Per gli amanti del metal estremo di matrice brutal che amano Suffocation, Dying Fetus e compagnia omicida, l’album è assolutamente consigliato.
Giovani e dannatamente brutali, i Pighead licenziano il nuovo devastante e marcissimo album in questo tramonto dell’anno di grazia 2016.
Il trio tedesco (il bassista Clemens figura come ospite), al terzo lavoro sulla lunga distanza è protagonista di un brutal death metal molto ben strutturato, tra lo slamming ed il technical death.
Terzo lavoro si diceva, con i primi due album usciti rispettivamente nel 2010 (Cadaver Desecrator) e nel 2012 (Rotten Body Reanimation), quindi il gruppo berlinese si è preso quattro anni per dare alle stampe questo notevole pezzo di brutalità in musica, prodotto bene e dal songwriting che in alcuni casi risplende di cattiveria e malignità, ma che sa esaltare con soluzioni ritmiche molto ben congegnate (Revengeful Strife).
Il genere non promette originalità ovviamente, influenze ed ispirazioni sono uguali a tante giovani band in giro per il mondo, ma i Pighead hanno qualcosa in più, le canzoni.
Infatti, nella loro brutalità, i brani di Until All Flesh Decays non mancano di mantenere una loro forma canzone, e l’album ne giova risultando ostico, violento, terremotante ma a tratti pregno di morboso appeal.
Per gli amanti del metal estremo di matrice brutal che amano Suffocation, Dying Fetus e compagnia omicida, l’album è assolutamente consigliato.
TRACKLIST
1.Transcend the Unknown
2.Twitching Xenomorphic Shades
3.Eliminate Alien Elements
4.State of Absolute Misery
5.Corrupted
6.Indoctrinate
7.Revengeful Strife
8.Until All Flesh Decays
9.A Swamp of Dark Crimson Sludge
10.Siamese Spawn
11.Exterminating the Unworthy
12.The Piggrinder
LINE-UP
PHIL – Vocals
CONOR – Drums
DENNY – Guitar
CLEMENS – Sessionbass
A chi ha familiarità con il gruppo rimane solo da segnalare l’ottima scelta dei brani da parte del leader mentre, per chi non conoscesse la band, Deathgeneration è un’opera essenziale per ogni appassionato.
Venticinque anni di attività nel mondo della musica non è cosa da poco, figuriamoci nel metal estremo, se poi la ricorrenza riguarda una band seminale come gli spagnoli Avulsed, il traguardo va sicuramente festeggiato nel migliore dei modi.
E Dave Rotten, storico vocalist del gruppo e responsabile artistico della Xtreem, ha fatto le cose in grande per festeggiare al meglio la sua band, con una raccolta di brani racchiusi in un doppio cd reinterpretati per l’occasione con una serie di ospiti di grido. Deathgenerationvede, infatti, la partecipazione di nomi altisonanti del metal estremo, molti di questi importantissimi per lo sviluppo di queste sonorità, con l’aggiunta di un secondo cd contenente le versione originali dei brani.
Una compilation che risulta davvero un monumento al death metal old school, non solo per la qualità altissima della musica del gruppo madrileno, ma in questo caso anche per il suddetto contributo di artisti i cui nomi non hanno bisogno di presentazioni.
Chris Reifert (Autopsy), Will Rahmer (Mortician), Rogga Johansson (non abbiamo spazio a sufficienza per scrivere tutte le band che lo vedono coinvolto …), Mike Van Mastrigt (ex-Sinister), Piotr Wiwczarek (Vader), Mark “Barney” Greenway (Napalm Death), Tomas Lindberg (At The Gates), sono solo alcuni dei graditi ospiti che il buon Rotten ha voluto su questo tripudio alla sua creatura più importante e i ragazzi non si sono certo tirati indietro, rendendo questo disco un imperdibile gioiellino estremo.
Si parla, del resto, di uno dei gruppi più influenti a livello underground della scena europea, dal 1991 a dispensare death metal di morte in giro per il continente, dunque si tratta di un’operazione più che mai giustificata dall’importanza della nome in ballo.
A chi ha familiarità con il gruppo rimane solo da segnalare l’ottima scelta dei brani da parte del leader mentre, per chi non conoscesse la band, Deathgenerationè un’opera essenziale per ogni appassionato.
TRACKLIST
1.Amidst The Macabre (instr.)
2.Stabwound Orgasm
3.Breaking Hymens – guest: Per Boder (God Macabre/Mordbrand)
4.Sweet Lobotomy – guest: Chris Reifert (Autopsy)
5.Burnt But Not Carbonized – guest: Antti Boman (Demilich)
6.Daddy Stew – guest: Snencho (Aborted)
7.Addicted To Carrion – guest: Will Rahmer (Mortician)
8.Dead Flesh Awakened – guest: Rogga Johansson (Paganizer)
9.Powdered Flesh – guest: Ludo Loez (Supuration/S.U.P)
10.Gorespattered Suicide – guest: Mike Van Mastrigt (ex-Sinister/Neocaesar)
11.Nullo (The Pleasure Of Self-mutilation) – guest: Johan Jansson (Interment/Moondark)
12.Exorcismo Vaginal – guest: Paul Zavaleta (Deteriorot)
13.Carnivoracity – guest: Anton Reisenegger (Pentagram Chile/Criminal)
14.Sick Sick Sex – guest: Ville Koskela (Purtenance)
15.Devourer Of The Dead – guest: Tomas Lindberg (At The Gates)
16.Horrified By Repulsion – guest: Kam Lee (ex-Massacre)
17.Blessed By Gore – guest: Bongo (Necrophiliac)
18.Red Viscera Serology – guest: John McEntee (Incantation)
LINE-UP
Dave Rotten – Vocals
Jose “Cabra” – Guitars
Juancar – Guitars
Tana – Bass
Arjan van der Wijst – Drums
Metal estremo atmosfericamente sopra la media, un tuffo nella tradizione popolare di uno dei territori più belli, misteriosi e ricchi di leggende della nostra penisola,
Sono ormai anni che il monicker Delirium X Tremens gira nella scena estrema underground, almeno da quando Cyberhuman, debutto in mini cd, fece conoscere la band bellunese ai fans del metallo estremo.
Il gruppo, duro e pesante come uno dei passi dolomitici affrontati in bicicletta, arriva tramite la Punishment 18 Records al terzo full length della sua ormai lunga carriera, successore di CreHated from No_Thing del 2007 e Belo Dunum, Echoes from the Past, licenziato cinque anni fa: Troiè un concept che racconta il viaggio di un ragazzo guidato da un gufo posseduto dall’anima di un alpino, verso la casa dove è custodito un importante album di fotografie.
Veniamo quindi trasportati nell’immaginario montano delle Dolomiti, tra orgoglio nordico, spunti folk popolari di quelle terre e metal estremo, a tratti epico, devastante ed originale nel saper mantenere con sagacia l’equilibrio tra death metal old school e spunti musicali che vanno dal folk al rock, dalla musica popolare a mood alternativi che, all’apparenza, con il metal estremo c’entrano poco ma fondamentali nel sound del quartetto bellunese.
I Delirium X Tremens sono un gruppo originale, su questo non c’è il minimo dubbio, e anche per questo il nuovo lavoro ha bisogno di qualche giro in più nel laser ottico per essere pienamente assimilato, ma l’atmosfera malinconicamente epica di brani che sprizzano tradizione nordica (finalmente italiana, aggiungo), come Col Di Lana/Mount Of Blood, The Voice Of The Holy River e la tragicità di eventi drammatici e storici come Spettri nella Steppa, fanno di Troi un lavoro sicuramente affascinante.
Un’opera di metal estremo atmosfericamente sopra la media, un tuffo nella tradizione popolare di uno dei territori più misteriosi e ricchi di leggende della nostra penisola, tra il freddo, la solitudine e la magica bellezza delle Dolomiti.
TRACKLIST
01. Ancient Wings
02. Col Di Lana, Mount Of Blood
03. The Dead Of Stone
04. The Voice Of The Holy River
05. Owl
06. Spettri Nella Steppa
07. Song To Hall Up High (Bathory Cover)
08. When The Mountain Call The Storm
09. The Picture
LINE-UP
Ciardo – Vocals
Med – Guitars
Thomas – Drums
Pondro – Bass
Tecnica e capacità compositiva sono importanti e notevoli in questo disco, ma la cosa più importante è il cuore di questo gruppo, la capacità di creare empatia con l’ascoltatore.
Pesantissimo esordio discografico per questo gruppo torinese, dedito ad un hardcore metal nerissimo, con incursioni nel death metal e nel math, con inaspettate e bellissime aperture melodiche.
I Noise Trail Immersion sono un gruppo che ha sicuramente attinto a Converge, The Secret e Dillinger Escape Plan, e la loro capacità più grande è di essere partiti da qui per intraprendere un cammino totalmente nuovo e ricchissimo. Anche grazie all’ottima produzione si possono sentire canzoni cariche di furia, di tecnica, di melodie da scoprire e tanta voglia di coinvolgere l’ascoltatore. Quello che vi aspetta in questo disco è un nero ed oscuro viaggio, ma sarà molto piacevole, poiché è da tempo che non si ascoltava un lavoro simile nel genere, che poi non è un genere musicale tout court bensì una maniera di sentire. I Noise Trail Immersion ci portano in bui corridoi dove ci aspettano bestie sconosciute e umani che potrebbero essere i nostri cari, ma li vedrete come personaggi di SIlent Hill. L’assalto sonoro è notevole, ma ciò che colpisce di più è al straordinaria capacità di colpire l’ascoltatore per poi innalzarlo con aperture bellissime. Ogni canzone si fa ascoltare fino in fondo, ogni canzone è un piccolo movimento di un’opera più grande, dove tutto è incastonato perfettamente in un’apocalisse sonora e di sentimenti sublime.
Tecnica e capacità compositiva sono importanti e notevoli in questo disco, ma la cosa più importante è il cuore di questo gruppo, la capacità di creare empatia con l’ascoltatore. Bellissimo, e pensare che al primo ascolto non mi era piaciuto.
Un’opera che va assaporata e fatta propria gustandosi ogni passaggio, sempre in bilico tra le varie atmosfere che compongono il death gotico suonato dal gruppo
Decisamente interessante il debutto dei nostrani Ghost Of Mary, un concept ispirato da un racconto del cantante Daniele Rini incentrato sulla vita e sulla morte e accompagnato da un notevole death sinfonica arricchito da ottime parti classiche e gothic doom.
Un’opera dark, oscura e malinconica che tocca il genere in tutte le sue sfumature, regalando all’ascoltatore un sunto del death metal gotico, partendo addirittura dai primi anni novanta, in particolare dalla scena olandese.
Infatti quest’album torna a far risplendere uno dei movimenti più importanti per lo sviluppo di queste sonorità, affiancando al lento incedere, elegantemente sfiorato dagli strumenti classici, sfuriate estreme di matrice scandinava e dark rock per un risultato che, nella sua altalena di ombrose ed oscure emozioni, si rivela del tuto all’altezza della situazione. Oblivaeon è un disco vario, maturo, perfettamente in grado di mantenere la giusta tensione e non far perdere l’attenzione all’ascoltatore, travolto dalle sorprese che il gruppo riversa in un songwriting ispiratissimo, così da passare agevolmente tra le ispirazioni che hanno portato alla stesura dei brani in modo fluido e senza forzature.
Death metal melodico d’alta classe, quindi, impreziosito da un’ottima parte orchestrale, da un muro ritmico estremo efficace e da un’interpretazione magistrale di Rini, bravo sia con le parti estreme che con le clean vocals.
Un’opera che va assaporata e fatta propria gustandosi ogni passaggio, sempre in bilico tra le varie atmosfere che compongono il death gotico suonato dal gruppo, ma che ovviamente non manca di picchi qualitativi molto alti come la magnifica Shades, insieme a Something To Know e The End is the Beginning, altri due piccoli gioiellini di questo bellissimo lavoro, esempio perfetto di quello che a mio parere è la maggiore caratteristica del sound dei Ghost Of Mary: death gothic olandese e death melodico scandinavo che si scambiano gli onori e gli oneri in perfetta armonia.
Provate ad immaginare i primi The Gathering, Dark Tranquillity ed un accenno ai Lacrimosa più sinfonici ed avrete un’idea attendibile di cosa vi aspetta tra i solchi di Oblivaeon.
TRACKLIST
1.The Moon and the Tree
2.Shades
3.Last Guardian
4.Nothing
5.The Ancient Abyss
6.Oblivaeon
7.Black Star
8.Something to Know
9.The End is the Beginning
10.Nowhere Now Here
11.The Ancient Abyss (piano version)
Ungodly Forms è un’entità estrema che va gustata dall’inizio alla fine senza cercare troppo il momento migliore, qui siamo nella perfezione assoluta
Si avvicina la fine dell’anno e si cerca di tirare le somme di quello che il 2016 ha regalato in campo metallico.
Le classifiche sono sempre affascinanti ma nel sottoscritto incutono il timore di dimenticare opere che meriterebbero un posto tra le migliori, specialmente se il numero di album citati si riduce a non più di una decina dopo che per tutto l’anno si è sguazzato tra i vari generi e fortunatamente in un numero abbondante di ottimi lavori.
Quando più o meno ero riuscito a farmi un’idea approssimativa dell’elenco finale, ecco che a stravolgere il tutto arriva questa bomba sonora targata Sentient Horror, band del New Jersey capitanata dall’ex Dark Empire Matt Moliti al primo, fenomenale, lavoro.
Dan Swanö , uomo di poche parole si è esposto sul gruppo con questa affermazione: uno dei migliori progetti Swedish Death che ho incontrato negli ultimi 20 anni, la miscela perfetta di tutti i punti salienti della scena svedese dall’ 89 al 91, davvero impressionante.
Intanto il mitico musicista e produttore ci ha messo lo zampino masterizzando Ungodly Forms dalle sue parti (Unisound Studios, ovviamente) e l’album se ne giova, esplodendo in tutta la sua carica estrema e quella brutalità melodica (se mi passate il termine) tipica dello storico sound scandinavo. Ungodly Forms, un album talmente travolgente che spedisce direttamente all’inferno alle prime note dell’opener e vi tiene giù, anche se cercherete di scappare da una serie di inni al death metal che impressionano per carica distruttiva, songwriting ed un impatto che chiamare devastante è puro eufemismo.
Tutto è perfetto e magico in questa opera, si torna infatti a respirare l’aria putrida di cimiteri e tombe marcite dalla neve quasi perenne dei lunghi inverni scandinavi; perizia tecnica, talento melodico sopra le righe, un lotto di brani che non concede speranza se non quella di arrivare distrutti alla fine, per ricominciare a correre prima che le sei corde di Moliti e Jon Lopez taglino le nostre carni e che la sezione ritmica scopra il cuore ancora pulsante (Ian Jordan al basso e Ryan Cardoza alle pelli) e la diano in pasto al growl di Moliti (ancora lui), protagonista assoluto di questo monumento al death metal old school.
Una guardia destra che combatte come una guardia sinistra, raccontava il cronista di uno degli incontri di Sylvester Stallone nella famosa saga di Rocky, mentre qui abbiamo un gruppo americano che suona come Edge Of Sanity, Entombed, Grave, Dismember e Unleashed, il meglio del death scandinavo a cavallo dei due decenni a mio avviso più importanti per lo sviluppo del metal estremo.
Non biasimatemi se non vi cito qualche brano, Ungodly Forms è un’entità estrema che va gustata dall’inizio alla fine senza cercare troppo il momento migliore, qui siamo nella perfezione assoluta.
TRACKLIST
1. Into the Abyss
2. Abyssal Ways
3. Die Decay Devour
4. Blood Rot
5. Splinter The Cross
6. Beyond The Curse Of Death
7. Ungodly Forms
8. Suffer To The Grave
9. A Host Of Worms
10. Of Filth And Flesh
11. Mourning (Instrumental)
12. Celestial Carnage
LINE-UP
Matt Moliti – Vocals, Lead Guitar
Ian Jordan – Bass
Ryan Cardoza – Drums
Jon Lopez – Guitar
Se volete ascoltare del death che non sia proveniente dai soliti nomi e paesi, vi consiglio di non perdervi questo album.
Nati addirittura sul finire degli anni ottanta, i Grausig sono un’istituzione del metal estremo indonesiano.
La band di Jakarta, magari poco conosciuta in occidente se non ai fans accaniti del death metal e del brutal, può vantare una discografia di tutto rispetto, con una manciata di ep e due precedenti lavori sulla lunga distanza usciti a cavallo del nuovo millennio (Abandoned, Forgotten, & Rotting Alone del 1999 e Tiga Dimensi del 2003).
Dunque sono passati tredici anni ed il quintetto estremo si ripresenta sul mercato con Di Belakang Garis Musuh, una bomba brutale che in mezz’ora secca mette tutti d’accordo e torna a far parlare dei Grausig, almeno nell’ambiente estremo underground.
Una furia estrema questo lavoro, un vento atomico causato da uno tsunami di blast beat, solos intricati ma perfettamente inseriti nel sound e tanto impatto brutale, con il growl efferato di Phuput a stagliarsi su una tempesta di suoni direttamente dall’inferno.
Ci sanno fare eccome i deathsters indonesiani, all’ascolto dell’album ci si trova al cospetto di una band tripallica che senza indugi travolge con il suo death metal brutale e senza compromessi.
La durata medio corta permette di arrivare al traguardo senza accusare fiatone, anche se è indubbio che con brani devastanti come Doktrinasi Cacat Temporer e Infeksi Kanibal Utopia si corra a velocità illegali.
Praticamente tutte le tracce portano i titoli in lingua madre, presumo quindi che la lingua usata sia il loro idioma, mentre per il sound rivolgete lo sguardo agli States e ai Suffocation in primis.
Se volete ascoltare del death che non sia proveniente dai soliti nomi e paesi, vi consiglio di non perdervi questo album.
TRACKLIST
1.Di Belakang Garis Musuh
2.Teokrasi Biru
3.Pralaya Hipokrit
4.Doktrinasi Cacat Temporer
5.Sampah Moralitas Dimensi
6.Infeksi Kanibal Utopia
7.God’s Replicated
8.Prelude One
9.Doomsday
Un album che risulta una vera sorpresa, un crossover estremo che non mancherà di soddisfare gli amanti del metal senza barriere stilistiche di sorta.
La scena estrema nazionale si arricchisce ogni giorno di più con gruppi che, pur provenendo da tutte le latitudini dello stivale, hanno un denominatore comune, la qualità.
C’è ne davvero per tutti i gusti, dal melodic death metal scandinavo, al più agguerrito death classico, senza farci mancare grind e black metal e tutti le diverse sfumature di cui il metal estremo si nutre.
Una scena ormai non più scena di serie b, ma tra le prime in Europa grazie anche a opere come Carcosa dei Manoluc, quartetto proveniente dal Friuli-Venezia Giulia, composto da musicisti già attivi nella scena del nord est, unitisi per dare voce a questo loro ottimo metal estremo. Carcosa, infatti si compone di otto brani con tanto di intro recitate e campionate, prese da varie opere cinematografiche di genere, da Pasolini, ad Orwell, un tocco industrial al sound già di per sé valorizzato da varianti estreme dal death al thrash fino al black (Satyricon era Now, Diabolical).
E l’album ne esce come un destabilizzante quanto maturo esempio di metal estremo, che nella sua violenza mantiene un’atmosfera ricercata, profondamente oscura, martellante e moderna, come le strade di una metropoli dove l’individuo, ormai reso un cannibale, è in balia della sua fame e della ricerca spasmodica di nutrimento consumistico.
In generale le tracce si sviluppano si mid tempo pesantissimi dove si evince il gran lavoro dei musicisti a livello ritmico, mentre growl e scream si spingono verso l’oscura ed ormai inevitabile dannazione sulle note di Infected Communication e della splendida title track, esempi di musica estrema matura e totale.
Un album che risulta una vera sorpresa, un crossover estremo che non mancherà di soddisfare gli amanti del metal senza barriere stilistiche di sorta.
TRACKLIST
1.The Sum Of All Your Fears
2.Infected Communication
3.The Mind Parasites
4.Alien Disease
5.The Triumphal March Of Nothingness
6.The Shepherd And The Snake
7.Carcosa
8.The Cave
Composti da una line up di musicisti attivi da più di vent’anni, debuttano il melodic deathsters svedesi Across The Burning Sky con questo buon esempio di come veniva suonato il genere nei suoi primi anni di vita.
Infatti, per il quintetto scandinavo, il tempo sembra essersi fermato agli anni in cui la scena melodic death esplodeva sul mercato con una serie di album diventati storici così come molte delle band protagoniste.
Se questo è un male o un bene decidete voi, il sottoscritto vi può solo garantire che The End Is Near è pura goduria per i deathsters che non hanno ancora digerito la svolta americana di In Flames e Soilwork (tanto per fare dei nomi) e malinconicamente si trastullano ancora con le vecchie opere della band di Anders Friden e Children Of Bodom, ma soprattutto, Unanimated e Night In Gales.
L’impronta black metal è forte nel sound del gruppo, i brani pur concedendo un ottimo lavoro chitarristico, con le melodie a farla da padrone nei solos, risultano veloci e agguerriti.
Lo scream è di quelli tosti, nervosi e senza compromessi, le ritmiche sono sferraglianti e l’approccio è da considerare assolutamente old school.
Per chi conosce in maniera superficiale la scena direi che i Children Of Bodom orfani delle tastiere e con una predisposizione per il black metal si avvicinano a quello che gli Across The Burning Sky, con le loro devastanti Towards The Sky, Call Of The Ancient Gods ed Ashes To Ashes vogliono trasmettere.
Pure fucking melodic death metal, prendere o lasciare … io prendo.
TRACKLIST
1.The Death March
2.Demons Rising
3.Towards The Sky
4.Sacrifice
5.Call of the Ancient Gods
6.The Fourth Deadly Sin
7.Shadows Embrace
8.Ashes to Ashes
9.Bloodlines
10.The End
11.The Final March
Un buon album che gli amanti del technical death metal apprezzeranno sicuramente.
Ottimo lavoro da parte dei Burial In The Sky, duo di polistrumentisti e funamboli della sei corde provenienti dalla Pennsylvania.
Con Samus Paulicelli,drummer dei Decrepith Birth ed ex Abigail Williams, Will Okronglis (chitarra e voce) e James Tomedi (chitarra, basso e tastiere) debuttano sulla lunga distanza dopo due ep rilasciati rispettivamente nel 2013 (anno di fondazione) e 2014.
Il loro death metal, molto tecnico e alquanto brutale, si impreziosisce di atmosfere progressive con accelerazioni devastanti, blast beat, per poi trasformarsi in attimi di sulfuree e delicate parti armoniche, e ripartire infine a velocità impazzite verso universi sconosciuti.
Musicalmente il tutto è perfettamente bilanciato e smorza quel senso di forzato, comune ad opere del genere, merito di un buon songwriting e dell’importanza che il gruppo dà alle parti estreme.
L’atmosfera progressive vive nelle melodie settantiane di cui i Burial In The Sky fanno uso, prendendo spunto dai Pink Floyd e dallo spirito psichedelico dei loro primi album, mentre come una belva in agguato la parte estrema si catapulta con tutta la sua ferocia sullo spartito, così da risultare un continuo botta e risposta tra le due facce del sound.
La grande tecnica non inficia la buona presa dei brani, specialmente i primi tre che vanno a comporre un mini concept (Entry I, Entry II e Entry III), mentre nella seconda parte sono le armonie intense e brutali di Galaxy Of Ghosts a fare la parte del leone.
Un buon album che gli amanti del technical death metal apprezzeranno sicuramente.
TRACKLIST
1.Entry I
2.Entry II
3.Entry III
4.Anchors
5.Galaxy of Ghosts
6.Dimensions Divide
LINE-UP
Will Okronglis – Guitars (rhythm), Vocals
James Tomedi – Guitars, Keyboards, Bass
Realm Of Darkness Shrine è il classico album per puri appassionati, senza compromessi e circondato da un’aura malsana: un lavoro che va assaporato nella sua natura estrema, e se siete amanti del doom/death vecchia scuola un ascolto è sicuramente consigliato.
A quasi vent’anni dalla nascita i deathsters thailandesi Shambles licenziano il primo full length, questo oscuro e morboso Realm Of Darkness Shrine.
Il gruppo orientale in tutti questi anni si era affacciato sul mercato solo con una serie di lavori minori e finalmente quest’anno giunge a noi un’opera sulla lunga distanza, traguardo raggiunto dopo anni passati nell’underground più profondo.
Il sound del gruppo rispecchia l’attitudine dei quattro musicisti, un death metal marcissimo, fortemente old school e reso ancora più morboso e catacombale da lunghe parti doom.
Un lento corteo funebre parte dai meandri di Bangkok e arriva, oscuro e malvagio, nel vecchio continente: una lunga discesa nelle catacombe, imputridite dalla morte e dai vermi che banchettano su resti umani dimenticati dal tempo.
Il growl cavernoso di Chainarong Meeprasert ci fa da Caronte nei cunicoli dove l’oscurità regna sovrana, le ritmiche sono lente marce mortifere, a tratti pervase da un urgenza estrema che attanaglia la gola, bruciante dall’aria malata che si respira nelle tetre atmosfere dei brani che non concedono il minimo richiamo ad una luce ormai abbandonata. Rosarium è l’opener che ci introduce in questo mondo di blasfemia e morti orrende, seguita da una serie di brani sempre più oscuri e malati, con la title track apice doom/death dell’album, inquietante nelle sue esplosioni di violenza a destabilizzare il ritmo lentissimo del suo magmatico e funereo incedere. Realm Of Darkness Shrine è il classico album per puri appassionati, senza compromessi e circondato da un’aura malsana: un lavoro che va assaporato nella sua natura estrema, e se siete amanti del doom/death vecchia scuola un ascolto è sicuramente consigliato.
TRACKLIST
1.Rosarium
2.Call from the Further Tomb
3.Breath of the Deathprayer
4.Onward into Chasms
5.Haxanwomb
6.Realm of Darkness Shrine
7.Bitter Abysmal Depths
I Dark Lunacy sono una delle eccellenze, ma soprattutto una delle certezze, espresse dal movimento musicale italiano, non solo in ambito metal:
Prendendo in considerazione l’intero movimento metal italiano, i Dark Lunacy meriterebbero qualcosa di simile ad un premio alla carriera.
Intendiamoci, non si parla certo dell’omologo riconoscimento che viene conferito ad artisti imbolsiti e anche un po’ rincoglioniti: qui, infatti, si fa riferimento ad una realtà che continua ad essere guida ed esempio per tutte le band nostrane che vogliano aprirsi una strada peculiare per fare breccia nel cuore degli appassionati.
Mike prosegue nel suo percorso iniziato ormai nel lontano 1997, quando un manipolo di ragazzi parmensi si mise in testa l’idea meravigliosa di fondere il death metal con la musica classica: da allora ne sono scaturiti sei full length, dei quali uno seminale (Forget Me Not) ed un capolavoro assoluto (The Diarist), entrambi racchiusi nella fase centrale dello scorso decennio.
L’instabilità della line-up che ha visto nel corso degli anni avvicendarsi fin troppi musicisti alla corte di Mike, non ha certo contribuito a fornire ai Dark Lunacy quella continuità necessaria per continuare a sfornare lavori di quel livello: così, dopo un più opaco Weaver Of Forgotten, The Day Of Victory ha riportato la barra su coordinate vicine a The Diarist, sia riaffrontando tematiche legate alla cultura ed alla storia sovietica, sia ritrovando quella brillantezza che era venuta parzialmente meno nel lavoro precedente.
In The Rain After The Snow, ci si muove invece in scenari stilistici più vicini a Forget Me Not, con la differenza non da poco dell’introduzione di un elemento orchestrale quanto mai “reale” e perfettamente integrato con le pulsioni estreme del sound, grazie anche ad una produzione impeccabile.
Il tutto va ricondotto anche alla continuità compositiva offerta da Jacopo Rossi, musicista genovese attivo in diverse band di nome del capoluogo ligure (Antropofagus, Nerve, Will’O’Wisp), che ormai da qualche anno si sta rivelando l’ideale partner musicale di Mike. The Rain After The Snowaffronta il tema del passaggio tra la stagione invernale e quella primaverile quale metafora dell’esistenza stessa e, come avviene da anni, l’afflato poetico riversato da Mike nelle sue liriche si scontra non poco con il sempre roccioso e caratteristico growl; il fulcro del lavoro si trova nella fase centrale con l’accoppiata Gold, Rubies and Diamonds (non a caso la traccia scelta per essere accompagnata da un ottimo video) e la più struggente Precious Things, ma l’album è nella sua interezza una raccolta di brani preziosi, ricchi di un impatto melodico ed emotivo che rende l’ascolto piuttosto scorrevole, anche se in questo caso non si può certo parlare di un approccio leggero.
I Dark Lunacy sono una delle eccellenze, ma soprattutto una delle certezze, espresse dal movimento musicale italiano, non solo in ambito metal: al di là del merito d’aver aperto una strada che altri hanno parzialmente seguito ottenendo giustamente grandi riscontri (Fleshgod Apocalypse su tutti), non è così banale ritrovare una band capace, dopo vent’anni, di produrre arte di simile spessore, e credo che non servano altre parole per esortare chiunque di musica si nutre affinché venga tributato alla band parmense un supporto del tutto adeguato al suo indiscusso valore.
Tracklist:
1. Ab Umbra Lumen
2. Howl
3. King with No Throne
4. Gold, Rubies and Diamonds
5. Precious Things
6. Tide of My Heart
7. The Rain After the Snow
8. Life Deep in the Lake
9. The Awareness
10. Fragments of a Broken Dream
Line-up:
Mike Lunacy – Vocals, Lyrics
Jacopo Rossi – Bass, Piano
Marco Binda – Drums
Davide Rinaldi – Guitars
Reborn from the Ancient Grave torna al sound primordiale, un lento incedere catacombale, a tratti agitato da tempeste death metal, ma per gran parte della sua durata mosso dall’inerzia del doom, potente, oscuro e monolitico.
Gli olandesi Dead End provengono dalla scena death metal olandese dei primi anni novanta e fanno parte di quella variante estrema che vi accostava al potenti rallentamenti doom e sfumature gotiche, tipiche di quello che viene consciuto dagli amanti dei suoni estremi come doom/death.
Gli inizi del gruppo portano al 1988 e ai primi tre anni del decennio successivo, periodo dove il gruppo rilasciò due demo ed un ep ed affiancò in sede live nomi storici del metal nato nei Paesi Bassi come Gorefest, Phlebotomized e Pestilence.
Un silenzio durato più di vent’anni, rotto lo scorso anno dall’annuncio da parte della Vic Records del ritorno in pista del gruppo, in mano all’unico membro originario, il bassista Alwin Roes.
Puntuale arriva dopo circa dodici mesi un nuovo lavoro, il primo sulla lunga distanza, un album che, nel genere, è da considerare certamente old school.
Non sono più molte infatti le band che adottano queste sonorità, all’epoca nuova frontiera del metal estremo, poi evolutosi con l’aggiunta di sfumature dark/gothic e sinfonie, accompagnate molto spesso da femminee voci operistiche.
Niente di tutto questo, Reborn from the Ancient Gravetorna al sound primordiale, un lento incedere catacombale, a tratti agitato da tempeste death metal, ma per gran parte della sua durata mosso dall’inerzia del doom, potente, oscuro e monolitico.
Meno gotici dei primissimi Paradise Lost, oscuri e pesanti come i primi The Gathering e Celestial Season, con il sound potenziato da dosi massicce di Bolt Thrower e Asphyx, l’album nel suo genere è un toccasana per le anime oscure che a dolci sinfonie preferiscono le malate trame chitarristiche pervase da un malsano odore di morte, tratti magmatici che si ritrovano a profusione tra le trame delle buone Haze of Lies, Mea Culpa e la sepolcrale Wearing the Cloak, la più gotica ed emozionante traccia del lotto che conclude alla grande questo manifesto ai primi passi del genere.
Un buon ritorno, c’è da sperare che i Dead End riescano a trovare ulteriore nuova spinta da questo lavoro.
TRACKLIST
01. David’s Theme (Intro)
02. Dead End (Reborn)
03. Haze of Lies
04. Trail of Despair
05. Mea Culpa
06. Wither
07. Another Weakness
08. Venture
09. Nails of the Martyr
10. Wearing the Cloak
LINE-UP
Bryan – Vocals
Jeroen R – Guitar
Arjan – Guitar
Alwin Roes – Bass
Harald – Drums
Il gruppo tedesco è oggi uno dei migliori rappresentanti della vecchia scuola nord europea, con in sound che non ha nulla di originale ma porta con sé atmosfere uniche nel suo genere
Era il finire del 2014 quando uscì Death Kult Legions, terzo lavoro sulla lunga distanza degli straordinari deathsters tedeschi Revel In Flesh, un album che si posizionò molto in alto nelle preferenze del sottoscritto un paio di anni fa.
I nostri tornano dopo due anni esatti da quel monumento al death metal scandinavo con un nuovo album, confermando l’assoluta qualità del loro death metal, ed Emissary Of All Plagues risulta un altro monolite pesante, oscuro, malvagio e quanto mai devastante.
Accompagnato da una splendida copertina, che più horror e catacombale non si può (Juanjo Castellano, artista dal talento smisurato che ha imprestato la sua matita anche per i lavori di Paganizer, Putrevore, Ribspreader e molti altri), ma soprattutto con ancora la supervisione del guru Dan Swanö negli storici Unisound studios, il nuovo lavoro torna a tormentare le notti dei deathsters con una serie di brani d’alta scuola, alternando come da prassi mid tempo, rallentamenti e devastanti ripartenze in un’apoteosi di sonorità old school da applausi.
Il gruppo tedesco è oggi uno dei migliori rappresentanti della vecchia scuola nord europea, con in sound che non ha nulla di originale ma porta con sé atmosfere uniche nel suo genere, con un talento nel saper inserire solos, ripartenze e brusche frenate che ha del miracoloso.
Come già nel suo predecessore qui non c’è un brano senza un appeal estremo sopra la media: solos melodici forgiati in cimiteri dimenticati dal tempo, valorizzano brani nati per produrre massacri, mentre il growl cavernoso si staglia sul sound che ricorda a più riprese ora i Sanity del loro maestro, ora gli Entombed, prima che la furia iconoclasta dei primi Hypocrisy prenda il sopravvento.
Un album che non ha un cedimento alcuno e che riversa fiumi di sangue con una serie di tracce tra le quali Casket Ride, Servants Of The Deathkult e Sepulchral Passage sono quelle trainanti, con la conclusione lasciata alla cover di Doctor Doctor degli storici hard rockers UFO, che volete di più?
TRACKLIST
1. Emissary of All Plagues
2. Casket Ride
3. Fortress Of Gloom
4. Servants Of The Deathkult
5. Torture Throne
6. The Dead Lives On
7. Lord Of Flesh
8. Sepulchral Passage
9. Dead To This World
10. Doctor Doctor (UFO-Cover)
Ristampa che, per gli amanti della buona musica estrema, risulta un acquisto obbligato, ed un ringraziamento alla Vic Records per le molte chicche metalliche riportate alla luce nell’ultimo periodo.
I Perpetual Demise fanno parte della scena olandese dei primi anni novanta, un nido di talenti che ha dato alla scena metallica estrema più di quello che molti esperti sostengano, anche a distanza di decenni.
Un manipolo di band che al death metal ha sempre avuto un approccio progressivo, chi imbastardendolo con sonorità doom/gothic, chi evolvendolo con suoni provenienti da generi agli antipodi come jazz e fusion, chi invece, mantenendo un approccio furioso e selvaggio, ma sempre condizionato da sperimentazioni ed una fantasia mai doma.
Nato a cavallo tra gli anni ottanta ed il decennio successivo, il gruppo proveniente dalla terra dei tulipani rientra nella schiera delle realtà dell’epoca, con un modo di suonare metal estremo che conciliava la pesantezza e brutalità del death metal con atmosfere vicine al doom ed una tecnica che permetteva alle band di avvicinarsi al progressive, prime avvisaglie di quello che poi si sarebbe sviluppato e diventato suo malgrado un trend, specialmente nei paesi scandinavi.
La ristampa in questione presenta il primo e solo album sulla lunga distanza targato 1996, più vari brani presenti nei primi demo della band, in particolare When Fear Becomes…, uscito nel 1993.
La musica dei Perpetual Demise, pur con la sua vena progressiva e doom, conquista subito l’ascoltatore: il sound pesante e a tratti monolitico ha, nel combinare growl e voce pulita, il suo punto di forza (non così abituale ai tempi), coniugato ad un’ottima tecnica strumentale e a cambi repentini di tempo e sfumature.
Più di settanta minuti, praticamente tutto quello che in sette anni il gruppo ha saputo offrire ai fans dell’epoca, non poco vista la qualità della musica proposta, di livello altissimo come nella scena estrema olandese dell’epoca.
Ristampa che, per gli amanti della buona musica estrema, risulta un acquisto obbligato, ed un ringraziamento alla Vic Records per le molte chicche metalliche riportate alla luce nell’ultimo periodo.
TRACKLIST
1.Of Confusion and Brutality
2.The Lord Paramount
3.Arctic
4.The Observer
5.Pyramids
6.Fall
7.Triangle Eye
8.The Tower
9.Upon Dark Grounds
10.On the Edge
11.Denial & Faith
12.Where the Ancients Remains
13.Cynical Control
14.Scarred by Silence
15.Awaiting the Unexpected
16.Conspiracy of Fear
17.Massacre To Be
LINE-UP
Mike Antoni – Guitars
Alex Krouwel – Bass
Alex Dubbeldam – Drums
Armand Wijskamp – Guitars, Vocals
Quando il death metal scandinavo è suonato con l’impatto di queste sei tracce che vanno a formare il nuovo ep dei Feral, non c’è né per nessuno.
Quando il death metal scandinavo è suonato con l’impatto di queste sei tracce che vanno a formare il nuovo ep dei Feral, non c’è né per nessuno.
Old school è la parola chiave, quella vecchia scuola dei maestri nord europei che ha fatto storia, influenzando una buona fetta del metal estremo mondiale e che il gruppo svedese elargisce con questa ventina di minuti di alto livello.
Quattro brani nuovi, più la cover di Relentless dei doomsters Pentagram, e la riedizione di un brano del 2011 (Necrofilthiac) è quello che ci propongono i Feral, gruppo nato quasi una decina di anni fa, con alle spalle una serie di demo, uno split con i Revel In Flesh e due full length, ragged to the Altar del 2011 e Where Dead Dreams Dwell, uscito lo scorso anno. From The Mortuarynon lascia dubbi sull’indirizzo musicale del gruppo: suonare death metal senza compromessi, meglio se di scuola scandinava e con un approccio travolgente a suon di riff granitici, velocità e mid tempo sconvolgenti ed un lavoro sulle sei corde che spezza ossa come una clava chiodata.
Non ci troverete niente di più nel sound dei Feral, ma il loro sporco lavoro lo sanno fare bene ed il massacro, sotto i colpi di The Hand of the Devil, Reborn in the Morgue e The Rite, è assicurato.
Scomodato l’artista Costin Chioreanu per l’immagine di copertina (At The Gates, Primordial, Arch Enemy, Mayhem e molti altri) e mixato e masterizzato da l’ex chitarrista della band Petter Nilsson, l’ep in questione è sicuramente un lavoro da non perdere, un primo passo per approfondire eventualmente la loro discografia.
TRACKLIST
1. The Hand of the Devil
2. Reborn in the Morgue
3. The Cult of the Head
4. The Rite
5. Necrofilthiac (2016)
6. Relentless (PENTAGRAM-Cover)
LINE-UP
David Nilsson – Vocals
Viktor Klingstedt – Bass
Markus Lindahl – Guitar
Roger Markström – Drums
Le scariche di adrenalina estrema non mancano in brani dal buon piglio ma, a causa di alcuni difetti dettati dall’inesperienza, i Nordwitch non vanno oltre la sufficienza piena.
Esordio sulla lunga distanza per questa giovane band ucraina, un quintetto che suona del black/death metal melodico dai buoni spunti e personale quel tanto per non passare inosservata, soprattutto per gli amanti del genere.
Con al microfono una gentil donzella dalle corde vocali di un orco arrabbiato, ma dalle trame chitarristiche che fanno della melodia il loro punto di forza, il gruppo proveniente dall’est è protagonista di una discreta prova, incentrata su di un metal estremo che non disdegna devastanti fughe ritmiche al limite del black, mid tempo di stampo death metal di ispirazione scandinava e tanta melodia.
Il growl è brutale e dannato, a tratti fin troppo per il mood generale del disco, un dettaglio che alla lunga pesa sulla resa generale di un album che ha tutte le caratteristiche per piacere agli amanti del death metal melodico.
Le scariche di adrenalina estrema non mancano in brani dal buon piglio come, Lady Evil e The Call to an Ancient Evil, cuore pulsante di un lavoro di genere ben congegnato ma, per i difetti dettati dall’inesperienza, non va oltre la sufficienza piena.
In un mondo come quello del metal estremo, ormai inflazionato dal numero spropositato di album vomitati dal web, un lavoro come Mørk Profeti rischia seriamente di passare inosservato anche ai fans più accaniti del genere, ma gli spunti interessanti non mancano così come una buon lavoro incentrato sulle melodie, il che lo rende comunque meritevole di un ascolto.
TRACKLIST
1.Mørk profeti (Intro)
2.Dominion
3.Walker from the Shade
4.Lady Evil
5.The Call to an Ancient Evil
6.To Nord Gods
7.No Regret
8.Messiah of Death
LINE-UP
Max Senchilo – Bass
Max – Guitars (lead)
Leo – Guitars (rhythm)
Masha – Vocals
Donets Stepan – Drums
Dall’underground del metal estremo una piccola gemma da scoprire lentamente!
Logo black metal, nome che colpisce l’attenzione, questi cinque musicisti, alcuni derivanti dagli Accused (“Martha splatterhead”), dagli Asva e dai Burning Witch, sono giunti al quarto full in circa dieci anni di attività e continuano ad elaborare, attorcigliare il loro suono attorno a derive doom, sludge, death, progmetal, black, stoner per un risultato che appare caotico ma sempre intelligibile.
Non è assolutamente facile “catalogarli” ma forse il modo migliore per approcciarli è lasciarsi trasportare in questo caos sonoro, stordente, talvolta anche fuori fuoco, ma del resto anche già a partire dalla cover ci indicano la strada; non parliamo poi del concept che regge tutta l’opera “collisione sulla terra di un asteroide ripieno di spore fungine con la creazione di una nuova alba e di una nuova coscienza\spiritualità in cui sopravvive il KOSMOCERATOPS come signore di questa nuova terra”.
Mentre nel loro precedente “Forestelevision” avevano deflagrato con il brano omonimo di quarantacinque minuti, ora il nuovo full presenta quattro brani (dai nove ai quindici minuti) ed è pubblicato dalla americana Translation Loss, nota per pubblicare molte band dal suono “indefinito” (Mouth of an Architect, Intronaut, Rosetta…); fino dal primo loro lavoro “Power Hor” del 2007 i Lesbian continuano a miscelare nel modo più “weird” (con titoli delle song come Pyramidal existinctualism o La brea borealis) possibile i vari generi dal black al death, dal progmetal allo stoner lanciandosi in selvagge cavalcate volte a fondere tutti i suddetti generi, il tutto accompagnato dal growl o dallo scream del nuovo singer Brad Mowen.
Bisogna, come spesso accade, essere nel mood giusto per poter apprezzare, anche dopo ripetuti ascolti queste miscele sonore create da musicisti che non hanno mai timore di ampliare i loro e i nostri orizzonti sonori.
LINE-UP
Daniel J. La Rochelle – Guitars (rhythm)
Bradley J. Mowen – Vocals
Arran E. McInnis – Guitars (lead)
Dorando P. Hodous – Bass, Vocals
Benjamin P. Thomas-Kennedy – Drums, Percussion
Gli Endless Curse offrono una mezz’ora di discreto massacro, niente che faccia gridare al miracolo ma apprezzabile non poco per genuinità e immediatezza, oltre ad una sempre gradita componente di critica sociale racchiusa nella maggior parte dei brani
Il trio tedesco Endless Curse arriva al primo full length dopo diversi anni di carriera con una proposta che si muove sui labili confini che dividono il death tradizionale, il brutal e il grind, senza dimenticare un approccio assimilabile al thrash hardcore (la stessa copertina in tal senso accredita tale sensazione).
I nostri offrono una mezz’ora di discreto massacro, niente che faccia gridare al miracolo ma apprezzabile non poco per genuinità e immediatezza, oltre ad una sempre gradita componente di critica sociale racchiusa nella maggior parte dei brani, che hanno come argomento principale l’asservimento dell’uomo ai dettami del consumismo, visto nelle sue diverse forme.
Ma, nonostante i testi che non si lasciano andare ad improbabili cazzeggi alcoolico-orrorifici, non è che gli Endless Curse si prendano troppo sul serio: si percepisce quanto la loro produzione derivi dalla voglia di divertirsi e di far divertire, senza abbandonarsi a soluzioni troppo cervellotiche dal punto di vista compositivo.
Le tracce vanno via, così, belle sparate ma sufficientemente varie, e in tal senso si rivela azzeccata la scelta di utilizzare la doppia voce, una in canonico growl, e l’altra in screaming di matrice thrash: poco spazio viene lasciato a parti melodiche o più ricercate, affidate a pochi assoli di chitarra ed altrettanto rari rallentamenti.
La durata di poco inferiore alla mezz’ora fa il resto, donando ulteriore sintesi ad una proposta che, pur nella sua prevedibilità, lascia solo buone impressioni, che non vengono scalfite neppure da una produzione non proprio cristallina, ma probabilmente più voluta che accidentale. Slave Breeding Industry ha soprattutto il grosso pregio di non annoiare, il che lo rende ancor più un ascolto sicuramente consigliato agli estimatori più accaniti del genere.
Tracklist:
1. We Lived In Chains
2. Get Free
3. Boiling Blood
4. Listen
5. I’m Too Old
6. Breathe Greed
7. False Flag
Line-up:
Alex – drums
Will – guitars, vocals
Erik – bass, vocals
Gli Entrapment ci regalano uno degli ultimi colpi dell’anno in campo death metal, ed è un colpo che fa male
Per la Pulverised Records esce questa bomba death metal, ultimo lavoro della one man band Entrapment, divenuta un quartetto, probabilmente per portare la propria musica on stage, ma ben salda nelle mani del polistrumentista Michel Jonker da Groningen, Olanda.
Una storia discografica che vede, sotto il monicker Entrapment, l’uscita in appena sei anni di una manciata di demo e split, più due full length, predecessori di Through Realms Unseen, usciti rispettivamente nel 2012 e nel 2014 (The Obscurity Within… e Lamentations of the Flesh), la band sforna il suo miglior lavoro, diretto, tremendamente old school e travolgente nel lavoro della sei corde ispiratissima.
Rivolgendo lo sguardo alla scena scandinava dei primi anni novanta, Jonker colma il gap con il nuovo millennio a suon di groove, così che il sound, pur nella sua anima tradizionale, non perde un grammo nei confronti del death metal rivisto e aggiornato degli ultimi tempi.
Il suono sporco dei primi Nihilist ed Entombed, si amalgama ad una produzione piena e perfetta nel ritagliare uno spazio importante alla sei corde, che non manca di lasciare a bocca aperta per la quantità di solos che in alcuni brani riecheggiano come scudisciate sulla schiena del Cristo, mentre a tratti una valanga estrema ci travolge, pregna di groove.
Ottimo il growl sporco e vicino al Petrov del capolavoro Wolverine Blues, mentre la title track è un brano di una potenza indicibile, un muro sonoro di immani proporzioni; Omission, in apertura, ci squarta il ventre con assoli taglienti come rasoi e Dominant Paradigm è strutturata su vortici ritmici, prima di lasciare che rallentamenti doom e ripartenze fulminee ci tolgano il respiro.
Gli Entrapment ci regalano uno degli ultimi colpi dell’anno in campo death metal, ed è un colpo che fa male.