Egon Swharz – In The Mouth Of Madness

Quello degli Egon Swharz, pur non mostrando elementi di novità, si rivela al mio orecchio superiore ad altre uscite di questo tipo, grazie ad un suono più profondo ed intenso.

Egon Swharz è il nome di un trio abruzzese che si lancia in un segmento stilistico piuttosto affollato negli ultimi tempi, come è quello dello stoner doom strumentale.

Il mio pensiero, per quel che possa valere, l’ho già ribadito più volte: la rinuncia ad un vocalist nella maggior parte dei casi si fa sentire, e sono poche le band che riescono a sopperirvi brillantemente, in virtù di un approccio più deciso e soprattutto non manieristico.
In The Mouth Of Madness possiede una buona percentuale di tali caratteristiche, per cui l’operato degli Egon Swharz si snoda con una certa fluidità, nonostante non vengano meno momenti in cui la reiterazione ossessiva dei riff potrebbe indurre a pensare il contrario (valga quale esempio la conclusiva Hobb’s End Horror).
L’album è intriso di atmosfere che attingono ad un immaginario cinematografico contiguo all’horror lovecraftiano, ben raffigurato dalla copertina, opera del sempre bravo SoloMacello, traendo linfa musicalmente da quei tre o quattro nomi che la band stessa cita quali propri riferimenti (Electric Wizard, Iron Monkey, Sleep).
La chitarra si concede rare escursioni soliste, prediligendo semmai, in alternativa ad un riffing roccioso e pachidermico, sequenze di arpeggi che segnano i momenti più rarefatti (in particolare la parte centrale
della lunga Green Breathing Tunnel), mentre la base ritmica svolge il suo puntuale lavoro di robusto puntello dell’intera struttura musicale.
Quello degli Egon Swharz, pur non mostrando elementi di novità, si rivela al mio orecchio superiore ad altre uscite di questo tipo, grazie ad un suono più profondo ed intenso, capace di evocare le immagini di un ipotetico film tratto da qualche terrificante racconto del solitario di Providence.
Purtroppo, parafrasando quello che si dice a proposito di animali particolarmente intelligenti od espressivi, a questo album manca solo la parola …

Tracklist:
1.The Feeding
2.The Thing In The Basement
3.Green Breathing Tunnel
4.Haunter (Visions From An Abyss)
5.Hobb’s End Horror

Line up:
Enzo P.Zeder – bass
Gianni Narcisi – drums
Vittorio Leone – guitars

EGON SWHARZ – Facebook

Faces Of The Bog – Ego Death

Ego Death scorre via intenso e soprattutto vario, ciò che, alla fine, si manifesta come il suo vero punto di forza assieme ad una scrittura che si tiene a costante distanza di sicurezza da soluzioni cervellotiche.

I Faces Of The Bog provengono da Chicago ed offrono, con questo loro esordio intitolato Ego Death, uno sludge doom dai tratti piuttosto orecchiabili, almeno se raffrontati alle uscite più frequenti nel genere.

Infatti, il quartetto immette nel proprio sound una buona dose di psichedelia e, inoltre, a tratti pare di ascoltare una sorta di grunge dai toni molto più minacciosi (Slow Burn) conferiti dalle chitarre ultra ribassate e da una voce aspra.
Tutto questo consente ai Faces Of The Bog di differenziarsi sufficientemente dai canoni del genere, proprio in virtù di un indole progressiva che porta l’album su piani differenti, e in tal senso risultano emblematiche le ultime due tracce: The Weaver, che dopo una sua prima metà tooliana fino al midollo si apre in un più tradizionale e coinvolgente doom, e Blue Lotus, lungo viaggio psichedelico in cui sono nuovamente le chitarre, come sul brano precedente, a condurre le danze nella part conclusiva.
In effetti lo sludge, nel complesso del lavoro, rappresenta più una solida base su cui edificare il sound che non la sua vera essenza, ma non bisogna neppure pensare che Ego Death risulti poco profondo od ancor peggio leggero: la differenza qui la fa la capacità dei ragazzi dell’Illinois nello scovare sempre e comunque degli efficaci sbocchi melodici anche quando i brani paiono avviati ineluttabilmente avvolgersi su stessi.
Se l’obiettivo dei Faces Of The Bog era quello di comporre un album brillante e non troppo ostico all’ascolto, pur senza rinunciare ad andarci giù pesante, direi che ci sono riusciti in pieno: dal magnifico strumentale d’apertura Precipice alla già citata chiusura affidata a Blue Lotus, Ego Death scorre via intenso e soprattutto vario, ciò che, alla fine, si manifesta come il suo vero punto di forza assieme ad una scrittura che si tiene a costante distanza di sicurezza da soluzioni cervellotiche.
Un primo passo decisamente brillante.

Tracklist:
1.Precipice
2.Drifter in the Abyss
3.Slow Burn
4.The Serpent & The Dagger
5.Ego Death
6.The Weaver
7.Blue Lotus

Line-up:
Paul Bradfield – Bass
DannyGarcia – Drums/Percussion
Mark Stephen Gizewski – Guitars/Vocals
Trey Wedgeworth – Guitars/Vocals

Additional Credits:
Sanford Parker – Synth/FX

FACES OF THE BOG – Facebook

The Ruins Of Beverast – Takitum Tootem!

Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

The Ruins Of Beverast è un progetto solista di Alexander Von Meilenwald, il quale agita i sonni degli appassionati di metal estremo da quasi una quindicina d’anni.

Il black doom del musicista tedesco è sempre stato caratterizzato dalla sua non omologazione ai canoni dei generi di riferimento, collocandosi costantemente un passo avanti rispetto alle posizioni consolidate.
Non fa eccezione questo Ep intitolato Takitum Tootem!, con il quale il nostro si concede un’esplorazione più approfondita di territori ancor più sperimentali, lasciando che la propria musica si faccia avvolgere da un flusso rituale e psichedelico.
Il primo dei due brani raffigura, come il titolo stesso fa intuire, una sorta di rito sciamanico che si protrae nella fase iniziale per poi sfociare in una traccia che presenta sfumatura industrial, in virtù di un mood ossessivo (che potrebbe ricordare alla lontana certe cose dei migliori Ministry), ideale prosecuzione dell’invocazione/preghiera ascoltata in precedenza: questi otto minuti abbondanti costituiscono un’espressione musicale di grande spessore e profondità, tanto che quando il flusso sonoro improvvisamente si arresta provoca una sorta di scompenso alla mente oramai assuefatta a quell’insidioso martellamento.
Il vuoto viene ben presto riempito dalla magistrale cover di una pietra miliare della psichedelia, la pinkfloydiana Set The Controls For The Heart Of The Sun, che viene resa in maniera in maniera del tutto personale pur mantenendone l’impronta di base, ma conferendole ovviamente una struttura maggiormente aspra e, se, possibile, ancor più ossessiva; l’idea di farla sfumare nella stessa invocazione rituale che costituiva l’incipit del primo brano conferisce al tutto un‘andamento circolare, creando così una sorta di loop se si imposta il lettore in modalità “repeat all”.
Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

Tracklist:
1. Takitum Tootem (Wardance)
2. Set The Controls For The Heart Of The Sun

Line-up:
Alexander Von Meilenwald

THE RUINS OF BEVERAST – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=vbvvbokHtaw

Raj – Raj

La prova dei Raj è di ottimo spessore e, trattandosi di un primo assaggio, lascia aperte interessanti prospettive di sviluppo future.

Ep d’esordio per i Raj, band lombardo/veneta dedita ad uno sludge/stoner doom davvero intrigante.

La prima cosa che balza all’occhio è la durata dei brani, imprevedibilmente brevi per gli standard del genere, mentre appare molto più in linea con le abitudini il sound, piacevolmente retrò nel suo unire pulsioni sabbathiane, a partire dalla voce (spesso filtrata) di Francecsco Menghi, con le atmosfere diluite dello sludge e la psichedelia dello stoner.

Chitarra e base ritmica contribuiscono ad erigere un muro sonoro che non stravolge i canoni stilistici conosciuti, puntando su un impatto ossessivo che il riffing dai toni ribassati rende efficace e gradevole a chi è avvezzo al genere; interessante anche il break ambient costituito dalla quarta traccia Black Mumbai, indicatore di una propensione sperimentale che forse meriterebbe d’essere maggiormente distribuita all’interno del disco.
Come detto, il suo essere rivolto al passato, a volte in maniera ostentata, non si rivela affatto una nota di demerito per il gruppo: chi suona questo genere è una sorta di medium, capace di rendere del tutto vive ed attuali sfumature sonore che a molti possono apparire datate; i Raj lo fanno con competenza e convinzione, andando a fondere talvolta il sound più psichedelico dei Doomraiser con certo doom sciamanico in voga negli anni scorsi (Omegagame ne è forse l’esempio migliore ) oppure richiamando in maniera più esplicita, ma comunque non calligrafica, il marchio di fabbrica sabbathiano (Kaluza).
Dovendo cercare il pelo nell’uovo, al netto delle citata traccia ambient, questo ep autointitolato mostra a tratti un’eccessiva uniformità compositiva e, inoltre, non sempre convince la scelta di deformare il timbro vocale; resta il fatto che la prova dei Raj è senz’altro di ottimo spessore e, trattandosi di un primo assaggio, lascia aperte interessanti prospettive di sviluppo future.

Tracklist:
1. Omegagame
2. Eurasia
3. Magic Wand
4. Black Mumbai
5. Kaluza
6. Iron Matrix

Line-up:
Marco Ziggiotti – guitars
Daniel Piccoli – drums
Francesco Menghi – vocals
Davide Ratti – bass

RAJ – Facebook

Lesbian – Hallucinogenesis

Dall’underground del metal estremo una piccola gemma da scoprire lentamente!

Logo black metal, nome che colpisce l’attenzione, questi cinque musicisti, alcuni derivanti dagli Accused (“Martha splatterhead”), dagli Asva e dai Burning Witch, sono giunti al quarto full in circa dieci anni di attività e continuano ad elaborare, attorcigliare il loro suono attorno a derive doom, sludge, death, progmetal, black, stoner per un risultato che appare caotico ma sempre intelligibile.

Non è assolutamente facile “catalogarli” ma forse il modo migliore per approcciarli è lasciarsi trasportare in questo caos sonoro, stordente, talvolta anche fuori fuoco, ma del resto anche già a partire dalla cover ci indicano la strada; non parliamo poi del concept che regge tutta l’opera “collisione sulla terra di un asteroide ripieno di spore fungine con la creazione di una nuova alba e di una nuova coscienza\spiritualità in cui sopravvive il KOSMOCERATOPS come signore di questa nuova terra”.
Mentre nel loro precedente “Forestelevision” avevano deflagrato con il brano omonimo di quarantacinque minuti, ora il nuovo full presenta quattro brani (dai nove ai quindici minuti) ed è pubblicato dalla americana Translation Loss, nota per pubblicare molte band dal suono “indefinito” (Mouth of an Architect, Intronaut, Rosetta…); fino dal primo loro lavoro “Power Hor” del 2007 i Lesbian continuano a miscelare nel modo più “weird” (con titoli delle song come Pyramidal existinctualism o La brea borealis) possibile i vari generi dal black al death, dal progmetal allo stoner lanciandosi in selvagge cavalcate volte a fondere tutti i suddetti generi, il tutto accompagnato dal growl o dallo scream del nuovo singer Brad Mowen.
Bisogna, come spesso accade, essere nel mood giusto per poter apprezzare, anche dopo ripetuti ascolti queste miscele sonore create da musicisti che non hanno mai timore di ampliare i loro e i nostri orizzonti sonori.

TRACKLIST
1. Pyramidal Existinctualism
2. La Brea Borealis
3. Kosmoceratops
4. Aqualibrium

LINE-UP
Daniel J. La Rochelle – Guitars (rhythm)
Bradley J. Mowen – Vocals
Arran E. McInnis – Guitars (lead)
Dorando P. Hodous – Bass, Vocals
Benjamin P. Thomas-Kennedy – Drums, Percussion

LESBIAN – Facebook

Stone Ship – The Eye

Un bel lavoro, che probabilmente rappresenterà la prima ed ultima testimonianza discografica degli Stone Ship

Dei finlandesi Stone Ship non si può certo dire che in occasione del disco d’esordio abbiano attuato una politica dei piccoli passi.

The Eye, infatti, consta di due sole tracce per un totale di oltre tre quarti d’ora di musica, strano e forse audace, ma nemmeno tanto se si pensa alla matrice doom della band finnica.
Prendendo le mosse dai numi tutelari del genere quali Candlemass e Pentagram, gli Stone Ship riescono a giustificare la lunghezza delle due tracce con un’impostazione coerente con un’indole che li porta a sviluppare lunghe jam in sede compositiva.
Il risultato è senz’altro i linea con le aspettative di chi ama un genere che quelli della “nave di pietra” dimostrano di conoscere molto bene: passaggi in linea con la tradizione del genere si alternano a sprazzi di psichedelia, nel corso dei quali i musicisti lasciano libero sfogo all’istinto e alla creatività.
Nonostante questo, i due brani, benché lunghissimi, non sono particolarmente dispersivi, mantenendo ben salda l’impronta doom senza apprire audacemente sperimentali: merito di soluzioni sonore, queste sì, in linea con i dettami conosciuti, con accordature ribassate e voce stentorea e molto comunicativa.
Tra la coppia di lunghi brani, The Crooked Tree, il secondo dei due monoliti scagliati sul pianeta dalla band proveniente da Lahti (tempio degli sport invernali), gode di una line melodica molto ben definita , nonostante diversi cambi di passo, risultando più coinvolgente rispetto alla comunque buona The Ship Of Stone.
The Eye è stato pubblicato in formato musicassetta nel 2015 e solo quest’anno è stato edito su supporto digitale: questo sicuramente avrebbe potuto consentire agli Stone Ship di aumentare non poco i numeri dei propri estimatori, ma ci risulta che la band sia di fatto in stand by da circa due anni, da quando, purtroppo, il batterista e fondatore A. Lehto è tragicamente deceduto. I restanti tre ragazzi hanno dichiarato di non voler cercare un nuovo batterista, decidendo di dedicarsi alle altre band nelle quali sono coinvolti, il che fa presumere che The Eye possa, alla fine, costituire la prima e l’ultima testimonianza discografica degli Stone Ship.
Un vero peccato, perché questo gruppo aveva tutti i numeri per ritagliarsi un posticino tra le varie realtà di culto che la scena doom annovera, in virtù di un approccio molto settantiano in cui i suoni scorrono come un flusso lisergico e venefico.

Tracklist:
1. The Ship of Stone
2. The Crooked Tree

Line-up:
A. Lehto – Drums, Keyboards, Vocals (backing)
R. Pesonen – Bass, Guitars (acoustic), Narration
M. Heinonen – Vocals
J. Kuosmanen – Guitars

STONE SHIP – Facebook

Zaum – Eidolon

Una musica non per tutti ma estremamente affascinante, ricca ed assolutamente fuori dal comune.

Immaginate di partire per un viaggio onirico ed astrale, passeggiare tra epoche millenarie mentre intorno a voi figure mitologiche appaiono e scompaiono o, semplicemente accompagnano il vostro peregrinare in mondi dimenticati dal tempo: questo è ciò che suscita l’ascolto di Eidolon, monumentale lavoro del duo canadese Zaum, parola che indica un linguaggio che un gruppo di poeti futuristi russi provò a creare nello scorso secolo.

Attraverso la musica di questa coppia di sciamani del nuovo millennio, Kyle Alexander McDonald (basso, sitar, synth e voce) e Christopher Lewis (batteria), verrete ancora una volta, dopo il debutto Oracles uscito due anni fa, trasportati fuori dal vostro corpo, in un’esperienza che trascende il reale per l’astrale, due brani di una ventina di minuti ciascuno, lenti e psichedelici, stonerizzati e messianici, un trip lunghissimo, da perdersi in un mondo lontano anni luce dal nostro vivere quotidiano.
Le due tracce partono lente, ipnotizzanti, per poi esplodere in attimi di doom/stoner potentissimo e ritornare subito dopo alle atmosfere sulfuree e spirituali.
Un doom mantra, come lo chiamano loro, e mai etichetta è stata più azzeccata per descrivere il sound prodotto nelle due lunghissime suite Influence Of The Magi e The Enlightenment.
Esperienze meditative, magari con qualche aiutino illegale, sfumature orientaleggianti, atmosfere magiche e profonde che necessitano di un ascolto attento e concentrato, musica per chi non si fa distrarre ed entra dalla porta principale nel mondo parallelo sognato dagli Zaum.
Una musica non per tutti ma estremamente affascinante, ricca ed assolutamente fuori dal comune.

TRACKLIST
1.Influence of the Magi
2.The Enlightenment

LINE-UP
Kyle Alexander McDonald – Vocals, Bass, Sitar, Synth
Christopher Lewis – Drums

ZAUM – Facebook

Mammoth Weed Wizard Bastard – Y Proffwyd Dwyll

La band sostiene d’essere “la colonna sonora ideale per il nostro prossimo viaggio intergalattico”. Da sentire.

Dal Nord del Galles (Wrexham) discende questo immane flusso di energia doom con flavour psichedelico e cosmico; sono in quattro con stellare voce feminile (Jessica Ball) e sono emersi nel 2015 con un monolite nero (Nachthexen) di trenta minuti, replicato nello stesso anno con il full “Noeth ac Anoeth” che continua a definire il “loro” doom aggiungendo due ulteriori lunghe tracce ipnotiche e stordenti.

E ora nel settembre 2016 esplode, è proprio il caso di dirlo, questo nuovo lavoro con sei brani dal minutaggio più contenuto (in media 8-9 minuti) rispetto al precedente; il loro sound di una pesantezza trascendentale si alimenta di pachidermici riff accompagnati, sovrastati dalla ultraterrena voce della bassista e vocalist Jessica; il synth suonato un po’ da tutti i musicisti proietta il suono verso orizzonti cosmici sconfinati ed inesplorati, avvolgendo il tutto in spire scure e profonde.
A differenza della prima opera, dove spiccava il suddetto monolite nero di trenta minuti, qui i brani, tutti di simile alto valore, appaiono come una “massa” cangiante, inarrestabile nel suo scorrere che può ricordare il kraut rock degli anni 70′, con gocce ben udibili di suoni hawkindiani in alcuni tratti., il tutto sempre con spiccata sensibilità doom.
La band in questi 2 anni ha elaborato il suo suono, con diversi concerti in terra albionica e oltre mare suonando con gruppi come Monolord, Ramesses, All Them Witches, tutte realtà che profumano di doom “mutante”, non disdegnando di misurarsi anche con enormità come gli immensi Napalm Death e i polacchi Behemoth.
Accompagnato anche da un bella confezione apribile a formare una croce, il consiglio è quello di “assaggiare” il disco più e più volte per assaporare a fondo il viaggio intrapreso da questi ragazzi che, spero, decidano di farsi ascoltare “live” anche nelle nostre terre !

TRACKLIST
1. Valmasque
2. Y Proffwyd Dwyll
3. Gallego
4. Testudo
5. Osirian
6. Cithuula

LINE-UP
Paul M.Davies – lead guitar, moog synth, sampletron
Jessica Ball – bass,vocals, cello, sampletron
Wes Leon – rhythm guitar, moog synth
James Carrington – drums, moog synth

MAMMOTH WEED WIZARD BASTARD – Facebook

Riti Occulti – Tetragrammaton

La prestazione dei Riti Occulti è superba e mi costringe a ripetere (anche a chi non vuole sentire) che in Italia l’arte gravitante attorno alla scena metal è più che mai viva e ricca di musicisti ricchi di ispirazione e piglio innovativo.

Il terzo album dei Riti Occulti è la dimostrazione, per la band romana, di un’impressionante coerenza nei confronti del monicker prescelto, cosa non sempre scontata.

Chi si avvicinasse all’opera del gruppo laziale, infatti, si sorprenderebbe solo per la qualità musicale esibita, perché le sonorità non lasciano spazio a dubbi riguardo alla sincerità e alla competenza con la quale la materia occulta viene maneggiata.
E’ altresì vero che l’approccio dei Riti Occulti non possiede le connotazioni orrorifiche di molti che si cimentano in territori contigui e, del resto, anche la conformazione strumentale prescelta fornisce indizi di grande discontinuità: la rinuncia alla chitarra e l’utilizzo di due voci femminili, una affidata alle tonalità stentoree di Elisabetta Marchetti e l’altra allo spietato growl di Serena Mastracco (che ben conosciamo per la sua militanza nei Consummatum Est e nei Vidharr), costituiscono un indizio eloquente su quanto la band si muova con traiettorie oblique che attraversano le diverse sfumature della musica più oscura.
Non a caso mi trovo in seria difficoltà nel definire od avvicinare Tetragrammaton ad uno stile musicale ben preciso: probabilmente la base predominante è il doom, ma l’indole progressive e l’elemento psichedelico mescolano costantemente le carte in tavola, sicché l’album finisce per essere, come desiderato dai propri autori, un costante flusso sonoro in cui il basso martellante diviene un minaccioso rombo che, assieme a tastiere dal sapore antico e ad un drumming molto asciutto, funge da sottofondo alle evoluzioni delle due cantanti.
Tetragrammaton trova il suo fulcro nella quarta parte di Adonai, dove in avvio il basso di Niccolò Tricarico ricorda non poco quello di Waters nel finale di Echoes, e nell’intensità spasmodica della conclusiva Yetzirah, essendo i due brani che maggiormente colpiscono, pur essendo tutt’altro che di semplice fruibilità.
Il lavoro, infatti, costringe l’ascoltatore a non abbassare mai la soglia dell’attenzione, perché anche nei rari momenti in cui l’album pare assumere uno schema compositivo più tradizionale, avvicinandosi al doom con voce femminile in stile Jex Thoth, aleggia sempre un sottofondo sonoro che non lascia respiro, tra dissonanze ritmiche e atmosfere cariche di tensione che trova sublimazione nell’efferato growl della Mastracco.
La prestazione dei Riti Occulti è superba e mi costringe a ripetere (non che mi dispiaccia, ma ho sempre più netta la sensazione che sia fatica sprecata) che in Italia l’arte che gravita attorno alla scena metal è più che mai viva e ricca di musicisti ricchi di ispirazione e piglio innovativo. Poi sarò smentito, e ne sarò felice, ma sono sicuro che fuori dai nostri confini una band come questa si è già guadagnata una buona fetta di estimatori, mentre dalle nostre parti lo si può solo sperare .…

Tracklist:
01 – Invocation of the Protective Angels
02 – Adonai I
03 – Adonai II
04 – Adonai III
05 – Adonai IV
06 – Atziluth
07 – Beri’Ah
08 – Yetzirah
09 – Assiah

Line-up:
Serena Mastracco: Harsh Vocals
Elisabetta Marchetti: Clean Vocals
Niccolò Tricarico: Bass
Francesco Romano: Drums
Giulio Valeri: Synthesizers

RITI OCCULTI – Facebook

Queen Elephantine – Kala

Psichedelia pesante e molto noise, acida e fuzz, rituale e cosmica.

Psichedelia pesante e molto noise, acida e fuzz, rituale e cosmica. Non bastano le parole per provare l’esperienza sonora che fanno vivere i Queen Elephantine.

Nati ad Hong Kong, non hanno fissa dimora, si possono trovare nello loro numerose uscite, quattro album, split e sette pollici. La loro psichedelia pesante e rituale è la continuazione della lotta per portare il rumore e la confusione quella vera al centro dell’arena. Bisogna abbandonarsi a Kala, lasciare che il trip salga e vi prenda, non resistete alle sirene elettriche. Questa non è musica, ma un rituale per espandere le nostre coscienze, allargare gli orizzonti e le sinapsi. Gli strumenti sono appunto un mezzo per creare stati di coscienza alterati, senza pose o forme da assumere, questo è puro flusso, rimodellando la materia secondo multiversi che inventiamo noi. dischi come Kala sono da studiare, assaporare, ma certamente non possono essere ascoltati in mezzo alla folla, ma bisogna cercare un qualche spazio meditativo, sia fisico che spirituale. In certi frangenti il gruppo, ora di stanza a Providence, ricorda la psichedelia tedesca tendente al krautrock, quello splendido tentativo di sintesi che poi non si ripeterà più. Ed invece qualcosa è tornato indietro, sotto forma di un disco di rumore cosmico, colonna sonora di pianeti che si spostano su assi lontani milioni di anni luce, ma con la nostra mente possiamo arrivarci, possiamo esserci ascoltando i Queen Elephantine, traghettatori neuronali.

TRACKLIST
1.Quartered
2.Quartz
3.Ox
4.Onyx
5.Deep Blue
6.Throne of the Void in the Hundred Petal Lotus

LINE-UP
Indrayudh Shome – Guitar
Ian Sims – Drumset
Mat Becker – Bass
Srinivas Reddy – Guitar
Derek Fukumori – Percussion
Samer Ghadry – Guitar, Synth
Nathanael Totushek – Drumset + Percussion on 2,4,6
Nick Disalvo – Mellotron on 1, 2, 3
Michael Scott Isley – Percussion on 2,4
Danny Quinn – Surgeon Pepper

QUEEN ELEPHANTINE – Facebook

Rosàrio – And The Storm Surges

And The Storm Surges è un album dal taglio internazionale, ben curato in ogni dettaglio e superiore alla media, nonostante sia inserito in un genere che da anni regala enormi soddisfazioni in termini qualitativi.

Dalla collaborazione di una manciata di etichette indipendenti esce il secondo lavoro dei Rosàrio, band padovana di stoner psichedelico dall’alto voltaggio.

Il gruppo, nato appena tre anni fa e, come detto, già alla seconda opera sulla lunga distanza è una delle migliori realtà nel panorama stoner metal nazionale, confermata da questo monumentale lavoro, non facile da assimilare ma molto suggestivo.
Dimenticatevi le semplici sonorità tanto in voga negli ultimi tempi, il quintetto nostrano ci invita ad un viaggio nella storia dell’evoluzione dell’uomo come individuo, a colpi di stoner metal violentato da sonorità che passano dal doom/sludge al rock psichedelico, colmo di chitarroni saturi ed atmosfere intimiste, in un susseguirsi di parti rallentate ed esplosioni di watt potentissime.
Ben interpretate da una voce calda e ruvida le tracce si danno il cambio, instancabili, mantenendo la tensione elettrica molto alta con picchi di travagliata drammaticità, come il percorso dell’individuo che da semplice coscienza di sé passa ad un paradigma di onnipotenza creativa (come descritto dalla stessa band).
Dicevamo, non semplice da assimilare ma molto affascinante, And The Storm Surges con il suo lento incedere si trasforma in un lungo e tormentoso viaggio verso la consapevolezza, con il gruppo che sottolinea questa metamorfosi con violenti cambi di umori musicali, in un continuo saliscendi tra monolitiche parti doom e rabbiose sfuriate alternative/stoner, ricoperte da un sottile strato psych che eleva di molto l’appeal malsano e fumoso di brani come Drabbuhkuf e le bellissime Canemacchina e Dawn Of Men.
Il viaggio si conclude con il piccolo capolavoro And Then… Jupiter, brano super stonato e che si rivela come una ipotetica jam tra Kyuss e Tool, straordinaria conclusione di un lavoro alquanto maturo.
And The Storm Surges è un album dal taglio internazionale, ben curato in ogni dettaglio e superiore alla media, nonostante sia inserito in un genere che da anni regala enormi soddisfazioni in termini qualitativi.

TRACKLIST
Side A – Creak
1- To Peak And Pine
2- Drabbuhkuf
3- Vessel Of The Withering
Side B – Harvest
4- Livor
5- Radiance
Side C – Bedlam
6- I Am The Moras
7- Canemacchina
Side D – Sunya
8- Dawn Of Men
9- Monolith
10- And Then… Jupiter

LINE-UP
Nicola Pinotti- Guitar
Fabio Leggiero-Bass
Alessandro Magro-Vocals
Riccardo Zulato- Guitar
Alessandro Bonini-Drums

ROSARIO – Facebook

Kal-El – Pakal

Stoner Rock classico e fumoso in arrivo dalla Norvegia

Stoner Rock classico e fumoso in arrivo dalla Norvegia. Dalla città di Stavanger arriva questo rumoroso combo norvegese che ci propone uno stoner rock in rigoroso stile Kyuss, Monster Magnet e Slo Burn.

Niente di nuovo ed eccezionale, ma sicuramente un buon album, che dà una certa carica. Ormai raramente capita di ascoltare un album di stoner bene fatto e suonato decentemente. I Kal – El sono al di sopra della media e si sente. Infatti questa è la prima uscita stoner della WormHoleDeath, etichetta che ha finora spaziato nei territori metal. Per tutta la durata del disco lo spirito del rock è tangibile, i ragazzi hanno passione e stile, e non sono per nulla presuntuosi ma, anzi, lavorano molto di olio di gomito. Forse la loro non più verdissima età li rende molto più maturi e consapevoli rispetto ad altre band più giovani. Lo stoner c’è, ed è anche un album divertente.

Tracklist:
1 Falling Stone
2 Upper Hand
3 Spaceman
4 Solar Windsurf
5 Quasar
6 Qp9
7 Fire Machine
8 Black Hole

Line-up:
Ulven – Voce
Roffe – Chitarra
Liz – Basso
Bjudas – Batteria

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Dread Sovereign – All Hell’s Martyrs

Anche se qui non stiamo parlando dei Primordial, inevitabilmente i fan della storica band irlandese non si faranno sfuggire la possibilità di apprezzare l’ora abbondante di musica di qualità contenuta in “All Hell’s Martyrs” .

Alan Averill (Nemtheanga) non è tipo che ami stare fermo a dormire sugli allori.

Nonostante l’ultimo disco dei suoi Primordial non sia recentissimo continua ad calcare i palchi di mezza Europa (è solo dello scorso febbraio l’eccellente esibizione al Rock’n’Roll di Romagnano Sesia) e, non contento, propone questo suo progetto doom denominato Dread Sovereign, assieme al fido drummer Simon O’Laoghaire ed al chitarrista Bones dei misconosciuti Wizards of Firetop Mountain.
Anche se non nuovo ad incursioni nel genere, dopo aver prestato dieci anni or sono la propria voce al magnifico “Human Antithesis” dei romani Void of Silence, etichettare semplicemente come doom questo nuova avventura di Alan non sarebbe corretto: tale definizione è ineccepibile per brani come Thirteen Clergy e Cthulhu Opiate Haze, nei quali la band appare come una versione dei The Wounded Kings con voce sacerdotale maschile anziché femminile, e per i primi minuti di diverse altre tracce nelle quali il sound prende successivamente sfumature che esulano ampiamente dagli schemi della musica del destino (la sulfurea ritualità dell’allucinata Pray to the Devil in Man, le derive quasi in stile paradiselostiano nelle parti finali di We Wield the Spear of Longinus e Cathars to Their Doom)
Ma tali riferimenti, alla fine, vengono manipolati e stravolti da Alan con tonalità particolarmente velenose ed anche inconsuete per il suo tipico range vocale, poggiandosi su un tappeto musicale sufficientemente dinamico quanto non di semplicissima lettura.
Va detto che una base ritmica lineare ma efficace, a cura dello stesso Nemtheanga al basso e di Sol Dubh, supporta alla perfezione il lavoro chitarristico di Bones, piuttosto originale e capace di esibire suoni inconsueti per il genere, mostrando talvolta un tocco dai tratti vicini alla darkwave ottantiana, come nella splendida Scourging Iron; un aspetto decisamente anomalo, e che a molti non sarà sfuggito, è comunque il reiterarsi in momenti diversi del disco degli stessi accordi chitarristici che si rivelano, però, un artificio utile nel fornire ai brani una ritmica ed un fascino del tutto particolare.
Come si può intuire All Hell’s Martyrs non è un lavoro di semplicissima fruizione, tanto che non lo definirei del tutto adatto agli appassionati del doom più tradizionale; qui i fantasmi di Sisters Of Mercy e Fields Of The Nephilim si aggirano inquietanti tra le partiture del lavoro, donandogli un’aura a suo modo unica: la conclusiva e lunghissima All Hell’s Martyrs, Transmissions from the Devil Star sembra davvero una traccia suonata dagli autori di “Elizium” in preda ad una sorta di trip space-gothic-doom, con esiti magnifici.
Su tutto il lavoro però si staglia inequivocabile la voce unica per capacità evocativa di Alan Averill che, senza nulla togliere all’ottimo lavoro dei musicisti che lo hanno accompagnato in tutte le sue avventure musicali, si rivela da sempre l’elemento capace di elevare all’eccellenza anche dischi che con un altro cantante sarebbero stati considerati buoni e nulla più.
I Dread Sovereigns con questo lavoro ripagano parzialmente chi aveva ritenuto “Redemption at the Puritan’s Hand” un gradino sotto a un capolavoro come “To the Nameless Dead” e, anche se qui non stiamo parlando dei Primordial, inevitabilmente i fan della storica band irlandese non si faranno sfuggire la possibilità di apprezzare l’ora abbondante di musica di qualità contenuta All Hell’s Martyrs .

Tracklist:
1. Drink the Wine
2. Thirteen Clergy
3. Cthulhu Opiate Haze
4. The Devil’s Venom
5. Pray to the Devil in Man
6. Scourging Iron
7. The Great Beast
8. We Wield the Spear of Longinus
9. Cathars to Their Doom
10. All Hell’s Martyrs, Transmissions from the Devil Star

Line-up :
Nemtheanga – Bass, Vocals
Sol Dubh – Drums
Bones – Guitars

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