulite e, nel contempo, gli altri due nuovi arrivi svolgono senza sbavature il loro compito.
Il risultato finale è un lavoro senz’altro bello, ovviamente dalla ridotta componente innovativa, con il quale i galiziani si vanno a collocare sulla scia degli Helevorn e delle altre band che stanno portando la scena doom spagnola ad emergere in maniera prepotente negli ultimi anni.
Quello che forse hanno perso a livello di peculiarità del sound, i Dantalion lo hanno guadagnato in immediatezza senza per questo smarrire quel gusto per composizioni dai tratti oscuri e malinconici che li contraddistingueva anche nella loro precedente incarnazione.
Nonostante l’oggettiva bontà di questo lavoro, finisco ugualmente per rimpiangere la band capace di proporre quell’intrigante mix di DSBM e gothic-doom che tanto mi aveva affascinato in “Return to Deep Lethargy”.
Va da sé che bisogna prendere atto del fatto che i Dantalion di oggi sono fondamentalmente un’altra band, né migliore né peggiore, semplicemente diversa.
Tracklist:
1. Revenge in the Cold Night
2. Raven’s Dawn
3. Lost in a Old Memory
4. The Tree of the Shadows
5. Nightmare….
6. Listening to the Suffering of the Wind
7. Black Blood, Red Sky
Line-up:
Villa – Drums
Brais – Guitars
David – Bass
Andrés – Guitars
Diego – Vocals
Gran disco, l’ennesimo partorito in ambito estremo dalla musicalmente sempre fertile Trinacria.
Gli Assumption sono un duo palermitano composto da Giorgio e David, musicisti che troviamo coinvolti anche in altre band già portate in evidenza da Iyezine: il primo, che si occupa della voce e di tutti gli strumenti ad eccezione della batteria, lo ritroviamo anche con Elevators to the Grateful Sky, Sergeant Hamster Haemophagus e Morbo, mentre il secondo, che si dedica appunto al lavoro dietro alle pelli, è tutt’ora anch’esso coinvolto nelle ultime due band.
Musicisti versatili, dunque, visto che nei gruppi citati si spazia dallo stoner al death, dalla psichedelia al grindcore: sotto il monicker Assumption i due, invece, affidano la loro urgenza espressiva ad un death-doom di grande fascino, derivante da caratteristiche peculiari che talvolta ne rendono persino un po’ forzata la collocazione in tale ambito stilistico. The Three Appearances presenta una mezz’oretta di musica che, almeno nella sua prima metà circa, coincidente con i primi tre brani, ci riporta di peso all’alba degli anni ’90, per l’esattezza proprio al 1991, anno di grazia che vide l’uscita di tre capolavori epocali per il metal estremo: “Necroticism …” dei Carcass, “Forest Of Equilibrium” dei Cathedral e “Blessed Are The Sick” dei Morbid Angel: non è un azzardo affermare ciò, visto che un ascoltatore attento potrà rinvenire agevolmente un growl profondo alla David Vincent sovrastare un riffing di stampo carcassiano, spesso rallentato fino alla bradicardia, così come avveniva nella irreplicata pietra miliare edita dalla band di Lee Dorrian.
Esagero? No, anche perché, essendo (purtroppo) sufficientemente vecchio per aver potuto ascoltare quei dischi in tempo reale, e per di più quand’ero già adulto, le prime piacevoli sensazioni provate all’ascolto del lavoro degli Assumption sono state proprio quelle legate a tali sonorità apparentemente antiche, eppure sempre dannatamente attuali.
Il duo siciliano riesce in questa non facile impresa senza disdegnare di regalare un’ultima parte di album dai tratti più sperimentali, come quella rappresentata dai dodici minuti della title-track, laddove viene immessa un’importante componente psichedelica che va a compenetrarsi con passaggi di morbosa lentezza, sempre sorretti da un growl e da un chitarrismo davvero convincenti da parte di Giorgio.
Gran disco, l’ennesimo partorito in ambito estremo dalla musicalmente sempre fertile Trinacria.
Tracklist:
1. Moribund State Shift
2. The NonExisting
3. Veneration of Fire
4. The Three Appearances (Snag Gsum)
Line-up:
David – batteria
Giorgio – chitarra, basso, synth, voce
Chi è alla ricerca di sonorità leccate e iperprodotte passi oltre, i Black Capricorn fanno musica per chi è come loro, e ciò che ne scaturisce è uno dei migliori album italiani dell’anno.
Il terzo album in poco più di 3 anni consacra definitivamente i Black Capricorn come una delle band guida del doom nazionale.
Non era facile riuscire a migliorare il già ottimo “Born Under The Capricorn” e il tutto pareva reso ancor più difficile dal ritorno alla formazione a tre degli esordi, con il solo Kjxu ad occuparsi di voce e chitarra, coadiuvato dall’accompagnamento ritmico delle sorelle Piras. In effetti, la rinuncia alla voce più abrasiva di Matteo Carta poteva comportare qualche scompenso per la band cagliaritana, ma il barbuto leader, pur avendo una tonalità di minore impatto, riesce a fornire una prestazione credibile dietro il microfono, compensata in ogni caso nel migliore dei modi dal suo operato alla chitarra, con la quale sforna riff su riff senza disdegnare anche riuscite digressioni soliste. Rachela e Virginia fanno il loro consueto ottimo lavoro, ma non sono certo le doti tecniche del trio a rendere imperdibile questo lavoro, quanto la capacità di sfornare quasi un’ora di doom dalle ampie sfumature psichedeliche senza che queste divengano preponderanti, con il rischio di attenuare l’impatto più propriamente metallico del sound. Semmai, un mood più lisergico si manifesta soprattutto nel finale, dapprima con lo stoner/grunge al rallentatore di Arcane Sorcerer e poi con la più soffusa traccia conclusiva, To the Shores of Distant Stars, cantata da Rachela. Ma il cuore pulsante dell’album risiede particolarmente in tracce dalla magnifica resa quali la title-track, Hammer Of the Witches, e For The Abyss, e forse ancor più nella parte composta dalle tre tracce strumentali che arrivano una dopo l’altra, con le ritmate Riding the Devil’s Horses e Cat People a fare da ancelle al brano più coinvolgente, la splendida ed evocativa Anima Vagula Blandula, dall’incipit affidato al flauto, a richiamare i Cathederal di “Forest of Equlibrium” per staccarsene subito proseguendo con un arpeggio acustico ed un assolo di vibrante emotività. Come detto, qui non si va alla ricerca di suoni cristallini e virtuosismi assortiti: il trio fa nel migliore dei modi ciò che meglio gli riesce, ovvero proporre un sound che affonda radici profonde nelle origini del genere senza mai scadere nel manierismo; non c’è un solo passaggio inutilmente interlocutorio in Cult of Black Friars, ogni brano possiede una propria definita struttura che si giova dell’essenzialità priva di qualsiasi orpello messa in campo dalla band. Qualche purista troverà probabilmente difetti sparsi qua e là ma, francamente, chi se ne importa, questo è doom, non progmetal, e chi lo ascolta vuole godere di di sonorità plumbee, pastose, distorte e condividere passione e sudore con i musicisti. Chi è alla ricerca di sonorità leccate e iperprodotte passi oltre, i Black Capricorn fanno musica per chi è come loro, e ciò che ne scaturisce è uno dei migliori album italiani dell’anno.
Tracklist:
1. Atomium
2. Cult of Black Friars
3. Hammer of the Witches
4. Riding the Devil’s Horses
5. Animula Vagula Blandula
6. Cat People
7. From the Abyss
8. Arcane Sorcerer
9. To the Shores of Distant Stars