Death Alley – Superbia

La varietà del songwriting potrebbe far storcere il naso a più di un ascoltatore, ma passate le prime burrasche motorheadiane che portano nuvoloni color cremisi, il sound dei Death Alley si apre all’ascoltatore come un libro aperto e sfogliato dalla rude carezza del vento.

La scena rock/metal olandese, spesso dimenticata a favore di quelle statunitensi e nord europee, ma altrettanto importante, ha sempre regalato gruppi e realtà di un certo spessore specialmente in generi come il metal estremo.

Si osa e molto nei Paesi Bassi parlando di musica, una libertà di espressione che ha portato alla nascita di band originali o comunque coraggiose nel proporre la loro idee di musica rock.
I Death Alley sono una di queste: attivi da circa sei anni e con una discografia che vede, oltre ad una manciata di lavori minori, un album licenziato nel 2015 dal titolo Black Magic Boogieland e la firma con la Century Media, tornano sul mercato con Superbia, lavoro che nel suo essere assolutamente vintage brilla per personalità, con quel tocco di insana originalità che contribuisce ad una innata follia artistica.
D’altronde non è così semplice inglobare in un sound che all’apparenza risulta scarno, poco lavorato e dal mood rituale e fumoso, schegge punk rock, jam psichedeliche e mood progressivo facendone un piccolo scrigno di musica old school ma ben salda nel presente musicale, in questo inizio di millennio.
La band, guidata dal chitarrista Oeds Beydals, ci consegna un album che senza alcuna riverenza amalgama King Crimson e Motorhead, The Stooges e Hawkwind, Mc5 e primi Pink Floyd, passando da brani diretti e garage punk come The Chain o Shake The Coil, a lunghe jam progressive/psichedeliche come l’opener Daemon, Feeding The Lions o la conclusiva The Sewage.
Ovviamente al primo ascolto la varietà del songwriting potrebbe far storcere il naso a più di un ascoltatore, ma passate le prime burrasche motorheadiane che portano nuvoloni color cremisi, il sound dei Death Alley si apre all’ascoltatore come un libro aperto e sfogliato dalla rude carezza del vento.
Abituati ormai da alcuni anni al ritorno di sonorità che credevamo ormai esclusiva di rocker nostalgici, Superbia non può che diventare un punto fermo degli ascolti dei giovani amanti del rock di scuola 60’/70′, mentre la curiosità per dove andrà a parare il sound del gruppo olandese è pari alla sua imprevedibilità.

Tracklist
01. Daemon
02. The Chain
03. Feeding The Lions
04. Headlights In The Dark
05. Shake The Coil
06. Murder Your Dreams
07. Pilgrim
08. The Sewage

Line-up
Douwe Truijens – Lead Vocals
Oeds Beydals – Guitars, Backing Vocals
Sander Bus – Bass
Uno Bruiniusson – Drums

DEATH ALLEY – Facebook

Super Trutux – Trilogia dell’Halibut

Usando l’hardcore melodico i Super Trutux ci portano in profondità dentro i gangli che hanno causato la degenerazione nostra e della società, e ci rendono partecipi del nostro dolore.

La Trilogia dell’Halibut è una raccolta che ri-aggrega in una unica opera i tre video-album Halibut Sociale, Halibut Ambientale e Halibut Individuale, realizzati dai Super Trutux nel periodo tra il 2010 e il 2017.

L’ intenzione dei Super Trutux è quella di concepire un’opera totale, con musica e video che vanno di pari passo dall’atto creativo a quello dell’esposizione. I tre dischi si possono gustare ora nella loro interezza e di seguito, e lo sguardo d’insieme accresce il valore dell’opera. I tre video album formano un corpus unico, un’opera unica nel suo genere ed ambiziosamente proletaria, nel senso che rappresentano un lavoro dal basso che illustra magistralmente meccanismi che regolano le nostre vite e che ci schiacciano ogni giorno. Usando l’hardcore melodico i Super Trutux ci portano in profondità dentro i gangli che hanno causato la degenerazione nostra e della società, e ci rendono partecipi del nostro dolore. La musica potrebbe essere addirittura definita come hardcore melodico progressivo, che mette nella giusta tensione psicologica per andare avanti in questo abisso. Il primo dei tre dischi, Halibut Sociale, descrive come funziona l’economia nel nostro mondo, e qui ci sono i prodromi della distruzione, che è come un circolo vizioso, perché per vivere perpetriamo un capitalismo davvero inumano, che porta poi al secondo disco della serie. Il secondo episodio è l’Halibut Ambientale, seconda tappa della nostra degenerazione, e parla sia dell’abbrutimento ambientale, sia dell’ambiente sociale, che dell’ambiente dentro e fuori da noi. Come nel primo disco la voce narrante, che è giustamente inquietante ed incalzante, ci porta per il labirinto. Il tutto è davvero ben calibrato e con ottimi risvolti, induce a pensare, e pensare fa sempre bene. Arriviamo quindi al terzo ed ultimo atto dell’opera, l’Halibut Individuale. Quest’ultimo è il risultato degli altri due Halibut, ovvero una psicosi generata da una continua esposizione ad un ambiente negativo, che frammenta l’anima e l’essere umano, e lo porta a fratturasi dentro. La Trilogia dell’Halibut è qualcosa di unico, sia per la profondità, sia come riuscita. Non è solo un disco, non è solo un video, è molto altro e va oltre. Si entra nei nervi della società nella quale sopravviviamo e nemmeno sempre. Un disco che spiega più di molti libri la nostra vita, inevitabilmente persa nell’halibut.

Tracklist
01 – Halibut della società del malessere
02 – La società del malessere
03 – Halibut della tecnologia
04 – La tecnologia
05 – Halibut di Adam Smith
06 – Adam Smith
07 – Halibut del monetarismo
08 – Monetarismo
09 – Halibut della fiducia, dell’etica e del decoro
10 – Fiducia, etica e decoro
11 – Halibut della carenza e della scarsità
12 – Carenza e scarsità
13 – Halibut dell’utopia del benessere sociale
14 – Utopia del benessere sociale
15 – Il cerchio aperto
16 – Gli stimoli ambientali devianti
17 – Una idea molto fuorviante
18 – Buddha
19 – L’inverno della fame olandese
20 – La predisposizione
21 – La teoria della fase zero
22 – Il ricordo del proprio passato
23 – Le conseguenze negative dell’ambiente
24 – La metamorfosi
25 – Il cerchio chiuso
26 – L’orlo del precipizio
27 – L’inizio delle emicranie
28 – Il sovraccarico mentale
29 – Il caos nel cervello
30 – Il graduale spegnimento interiore
31 – Il conflitto con l’io
32 – L’insonnia
33 – Il disagio
34 – I tentativi di guarigione
35 – Il fallimento dei tentativi di guarigione
36 – La voce nella testa
37 – L’ossessione
38 – La resa

Line-up
Bennetts: Batteria
Drino: Basso
Folsi: Chitarra

SUPER TRUTUX – Facebook

Leather – II

I fans dei Chastain e dell’heavy metal duro e puro possono avvicinarsi all’opera con la convinzione di ritrovarsi al cospetto di un lavoro che non tradisce, così come Leather, incontrastata regina della foresta metallica aldilà dell’oceano.

La leonessa dell’heavy metal americano e per anni graffiante regina dietro al microfono dei Chastain, è tornata con il secondo lavoro solista dopo quasi trentanni dal precedente Shock Waves, uscito nel 1989.

Leather Leone, accompagnata da una band gagliarda composta dai chitarristi Vinnie Tex e Daemon Ross, dal bassista Thiago Velasquez, e dal batterista Braulio Drumond dà dunque un seguito allo storico debutto, dopo l’ottimo We Bleed Metal , ultimo arrivato in casa Chastain.
Niente di nuovo,  ci mancherebbe altro, II è il classico album in cui la cantante offre il meglio di sé, undici brani di graffiante ed incendiario metallo old school, sostenuto da possenti mid tempo, grandi solos che tuonano note metalliche nel cielo scuro, il tutto per valorizzare la prova al microfono della storica singer americana che anche su questo album da l’impressione di non invecchiare mai.
I fans dei Chastain e dell’heavy metal duro e puro possono avvicinarsi all’opera con la convinzione di ritrovarsi al cospetto di un lavoro che non tradisce, così come Leather, incontrastata regina della foresta metallica aldilà dell’oceano.
Fin dall’opener Juggernaut veniamo quindi travolti da un sound tempestoso, puro heavy metal senza fronzoli, americano fino al midollo, con il quale la vocalist ci tiene stretti in un a morsa d’acciaio grazie alla sua inconfondibile voce e al grande lavoro delle due chitarre.
The Outsider, Black Smoke, la semiballad Annabelle ed American Woman sono i brani più incisivi del nuovo lavoro di Leather, un buon ritorno per la Ronnie James Dio in gonnella, leonessa indomita che ha ispirato più di una generazione di cantanti ed interpreti dell’heavy metal classico.

Tracklist
1. Juggernaut
2. The Outsider
3. Lost At Midnite
4. Black Smoke
5. The One
6. Annabelle
7. Hidden In The Dark
8. Sleep Deep
9. Let Me Kneel
10. American Woman
11. Give Me Reason

Line-up
Leather Leone – Lead Vocals
Vinnie Tex – Lead, Rhythm and Harmony Guitars
Daemon Ross – Lead Guitars
Thiago Velasquez – Bass Guitar
Braulio Drumond – Drums

LEATHER – Facebook

https://youtu.be/y5HbAWfllfg

Skjult – Progenies ov Light

I brani sono oscuri e incalzanti come da copione, la produzione è tutto quanto serve ad apprezzare al meglio di genere, e pazienza se l’originalità è meno che ai minimi termini: questo disco è un bel tuffo in acque caraibiche che, al suono degli Skjult, si tramutano in quelle gelide dei fiordi norvegesi.

I vichinghi, come ben si sa, erano grandi nonché audaci navigatori e furono con ogni probabilità i primi a giungere sul continente americano, anche se nelle sue propaggini più settentrionali, ben prima di Colombo.

Crto che, ascoltando questo secondo album della one man band cubana Skjult, viene da pensare che possano essersi spinti sino ai Caraibi, visto che il sound offerto in  Progenies ov Light sembra più scandinavo di molti degli stessi gruppi norvegesi e svedesi. Con tale premessa, ovviamente, non ci sono da attendersi soverchie variazioni sul tema ma questo non impedisce al buon Conspirator di pubblicare un lavoro valido pur nella sua rigida ortodossia stilistica.
Fino ad oggi il nome più conosciuto del black metal cubano nel quale ci si era imbattuti era quello di Narbeleth, altro progetto solista dalle propensioni leggermente più atmosferiche, ma indubbiamente la scoperta di questi Skjelt testimonia di una scena che dalle parti dell’Avana è tutt’altro che anomala o pittoresca.
Per trovare la chiave di lettura dell’album è opportuno l’ascolto di un brano emblematico come Summoning the Eternal Black Flames of Death, dove echi degli Emperor di In The Nightside Eclipse sono più che una suggestione.
Progenies ov Light è un lavoro che magari a molti potrà apparire anacronistico, e forse lo sarebbe davvero se provenisse da una nazione nordeuropea: al contrario, l’approccio alla materia in qualche modo “puro” di Conspirator rende l’ascolto un’esperienza gradevolissima per intensità e convinzione.
I brani sono oscuri e incalzanti come da copione, la produzione è tutto quanto serve ad apprezzare al meglio di genere, e pazienza se l’originalità è meno che ai minimi termini: questo disco è un bel tuffo in acque caraibiche che, al suono degli Skjult, si tramutano in quelle gelide dei fiordi norvegesi.

Tracklist:
1. Into the Void
2. Immolation Rites
3. Summoning the Eternal Black Flames of Death
4. Glorious Night
5. Hail Blasphemous Hated (The Lord Is Upon Us)
6. A Crown of Horns
7. Dawn of an Era ov Light
8. Baptized by the Unholy Goat

Line up:
Conspirator

SKJULT – Facebook

At The Gates – To Drink From The Night Itself

Un lavoro molto bello, magari avaro di quella ferocia e violenza che caratterizzava opere estreme divenute storiche come The Red in the Sky Is Ours o lo storico Slaughter Of The Soul, ma maturo e ricco di melodie oscure, tramutate in tre quarti d’ora di melodic death metal dalla classe immortale.

Per le persone che il death metal melodico lo hanno visto nascere e crescere fin dagli albori, il ritorno degli At The Gates diventa un appuntamento aspettato con l’ansia di chi è consapevole della bravura del combo svedese e dell’importanza che ha avuto sullo sviluppo di tali sonorità.

Tomas “Tompa” Lindberg e compagni arrivano al sesto lavoro, pochi in quasi trent’anni di carriera, specialmente se paragonati ai loro colleghi, ma si sa che la band è stata ferma un ventennio ed il ritorno con At War with Reality è targato 2014.
I primi anni novanta sono lontani, un periodo da archiviare nella storia del rock/metal mondiale, mentre i gruppi che formarono una delle scene più importanti che la storia del genere ricordi sono ormai delle icone, guardate con rispetto ed aspettate al varco ogni volta che se ne presenta l’occasione.
Ecco quindi che un nuovo lavoro degli At The Gates, come dei Dark Tranquillity o degli In Flames (tanto per fare un paio di esempi illustri) si tramuta in un gioco a chi la spara più grossa, quasi come se lo scritto fosse più importante della musica.
Tompa e compagni hanno regalato un lavoro molto bello, magari avaro di quella ferocia e violenza che caratterizzava opere estreme divenute storiche come The Red in the Sky Is Ours o lo storico Slaughter Of The Soul, ma maturo e ricco di melodie oscure, tramutate in tre quarti d’ora di melodic death metal dalla classe immortale.
To Drink From the Night Itself dimostra il talento di cui gli At The Gates e le band nate nel nord Europa dispongono e utilizzato per suonare metal estremo ricco di armonie melodiche fuori dal comune; non me ne voglia tutto il resto del mondo metallico, ma questi musicisti continuano a distanza di anni ad alzare l’asticella di un genere che, se ha detto tutto in termini compositivi, lascia al talento il compito di fare la differenza.
E gli At The Gates di talento ne hanno da vendere, distribuito in tutti questi anni con altri monicker, ed ora tornati con una raccolta di brani che fanno da sunto a tutto quanto scritto fin qui se si parla di death metal melodico.
L’inizio è da pelle d’oca, con la malinconica intro che sfocia in un trittico di tracce spettacolari (la title track, A Stare Bound In Stone e Palace Of Lepers), melodie e sfuriate death/thrash incalzano sull’ascoltatore, il lavoro chitarristico è di prim’ordine così come quello ritmico, il growl di Lindberg è inciso sul vangelo del metal estremo e i brani, sull’onda entusiasmante delle prime tracce, risultano perfette nel seguire le regole imposte dal gruppo anni fa.
In conclusione, To Drink From the Night Itself è l’album che ogni fan del death metal melodico avrebbe dovuto attendersi da un gruppo di tale importanza che, senza snaturare il proprio credo stilistico, è ancora oggi dopo trent’anni un punto di riferimento per chiunque ascolti o suoni questo tipo di musica.

Tracklist
01. Der Widerstand
02. To Drink From The Night Itself
03. A Stare Bound In Stone
04. Palace Of Lepers
05. Daggers Of Black Haze
06. The Chasm
07. In Nameless Sleep
08. The Colours Of The Beast
09. A Labyrinth Of Tombs
10. Seas Of Starvation
11. In Death They Shall Burn
12. The Mirror Black

Line-up
Tomas Lindberg – Vocals
Jonas Björler – Bass
Adrian Erlandsson – Drums
Martin Larsson – Guitars
Jonas Stålhammar – Guitars

AT THE GATES – Facebook